31 dicembre 2005

Capodanno.

Il 2005 si chiude in bellezza per Israele, con l'ennesimo raid omicida della IAF nella Striscia di Gaza.
Nella notte del 31 dicembre, infatti, l'aviazione israeliana ha compiuto una incursione nella cd. "no-go area" arbitrariamente e illegittimamente stabilita da Israele nel nord della Striscia di Gaza, uccidendo due Palestinesi, il 26enne Motaz Hamdouna e il 22enne Hamza Hamdouna, e ferendone altri tre.
Qualche giorno prima, sotto il tranquillizzante nome di "operazione cieli azzurri", Israele aveva reso nota la sua determinazione di creare una zona cuscinetto lungo il confine settentrionale con la Striscia, approssimativamente profonda tre chilometri e larga otto, all'interno della quale si riservava di compiere raid e bombardamenti volti a impedire il lancio dei razzi artigianali Qassam, imponendo ai civili palestinesi di abbandonare le loro case sotto pena di essere colpiti.
Nella settimana compresa tra il 22 e il 28 dicembre, si sono così avuti ben 15 raid dell'aviazione israeliana nella Striscia di Gaza, con numerosi edifici, infrastrutture e strade danneggiate; dieci sono stati i Palestinesi rimasti feriti più o meno gravemente, e tra essi quattro ragazzini.
Si tratta dell'ennesima violazione del diritto internazionale umanitario commessa da Israele, sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, perchè costringere la popolazione ad abbandonare la propria terra e le proprie case - sotto pena di mettere a rischio la personale incolumità - costituisce, a giudizio di chi scrive, una punizione collettiva, come tale vietata dal diritto internazionale.
In secondo luogo, perchè attacchi militari condotti contro civili, ovvero con la consapevolezza che essi possono comunque causare danni sproporzionati alla popolazione civile, costituiscono dei veri e propri crimini di guerra.
Ancora una volta, peraltro, il ritiro "epocale" dell'esercito e dei coloni israeliani da Gaza si rileva per quello che già a suo tempo avevamo denunciato, e cioè una vera e propria farsa (vedi archivio ottobre 2004).
E mentre speriamo che quanti avevano osato proporre il macellaio Sharon per il Nobel per la pace (uno su tutti, l'ineffabile Magdi Allam) comincino almeno un po' a vergognarsi, non possiamo non constatare con amarezza come ancora i nostri giornalisti di regime presentino questo vero e proprio bluff come uno degli eventi che hanno segnato in positivo il 2005.
Un ritiro farsa, dunque, visto che l'esercito israeliano usa quotidianamente la Striscia di Gaza quasi fosse un poligono di tiro.
Un ritiro farsa, visto che Israele mantiene strettamente il controllo aereo e marittimo sulla Striscia, facendo tra l'altro strage di innocenti pescatori (vedi la cronaca del 10 dicembre su http://palestinanews.blogspot.com/2005/12/otto-giorni-che-valgono-ben-pi-di-un.html ).
Un ritiro farsa, visto che anche i valichi di frontiera come Beit Hanoun vengono aperti e chiusi a piacimento di Israele, che si riserva di "sigillare" Gaza come misura punitiva in spregio persino ai recenti accordi sui valichi di transito di cui si era fatta garante la stessa Condoleezza Rice.
Si chiude il 2005, dunque, così come era iniziato, nel segno della morte e della distruzione, portando la conta dei Palestinesi uccisi per mano israeliana a 254, e quella dei feriti a 989 (fonte statistica: sito web della Mezzaluna rossa).
E il 2006 non sembra promettere nulla di buono.

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22 dicembre 2005

Volontario italiano arrestato in Israele.

Ricevo e volentieri pubblico.
Gentile redazione, le scrivo per poter dare spazio ad una notizia di cui ancora pochi mezzi d’informazione si sono occupati.
Martedì 20 dicembre un cittadino italiano, VittorioArrigoni, da più di dieci anni impegnato come volontario internazionale in diverse parti del mondo, è stato arrestato dal governo israeliano. Vittorio è un guerriero testardo, combatte per i suoi ideali e lo fa sempre in modo non violento. Non ha precedenti penali e non ha mai avuto problemi nemmeno con la giustizia israeliana, ma nel marzo 2005, quando per la quarta volta si recava in Palestina attraversando il confine giordano da Amman gli è stato proibito l’ingresso per non ben precisate "security grounds".
E per rispondere ai suoi perché in merito al diniego di ingresso, quesiti che richiedevano una spiegazione legale, è stato brutalmente picchiato da sei soldati israeliani e buttato al di là della linea diconfine.
In seguito venne sollevata un’interpellanza parlamentare in senato dall’on. Turroni per un’indagine sul trattamento riservato ad un cittadino italiano (l’ambasciata conferma ancora oggi che l’Italia è uno stato amico di Israele) e per indagare sulla probabile esistenza di una "lista nera" che non permette l’ingresso di volontari internazionali in quanto testimoni indesiderati.
Volontari come Meri Calvelli, rappresentante paese per il CRIC (Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione)che il 17 novembre 2005 venne espulsa senza motivo(http://www.cric.it/index.php?page=news&id=21).
Ieri Vittorio con altri sei volontari dell’I.S.M (International Solidarity Movement http://www.palsolidarity.org/main/) con cui collabora da anni, è arrivato in aeroporto direttamente a Tel Aviv conun invito nominativo per poter partecipare ad una conferenza internazionale sulla nonviolenza che si terrà aB etlemme gli ultimi giorni di dicembre(http://www.celebratingnv.org/).
Dalle 5 di mattina finoalle 11.30 circa i volontari sono stati perquisiti, sia nella persona che nei bagagli e sottoposti ad un duro interrogatorio concluso nella deportazione e l’arresto di tre di loro, oltre a lui una ragazza australiana residente a Londra ed un ragazzo del Sud Africa.
Vittorio prima di partire ha rilasciato un’intervista per un giornale localee diceva "siamo giunti alla conclusione che è ora di spezzare la catena di apartheid, di agire perchè sia cancellata la lista nera israeliana che non permette più adoperatori umanitari e pacifisti come noi (e come noi ci sono anche volontari di Christian Peacemaker Teams,International Women’s Peace Service e altre ong) di arrivare in Palestina per compiere il nostro progetto di pace e di servizio umanitario." (reperibile su http://www.merateonline.it).
In questo momento l’ambasciata italiana a Tel Aviv nella persona del segretario Andrea De Felip, si è interessata della questione permettendo a Vittorio di comunicare almeno unavolta con la famiglia. Dall’I.S.M. arrivano notizie che i volontari attualmente si trovano nel centro di detenzione dell’aeroporto di Tel Aviv assistiti da un avvocato ed attendono la risposta inoltrata alla Corte di annullare ildecreto di espulsione. Occorre dare spazio alla voce di questi volontari i cui diritti umani sono stati violati a discapito di qualsiasi convenzione internazionale ma che nonostante tutto non hanno nessun timore a "rischiare sulla mia (propria) pelle per rivendicare un diritto fondamentale come quella della libertà, la libertà di portare sostegno ai più disperati, la libertà di sostenere quelli si sentono dimenticati, la semplice libertà di ricevere abbracci da quelli che considero miei fratelli sebbene di un`altra lingua e cultura".
Vanessa Tosa
Aggiungo che, dal sito di merate on line, ho appreso che Vittorio Arrigoni sarebbe stato liberato, anche se sul suo capo pende ancora un provvedimento di espulsione destinato ad essere eseguito nlle prossime ore.
Questa vicenda sembrerebbe in linea con il comportamento delle autorità israeliane, che cercano in tutti i modi di ostacolare quanti in Palestina, siano essi volontari, giornalisti, operatori Onu, potrebbero essere scomodi testimoni di quanto accade quotidianamente, della violenza, delle sopraffazioni e dei crimini di guerra commessi da Israele nei Territori occupati.
E' di questi giorni la notizia - divulgata dalla Bbc - secondo cui un'inchiesta ufficiale condotta in Inghilterra ha stabilito che il 54enne Iain Hook, un cittadino inglese che lavorava a Jenin come project manager per conto dell'UNRWA, venne ucciso deliberatamente e illegalmente nel novembre del 2002.
In quattro anni, ben 13 operatori Onu sono stati uccisi nei Territori occupati per mano dell'esercito israeliano, in circostanze similari.
Ed è una vergogna che nessuno abbia mai pagato per questo, e che l'Unione europea ancora oggi ometta di esercitare le necessarie azioni per costringere Israele, le sue forze di polizia ed il suo esercito ad osservare le più elementari norme del diritto internazionale e del diritto umanitario.

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17 dicembre 2005

Otto giorni che valgono ben più di un attentato.

Dopo la breve interruzione dell’attentato di Netanya, continua ininterrotta l’alacre opera di assassinio della popolazione palestinese, con la novità che adesso vi partecipa attivamente anche la Marina israeliana.
Lunedì 5 dicembre, qualche ora prima dell’attentato, il Ministro della Difesa Mofaz aveva preannunciato solennemente, nel corso di una intervista alla radio israeliana, che sarebbero riprese le esecuzioni “mirate” dei militanti palestinesi nella Striscia di Gaza e che Tsahal avrebbe messo in atto ogni misura per “difendere” la sicurezza dei cittadini israeliani.
Detto fatto, ecco che parte una sequenza impressionante di raid e di omicidi, “mirati” e non, con il risultato che nel giro di poco più di una settimana le vittime tra i Palestinesi sono state più del doppio di quelle avutesi nel pur tragico attentato di Netanya.
Mercoledì 7 dicembre, a Rafah, l’aviazione israeliana lancia un missile contro l’auto guidata da Mohammad Arkan, esponente di spicco dei Comitati di Resistenza Popolare (PRC), ala estremista di Fatah, uccidendolo sul colpo; in conseguenza dell’attacco, altri sei Palestinesi che si trovavano sul posto rimangono feriti, uno in gravissime condizioni.
Giovedì 8 dicembre, in un altro attacco aereo della IAF, un missile colpisce una casa situata nei pressi del campo profughi di Jabalya, uccidendo due militanti delle Brigate al Aqsa, il 27enne Ayad Nagar ed il 21enne Ziyad Qaddas, mentre un terzo Palestinese, il 27enne Khader Rayan, muore il sabato seguente a causa delle ferite riportate; in aggiunta, sei civili palestinesi vengono feriti dalle schegge, inclusa una bambina di sei anni che abitava nei pressi.
Nel corso della stessa giornata, alcune ore prima, aerei israeliani compiono un raid nei pressi di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, cercando di colpire – secondo fonti militari – i siti di lancio dei missili Qassam: nessun missile o militante risulta colpito, ma in compenso quattro civili che si trovavano nei pressi (un uomo, sua sorella e i due figli di lei) rimangono feriti.
Venerdì 9 dicembre, nel corso della periodica manifestazione popolare di protesta contro la costruzione del muro di “sicurezza” nel villaggio di Bi’lin, i prodi soldatini di Tsahal attaccano duramente, come al solito, il corteo pacifico dei dimostranti, sparando proiettili rivestiti di gomma e gas lacrimogeni e ferendo due pacifisti israeliani e cinque abitanti del villaggio, tra cui due ragazzini di 14 e 15 anni.
Testimone d’eccezione della vicenda è l’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi John Dugard, che ha potuto successivamente render conto dell’eccesso di violenza usato dall’esercito nell’affrontare una manifestazione assolutamente pacifica; la stessa auto su cui viaggiava Dugard, peraltro, viene anch’essa fatta oggetto di colpi sparati dai soldati israeliani.
Sabato 10 dicembre, entra in scena la Marina israeliana, decisa anch’essa a coprirsi di gloria sul campo di battaglia, e lo fa con una delle sue motovedette che apre il fuoco contro una barca di pescatori che avevano gettato le reti nei pressi del confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, a sud-ovest di Rafah: uno dei pescatori, il 37enne Nazeer Yousef Farahat, viene ucciso sul colpo mentre l’altro Palestinese risulta tutt’ora disperso.
I militari israeliani si sono giustificati dicendo che i due stavano cercando di far entrare delle armi nella Striscia di Gaza, ma naturalmente le armi – se c’erano – adesso sono in fondo al mare.
Analogo incidente era accaduto sabato 3 dicembre, quando era stato assassinato a sangue freddo, sulla sua barca, il 22enne Ziad Dardawel; secondo gli israeliani, il Palestinese si trovava in acque proibite (circostanza negata dalle Autorità palestinesi) e aveva aperto il fuoco per primo: figuriamoci, una barchetta di pescatori che va all’attacco di una cannoniera armata fino ai denti!
Domenica 11 dicembre, nel corso di un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Balata, a est di Nablus (West Bank), viene ucciso il 18enne Ayad Hashash, attivista delle brigate al-Aqsa, mentre un altro Palestinese, il 19enne Mohammed al-Shoubaki, rimane leggermente ferito; qualche ora dopo, nei pressi del campo profughi di Askar, a nord-est di Nablus, i soldati israeliani sparano contro un gruppo di ragazzini che tiravano pietre ad un tank israeliano, ferendone due.
La sera, intorno alle 21:00, una motovedetta dell’esercito israeliano apre il fuoco contro alcune barche palestinesi che stavano pescando nelle acque antistanti Khan Yunis, senza alcun motivo né, tanto meno, alcun preavviso; viene così ferito il 18enne Mahmoud Radwan, mentre gli israeliani, non contenti, sparano anche contro un’altra barca che cercava di soccorrere il ferito.
Martedì 13 dicembre, nelle prime ore della mattina, unità dell’esercito israeliano entrano a Nablus e cominciano a sparare indiscriminatamente, ferendo almeno 25 civili palestinesi, tra cui 15 ragazzini; uno dei feriti, il 23enne Hussam Saqer, morirà qualche ore dopo nel locale Rafidia Hospital.
Mercoledì 14 dicembre, un aereo (o un drone) dell’aviazione israeliana lancia due missili contro una Subaru che sta transitando all’interno del popoloso quartiere al-Shojaeya di Gaza, distruggendola completamente; muoiono in questo modo quattro membri delle Brigate Salah al-Din, l’ala militare dei PRC, mentre 5 passanti rimangono feriti dall’esplosione.
Nel giro di otto giorni, dunque, l’esercito israeliano ha ucciso 11 Palestinesi, di cui otto assassinati extra-giudizialmente nella Striscia di Gaza, e ne ha feriti almeno 40, tra i quali 17 ragazzini, per tacere degli oltre 100 arresti effettuati nello stesso periodo (tra cui quelli di una decina di Palestinesi minori di 18 anni).
Si tratta di un numero di vittime pari a più del doppio dei morti israeliani nell’attentato di Netanya, per cui l’intera comunità internazionale si è stracciata le vesti e i media di regime hanno gridato tutta la loro indignazione.
L’ininterrotto massacro dei Palestinesi non sembra invece interessare nessuno, almeno da questa parte del mondo, dato che neppure una timida reazione o un accenno di protesta si sono registrati da parte dei Governi occidentali, e le tv e i giornali hanno fatto passare questo bagno di sangue sotto una assoluta coltre di silenzio, con poche, lodevoli, eccezioni.
Ed anche in questi casi, spesso si è presentata questa serie di raid assassini da parte dell’esercito israeliano come una “risposta” all’attentato di Netanya, tacitamente avallando la tesi che si sia trattato di una sorta di “legittima” vendetta di Israele.
Ma ciò, naturalmente, è solo una colossale menzogna: come abbiamo visto sopra, la serie di omicidi “mirati” nella Striscia di Gaza era stata preannunciata dal Ministro della Difesa israeliano Mofaz già prima dell’attentato di Netanya e, peraltro, nessuna delle vittime di cui abbiamo parlato apparteneva alla Jihad islamica, responsabile dell’attentato al centro commerciale Hasharon.
Capisco che per un giornale o una tv un attentato faccia più “notizia” dell’esecuzione mirata di un paio di “biechi attivisti” palestinesi, ma mi sembra inconcepibile che nessuno abbia il tempo e la voglia di ricordare che, alla data dell’11 dicembre di quest’anno, i Palestinesi morti e feriti a causa dell’occupazione israeliana dei Territori ammontano rispettivamente a 3.754 e a 29.308, in un rapporto di 3,5:1 e di 3,9:1 con le analoghe cifre relative ai civili e al personale militare israeliano.
Sul piano politico, è ormai chiaro che quello di Berlusconi è il governo più filo-israeliano che la storia italiana ricordi, ma qualcosa in più ci si poteva aspettare dall’opposizione, e segnatamente dai Ds.
Ad un convegno su islamofobia e antisemitismo svoltosi il 14 dicembre a Roma, organizzato dall’Associazione “A Buon Diritto” e dall’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia, si sono trovati a confronto (per modo di dire…) Gianfranco Fini e Piero Fassino, ed è sconcertante rilevare che tra i due sono stati più i punti di accordo che quelli di contrasto.
Gianfranco Fini ha riproposto con discreto successo il racconto della madre israeliana a Gerusalemme che manda i suoi due figli a scuola con due autobus diversi, in modo tale che, in caso di attentato, non muoiano entrambi; a parte questa storiella buona per la becera propaganda sionista, tuttavia, Fini nulla ha avuto da eccepire, ne in questa occasione né altrove, contro gli assassinii extra-giudiziali di Israele, che pure sono contrari al diritto internazionale e sono stati più volte ufficialmente condannati dalla Ue, cui l’Italia, almeno fino ad ora, continua ad appartenere.
Né, tanto meno, alcuna parola il nostro Ministro degli esteri ha inteso spendere per i bambini, le donne e tutte le vittime innocenti dei prodi soldatini di Tsahal, vittime di un “terrorismo di Stato” che abbiamo visto essere ben più devastante di quello dei kamikaze.
Piero Fassino, a sua volta, ha sostenuto che, in m.o., si contrappongono “due ragioni”, e che in nessun caso Israele “deve essere lasciato solo”: si tratta di banalità davvero sconcertanti!
Quali sono le “ragioni” che si contrappongono, quella di una potenza occupante e del suo braccio armato che quotidianamente compie crimini di guerra e quella di un popolo che vede la sua terra devastata e i suoi figli destinati al massacro?
E in cosa non dobbiamo lasciar solo Israele, dobbiamo magari anche stargli accanto e incoraggiarlo a devastare, contemporaneamente, la libertà e il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità internazionale, il diritto umanitario?
Non sappiamo se prese di posizione come queste siano dettate da sufficienza, ignoranza dei problemi o cinico calcolo politico, né ci interessa.
Ciò che ci sta a cuore è che nell’agenda politica del prossimo governo vi sia, ai primissimi posti, la questione palestinese, secondo una prospettiva radicalmente diversa da quella oggi prevalente: prima Israele cessi la costruzione del muro e l’espansione degli insediamenti, i suoi raid nei Territori, i suoi assassinii, e dopo si chieda all’Anp di fare la sua parte e di bloccare gli attacchi terroristici.
E si intervenga con il giusto impegno e la necessaria fermezza, anche a costo di chiedere la denuncia degli accordi commerciali tra Israele e l’Unione europea: magari da questo orecchio gli Israeliani ancora ci sentono.

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7 dicembre 2005

Attentato suicida a Netanya.

Lunedì 5 dicembre, ore 11:30, nuovo attentato suicida a Netanya, cittadina israeliana situata a circa dieci chilometri da Tul Karm, e ancora una volta l’obiettivo è stato l’affollato centro commerciale Hasharon, pur strettamente vigilato dalle forze di sicurezza israeliane.
Pesante il bilancio, cinque morti ed una cinquantina di feriti, anche se ieri mattina il quotidiano Ha’aretz ha dato notizia che soltanto 19 persone sono ancora ricoverate in ospedale, una delle quali versa in gravi condizioni.
L’attentatore, il 21enne Lutfi Amin Abu Salem, era originario del vicino villaggio palestinese di Kafr Rai, situato tra Jenin e Tul Karm, ed era affiliato alla Jihad islamica, che ha rivendicato l’attentato dapprima con una telefonata alla tv di Hezbollah al-Manar e, successivamente, con un video.
L’attentato, naturalmente e giustamente, ha occupato le prime pagine di tutti i giornali e l’apertura dei principali telegiornali, ed unanime è stata la condanna e l’esecrazione da parte dei governi occidentali, della Ue, del “Quartetto”.
Questo ennesimo attentato, come ogni azione mirata a colpire civili inermi ed innocenti, è da considerarsi immorale e barbaro, e va condannato con tutta la forza possibile, anche perché atti del genere non aiutano in nulla la causa palestinese ma, al contrario, se ciò è possibile, contribuiscono ad aggravare ulteriormente la situazione.
Non possono essere sottaciuti, tuttavia, alcuni incontrovertibili dati di fatto.
L’attentato di Netanya segue quello avvenuto il 26 ottobre ad Hadera, che è costato la vita a sei civili israeliani, e in questo frattempo, quietamente e lontano dai riflettori dei media, Israele ha continuato i suoi raid indiscriminati, i suoi assassinii mirati, i bombardamenti della Striscia di Gaza.
Nel solo mese di novembre, l’esercito israeliano ha ucciso 15 Palestinesi, compresi tre ragazzini, e ne ha feriti 55, mentre nei primi tre giorni del mese di dicembre altri 2 Palestinesi sono caduti per mano dei soldati di Tsahal, ed altri dieci sono rimasti feriti (statistiche rilevate dai siti di B’tselem, dell’Idf e della Mezzaluna rossa): sommando il tutto si ha l’equivalente di tre attentati come quello di Netanya, con la sostanziale differenza che nessun giornale o tv ha dato notizia di questo lento ma costante stillicidio di morti, nessun governo occidentale ha condannato questo massacro, nessun Capo di stato o personalità politica ha chiamato Israele a cessare la violenza e l’assassinio a danno della popolazione palestinese.
Gli ultimi due “incidenti” mortali, in ordine di tempo, sono avvenuti nei giorni di venerdì 2 e sabato 3 dicembre.
Venerdì l’esercito israeliano ha ucciso a sangue freddo un ragazzino palestinese, il 15enne Sayid Abu Libdeh, mentre, assieme a due amici, rimasti feriti dal fuoco dei soldati, cercava di attraversare il confine tra Gaza ed Israele in cerca di lavoro: era assolutamente disarmato.
Sabato 3 dicembre è stata la Marina di Israele a farsi onore, uccidendo sulla sua barca un pescatore palestinese, il 22enne Ziad Dardawel: assassinio a sangue freddo, anche in questo caso, dato che il poveretto stava tranquillamente facendo il suo lavoro, peraltro in una zona autorizzata per la pesca.
Ma vi è di più.
Il giorno precedente l’attentato di Netanya, il Capo di Stato Maggiore israeliano Dan Halutz aveva dichiarato alla stampa che Tsahal avrebbe continuato i suoi attacchi contro i membri della Jihad islamica: ad oggi, secondo le stime di Ha’aretz, sono stati arrestati circa 1.200 esponenti di questa organizzazione.
Poche ore prima dell’attentato, il Ministro della Difesa Mofaz aveva annunciato la ripresa della politica israeliana degli assassinii “mirati” (anche se, per la verità, nessuno si era mai accorto che fosse stata sospesa!).
Oltre alla “normale” attività nel West Bank, l’esercito israeliano aveva continuato anche ad occuparsi della Striscia di Gaza, bombardando a più riprese, con missili e salve di artiglieria, anche obiettivi situati in centri abitati, usando la “cortesia” di avvertire prima gli abitanti mediante annunci fatti con l’altoparlante: risultato, gravi danni a edifici e infrastrutture e vari feriti tra la popolazione civile a causa delle schegge, un uomo anziano e una donna soltanto nella giornata di domenica 4 dicembre.
Ora, al netto delle interferenze esterne di quei Governi che hanno interesse a mantenere alta la tensione in questa martoriata regione, non si può certo chiedere, anzi pretendere, la pace e la calma mentre, contemporaneamente, si prende a bastonate il proprio avversario.
Dovrebbe essere ormai chiaro, e l’attentato di Netanya ancora una volta ne da la tragica conferma, che la soluzione del conflitto israelo-palestinese non può che essere politica, e non certo quella cieca, repressiva e brutale preferita da Sharon.
Ma non vi è molto da sperare in questo senso.
In attesa della risposta “misurata e professionale” preannunciata dall’Idf stamattina (in parole povere, nuovi assassinii “mirati”), le prime mosse di Israele sono state, una volta ancora, all’insegna dell’illegalità, ossia le solite punizioni collettive, come tali vietate dal diritto umanitario internazionale: l’arresto del padre e dei tre fratelli del kamikaze di Netanya, il preannuncio della ripresa della “strategia” della demolizione delle case di proprietà dei familiari degli attentatori, la chiusura dei valichi di ingresso e uscita dalla Striscia di Gaza (eccetto il valico di Karni, esclusivamente per le merci), in palese violazione degli accordi appena conclusi con l’Anp e “garantiti” dall’intervento di Condoleezza Rice; tutto ciò in aggiunta ad una retata di lavoratori palestinesi illegali (circa 500 arrestati nella sola giornata di martedì).
Ma è proprio sul fronte delle prospettive politiche per un accordo di pace che si registrano le maggiori difficoltà e i più impervi ostacoli, tutti frapposti, come sempre, da Israele.
L’unica cosa che accomuna le principali personalità politiche israeliane, segnatamente l’accoppiata giurassica Sharon-Peres e l’astro nascente del Labor Amir Peretz, è il totale e pregiudiziale rifiuto di ogni accordo e/o concessione sul fronte di Gerusalemme e del “diritto al ritorno” dei Palestinesi.
Secondo una recente dichiarazione di uno dei principali esponenti del governo Sharon, l’affascinante Ministro della Giustizia Tzipi Livni, rilasciata durante un convegno giuridico a Cesarea, “non c’è bisogno di essere dei geni per capire che il muro avrà implicazioni per quanto riguarda i futuri confini”; dichiarazione che ha provocato la risentita reazione di uno dei giudici della Suprema Corte israeliana presenti al convegno, Mishael Cheshin, che ha accusato la Livni di aver detto cose ben diverse davanti alla Corte, e cioè di aver sostenuto la ben nota tesi menzognera del muro con funzioni esclusivamente di “sicurezza”.
In queste condizioni, appare chiaro come i Palestinesi, con tutta la buona volontà, non potranno addivenire mai ad un accordo di pace in base al quale debbano rinunciare a Gerusalemme est e ad una sostanziosa fetta di quel 22% della Palestina storica che dovrebbe costituire il territorio del futuro Stato palestinese.
In queste condizioni si mostrano in tutta la loro ipocrisia ed inadeguatezza i continui richiami a quella “roadmap” che viene, di fatto, totalmente svuotata dai diktat e dai giochetti di Israele.
E tuttavia qualcosa di nuovo la comunità internazionale dovrà pure inventarsi, se non si vuole, per anni e anni ancora, continuare a piangere le vittime innocenti di questo conflitto.
P.S. Secondo il Ministro degli esteri italiano Fini, l’attentato di Netanya costituisce un tentativo di affossare il processo di pace e la roadmap.
Al Ministro vorremmo ricordare che la roadmap prevede, nella sua fase finale, la “fine dell'occupazione iniziata nel 1967” e”comprende una soluzione accettata, giusta, equa e realista della questione dei rifugiati, e una risoluzione negoziata sullo statuto di Gerusalemme che tenga conto delle preoccupazioni politiche e religiose delle due parti, che protegga gli interessi religiosi degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani del mondo intero, e che sia conforme al principio dei due Stati, Israele ed una Palestina sovrana, democratica e vitale, coesistenti nella pace e nella sicurezza”.
E’ chiaro, dunque, che dichiarare che Gerusalemme è e sarà sempre la capitale unica e indivisibile di Israele non appare conforme al dettato della roadmap, ed è altrettanto palese che il Ministro Fini non ha certo fatto gli interessi della pace quando ha affossato quel famoso rapporto Ue che denunciava proprio i pericoli derivanti dalla sistematica colonizzazione della parte est di Gerusalemme, quella palestinese.
Va bene che il Ministro Fini ha più volte dato mostra di una spiccata tendenza alla disinvoltura e all’opportunismo, ma un minimo di coerenza è richiesto anche ad un politico come lui.

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