30 aprile 2008

Aggiornamento campagna "Gaza vivrà" (2)

GAZA VIVRA’
Campagna per la fine di un embargo genocida

info@gazavive.com
http://www.gazavive.com/


1) GAZA VIVRA’
Tour italiano di una delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza

E’ iniziato oggi, da Perugia, il tour italiano della delegazione del Comitato popolare contro l’assedio di Gaza.

Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato, e Sameh Habeeb, coordinatore dello stesso, sono arrivati questa mattina a Roma dopo aver superato le ultime estenuanti difficoltà per poter uscire dalla Striscia di Gaza.

Alla fine la tenacia è stata premiata. E si tratta di un risultato politico davvero importante, che ci consentirà di parlare della situazione di Gaza in numerose città italiane, proprio mentre la politica sterminista portata avanti da Israele colpisce quotidianamente in ogni luogo della Striscia.

Un’occasione resa ancora più significativa dai gravi fatti avvenuti la settimana scorsa all’Onu, quando proprio l’ambasciatore italiano, Spatafora, ha tolto la parola al rappresentante libico che denunciava la gravità della situazione a Gaza, giustamente paragonata ad un campo di concentramento nazista.

Dobbiamo prendere atto che non solo l’ONU è asservita allo strapotere americano, ma che all’ONU impera apertamente il pensiero unico che nega il diritto di parola se questo viene esercitato per dire una parola di verità.

Una ragione di più per ascoltare la voce di Gaza, per conoscere la situazione direttamente da chi la vive sulla propria pelle, per rinnovare la solidarietà politica ed umana a chi resiste in questo luogo dove si consuma da mesi l’oppressione più grande, l’ingiustizia più manifesta.

Il tour toccherà una ventina di città. Ad oggi il calendario è definito solo fino a martedì 13 maggio.

Comunicheremo il calendario completo nei prossimi giorni.

Calendario degli incontri (prima parte):

- Martedì 29 aprile – ore 17 - PERUGIA, Sala dei Notari, piazza IV novembre

- Mercoledì 30 aprile – ore 16 - SPOLETO, Sala dei Duchi, Palazzo comunale

- Giovedì 1 maggio – ore 16 - POGGIBONSI (SI), Loc. Montemorli, all’interno della Festa Comunista dei Lavoratori

- Venerdì 2 maggio – ore 21 – GALLICANO (LU), Sala Guazzelli

- Sabato 3 maggio – ore 14 – GENOVA, Palestra Mandracci, Porto Antico

- Domenica 4 maggio – ore 15 - VICENZA, Palalago di Marola

- Martedì 6 maggio – ore 21 - FIRENZE, Sala Est-Ovest della Provincia, via dé Ginori 12

- Mercoledì 7 maggio – ore 21 - REGGIO EMILIA, Sala da confermare

- Giovedì 8 maggio – ore 21 – BOLOGNA, Circolo Iqbal Masih

- Venerdì 9 maggio – ore 13 – MILANO, Incontro con la Comunità Islamica

- Sabato 10 maggio – ore 10 – TORINO, Centro Italo Arabo Dar al Hikma, via Fiocchetto 15

- Lunedì 12 maggio – ore 21 – MILANO, Teatro Verdi

- Martedì 13 maggio – ore 21 – CASALE MONFERRATO (AL), Salone Anffas, via Leardi 8


2) LA PAROLA A GAZA
Torino, sabato 10 maggio

- Per ascoltare la voce di chi vive quotidianamente l’oppressione
- Per conoscere la situazione nella Striscia, vero lager del XXI secolo
- Per capire le ragioni della resistenza palestinese
- Per condannare il golpe attuato contro i legittimi vincitori delle elezioni del gennaio 2006
- Per continuare la lotta contro l’embargo genocida

Per tutti questi motivi, per ricordare il 60° anniversario della Nabka, per protestare contro la Fiera Internazionale del Libro dedicata ad Israele ci ritroveremo a Torino sabato 10 maggio.

Aderiamo a tutte le iniziative di protesta contro la Fiera del Libro, ma vogliamo mettere la situazione di Gaza al centro della mobilitazione.

L’embargo, il lento genocidio che si sta consumando, è infatti il più grande atto di accusa sia nei confronti dello stato sionista che di chi in Italia sottolinea ogni giorno il proprio integrale sostegno ai criminali israeliani.

Chi ha voluto dedicare ad Israele la Fiera ha compiuto una chiara operazione politica ed ideologica. Rovesciamogliela contro partendo dalla denuncia dei crimini che questo stato sta compiendo.

Iniziamo a rispondere da Torino – città gemellata con Gaza – ad una politica sorda verso gli oppressi e servile con gli oppressori.

TORINO
Sabato 10 maggio – ore 10-14
Centro Italo Arabo Dar al Hikma
Via Fiocchetto 15
(zona Porta Palazzo)

ASSEMBLEA - MANIFESTAZIONE


Interverranno:
Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza
Giulietto Chiesa, giornalista e parlamentare europeo
Gianni Vattimo, filosofo

Presiedono Leonardo Mazzei e Angela Lano

Interverranno inoltre:
Ugo Giannangeli – Gaza Vivrà
Mohammad Hannoun – ABSPP (Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese)
Alberto Tradardi – ISM Italia (International Solidarity Movement – Italia)
Maria Grazia Ardizzone – Campo Antimperialista
Un rappresentante della Comunità Islamica
Vainer Burani – Giuristi Democratici

Nel corso dell’assemblea è previsto un collegamento con Gaza, con l’intervento di un esponente del governo palestinese.

Promuovono:
Comitato Gaza Vivrà
Abspp – Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese

29 aprile 2008

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29 aprile 2008

Israele e il prototipo islamista.

Israele visto come una delle maggiori cause del prevalere del radicalismo nel mondo arabo e musulmano in un interessante articolo apparso il 3 aprile su Bitterlemons International, proposto nella traduzione offerta da Arabnews.
3/4/2008
Senza volerlo, Israele è diventato una delle maggiori cause del radicalismo nel mondo arabo e musulmano. Sottolineo il fatto che ciò potrebbe non essere intenzionale, perché la sola idea di Israele quale entità esclusivamente ebraica ha servito da punto di richiamo per un’intera serie di movimenti parzialmente violenti, dai socialisti “di sinistra” ai “jihadisti” islamisti. In altre parole, quest’opposizione radicale all’ideale sionista che sta al cuore della nazione israeliana esisterebbe comunque, al di là delle azioni dello stato.

Naturalmente, il fatto che Israele si identifichi con l’”Occidente” (cioè l’Europa occidentale e gli Stati Uniti) e la sua politica di potere “machiavellica” verso l’”Oriente” (cioè il mondo arabo e islamico) non hanno certo aiutato a integrarla a livello intellettuale e politico con l’Asia occidentale e il Nordafrica. Ma tendo a essere d’accordo con Jacqueline Rose, che nel suo libro “The Question of Zion” scrive che “il ‘sionismo’ si è sempre sentito minacciato, e spesso a ragione.” L’idea di Israele—i suoi miti fondativi, il suo atteggiamento esclusivista, la sua tassonomia del “noi contro loro”—è stata rifiutata dalla regione fin da subito.

In tale contesto, perseguire una politica della durezza è stato l’unico modo per affrontare l’apparente dilemma della legittimità di Israele in relazione ai suoi vicini. Le principali figure politiche israeliane non hanno mai nascosto che questa era la loro strategia. Si può intuire ciò dall’ammissione di Ben-Gurion che i primi sionisti non erano affatto benevoli verso i palestinesi; dall’affermazione di Yitzak Shamir che “né l’etica né la tradizione ebraica condannano il terrorismo come strumento di lotta”; dal linguaggio di Berl Katznelson, il maggior teorico del sionismo laburista, che dichiarò nel 1929 che “l’impresa sionista è un’impresa di conquista” e che non “è un caso se uso termini militari quando parlo di insediamento”; e dalle poesie di Yosef Brenner (1905): “Ascolta Israele! Non occhio per occhio! Ma due occhi per uno, e tutti i loro denti in cambio di qualunque tipo di umiliazione!”

Non sto dicendo che non ci fossero posizioni contrarie; ma nessuno storico di Israele che si rispetti – certamente non quelli critici come Shlomo Zand, Haim Gerber, Avi Shlaim o Ilan Pappe – negherebbe che la violenza sistematica fu essenziale per il consolidamento del potere israeliano in Palestina fra il 1947 e il 1948, e che la si ritenne necessaria per sostenere il giovane stato di Israele nei periodi successivi e ricorrenti di crisi. Questa violenza, che ha caratterizzato il riassetto della Palestina, ha portato a 7 guerre fra stati, numerosi atti di terrorismo da entrambe le parti, ed ha causato Jenin, e Sabra e Shatila. Ebbene, questa stessa violenza è stata incorporata e reificata dagli “indigeni”, dalle persone che abitano nella regione in cui si è radicata l’idea di Israele.

In questo senso si può dire che Israele ha prodotto il prototipo “islamista”, cioè persone come Nasrallah e Haniyeh, ed è per questo che ho cominciato col dire che Israele è una delle maggiori cause del radicalismo nel mondo arabo e islamico. Si potrebbe dire che il Caino della psiche israeliana abbia partorito la propria prole: Hamas come reazione all’occupazione protratta dei territori palestinesi, e Hezbollah in reazione alla violenta invasione del Libano nel 1982. Questi movimenti non avrebbero potuto operare politicamente né mobilitare ideologicamente le loro basi di sostegno fra la popolazione senza l’immagine del nemico israeliano. A mio parere, è per questo che sia Hamas che Hezbollah non sono mai esterni alle aggressioni israeliane; è per questo che nessuno di essi sfugge alla portata dell’altro, perché sono intrappolati all’interno di un’unica dialettica. Questo spiega perché gli attacchi continui a Hezbollah nel 2006 abbiano provocato contrattacchi palestinesi nei territori occupati, e perché il recente bombardamento di Gaza abbia aumentato il sostegno a Hamas in tutto il mondo islamico. Questo spiega anche perché la fazioni di destra che sostengono il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad abbiano intenzione di tenere gli iraniani in un perpetuo stato di allerta riguardo alla politica israeliana in Palestina, e in genere nella regione dell’Asia occidentale. Infatti, oggi chi parlerebbe di Ahmadinejad se non fosse per la sua famosa “tirata” sui miti fondativi dello stato israeliano?

Nel “Medio Oriente” di oggi non c’è letteralmente alcun territorio intellettuale e geografico che gli ebrei, i turchi, gli iraniani, i palestinesi, gli arabi, i cristiani, i musulmani, i copti, i curdi, ecc. potrebbero dire di loro appartenenza in totale indipendenza dagli altri. All’interno di questa costellazione, qualsiasi sforzo per definire Israele in senso esclusivamente religioso o etnico si può solo sostenere con l’aiuto di “muri di sicurezza” e del filo spinato. E` irrazionale definire un paese in contrasto con la regione in cui è radicato, a meno che, naturalmente, l’intera regione non venga ricodificata culturalmente, politicamente e ideologicamente per adattarsi alle preferenze dello stato israeliano e del suo “chaperon”, gli Stati Uniti. Ma, non ci sono sempre più movimenti radicali di portata globale che si oppongono a questo tipo di politica? E non sono adesso (diversamente da trent’anni fa) a capo di intere burocrazie, istituzioni, mass media, canali di comunicazione per propagare le loro vedute? Internet e la televisione satellitare non hanno reso molto più difficile la monopolizzazione dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale?

Nel 1948, Israele si è coscientemente insediato in una regione che era esistita senza lo stato ebraico per diversi millenni. Perciò, è inevitabilmente entrato in una relazione di interdipendenza immanente. Ne dovrebbe conseguire, piuttosto logicamente, che il paese condivide un destino comune con le popolazioni della regione, e che non può continuare a raccontarsi e a costituirsi senza di esse. La vecchia guardia, generazioni e generazioni di uomini politici, storici “di corte”, e attivisti legati al regime, non sono riusciti a presentare una difesa intellettuale convincente dell’esistenza di uno stato ebraico esclusivista, legato all’identità occidentale in senso culturale e intellettuale. Se non hanno convinto la maggioranza razionale, come potranno vincere contro gli estremisti violenti?

Perciò, continua a essere responsabilità degli intellettuali critici scoprire le fondamenta di queste identità apparentemente primordiali, fino ad arrivare ai residui ideologici che sono così diversi dal miscuglio di miti, invenzioni e complete bugie che ci vengono propinati tutti i giorni. I “nuovi storici” hanno intrapreso questo sforzo in relazione ad Israele, ed è da parecchio tempo che gli intellettuali palestinesi si sono impegnati in un progetto simile. Altri arabi e musulmani, soprattutto gli iraniani e i turchi sono stati più lenti a farlo, anche perché troppo spesso sono presi dall’esaltazione nazionalista o da fantasie religiose uni-dimensionali. La lotta per una pace sostenibile in Palestina e in Iraq, in Afghanistan e in Libano, non può che svilupparsi da un nuovo intellettualismo, una coscienza critica che generi proteste contro i crimini commessi dai governi e contro coloro che li difendono. Questo è uno sforzo comune, ed è ora che venga fornito di un archivio storico condiviso.

Arshin Adib-Moghaddam è autore del libro “Iran in World Politics: The question of the Islamic Republic and The International Politics of the Persian Gulf”; insegna alla School of Oriental and African Studies di Londra

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28 aprile 2008

Indispensabile il dialogo con Hamas.

Le polemiche sorte in occasione del recente viaggio dell'ex Presidente americano Jimmy Carter in Medio Oriente hanno riaperto il dibattito sulla possibilità di instaurare un dialogo con Hamas, da molti considerata una organizzazione puramente e semplicemente votata al terrorismo.
Ma, non da ora, molti analisti del conflitto israelo-palestinese hanno avvertito come sia indispensabile, al fine di raggiungere una pace effettiva e duratura, che si dialoghi con questa organizzazione, su un piano di mutuo rispetto, dignità e reciprocità.
Questo è il tema dell'articolo di Rami G. Khouri, pubblicato l'11 aprile su Agence Global, qui proposto nella traduzione di Arabnews.
Comprendere le sei "r" di Hamas.
La controversia sorta intorno all’opportunità dell’incontro fra l’ex presidente americano Jimmy Carter ed il leader di Hamas residente a Damasco, Khaled Meshaal, ha suscitato un serio dibattito riguardo a due questioni molto attuali in Medio Oriente: l’ideologia e le politiche di Hamas, e l’atteggiamento del governo degli Stati Uniti nei confronti del movimento islamico palestinese.

Israele, gli Stati Uniti, ed alcuni altri paesi si rifiutano di avere rapporti con Hamas poiché lo vedono esclusivamente come un’organizzazione terroristica votata alla “distruzione di Israele”. Ma la realtà è più complessa rispetto a questa interpretazione. Hamas ha certamente compiuto atti di terrorismo contro i civili israeliani e deve essere ritenuto responsabile per simili azioni – in un contesto in cui tutti coloro che compiono omicidi e atti di terrorismo in Medio Oriente devono analogamente essere ritenuti responsabili, inclusi Israele, gli arabi, gli iraniani, gli americani e gli inglesi.

Hamas sostiene che le sue azioni siano una legittima resistenza nel contesto di una molto più brutale guerra israeliana contro i civili palestinesi. Una guerra che fa uso del terrore, degli omicidi, dei sequestri, della fame, degli arresti, della colonizzazione, del razzismo e della segregazione in stile Apartheid, e di altre politiche riprovevoli. In questo modo rimaniamo in una fase di stallo, ed allo stesso tempo in uno stato di guerra.

Questa importante questione potrebbe tuttavia costituire la chiave per compiere un progresso verso una pace vera. Perché ciò sia possibile, il mondo dovrebbe giudicare e coinvolgere Hamas sulla stessa base che venne usata nel caso di altri gruppi militanti o terroristi nel mondo, dall’IRA nell’Irlanda del Nord ai Viet Cong in Vietnam, dalla SWAPO (South West Africa People’s Organization) in Namibia all’ANC (African National Congress) in Sudafrica, e, in tempi più recenti, dai ribelli in Iraq ai Talebani in Afghanistan e Pakistan.

Questo approccio comprende tipicamente quattro elementi: parlare con il gruppo in questione invece di boicottarlo; mettere in evidenza le sue azioni inaccettabili a cui esso deve porre fine; individuare le sue legittime richieste nazionali o politiche che possono essere soddisfatte; e, negoziare in un contesto di uguaglianza in modo da delineare una situazione da cui tutti possono trarre vantaggio, una situazione che ponga fine al terrore, elimini le ragioni che vi stanno dietro, soddisfi le richieste ed i diritti minimi di tutte le parti in causa, e realizzi la pace e la sicurezza.

La chiave per ottenere una situazione di mutuo beneficio sta nell’analizzare e nel trattare Hamas nel contesto complessivo delle sue azioni, e non solo attraverso la lente ristretta dei suoi atti di terrorismo. Questo significa comprendere, e confrontarsi, con le sei “parole chiave” che Hamas rappresenta: resistenza, rispetto, reciprocità, ricostruzione, diritti, e profughi.

1) La “resistenza” contro l’occupazione e l’aggressione israeliana rappresenta il principale compito di Hamas, ed è la parola chiave all’interno del suo nome in lingua araba: “Harakat al-Muqawama al-Islamiyya” (Movimento di Resistenza Islamico). Esso resiste, sfida, e combatte attivamente Israele, e ciò include il tentativo di delegittimizzarlo, ed il rifiuto di riconoscere lo stato ebraico fino a quando Israele non deciderà in cambio di riconoscere i diritti nazionali palestinesi e l’integrità territoriale dello stato palestinese.

2) Ottenere il “rispetto” è una parte difficilmente afferrabile, ma essenziale, della battaglia di Hamas contro Israele; esso è stato ottenuto in parte, grazie all’accordo che Israele ha raggiunto con Hamas su due cessate il fuoco, e con la possibilità di accordarsi su un terzo, che potrebbe essere seguito da uno scambio di prigionieri.

3) La “reciprocità” – ovvero l’applicazione del “rispetto” in una forma politica tangibile – richiede che israeliani e palestinesi abbiano rapporti, e siano trattati dal mondo, in base agli stessi criteri ed alle stesse regole per quanto riguarda l’uso della violenza, l’applicazione delle Convenzioni di Ginevra, il coinvolgimento politico, e l’applicazione delle risoluzioni ONU. Ciò si applica anche al “reciproco riconoscimento statale” con Israele, che Hamas ora afferma di accettare se Israele dovesse ritirarsi dai territori occupati nel 1967, e se dovesse applicare le risoluzioni ONU sui diritti dei profughi.

4) La “ricostruzione” della società palestinese, ponendo fine al caos, alla corruzione, all’insicurezza, agli abusi di potere ed alla confusione politica che hanno caratterizzato gli anni dominati da Fatah – soprattutto nell’era del processo di Oslo – è la motivazione chiave che spiega perché Hamas sia cresciuto in statura e credibilità negli ultimi decenni. Gran parte dell’attrattiva che questo movimento rappresenta per gli elettori è legata a questioni interne, ed alla richiesta di una vita quotidiana normale e dignitosa – almeno nella stessa misura in cui viene ribadita la richiesta di resistere e di combattere Israele.

5) Un pilastro essenziale della legittimità e della popolarità di Hamas è la sua insistenza sul fatto che il popolo palestinese ha dei “diritti” nazionali individuali e collettivi che deve poter esercitare in piena sovranità, libertà e sicurezza; se i palestinesi dovranno combattere militarmente per ottenere i loro diritti – come molti altri hanno fatto nel mondo – ebbene che così sia.

6) Un aspetto importante del programma politico di Hamas è la sua insistenza sul fatto che la lotta nazionale palestinese comprende molti aspetti, che insieme formano un tutto unico che include il territorio, i pieni diritti individuali e nazionali, ed una giusta soluzione del problema dei “profughi”, in base alle risoluzioni ONU. Hamas ricorda al mondo e ad Israele che il conflitto israelo-palestinese riguarda gli eventi del 1947-48, e non solo quelli del 1967. E afferma che il ritiro unilaterale israeliano da Gaza non è né una soluzione giusta e complessiva del conflitto, né in alcun modo un conformarsi alla legalità internazionale.

Questi sei aspetti basilari della visione del mondo e del programma politico di Hamas dovrebbero essere riconosciuti più chiaramente da coloro che affermano di voler promuovere un processo di pace arabo-israeliano. Essi costituiscono il fondamento coerente per dei potenziali negoziati, per la pace, la sicurezza e la coesistenza – ma solo sulla base del rispetto, della reciprocità, e di una corretta applicazione della legalità internazionale, che valga per tutti.

Rami G. Khouri è un analista politico di origine giordano-palestinese e di nazionalità americana; è direttore dell’Issam Fares Institute of Public Policy and International Affairs presso l’American University di Beirut, ed è direttore del quotidiano libanese “Daily Star”

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Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina - Seminario

Il seminario inizialmente previsto presso l'Oasi di Cavoretto (Torino) si terrà invece presso la Università di Torino - Sala lauree della Facoltà di Scienze Politiche Palazzo Lionello Venturi, Via Verdi 25 - Torino

ISM-Italia
International Solidarity Movement – Italia

Seminario internazionale
Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina
Torino 5 maggio pomeriggio e 6 maggio 2008
Sede del seminario: Università di Torino – Sala lauree della Facoltà di Scienze Politiche Palazzo Lionello Venturi, Via Verdi 25 - Torino

Indice
Perché questo seminario
Il programma del seminario
Come arrivare alla sede del seminario
Indicazioni logistiche
Organizzazione

Iscrizione al seminario
Per partecipare al seminario, anche in relazione al numero di posti limitato, è necessario iscriversi inviando una email a: piemonte@ism-italia.it con nome, cognome, eventuale organizzazione o associazione di appartenenza. Agli iscritti saranno riservati posti in sala.

"Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l'umanità che hanno accompagnato il conflitto israelo-palestinese e altri conflitti in questo passaggio d'epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l'opportunismo."
a cura di ISM-Italia
Torino, 26 aprile 2008

1. Perché questo seminario
Il 12 e il 13 maggio del 2006 si è tenuto a Biella il seminario "La dimensione della parola condivisa - Quale futuro per Palestina/Israele?" (http://www.frammenti.it/).

Al centro di quell'incontro la situazione in Palestina/Israele dopo la morte di Yasser Arafat e la scomparsa dalla scena politica di Ariel Sharon e dopo le elezioni palestinesi e israeliane dell'inizio del 2006. Ma più in particolare i temi della fine della soluzione "due popoli-due stati", della pulizia etnica della Palestina e dell'appello palestinese al boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS) dello stato di Israele.

A due anni di distanza un momento di ulteriore riflessione è stato suggerito non solo dall'incalzare degli eventi, la guerra in Libano, il genocidio in corso a Gaza e la pulizia etnica che prosegue in Cisgiordania, il fallimento, prevedibile e previsto, di ogni tentativo di soluzione (come ha confermato l'ultima conferenza di Annapolis), ma anche dalla ricorrenza dei 60 anni della Nakba (Catastrofe) palestinese e della costituzione dello stato di Israele.

Questo nuovo seminario ha come principale obiettivo quello di esaminare le responsabilità del mondo occidentale per tutto quello che è accaduto e accade in Palestina/Israele, di rispondere, almeno in parte, alla domanda posta da Ilan Pappe al termine di una sua conferenza: "Perché il mondo occidentale permette a Israele di fare tutto quello che fa?".

Due dei temi trattati nel seminario del 2006 hanno avuto un seguito con la pubblicazione in Italia del saggio "Palestina quale futuro? – La fine della soluzione dei due Stati", curato da Jamil Hilal con la collaborazione di Ilan Pappe e altri studiosi per i tipi della Jaca Book nel novembre 2007 e del saggio di Ilan Pappe "La Pulizia Etnica della Palestina", Fazi editore 2008, in arrivo nelle librerie.

Tra la fine di aprile e l'inizio di maggio saranno in libreria anche:
· il saggio di Yitzhak Laor "Il nuovo filosemitismo europeo e il 'campo della pace' in Israele", "Le Nuove Muse" 2008
· "Politica" (Poesie scelte 1997 – 2008) di Aharon Shabtai, Multimedia edizioni 2008

Il saggio di Laor oltre a esaminare il nuovo filosionismo europeo (di destra, di centro e di sinistra) analizza il ruolo che nel "campo della pace" israeliano esercita il trio Oz-Grossman-Yehoshua, considerati, completamente a torto, dall'opinione pubblica europea, anche secondo Tom Segev, tre scrittori "pacifisti" doc.

Le poesie di Aharon Shabtai indicano il retroterra del suo rifiuto a partecipare al Salone del Libro di Parigi: "Io non ritengo che uno Stato che mantiene un'occupazione, commettendo giornalmente crimini contro civili, meriti di essere invitato ad una qualsivoglia settimana culturale. Ciò è anti-culturale; è un atto barbaro mascherato da cultura in maniera cinica. Manifesta un sostegno ad Israele, e forse anche alla Francia che appoggia l'occupazione. Ed io non vi voglio partecipare."

Un altro testo importante è "Il mondo moderno e la questione ebraica" di Edgar Morin, Raffaello Cortina editore 2007.

Nel 2007 si è inoltre riaperto il dibattito sulla proposta di uno stato unico, laico e democratico, nella Palestina storica (Corso estivo a El Escorial, luglio 2007 e Conferenza di Londra, 17-18 novembre 2007).

Il seminario del 5 – 6 maggio è stato preceduto a Torino da molte iniziative tra le quali la presentazione di saggi come "Disonesto ma non criminale" di Amedeo Cottino (Carocci 2005), "Politicidio – Sharon e i Palestinesi" di Baruch Kimmerling (Fazi editore 2003) e "Il Muro di Ferro" di Avi Shlaim (Casa editrice il Ponte 2003).

Il seminario si svolgerà pochi giorni prima dell'apertura della Fiera del Libro di Torino (8 – 12 maggio) e vuole essere una risposta critica alla decisione presa dalle autorità politiche locali, con il pieno appoggio di quelle nazionali, di invitare Israele come ospite d'onore dell'edizione 2008. Un invito di natura politico-propagandistica che nulla ha a che fare con la cultura, che costituisce un vulnus gravissimo del principio dell'autonomia della cultura e un passo emblematico verso la sua "militarizzazione". Come afferma un appello palestinese "dopo 60 anni di espropriazione e di pulizia etnica, non c'è nessuna ragione per celebrare "i 60 anni di Israele! Ma vi sono miriadi di ragioni per riflettere, impegnarsi e lavorare per la pace e la giustizia."

Un invito a favore del quale si sono schierati tutti, o quasi tutti, politici, media, intellettuali e accademici, i "chierici" sempre pronti 'al tradire e al servire', a conferma del livello di ipocrisia, di menzogna e di cinismo del mondo occidentale, denunciato, tra gli altri, da alcuni giornalisti indipendenti (David Rose) e da alcuni importanti diplomatici dell'ONU (Alvaro de Soto, John Dugard e James Wolfensohn).

Il seminario vuole essere una occasione "per riflettere, impegnarsi e lavorare per la pace e la giustizia".

2. Il programma del seminario
Lunedì 5 maggio
14.00/15.00 Welcome e registrazione
15.00/15.30 Sessione di apertura
Alfredo Tradardi In memoria di Tanya Reinhart
Gianni Vattimo Le ragioni del seminario

15.30/17.30 Panel 1 La pulizia etnica della Palestina
Coordina Diana Carminati
Ilan Pappe Intervento video-registrato
Wasim Dahmash Fonti documentarie arabe della pulizia etnica della Palestina
Angelo D'Orsi La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappe
Giorgio S. Frankel I territori occupati: obiettivi irrinunciabili della politica israeliana
Intervento di Tariq Ramadan

Coffee break
17.45/20.00 Tavola rotonda
Dopo sessanta anni di espropriazione e di pulizia etnica boicottare le celebrazioni dei "60 anni di Israele" a Torino e in ogni altro luogo
Coordina Alfredo Tradardi
Jonathan Rosenhead Le ragioni generali del boicottaggio accademico e culturale di Israele
interventi di Wasim Dahmash, Tariq Ramadan, Aharon Shabtai, Gianni Vattimo

Martedì 6 maggio

9.00/11.00 Panel 2 Oltre le cortine di fumo mediatiche
Coordina Wasim Dahmash
Domenico Losurdo Il linguaggio dell'impero
Giorgio S. Frankel Gli interessi occidentali nella guerra infinita di Israele
Diana Carminati Le verità scomode di A. De Soto, J. Dugard, D. Rose e J. Wolfensohn
Massimo Zucchetti L'accordo di cooperazione militare Italia-Israele

Coffee Break
11.15/13.00 Panel 3 Necessità di visioni nuove
Coordina Giorgio S. Frankel
Wasim Dahmash Cenni sulla storia delle proposte di soluzione del conflitto in M.O.
Ghada Karmi Le radici storiche dell'idea dello stato unico

14.00/15.00 Panel 4 Il ruolo dell'arte e della cultura
Coordina Angelo d'Orsi
Piero Gilardi L'arte dopo l'11 settembre
Aharon Shabtai La cultura in Israele in tempo di occupazione

Coffee Break
15.15/17.00 Tavola rotonda e dibattito conclusivo
I compiti dei movimenti no-war contro la guerra globale permanente
Coordina Gianni Vattimo

Traduzione simultanea a cura di Luisa Corbetta e Bianca Maria Petitti.

3. Come arrivare alla sede del seminario

Sede del seminario: Università di Torino – Sala lauree della Facoltà di Scienze Politiche Palazzo Lionello Venturi, Via Verdi 25
Nei pressi della Mole Antonelliana, di Piazza Castello, di Piazza Vittorio, di via Po.
Dalla stazione di Porta Nuova prendere la linea 68 in direzione Casale per 5 fermate e scendere in via Po.
In auto arrivare in Piazza Vittorio e utilizzare il parcheggio sotterraneo.

4. Indicazioni logistiche
Presso l'Oasi di Cavoretto sono state riservate camere singole e doppie al prezzo di lire 35 euro per persona per notte compreso il breakfast che si possono prenotare telefonando allo 011 6612300. Dalla sede del seminario all'Oasi di Cavoretto, ad ore indicate e su prenotazione al momento della registrazione, funzionerà un servizio navetta.
L'Oasi di Cavoretto è un complesso residenziale del Gruppo Abele situato nelle colline di Torino.

Come arrivare all'Oasi di Cavoretto:
Dalla stazione di Porta Nuova: prendere la linea 1 e scendere alla fermata CARDUCCI – recarsi alla fermata CARDUCCI CAPOLINEA prendere la linea 47 e scendere alla fermata FREGUGLIA CAPOLINEA. Seguire a piedi le indicazioni speciali per arrivare all'Oasi di Cavoretto.
Arrivo in auto: da piazza Gran Madre di Dio al termine di corso Casale proseguire per corso Moncalieri, superare piazza Zara, girare a sinistra in via Sabaudia. Seguire le indicazioni speciali per arrivare all'Oasi di Cavoretto.

Per informazioni info@ism-italia.it.

5. Organizzazione
L'organizzazione del seminario è stata curata da Ugo Barbero, Rosario Citriniti, Caterina Mollura, Grazia Raffaelli e Alfredo Tradardi.

Palestina News - voce di ISM (International Solidarity Movement) Italia http://www.ism-italia.it/

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24 aprile 2008

Felice Pasqua a voi e "piacevole imprigionamento" a noi.

La lettera che segue è stata scritta da Bassam Aramin, attivista dei Combatants for Peace e padre di Abir, una bambina di 11 anni uccisa l’8 febbraio 2007 da un proiettile sparato da un soldato israeliano mentre usciva dalla sua scuola nel villaggio di Anata, la cui morte non ha avuto finora giustizia (e mai l’avrà).

In essa, Bassam augura una felice Pasqua a tutti gli ebrei ma, nel contempo, denuncia come questa festività costituisca occasione per imporre ai Palestinesi di tutta la Cisgiordania il blocco totale dei valichi e il divieto assoluto di circolazione.

Per ben una settimana, infatti, e cioè per la durata delle celebrazioni della Pasqua ebraica, le autorità militari israeliane adottano speciali misure di sicurezza, sigillando i villaggi della Cisgiordania e impedendo completamente il transito ai Palestinesi, che in tal modo si ritrovano imprigionati e non hanno neanche quella minima possibilità di movimento garantita, in tempi “normali”, dai check points e dal sistema delle strade ad uso esclusivo dei coloni.

La Pasqua ebraica, ci dice Bassam, è una festa di libertà e liberazione, ed è paradossale che proprio questa festa divenga l’occasione, ancora una volta, per riaffermare il dominio coloniale israeliano sui Territori occupati e per negare questa stessa libertà al popolo palestinese, da 40 anni (e chissà per quanto ancora) sotto occupazione.


Felice Pasqua a voi e "piacevole imprigionamento" a noi
Di Bassam Aramin

Traduzione dall’arabo in inglese di Miriam Asnes
Traduzione dall’inglese all’italiano a cura dell’Ufficio di Luisa Morgantini

Quanto è bello e meraviglioso l’esodo dalla schiavitù alla libertà e quanto è gloriosa la liberazione dalle catene della schiavitù!
Quanto è paradisiaco l’essere liberati dall’occupazione e quanto bene vi è nella giustizia che succede all’oppressione!
Quanto è bello riguadagnare l’opportunità di esprimere sé stessi liberamente dopo anni di repressione e sfruttamento, e di essere salvati dalla morte dopo un lungo massacro!

I concetti attorno ai quali ruota ognuna di queste frasi sono Libertà e Liberazione, concetti che ogni essere umano merita di avere, grandi ideali che riguardano ogni individuo così come ogni intera società.
E se noi guardiamo ai valori fondamentali delle festività ebraiche troveremo che grande attenzione è posta proprio su libertà e liberazione e sull’opposizione alla schiavitù e all’oppressione.

Ma la realtà che noi viviamo è l’esatto contrario. In un modo che non cessa mai di stupire, non c’è fine al comportamento oppressivo di coloro i quali hanno originato queste festività e che parlano in nome di quei valori.
Perché oggi l’occupazione israeliana è una fusione di schiavitù e oppressione e asservimento e prigionia e la privazione della libertà dell’intero popolo palestinese in modo tale che ad essi sia impedito di muoversi liberamente e portare avanti la loro vita quotidiana?

E’ come se l’intero concetto di libertà non si applicasse ad altri che al popolo ebraico di Israele.

Prendete per esempio la festività della Pasqua ebraica, la celebrazione della liberazione che è in corso in questi giorni. Gli ebrei di tutto il mondo sono raccolti, di famiglia in famiglia, attorno alla tavola del Seder, la mensa della libertà. Soprattutto ogni partecipante al rito deve immaginarsi come se fosse uno schiavo in Egitto, e ricordare che oggi è un uomo libero, Ben Khorin.

E i membri delle famiglie israeliane, come tutti gli Ebrei nel mondo, discutono del valore della libertà di tutti gli esseri umani, senza differenza alcuna – con l’eccezione dei palestinesi i quali vengono spostati al di là di questa equazione morale.
Forse perché agli occhi degli Israeliani (e io mi auguro di non dire mai “degli ebrei”), noi non apparteniamo alla famiglia umana.

Perciò dall’inizio delle celebrazioni della Pasqua ebraica è stata decretata la chiusura completa dei Territori Palestinesi, non possiamo spostarci perché tutti noi siamo impediti dalle restrizioni di movimento imposte dai soldati dell’esercito di occupazione israeliano. E tutto questo in nome di un bisogno assoluto e nobile: che il Popolo Eletto possa celebrare la sua festività della libertà e commemorare la sua liberazione e il suo esodo dalla schiavitù alla libertà, anche al costo di opprimere un altro popolo.

Si vede che il notissimo detto secondo cui la libertà di un uomo finisce dove inizia la libertà di un altro non è ancora penetrato nelle menti e nei cuori dei celebranti ebrei Israeliani.
Perciò colgo l’occasione per chiedere agli ebrei israeliani che stanno celebrando questa festività di libertà di rispondere alla mia domanda: Come potete questa notte celebrare la vostra libertà a spese della libertà di un altro? La libertà umana è un valore che è stato creato per voi e per voi soli? Come potete anche solo pensare di celebrare la vostra festività quando i vostri vicini soffrono a causa della chiusura? Avete mai pensato che i valori che questa festività incarna sono in totale opposizione al vostro comportamento reale?

E ad ogni ebreo progressista che prova vergogna per le azioni del governo di occupazione che decreta chiusure per commemorare la Pasqua ebraica, io chiedo loro: Come le vostre voci possono arrivare ad essere udite ad alti livelli contro la continuazione dell’oppressione del popolo palestinese?

Mi auguro che il prossimo anno il popolo palestinese possa celebrare la sua indipendenza dall’occupazione israeliana e che questa sarà la più grande e dolce celebrazione nella storia del nostro popolo – noi che dedichiamo le nostre vite giorno dopo giorno al conseguimento della nostra libertà.

E aspettando che quel giorno arrivi, io auguro ai miei amici una felice celebrazione e chiedo loro di augurare a noi una “tranquilla chiusura”.

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23 aprile 2008

Aggiornamento campagna "Gaza vivrà"

GAZA VIVRA’
Campagna per la fine di un embargo genocida

info@gazavive.com
http://www.gazavive.com/

LA PAROLA A GAZA

- Per ascoltare la voce di chi vive quotidianamente l’oppressione
- Per conoscere la situazione nella Striscia, vero lager del XXI secolo
- Per capire le ragioni della resistenza palestinese
- Per condannare il golpe attuato contro i legittimi vincitori delle elezioni del gennaio 2006
- Per continuare la lotta contro l’embargo genocida

Per tutti questi motivi, per ricordare il 60° anniversario della Nabka, per protestare contro la Fiera Internazionale del Libro dedicata ad Israele ci ritroveremo a Torino sabato 10 maggio.
Aderiamo a tutte le iniziative di protesta contro la Fiera del Libro, ma vogliamo mettere la situazione di Gaza al centro della mobilitazione.
L’embargo, il lento genocidio che si sta consumando, è infatti il più grande atto di accusa sia nei confronti dello stato sionista che di chi in Italia sottolinea ogni giorno il proprio integrale sostegno ai criminali israeliani.
Chi ha voluto dedicare ad Israele la Fiera ha compiuto una chiara operazione politica ed ideologica. Rovesciamogliela contro partendo dalla denuncia dei crimini che questo stato sta compiendo.
Iniziamo a rispondere da Torino – città gemellata con Gaza – ad una politica sorda verso gli oppressi e servile con gli oppressori.

TORINO
Sabato 10 maggio – ore 10-14
Centro Italo Arabo Dar al Hikma
Via Fiocchetto 15
(zona Porta Palazzo)

ASSEMBLEA - MANIFESTAZIONE

Interverranno tra gli altri:
Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza
Giulietto Chiesa, giornalista e parlamentare europeo
Gianni Vattimo, filosofo

Nel corso dell’assemblea è previsto un collegamento con Gaza, con l’intervento di un esponente del governo palestinese.

Promuovono:
Comitato Gaza Vivrà
Abspp – Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese

per le adesioni scrivere a:
info@gazavive.com
info@abspp.org

*************************

GAZA VIVRA’
Tour italiano di una delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza

Ci siamo.
Nei prossimi giorni Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato, e Sameh Habeeb, coordinatore dello stesso, saranno in Italia.
Si tratta di un importante risultato politico, frutto certamente della campagna internazionale di lotta contro l’embargo e di sostegno alla resistenza palestinese.
Il tour – che avrà luogo dal 29 aprile al 24 maggio – sarà una grande occasione per dare voce a Gaza, per conoscere la situazione direttamente da chi la vive sulla propria pelle, per rinnovare la solidarietà politica ed umana a chi resiste in questo luogo dove si consuma da mesi l’oppressione più grande, l’ingiustizia più manifesta.

Il tour toccherà 18-20 città. Ad oggi il calendario è definito solo fino a lunedì 12 maggio.
Comunicheremo il calendario completo, con l’indicazione delle sale, nei prossimi giorni.

Calendario degli incontri (prima parte):

- Martedì 29 aprile PERUGIA

- Mercoledì 30 aprile SPOLETO

- Giovedì 1 maggio POGGIBONSI (SI)

- Venerdì 2 maggio LUCCA

- Sabato 3 maggio GENOVA

- Domenica 4 maggio VICENZA

- Martedì 6 maggio FIRENZE

- Mercoledì 7 maggio BOLOGNA

- Giovedì 8 maggio REGGIO EMILIA

- Sabato 10 maggio TORINO

- Lunedì 12 maggio CASALE MONFERRATO (AL)

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Incontro con la cultura palestinese.

Università "La Sapienza" - 28 aprile.
Teatro Pasolini presso Residenza Universitaria Laziodisu – via Cesare de Lollis, 20
Incontro con la cultura palestinese - 28 aprile 2008: ore 16-19
Programma:
- fotografia (Palestine remembered, di D. Dubosc)
- cinema (The iron wall, di M.Alatar)
- letteratura (presentazione di Cento anni di cultura palestinese,
di I. Camera d'Afflitto, Roma, Carocci 2007)
- musica (concerto di musica tradizionale)
Interverranno i proff. Isabella Camera d'Afflitto, Goffredo Fofi, Paolo Matthiae, Biancamaria Scarcia Amoretti e la dottssa Miriam Abu Samra
Teatro Pasolini presso Residenza Universitaria Laziodisu – via Cesare de Lollis 20

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17 aprile 2008

Israele e dintorni.

Il massacro non va in onda.
Il telegiornale di prima serata della seconda rete Rai, in onda ieri alle 20:30, ha trasmesso vari servizi dall’estero, un’ampia pagina sulla visita del Papa in Usa, un servizio sul Myanmar ed uno sulla vicenda della bambina di 8 anni che ha chiesto il divorzio nello Yemen.

Last but not least, l’ineffabile Claudio Pagliara ha confezionato un bel servizio su una importantissima scoperta archeologica nei pressi del Muro del Pianto: fantastico.

Soltanto dai sottotitoli che scorrevano in basso sul teleschermo, l’utente dell’informazione pubblica poteva venire a conoscenza che, nel frattempo, l’esercito israeliano aveva allestito l’ennesima carneficina a Gaza, massacrando ben 18 Palestinesi in una sola giornata: in gran parte si trattava di civili inermi e, tra essi, vi erano due bambini e un cameraman della Reuters.

Ma, forse, Pagliara e i suoi colleghi di redazione non volevano turbare la serata agli Italiani con notizie di così poco conto…

L’11 settembre e il sostegno Usa a Israele.
Sempre ieri, nel corso di una conferenza all’Università Bar Ilan, il leader del Likud Benjamin Netanyahu ha avuto modo di dichiarare che Israele sta beneficiando “degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, e della lotta americana in Iraq”, in quanto questi eventi “hanno spostato l’opinione pubblica americana in nostro favore”.

I casi della storia...

La 135esima vittima.
Un aggiornamento sui terribili costi, in termini di vittime innocenti, dell’inaudito assedio imposto a Gaza e del rifiuto delle autorità israeliane di consentire l’uscita dalla Striscia persino ai malati gravi: ieri è stata toccata quota 135.

Le ultime vittime di questo crimine assurdo e inqualificabile sono la 22enne Suha Al Jumbass, morta lunedì di cancro, e due neonati, Nur al-Huda Khamis al-Kilani, di 7 mesi, morto per problemi muscolari, e Mohammad Ziyad al-Ejlah, di soli 63 giorni, morto per una rara patologia cardiaca.

In Israele si sostiene spesso che l’emergenza umanitaria sia una “invenzione” di Hamas – e così è anche per tanti sionisti di casa nostra – eppure la terribile situazione dei Palestinesi di Gaza è nota a tutti nel mondo, e si moltiplicano gli appelli e le dichiarazioni che denunciano questa vera e propria catastrofe, e invitano Israele ad aprire i valichi: da ultimi, quelli di John Ging, direttore dell’Ufficio operativo dell’UNRWA, il quale ha dichiarato che la vita quotidiana a Gaza è divenuta “insostenibile”, e di Karen Abu Zayd, Commissario generale della stessa organizzazione, secondo cui la situazione è “disastrosa”.

Lo stesso Ging, peraltro, la settimana precedente, non aveva esitato a dichiarare che il sistema sanitario a Gaza versa in uno “stato penoso”.

Ma la comunità internazionale continua incredibilmente ad assistere, senza far nulla, a questo assedio che costituisce un vero e proprio crimine contro l’umanità, garantendo in tal modo totale impunità ai carnefici israeliani.

La madre di tutte le colonie.
Tutte e 450 le abitazioni di Ofra, la “madre di tutte le colonie” nella West Bank, sono state costruite su terreni di proprietà privata di cittadini palestinesi.

Chi l’ha detto, Peace Now? Una qualche ong di tutela dei diritti umani? Radio Islam?

No, questo è quanto ha dichiarato quasi due mesi fa (esattamente il 25 febbraio), davanti alla Knesset, il vice premier israeliano Haim Ramon.

Secondo la trascrizione della seduta, resa nota dal quotidiano Ha’aretz, Ramon avrebbe anche aggiunto che la pressione sul governo tesa a permettere l’ulteriore espansione di Ofra, come di altre colonie della West Bank, non nasce da un reale fabbisogno abitativo, ma dalla volontà di porre in essere dei “fatti sul terreno” che rendano impossibile, nella pratica, il raggiungimento di un accordo di pace con i Palestinesi.

Dunque è ben noto, anche ad Israele, che buona parte degli insediamenti colonici è stata costruita su terreni di proprietà privata di Palestinesi, e gli Israeliani sono ben consci che le colonie, legali o illegali che siano (secondo la legge israeliana, perché tutte le colonie sono vietate dal diritto internazionale), costituiscono il più formidabile impedimento alla pace con i Palestinesi.

E, tuttavia, gli alacri coloni ebrei continuano a costruire le loro belle villette a schiera, nuovi progetti abitativi vengono autorizzati all’interno delle colonie, nuovi avamposti illegali spuntano qua e là, come funghi.

E poi ci si chiede chi non vuole la pace…

Anche Hitler è stato eletto democraticamente.
Il ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, si è recentemente recato in Qatar per partecipare alla Conferenza di Doha sulla democrazia.

In tale occasione, il Vice Presidente della Knesset, Ahmed Tibi, ha avuto modo di accusare Israele di discriminazione razziale nei confronti della minoranza araba, e di praticare l’apartheid nei Territori occupati.

In tutta risposta, Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beiteinu, ha chiesto la rimozione di Tibi dalla carica rivestita alla Knesset, e a chi gli ricordava che questi era stato eletto dall’assemblea democraticamente, ha risposto: “Anche Hamas è stato eletto democraticamente, e così pure Hitler”.

Si, è vero, Hitler è stato eletto democraticamente, e così pure Olmert…

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16 aprile 2008

Le regole dell'informazione "corretta" su Israele.

Dal sito Forumpalestina riportiamo questo interessante compendio delle regole che ogni buon giornalista deve seguire per potersi occupare con tranquillità (personale e lavorativa) di Israele e del medio oriente.

Regola numero 1 : In Medio Oriente sono sempre gli arabi che attaccano per primi, ed è sempre Israele che si difende. Quella israeliana è sempre una motivata rappresaglia.

Regola numero 2 : Gli arabi, palestinesi o libanesi non hanno il diritto di colpire civili : questo è terrorismo.

Regola numero 3 : Israele ha il diritto di colpire i civili arabi: questa è legittima difesa...

Regola numero 4 : Quando Israele uccide troppi civili, le potenze occidentali lo invitano alla moderazione. Questa si chiama « reazione della comunità internazionale » (e nemmeno questo sempre avviene, ormai, n.d.r.).

Regola numero 5 : I palestinesi e i libanesi non hanno diritto di catturare militari israeliani, anche se il loro numero non supera i tre soldati.

Regola numero 6 : Gli israeliani hanno diritto di rapire quanti palestinesi vogliono (circa 10.000 prigionieri al momento, 300 dei quali ragazzini). Non hanno nessun limite e non devono produrre nessuna prova della colpevolezza delle persone rapite. Basta che pronuncino la parola magica « terrorista ».

Regola numero 7 : Quando dite "Hezbollah", bisogna far sempre seguire l’espressione : « sostenuti dalla Siria e dall’Iran ».

Regola numero 8 : Quando dite Israele, non bisogna mai aggiungere « sostenuto dagli USA, dall’Italia e dall’UE » perchè potrebbe far intendere che si tratti di un conflitto squilibrato.

Regola numero 9 : Non parlare mai di « territori occupati », nè di risoluzioni dell’ONU, nè di violazioni del diritto internazionale, nè di convenzioni di Ginevra. Questo rischia di turbare i telespettatori e i radioascoltatori.

Regola numero 10 : Gli Israeliani parlano italiano meglio degli arabi : è per questo che gli si da la parola ogni volta che sia possibile, Così possono spiegare le precedenti regole (dalla 1 alla 9).

Regola numero 11 : Se non siete d’accordo con queste regole o se ritenete che favoriscano una delle parti in conflito a scapito dell’altra… ebbene siete dei pericolosi antisemiti.
Benché la stragrande maggioranza dei giornalisti della carta stampata e della televisione si attengano scrupolosamente a questi dettami di buon giornalismo, i sionisti di casa nostra non si mostrano mai soddisfatti dell'informazione che viene data in casa nostra sulle "prodezze" compiute quotidianamente da Israele a danno del popolo palestinese.
E così accade che il sito Informazionecorretta (un nome, un programma!), dopo aver stabilito che la redazione dell'Ansa non fa altro, da sempre, che diffondere "spazzatura su Israele", invita i propri lettori che vivono in Israele e che conoscono il giornalista Aldo Baquis "a chiedergli il perchè del suo comportamento": in maniera amichevole, s'intende.
Perchè l'unica motivazione che spinge la redazione di Informazionecorretta è quella, senza dubbio lodevole, di "stanare" la redazione dell'Ansa e "metterla di fronte alle sue responsabilità".
Al mio Paese, questa si chiama intimidazione, forse in Israele (e nella redazione di Informazionecorretta) si tratta di una pratica normale.

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11 aprile 2008

L'interpretazione del fenomeno terroristico e le politiche Usa in medio oriente.

In questi ultimi anni, all’interno del mondo arabo, si è assistito ad una impennata dei sentimenti anti-americani, in conseguenza soprattutto delle scelte operate dall’amministrazione Usa a partire dall’11 settembre 2001.

In questo, il motivo preponderante è rappresentato dalla tragedia irachena, cinque anni di guerra devastanti che hanno portato morte e distruzione, favorito l’ascesa dell’Iran, provocato ulteriori lacerazioni nel mondo arabo.

Ma a ciò deve aggiungersi, come elemento non secondario, il perseverare di una errata interpretazione del fenomeno del terrorismo internazionale, che impedisce agli Usa di trovare una soluzione a questo spinoso problema e, nel contempo, di individuare una politica estera efficace per il medio oriente.

Su questo argomento, da segnalare l’articolo di Ammar Ali Hassan, pubblicato il 15 febbraio sul quotidiano degli Emirati Arabi Uniti al-Bayan, qui proposto nella traduzione offerta dal sito arabnews.

L’interpretazione americana ristretta del fenomeno terroristico.

Recentemente il Pentagono ha formulato le accuse nei confronti di 6 prigionieri di Guantanamo sospettati di essere direttamente coinvolti negli attacchi dell’11 settembre. Ciò significa che ad attenderli c’è la pena di morte.

Fin qui non vi è nulla di nuovo, malgrado le aspre critiche rivolte contro i tribunali militari di Guantanamo che hanno formulato le accuse. Essi rappresentano i primi tribunali americani per crimini di guerra dai tempi della seconda guerra mondiale, ed operano in base ad una legge approvata dal Congresso nel 2006, dopo che la Suprema Corte americana li aveva abrogati nella loro forma iniziale.

A destare stupore è invece ciò che è emerso dalle motivazioni dell’accusa, dalle dichiarazioni di alcuni responsabili americani a margine di questo evento, e dalla copertura che di esso hanno dato i mezzi di informazione. Tutte queste reazioni hanno messo in evidenza che la visione americana del fenomeno terroristico internazionale – imprescindibilmente legato, secondo Washington, al “revival islamico” – non è cambiata, malgrado i difetti e le lacune che questa visione unilaterale ha dimostrato nella realtà dei fatti.

Dopo la svolta rappresentata dall’11 settembre, tre diverse versioni dell’interpretazione – occidentale in generale, ed americana in particolare – dell’ascesa del “fenomeno islamico” in Medio Oriente hanno reciprocamente lottato per affermarsi. Queste tre versioni, ciascuna caratterizzata da numerose lacune, riguardavano essenzialmente l’aspetto internazionale del fenomeno islamico, e delle sue manifestazioni distribuite più o meno su tutti e cinque i continenti sotto forma di una sfida alla più grande potenza economica e militare del mondo: gli Stati Uniti. Tale sfida era lanciata a più livelli, che si estendevano dal piano dei valori a quello delle politiche, e dal comportamento quotidiano alle strategie di lungo periodo.

La prima di queste tre versioni interpretative guardava al fenomeno terroristico di matrice islamica come ad una reazione alle esplicite politiche di Washington a sostegno di Israele – politiche che allo stesso tempo continuavano ad erodere i diritti degli arabi, se non addirittura ad umiliarli. Noam Chomsky era alla testa di coloro che avevano abbracciato questa visione.

La seconda versione parlava del “revival islamico” come del nocciolo di uno “scontro di civiltà” fra musulmani e Occidente. Samuel Huntington guidava coloro che seguivano questo orientamento, le cui “quotazioni” crebbero enormemente dopo gli attacchi terroristici di New York e Washington. Tale orientamento si fondava largamente sulla teoria dei due avversari irriducibili, gli Stati Uniti ed al-Qaeda, i quali dopo l’11 settembre sembravano corrispondersi perfettamente, nel momento in cui Bush parlava di “crociata” e Osama bin Laden ripeteva il suo discorso abituale sulla “guerra ai crociati”.

La terza versione considerava il “revival islamico” come una reazione culturale e psicologica – collegata ad ambienti politici, sociali, ed economici molto ampi – alla “modernità”, di cui l’Occidente era portatore e con cui aveva scosso gli ultimi residui del passato, in Medio Oriente e non solo. Paul Berman difese questa interpretazione delle presunte ragioni alla base del livello di tensione raggiunto fra l’ala violenta del “risveglio islamico” da un lato, e l’Occidente – ed in particolare gli Stati Uniti – dall’altro.

Queste interpretazioni erano state costruite essenzialmente sulla base dell’analisi dei discorsi dei leader di al-Qaeda prima e dopo l’11 settembre, e, pur dando spazio ad ipotesi stravaganti, facevano ogni sforzo per cercare di spiegare le cause dell’ascesa del fenomeno islamico, nei suoi due aspetti moderato e estremistico. Tali interpretazioni, tuttavia, non sono riuscite ad offrire delle risposte complessive e soddisfacenti a questo proposito.

In realtà, lo “shock della modernità”, lo “scontro di civiltà”, e la “vendetta contro gli Stati Uniti” non sono sufficienti a spiegare le reali motivazioni che hanno spinto Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri, ed i loro seguaci ad incamminarsi sulla strada dello scontro con gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda bin Laden, in particolare, questa terna di condizioni esisteva già quando egli era apparentemente un alleato degli Stati Uniti ai tempi del “jihad” contro l’Unione Sovietica in Afghanistan. Al-Zawahiri, dal canto suo, rimase impegnato per decenni a combattere il “nemico vicino”, ovvero il regime al potere in Egitto, e la sua posizione riguardo agli Stati Uniti non andava al di là di un forte risentimento psicologico derivante dall’aperto sostegno dato da Washington ad Israele da un lato, ed al regime egiziano dall’altro.

Senza dubbio, le politiche americane nettamente favorevoli ad Israele, ed ingiuste nei confronti degli arabi, hanno alimentato sentimenti di rancore in molti gruppi islamici di orientamento radicale o conservatore, ed hanno contribuito, insieme all’oppressione ed alla tirannia dei regimi arabi al potere, a spingere alcune fazioni del movimento islamico verso l’adozione della violenza, e poi verso la sua esportazione “all’estero” anche per quanto riguarda la definizione degli obiettivi, o – per essere più precisi – l’individuazione del “nemico”.

Ma vi è anche chi ha parlato di alcune caratteristiche strutturali che avrebbero spinto il settore più ampio del movimento islamico – soprattutto quello che assunse una dimensione internazionale – a proporsi come “alternativa strategica” ai poteri dominanti, sia a livello di ciascun paese arabo-islamico, sia a livello internazionale in qualità di forza mondiale alternativa e contrapposta.

L’Islam è infatti una “religione mondiale”, ed il suo testo fondante – il Corano – stabilisce dei concetti di natura “sovranazionale”, che vanno al di là dei confini rappresentati dal colore della pelle, dal sesso, dalla lingua, dal tempo e dallo spazio, facendo sì che l’unico criterio di distinzione fra gli uomini sia la “devozione a Dio”. L’Islam esorta alla “predicazione” – ovvero all’annuncio ed alla diffusione della religione islamica – ed al “jihad”, ovvero a resistere a qualsiasi aggressione rivolta contro i musulmani ovunque si trovino ed a proteggere le frontiere degli stati islamici.

Tale caratteristica strutturale ha determinato, nelle circostanze attualmente esistenti a livello mondiale, le condizioni che hanno spinto al-Qaeda a combattere il “nemico lontano”, ovvero gli Stati Uniti. Tale caratteristica, tuttavia, non produce di per sé – come invece ritengono alcuni ricercatori ed alcuni politici in Occidente – una violenza spontanea o organizzata.

Questa stessa caratteristica è infatti radicata nelle menti e nei cuori di tutti i musulmani, ma la stragrande maggioranza di essi non ha seguito la strada di al-Qaeda e dei gruppi estremisti che hanno fatto dell’Islam il loro slogan politico. Dunque, le tesi dello “scontro di civiltà”, che equivalgono ad identificare l’intero mondo islamico, senza alcun fondamento o giustificazione, come il “nemico”, non offriranno una soluzione efficace al problema del terrorismo, e non garantiranno la sicurezza degli Stati Uniti, né permetteranno a Washington di convincere il mondo che gli Stati Uniti sono il “timoniere della globalizzazione”.

La soluzione efficace consiste invece in un insieme di provvedimenti integrati, il primo dei quali deve essere la rinuncia degli Stati Uniti ad appoggiare l’aggressione israeliana al popolo palestinese, ed un impegno serio a dare soluzione all’annosa questione che riguarda questo popolo. Il secondo passo deve consistere nella rinuncia di Washington a sostenere regimi di governo non democratici nel mondo arabo, permettendo così un cambiamento politico ed un rinnovamento sociale dall’interno, che ponga fine all’impasse causata da questi regimi. Tale impasse ha suscitato, fra l’altro, un odio crescente nei confronti degli Stati Uniti, i quali sono stati considerati, nella letteratura delle avanguardie del movimento islamico, come i sostenitori e gli alleati di quei governi che reprimevano e schiacciavano tale movimento – una visione, questa, che è tuttora predominante.

Da ciò segue la necessità di aprire la strada ad un coinvolgimento e ad un’inclusione del movimento islamico, e non al suo allontanamento ed alla sua condanna, come invece accade ora. E’ questa la condizione per far sì che esso rinunci del tutto alla violenza, sia sul fronte interno che all’estero, e che riconosca e accetti le regole di un governo di carattere civile, fondato sull’alternanza al potere e sul rispetto della libertà di espressione.

Il terzo passo da compiere è quello di “approfondire la conoscenza della religione islamica”, invece di emarginarla o di combatterla – scelta, quest’ultima, che significherebbe andare incontro ad una furiosa resistenza. L’approfondimento di questa conoscenza deve essere affidato a religiosi e giurisperiti musulmani moderati che godano del sostegno della gente, e che siano all’altezza delle sfide del nostro tempo, e non da figure imposte dall’estero con la richiesta implicita di modificare i metodi dell’insegnamento religioso.

Ammar Ali Hassan è direttore del Centro di Studi e Ricerche sul Medio Oriente, con sede al Cairo

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10 aprile 2008

Un motivo (tra i tanti) per non votare Pdl.

Il 13 e 14 aprile prossimi gli Italiani saranno chiamati al rinnovo delle assemblee legislative e, conseguentemente, a scegliere chi governerà per i prossimi cinque anni il Paese.

In un newsgroup ho trovato questo divertente slogan elettorale, opportunamente “ritoccato”: la Sinistra ha messo in ginocchio il Paese, la Destra lo porterà al … Muro del Pianto!

Ci si riferisce qui alla presenza qualificante nelle liste del Pdl di Fiamma Nirenstein e di Alessandro Ruben, consigliere dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e Presidente della Sezione Italiana della Anti Defamation League (ADL), la nota organizzazione che costituisce uno dei principali pilastri della Israel Lobby negli Usa e nel mondo.

I due sono candidati al Senato, rispettivamente, in Liguria e nel collegio Piemonte 2, ed entrambi, almeno stando alle anticipazioni fornite dal quotidiano Il Giornale, hanno pressoché l’elezione in tasca.

Per carità, nessuno mette in discussione il diritto della Nirenstein e di Ruben ad essere candidati ed, eventualmente, eletti, né quello del Pdl di inserire nelle proprie liste esponenti della comunità ebraica italiana.

E, tuttavia, tale circostanza connota significativamente quelle che saranno le linee di politica estera di un ipotetico, futuro governo della destra italiana, ben delineate dalla stessa Nirenstein qualche tempo addietro sui tg della Rai: un ritorno ad una politica di “amicizia” con gli Usa – sullo stile di quella che ci ha portati a partecipare alla tragica avventura in Iraq – e, soprattutto, una politica di ulteriore avvicinamento e collaborazione con Israele.

Riesce davvero difficile capire come la politica estera italiana possa essere maggiormente schierata a fianco di Israele di come lo è oggi, dato che l’Italia – da sola o nell’ambito Ue – non ha mai fatto una piega di fronte ai recenti massacri di “Hot Winter”, alla continua espansione delle colonie, all’incredibile embargo a Gaza.

Ma siccome al peggio non c’è mai fine, è necessario recarsi alle urne e votare con coscienza: personalmente, chi scrive voterà (per questo ed altri motivi) per la Sinistra Arcobaleno, ma se vi scappa votate anche Pd, benché anche in questo partito non manchino gli agguerriti sostenitori di Israele e dei suoi crimini raccolti sotto le bandiere della “Sinistra per Israele”.

E benché persino il candidato premier del Pd abbia avuto modo, recentemente, di giustificare il muro dell’apartheid israeliano come misura puramente “difensiva”, sulla stregua della più trita propaganda sionista.

Dimenticandosi, tra le altre cose, del parere dell’Icj dell’Aja del 2004 – fatto proprio con voto dell’Assemblea Generale dell’Onu – che ha statuito come il muro sia contrario al diritto internazionale e ne ha chiesto la demolizione per la parte che oltrepassa la cd. green line.

Votate con coscienza dunque, ma votate!

Leggo in questi giorni, infatti, varie dichiarazioni ed appelli che invitano all’astensionismo e/o all’annullamento della scheda, ma la scelta del non voto, storicamente, è sempre risultata perdente.

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Aggiornamento campagna "Gaza vivrà".

GAZA VIVRA’
Campagna per la fine di un embargo genocida

info@gazavive.com
http://www.gazavive.com/

1) LA VOCE DI GAZA
Tour italiano di una delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza

Finalmente è possibile.
Per la prima volta da quando è in atto l’embargo, una delegazione palestinese potrà lasciare la Striscia per raggiungere un paese europeo per parlare della situazione politica ed umanitaria di Gaza.
Le autorità italiane hanno infatti concesso il visto a Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato, ed a Sameh Habeeb e Ramy Abdu rispettivamente coordinatore e portavoce dello stesso.

Si tratta di un importante risultato politico, frutto certamente della campagna internazionale di lotta contro l’embargo e di sostegno alla resistenza palestinese.
Il tour – che avrà luogo dal 29 aprile al 26 maggio – sarà una grande occasione per dare voce a Gaza, per conoscere la situazione direttamente da chi la vive sulla propria pelle, per rinnovare la solidarietà politica ed umana a chi resiste in questo luogo dove si consuma da troppo tempo l’oppressione più grande, l’ingiustizia più manifesta nei confronti di un popolo.

Proprio per l’importanza di avere tra noi i rappresentanti del Comitato contro l'assedio, che da tempo sta informando quotidianamente sulla drammatica situazione della Striscia, stiamo lavorando per la costruzione di un tour ricco di appuntamenti e gestito unitariamente con tutte le realtà che sostengono la causa palestinese.

Data la ristrettezza dei tempi, la preparazione del tour è ormai ad un punto molto avanzato. Resta tuttavia la possibilità di aggiungere qualche tappa.
Chi è interessato lo comunichi SUBITO a info@gazavive.com


GAZA VIVRA’
Il 10 maggio a Torino assemblea per la fine dell’embargo

Lotta contro l’embargo genocida, ricordo del 60° anniversario della Nakba, contestazione e boicottaggio della Fiera Internazionale del Libro dedicata ad Israele: tutti questi temi di incroceranno e si incontreranno nel prossimo mese di maggio a Torino.

Aderiamo a tutte le iniziative di protesta contro la Fiera del Libro, ma siamo anche convinti della necessità di mettere la situazione di Gaza al centro della mobilitazione.
L’embargo, il lento genocidio che si sta consumando, è infatti il più grande atto di accusa sia nei confronti dello stato sionista che di chi in Italia – e lo stiamo vedendo abbondantemente anche in questa squallida campagna elettorale – sottolinea ogni giorno il proprio integrale sostegno ai criminali israeliani.
Chi ha voluto dedicare ad Israele la Fiera ha compiuto una chiara operazione politica ed ideologica. Noi dobbiamo rovesciargliela contro partendo dall’evidenza dei crimini che questo stato sta compiendo.
Anche a Torino daremo dunque la parola a Gaza.

TORINO
Sabato 10 maggio, ore 10 – 14
Aula Magna Istituto Avogadro
Corso San Maurizio
ASSEMBLEA – MANIFESTAZIONE

Interverranno tra gli altri:
Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza
Giulietto Chiesa, giornalista e parlamentare europeo
Gianni Vattimo, filosofo

Nel corso dell’assemblea è previsto un collegamento in videoconferenza con Gaza, con l’intervento di un esponente del governo palestinese.

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3 aprile 2008

I semi dell'odio.

Tratto da arabnews, quello che segue è un articolo pubblicato il 6 marzo scorso su al-Ahram Weekly, l'edizione in lingua inglese dell'omonimo quotidiano egiziano, che analizza dal punto di vista arabo i problemi dell'immigrazione, delle disuguaglianze tra il nord e il sud del mondo, della difficoltà che incontrano le minoranze musulmane ad integrarsi nel continente europeo.
Una interessante e diversa prospettiva di un drammatico problema con cui oggi stentiamo a confrontarci efficacemente.
I semi dell'odio.
Vi è una sinistra connessione fra l’ascesa di sentimenti anti-musulmani in Occidente e la tiepida reazione alla plateale campagna di sterminio che Israele ha scatenato contro i palestinesi a Gaza. Dietro la maschera della libertà di espressione, alcuni media ed alcuni responsabili politici dell’Europa Occidentale, incluso di recente il ministro degli interni tedesco Wolfgang Schaeuble, hanno cercato di diffamare l’Islam e i suoi simboli, definendolo come una cultura di crudeltà e terrorismo. In Europa l’Islam è ormai diventato facile bersaglio di vignettisti, politici ultraconservatori, e specifici gruppi di interessi. Questo atteggiamento fornisce una facile copertura ad Israele, che può impunemente continuare il suo massacro di palestinesi a Gaza.

L’Europa Occidentale si trova sotto il sortilegio di un’ondata neoconservatrice giunta attraverso l’Atlantico dagli Stati Uniti, dopo l’11 settembre. Germania, Francia, Olanda e Gran Bretagna sono guidate da governi conservatori che vedono l’Islam come un nemico. Gli episodi terroristici in Spagna e Gran Bretagna, l’immigrazione clandestina, gli effetti che una manodopera non specializzata e a basso costo ha avuto sul mercato del lavoro, e la resistenza degli immigrati all’assimilazione culturale forzata, continuano e creare tensioni sociali e problemi politici. Allo stesso modo, per i musulmani arabi e non arabi l’Europa Occidentale non è esattamente quel crogiolo di culture che accoglie gli stranieri, dà loro uguali opportunità, ed accetta un lento processo di integrazione che può richiedere più di una generazione per essere portato a termine.

Per generazioni l’Europa ha sofferto le conseguenze dell’intolleranza etnica e religiosa esacerbata dalla competizione coloniale e dalla guerra. Nel redigere la Carta delle Nazioni Unite alla fine della seconda guerra mondiale, le potenze occidentali parlarono della necessità di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, ovvero dalla guerra causata dagli europei, “che per due volte nella nostra epoca ha portato indicibile dolore all’umanità”. La Dichiarazione di Helsinki del 1975 pose fine alle secolari guerre, dispute, e rivendicazioni territoriali europee. Ma le ambizioni coloniali nei confronti dei paesi in via di sviluppo rimasero inalterate, anche se dissimulate sotto forme differenti, mirando a quei paesi ricchi di risorse naturali, e soprattutto di petrolio. Le ex potenze coloniali esportarono le loro guerre, insieme al loro “problema ebraico”, in direzione di vulnerabili paesi in via di sviluppo, dove l’instabilità forniva una scusa per intervenire. Secondo la prospettiva araba, Israele fu creato come una personificazione del colonialismo – una entità razzista e violenta appoggiata dall’Occidente, che promuove l’instabilità e la dominazione coloniale nella regione mediorientale. Nei passati 60 anni, Israele ha sparso i semi della violenza che continueranno a produrre il loro orrendo raccolto ancora per decenni.

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno portato avanti l’agenda della globalizzazione, che prevedeva l’apertura dei confini, la diffusione del libero mercato, la mobilità delle persone e della manodopera, il libero flusso degli investimenti, la deregolamentazione finanziaria, e l’eliminazione delle barriere commerciali. La tolleranza, la non discriminazione, e l’accettazione dell’ “altro” furono introdotte come i puntelli politico-ideologici del nuovo mondo post-comunista e globalizzato degli anni ’90 ed oltre. Ora, tuttavia, abbiamo esempi a profusione per mostrare che il nuovo approccio alle relazioni internazionali è stato progettato in primo luogo per servire il desiderio occidentale di espandersi verso nuovi mercati, mentre non sono stati offerti vantaggi equivalenti ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, nel mondo in rapida evoluzione del XXI secolo, la Cina è emersa come una nuova potenza, raccogliendo molti dei benefici della globalizzazione, ed entrando a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, mentre i prezzi petroliferi alle stelle hanno ridotto il vantaggio di cui l’Occidente godeva in precedenza. Solo nel commercio delle armi e nella tecnologia avanzata l’Occidente mantiene tuttora un vantaggio. In questo contesto, gli inviti alla tolleranza, alla non discriminazione, ed all’accettazione dell’ “altro” sollevano alcuni punti interrogativi, soprattutto con l’ascesa del neo-sciovinismo in Europa e del neo-conservatorismo negli Stati Uniti.

La partnership euro-mediterranea proclamata dalla Dichiarazione di Barcellona nel 1995 era apparentemente costruita su tre pilastri: una partnership politica e di sicurezza, una partnership economica e finanziaria, ed un terzo livello dedicato allo sviluppo di questioni sociali e culturali. Questa partnership avrebbe dovuto essere implementata attraverso il cosiddetto processo di Barcellona. Tale processo sembra essersi ormai ridotto alla raccolta ed alla condivisione di informazioni di intelligence riguardo a potenziali atti terroristici, ed al tentativo di bloccare l’immigrazione clandestina.

Nel momento in cui l’Europa Occidentale non ha alcuna tradizione di diversità etnica, ed i non europei vengono accettati soltanto per la necessità di risarcire il debito lasciato dall’eredità coloniale, i conflitti politici e sociali diventano inevitabili. I musulmani, la nuova “bestia nera” dell’Europa intollerante, hanno ancora molta strada da fare per raggiungere un equilibrio fra le loro origini culturali e le norme delle loro società di adozione. E’ un compromesso che dovranno raggiungere se vorranno fondersi con le società europee, che per secoli abbracciarono la cultura della guerra, del colonialismo, e della xenofobia.

L’Islam radicale è un fenomeno che emerse come meccanismo di autodifesa contro le brutali forze del neocolonialismo e del predominio. Quando combatté l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, venne celebrato come guerra santa islamica. Quando si oppose all’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq, fu condannato come terrorismo. In entrambi i casi non fu l’Islam della maggioranza, ma solo una tendenza transitoria che fu invocata per respingere l’aggressione straniera. Per Israele ed i suoi alleati razzisti, dipingere l’Islam come una minaccia globale degna di essere temuta e odiata significa inculcare quegli stessi sentimenti che scatenarono alcune delle forze più oscure della storia moderna, con dolorose conseguenze. Israele ed i suoi sostenitori si basano esclusivamente sull’uso della nuda forza militare. La superiorità militare ha creato imperi, ma li ha anche distrutti. L’eterna lezione della storia è che “chi vive colpendo di spada, ugualmente muore di spada”.

Ayman el-Amir è un giornalista egiziano; è stato corrispondente da Washington per il quotidiano “al-Ahram”; è stato anche direttore della radio e della televisione dell’ONU a New York
Titolo originale:
[1]
Seeds of hatred

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2 aprile 2008

Guai a chi tocca Israele!

Non vi è quasi più limite, ormai, ai tentativi di mettere il bavaglio e di censurare ogni legittima espressione di dissenso verso le politiche assassine e i crimini di guerra perpetrati quotidianamente da Israele a danno del popolo palestinese.
Con la ormai celebre argomentazione dell'antisemitismo che si traveste da antisionismo si mira ad impaurire e a criminalizzare chi manifesta il proprio dissenso all'occupazione militare, al neocolonialismo, alle politiche di pulizia etnica e di discriminazione razziale di questo "faro di civiltà" del medio oriente.
Chi osa proporre un semplice boicottaggio alla Fiera del Libro di Torino viene insolentito e minacciato, contrariamente a chi sostiene un boicottaggio di ben altra portata ai danni della Cina, di cui nessuno mette in discussione la legittimità, ma semmai l'opportunità.
Chi manifesta pubblicamente e pacificamente il proprio sostegno alla causa palestinese deve sopportare ogni sorta di provocazioni e di violenza.
Mentre la lobby ebraica dell'informazione mette a tacere ogni notizia che possa minimamente mettere in cattiva luce lo Stato israeliano e i suoi cittadini ebrei.
Così accade che si dia ampio risalto alla notizia del pupazzo che uccide Bush sulla tv di Hamas, ma si tace dell'uccisione a sangue freddo di un Palestinese ad opera di un colono, che per questa "prodezza" viene addirittura premiato con 1.800 shekel da un gruppo rabbinico di estrema destra.
Così come si tace del rabbino che incita i propri concittadini ad "appendere ad un albero i figli del terrorista che ha compiuto l’attacco alla yeshiva Mercaz Harav”.
Ma nessuna tecnica propagandistica e nessun bavaglio censorio riusciranno mai a lavare la bandiera israeliana dal sangue palestinese di cui è macchiata.
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Provocazione sionista e poliziesca a Milano
Milano: sabato 29 marzo, all'interno della campagna nazionale di boicottaggio del governo israeliano nel ruolo di ospite d'onore alla fiera del libro di Torino, si è tenuta un iniziativa di controinformazione in preparazione del corteo nazionale del 10 maggio.
Il comunicato del centro sociale Vittoria:
Il presidio, con continui interventi al megafono, un volantinaggio di massa e l'affissione di striscioni per tutta la piazza, si è svolto davanti alla Feltrinelli di piazza Piemonte per denunciare la sua partecipazione alla fiera del libro, avallando cosi di fatto la legittimazione del governo terrorista israeliano e l'occupazione militare della Palestina e le sue politiche genocide e di apartheid.
Il presidio è stato oggetto, durante tutto il pomeriggio, di continue provocazione da parte di componenti della comunitè ebraica milanese a cui non abbiamo risposto se non con interventi politici di denuncia dell'arroganza e della violenza verbale del sionista di turno incapace di rispondere al carico di responsabilitè criminali del governo israeliano.
Nel tardo pomeriggio però le provocazioni hanno raggiunto un livello insostenibile quando un militante sionista ha platealmente strappato uno striscione di 10 metri su cui c'era la scritta "con il popolo palestinese che resisterà".
A questo punto, all'avvicinarsi dei compagni e delle compagne per allontanare il provocatore, la polizia presente ha caricato a freddo il presidio ferendo al volto e al torace con manganellate e colpi di casco alcuni dei nostri compagni e compagne.
Denunciamo con forza questa provocazione combinata che fa capire come Israele sia e rimanga il nervo scoperto e intoccabile di una politica di aggressione imperialista in tutta l'area mediorientale.
Ribadiamo che siamo e saremo sempre a fianco del popolo palestinese in lotta per la propria autodeterminazione e che in sintonia con la campagna nazionale di boicottaggio lavoreremo per essere in massa al corte nazionale del 10 maggio a Torino.
Boicottiamo Israele. Con il popolo palestinese che resiste.
I compagni e le compagne del Centro Sociale Vittoria

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1 aprile 2008

Per chi vuole andare in Palestina.

Dalla mailing list del meetup per Gaza, raccolgo e rilancio l'indicazione di Claudia La Barbera per chi fosse interessato a fare un viaggio in Palestina.
Si tratta delle iniziative organizzate dall'associazione cattolica Pax Christi nell'ambito della campagna "Ponti e non Muri", iniziative che si ripetono ogni anno e che rappresentano, a detta di chi vi ha partecipato, esperienze meritevoli di essere vissute.

Tra i "murati vivi" dei Territori Occupati
Pace, pace! Ma pace non c'è
Pax Christi In Palestina - viaggi 2008
E' possibile iscriversi fin da adesso in moda da agevolare la programmazione degli incontri di formazione pre partenza

1 - 15 AGOSTO 2008
Ricucire la pace. Nelle famiglie dei campi profughi, per una memoria condivisa della Nakba. Per giovani-adulti
15 - 22 AGOSTO 2008
Pellegrinaggio di giustizia. Condivisione con le comunità cristiane della terrasanta sotto occupazione da 40anni. Per adulti e famiglie.
24 OTTOBRE- 7 NOVEMBRE 2008
Tutti a raccolta! Campo-lavoro tra gli ulivi di Aboud. Per giovani-adulti
Le esperienze di RICUCIRE LA PACE e TUTTI A RACCOLTA prevedono DUE TRAINING di formazione obbligatori: per questo il termine ultimo per chiedere di partecipare è ENTRO IL 6 GIUGNO (week-end del 1° Training).

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Cena a Vicenza.

Un'ottima e meritevole iniziativa, per chi si trovasse a passare da Vicenza...
Salaam – Ragazzi dell’Olivo Comitato di Vicenza

Ti invita ad una serata in cui il piacere di stare insieme si accompagna al momento solidale

Cena palestinese straordinaria per il Remedial Education Center di Jabalia - Gaza - Sabato 19 aprile 2008 alle ore 20.00 presso la sala dell’oratorio parrocchiale di Anconetta (viale Anconetta 147 – Vicenza)
Il menu sarà in stile arabo-palestinese:
crudités con humus e salsine couscous e kufta (carne con verdure) o kebab dolci e the alla menta.
Il contributo richiesto è di 18 € a persona. I bambini fino a 10 anni gratis, da 11 a 15 a metà prezzo

Per meglio organizzare la serata ed evitare carenze o sprechi prenota la tua partecipazione per telefono o via e-mail entro mercoledì 16 aprile a:
Miriam 0444 530763
miriam.gag@alice.it
Annapia 0444 506048

Le prenotazioni saranno accettate fino ad esaurimento dei posti disponibili nella sala.

Come arrivare:
percorrere fino in fondo tutto viale Trieste, superare il passaggio a livello della ferrovia, proseguire per viale Anconetta. Dopo circa 700 m. sulla sinistra ci sono la Chiesa parrocchiale e l’Oratorio di Anconetta.
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Il Remedial Education Centre (R.E.C.)
è un’Associazione non governativa palestinese, a carattere umanitario e senza finalità di lucro.
Fondata nel 1993, il suo scopo principale è l’attività educativa con i bambini dai 6 ai 14 anni con difficoltà psicologiche e di apprendimento ed il coinvolgimento degli adulti che di loro si occupano.
L’attività riguarda programmi di recupero scolastico, ricreative, terapeutiche e di orientamento, di supporto alle famiglie, di studio e ricerca.
Il R.E.C offre annualmente i propri servizi a più di 350 bambini registrati presso l’associazione e a 5.000 bambini che frequentano le scuole elementari governative.
Ha quattro sedi, tre a Jabalia, la quarta a Rafah, a sud della Striscia di Gaza.
Si avvale di 45 operatori professionalmente qualificati: tutti lavorano con uno stipendio limitato, dal momento che i fondi dell’associazione sono costituiti da auto-finanziamento (tasse scolastiche dei bambini) e contributi di associazioni italiane (Salaam Ragazzi dell’Olivo- Comitato di Milano, Istituti Scolastici, Regione Emilia-Romagna, Associazione Papa Giovanni, ARCI, ANBA.S, Associazione Bambini di Jabalia, oltre ad alcuni Comuni italiani).
Salaam – ragazzi dell’olivo, Comitato di Vicenza, ha di recente contribuito al funzionamento del Centro con un contributo di 500 euro, ricavati dalla Cena palestinese del 27 ottobre scorso.

Perché un aiuto straordinario al R.E.C.?
Durante l'incursione dell'esercito israeliano via terra del mese di febbraio, la sede principale del REC è stata occupata e danneggiata. La stima dei danni supera i 15.000 euro.
Si possono trovare alcune testimonianze sull’accaduto e alcune foto dei danni sul blog di Salaam (post del 5 e dell’8 marzo 2008):
http://salaam-ragazzidellolivo.blogspot.com/
Altre foto dell’asilo gestito dal Centro sono nel sito: http://www.flickr.com/photos/10809827@N05

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