31 maggio 2008

Petizione per Khalid Amayreh.

Ricevo notizia di questa petizione in favore del giornalista palestinese Khalid Amayreh, impossibilitato a recarsi dalla Cisgiordania, dove risiede, in Germania per svolgere il proprio lavoro.

E questo a causa della solita segnalazione dello Shin Bet, dei soliti e imperscrutabili “motivi di sicurezza”.

Ora, non si riesce bene a capire come il fatto che un giornalista palestinese si rechi in Germania possa ledere in alcun modo la sicurezza di uno Stato che quotidianamente dimostra di essere alquanto “agguerrito”.

Ma quel che è più grave è il fatto che Israele si arroghi il diritto di decidere le sorti di un cittadino su cui, in teoria, non dovrebbe esercitare alcun tipo di autorità, che possa lederne impunemente diritti fondamentali quali quello alla libertà di movimento e il diritto di svolgere liberamente il proprio lavoro, mentre la comunità internazionale non interviene, quasi considerando “normali” tali violazioni.

E’ dunque importante, a mio avviso, sottoscrivere la petizione (a cui si accede dal link qui sopra), difendiamo i diritti dei Palestinesi ancora una volta conculcati da uno Stato la cui ferocia oppressiva non finisce mai di stupire.

Lift travel restrictions on palestinian journalist.

Il giornalista palestinese Khalid Amayreh, che vive in Cisgiordania, è stato invitato a una conferenza stampa in Germania. Come richiesto, ha presentato la domanda per ottenere tutti i necessari documenti di viaggio, compreso un visto che va rilasciato dall’ufficio di rappresentanza tedesco a Ramallah. Dopo le domande di routine sulle sue affiliazioni politiche, è stato accertato che non solo non fa parte di alcun partito, né è formalmente associato ad alcuna organizzazione, ma anche che non è mai stato arrestato né fermato dalle autorità israeliane. Al signor Amayreh è stato dunque concesso un visto d’ingresso in Germania. Tuttavia le autorità militari israeliane gli hanno rifiutato il permesso di lasciare la Cisgiordania. Nessun palestinese può viaggiare all’estero senza aver ricevuto questo permesso, altrimenti viene rispedito indietro una volta arrivato al confine di Allenby Bridge, controllato dagli israeliani.

Il signor Amayreh si è allora recato al suo Ufficio di Coordinamento Distrettuale a Dura, dove è stato informato che i suoi dati erano stati inoltrati allo Shin Bet (i Servizi di Sicurezza Generali) del governo israeliano. Due giorni dopo i servizi comunicavano all’ufficio palestinese che Amayreh aveva il “divieto di lasciare la Cisgiordania per ragioni di sicurezza”. Non sono state fornite ulteriori spiegazioni.

I suoi tentativi di ottenere il permesso di viaggio non hanno avuto successo neanche quando si è rivolto al Quartier Generale dell’Amministrazione Civile di Hebron, un edificio di metallo in cui si raccolgono le persone che hanno bisogno del permesso temporaneo anche solo per recarsi a Gerusalemme Est per ricevere cure mediche, e dove può capitare di trovarle accalcate ad aspettare il proprio turno per dieci ore e anche più, sotto lo sguardo vigile delle torri di guardia dell’esercito israeliano.

Neanche l’Ufficio Coordinamento Affari Civili della Cisgiordania è stato in grado di mediare a suo favore, perché anch’esso dipende completamente dalle decisioni prese dalla Sicurezza Israeliana senza fornire spiegazioni, prove né giustificazioni.
E non c’è infatti alcuna giustificazione per la violazione dei diritti umani e civili di quest’uomo e di tutte le altre persone che come lui si vedono negata la libertà di movimento senza alcuna spiegazione.
Le autorità di Occupazione, pur non esercitando alcuna sovranità sui cittadini dell’Autorità Palestinese, dettano ciò che bisogna fare di quei cittadini e il mondo sembra considerare la violazione dei loro diritti accettabile e normale prassi. Queste persone non sono pedine su una scacchiera, sono individui che chiedono le libertà basilari che tutte le democrazie sono tenute a fornire ai loro popoli.

L’Autorità Palestinese non esercita il proprio diritto di garantire le libertà civili ai propri cittadini, e li tratta come se dovessero sottostare ai capricci dell’Occupante.

Chiediamo che sia immediatamente rivista la decisione riguardante il signor Amayreh, così che possa ricevere i documenti che gli sono necessari per esercitare la propria libertà di spostamento, mettendolo in grado di continuare a lavorare per mantenere se stesso e la propria famiglia.

Chiediamo inoltre che l’Autorità Palestinese assuma una posizione che assegni alle libertà dei propri cittadini una priorità maggiore rispetto ai rischi “per la sicurezza" dichiarati dallo Stato di Israele.

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28 maggio 2008

L'infame trattamento dei prigionieri palestinesi.


Il sito Palestine Think Tank ci informa del caso incredibile di un prigioniero palestinese, Mahmoud Saeed Azzam, attualmente detenuto nella prigione di Shatta.

Azzam venne prelevato dagli Israeliani nel 1997 dalla sua casa nella città di Seelet Al Harthiya (Jenin) e portato nella prigione di Jalamah; durante la sua permanenza in questo centro di detenzione egli venne dapprima legato per le mani e le gambe ad una sedia molto piccola, con la testa coperta da un sacchetto puzzolente, ripetutamente minacciato che non avrebbe mai più rivisto la sua casa.

Successivamente, Azzam venne trasferito in una cella d’isolamento per 50 giorni, privo del diritto di rivolgersi ad un legale per ben tre settimane. Dopo due mesi, un ufficiale dell’intelligence gli comunicò l’intenzione israeliana di deportarlo in Giordania; all’inizio Azzam rifiutò ma, messo sotto pressione, il 28 dicembre del 1997 accettò di essere deportato, sebbene contro la sua volontà

Tuttavia, le autorità giordane rifiutarono di riceverlo, e così Azzam dovette tornare nelle prigioni israeliane, là dove langue da ben dieci anni senza aver subito alcun processo, con una gravissima violazione dei suoi diritti umani.

Naturalmente, quello di Mahmoud Azzam è un caso limite, ma la realtà delle carceri israeliane e il trattamento dei prigionieri palestinesi mostra una quotidianità fatta di maltrattamenti, abusi, degradazione, pessimo o nullo trattamento sanitario, violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo.

Secondo l’ultimo rapporto del Ministro della Sanità palestinese – presentato alla 61a Assemblea Generale della World Health Organization (WHO) – il numero dei detenuti arabi attualmente rinchiusi nelle carceri israeliane è pari a circa 11.500, distribuiti in 28 prigioni, campi, centri di detenzione e quant’altro; solamente in questi primi mesi del 2008 i Palestinesi arrestati ammontano a ben 2.700, tra cui 255 minori e 14 donne.

Di questi prigionieri, ben 920 si trovano nelle stesse condizioni di Mahmoud Azzam, e cioè sono incarcerati in regime di detenzione amministrativa, una autentica infamia israeliana che consente di trattenere le persone in carcere per diversi mesi – e come abbiamo visto anche per anni – sulla base di una procedura di sicurezza che prevede la detenzione senza comunicazione dei capi d’accusa e senza la possibilità di avere contatti con l’esterno, semplicemente sulla base di una segnalazione proveniente da qualche sottoscala dello Shin Bet.

Non v’è chi non veda, naturalmente, che detenere in carcere una persona sulla base di files segreti e senza che l’imputato compaia davanti ad un tribunale costituisce un’autentica negazione del diritto e una flagrante violazione dei diritti umani degli interessati.

I centri di detenzione peraltro, ad eccezione di uno, sono tutti situati all’interno del territorio israeliano, e tale circostanza costituisce anch’essa una violazione del diritto internazionale. Gli artt.49 e 76 della IV Convenzione di Ginevra, infatti, stabiliscono che i detenuti provenienti da territori occupati debbano essere ristretti in carcere all’interno dello stesso territorio occupato, e non possono essere trasferiti in centri di detenzione situati all’interno del territorio della potenza occupante.

Questa (ennesima) violazione del diritto internazionale da parte di Israele ha pesanti conseguenze per quanto riguarda il diritto dei detenuti di ricevere visite, e quello correlativo dei familiari ad andarli a trovare.

Spesso, infatti, alle migliaia di familiari, coniugi, parenti di Palestinesi incarcerati in Israele viene negato il permesso di entrare in Israele e recarsi nei luoghi di detenzione, naturalmente per le solite, ovvie ragioni di “sicurezza”: naturalmente, se Israele rispettasse le norme, un simile problema neppure si porrebbe.

Si arriva così ai casi limite quale è quello riportato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), il caso di una moglie il cui marito è in prigione da ben 23 anni, costringendola tra l’altro a crescere da sola ben sei figli. Thanai, è questo il nome della donna, fino a qualche tempo fa poteva visitare il marito due volte al mese, grazie ai programmi di visita gestiti dall’ICRC ma, a partire dal giugno del 2007, le autorità israeliane non le hanno più concesso di effettuare nemmeno una visita.

Per motivi di sicurezza…

Sono più di 900 i soli detenuti originari di Gaza che non ricevono visite dei loro parenti e familiari da circa un anno, come ha recentemente denunciato Christoph Harnisch, il capo della delegazione dell’ICRC in Israele e nei Territori palestinesi.

A ciò aggiungasi la totale mancanza e/o la pessima qualità del trattamento sanitario fornito agli oltre 1.300 Palestinesi detenuti, uomini e donne, che necessiterebbero di cure mediche e di assistenza.

I dottori che lavorano nelle prigioni israeliane sono gli unici al mondo che curano ogni malattia con una pastiglia di paracetamolo e un bicchiere d’acqua: il risultato, facilmente prevedibile, è che tra il 1967 e il 2007 ben 192 Palestinesi sono morti nelle carceri israeliane a causa di negligenza o di ritardate cure mediche, sei solo nel 2007.

Ma l’aspetto forse più scioccante e vergognoso della condizione dei Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è quello relativo ai minori.

Attualmente i Palestinesi minori di 18 anni detenuti nelle strutture dell’Idf o dell’Israel Prison Service sono ben 340 e, tra questi, 28 sono incarcerati in regime di detenzione amministrativa e 45 hanno un’età inferiore a 16 anni; in media, ogni anno, Israele arresta circa 700 Palestinesi di età inferiore a 18 anni, seimila sono stati arrestati dal 2000 ad oggi.

Il trattamento che gli Israeliani riservano a questi adolescenti, a volte poco più che bambini, viola sistematicamente ogni norma di diritto internazionale, incluse la IV Convenzione di Ginevra e la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 1989.

Secondo Defence for Children International, spesso i bambini arrestati subiscono lo stesso trattamento degli adulti, e ciò significa violenze durante la cattura e nel corso degli interrogatori, intimidazioni, isolamento.

Gli ordini militari fissano a 16 anni l’età adulta per i bambini palestinesi, mentre la legge israeliana fissa la responsabilità penale a 18 anni; è prassi, inoltre, determinare l’età del minore accusato al momento della sentenza invece che a quello dell’arresto, uno stratagemma che serve a processare come adulti dei ragazzini che, magari, avevano semplicemente tirato un sasso quando non avevano ancora 16 anni.

Questa è la qualità del regime carcerario e il rispetto dei diritti umani che Israele riserva ai Palestinesi catturati nel corso delle gite quotidiane di Tsahal nei Territori occupati.

Se consideriamo che almeno 650.000 Palestinesi, dal 1967 ad oggi, ha trascorso parte della sua vita nelle carceri israeliane (si tratta del 20% della popolazione palestinese), non riesce davvero difficile capire da dove nasca l’odio e il risentimento nei confronti di Israele.

E non solo da parte dei Palestinesi.

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21 maggio 2008

Le comuni radici giudaico-cristiane.

Giovedì scorso, nella cittadina israeliana di Or Yehuda (Tel Aviv), un gruppo di ragazzi ha dato alle fiamme decine di testi sacri cristiani … ecco come è andata.

Dopo aver saputo che in un quartiere della sua città alcuni missionari avevano distribuito “propaganda sacra”, il vice-sindaco di Or Yehuda, un ebreo ortodosso sefardita di nome Uzi Aharon, ha invitato gli allievi di una scuola rabbinica a sequestrare casa per casa i libri “sacrileghi”.

Tra questi, figuravano testi del Vecchio e del Nuovo Testamento e pubblicazioni in ebraico a sostegno della dottrina di Gesù che, una volta raccolti, sono stati bruciati tutti assieme in uno spiazzo nei pressi della sinagoga.

E’ stato il quotidiano Ma’ariv a denunciare con più virulenza la vicenda, pubblicando una foto del vice sindaco con in mano un Vangelo di fronte alle ceneri fumanti.

Uzi Aharon si è difeso così: “… Quei testi cristiani hanno leso i nostri sentimenti religiosi. Secondo la nostra ortodossia, un libro che incita contro gli ebrei può essere arso. Se c’è motivo di scandalo, esso scaturisce dalle attività dei missionari cristiani, che bruciano le anime di fedeli ebrei”.

I testi della “propaganda” sarebbero stati distribuiti nelle case dagli “Ebrei messianici”, un gruppo religioso che conta in Israele circa 10.000 adepti e che, pur osservando i riti ebraici, crede negli insegnamenti di Gesù. I loro più strenui nemici sono i membri dell’organizzazione ultra-ortodossa Yad Le’Achim, secondo i quali le attività dei missionari trascinano ogni giorno centinaia di persone dall’ebraismo al cristianesimo.

In molti hanno condannato il rogo di Or Yehuda, evocando gli eventi del 10 maggio 1933 nella Piazza dell’Opera di Berlino, la Bebelplatz, dove i nazisti bruciarono migliaia di libri.

C’è anche chi ha citato le profetiche parole di Heinrich Heine, poeta ottocentesco tedesco ed ebreo. Scrisse Heine che “quando si arriva a bruciare libri, poi si bruciano anche esseri umani”.

Al momento nessun esponente di governo o personalità rabbinica ha inteso accusare i responsabili dell’accaduto; degna di nota la dichiarazione di Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, secondo cui, se da un lato bisogna mostrare “rispetto” per i testi cristiani, dall’altro bisogna effettivamente sbarrare la strada alle attività missionarie in Israele.

Anche questo rientra nel preteso diritto alla “ebraicità” dello Stato di Israele?

(fonte: La Repubblica, 21 maggio 2008)

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20 maggio 2008

Più veloci di un missile!

Nonostante sia in un avanzato stato di negoziazione una tregua, naturalmente non ufficiale, tra Israele e Hamas, con la mediazione egiziana, l’aviazione israeliana non cessa la sua inesausta opera di individuazione e “neutralizzazione” dei “terroristi” che sparano colpi di mortaio e razzi Qassam contro il territorio israeliano.

Così, oggi, la Iaf ha compiuto tre incursioni contro obiettivi all’interno della Striscia di Gaza, uccidendo un ragazzino di 13 anni, un agricoltore e un miliziano di Hamas: un’ottima media, non c’è che dire!

Naturalmente, si è trattato di banali incidenti, colpa del destino cinico e baro se a essere maciullati sono stati due civili inermi ed innocenti, l’esercito israeliano cerca sempre, come è noto, di colpire i biechi “terroristi” e di preservare l’incolumità della popolazione civile.

Nel primo raid, infatti, gli aerei israeliani avevano lanciato un missile, nei pressi di Beit Lahiya, contro un gruppo di miliziani palestinesi che avevano appena lanciato dei razzi Qassam contro Sderot; come per incanto, tuttavia, i miliziani sono spariti e al loro posto sono apparsi alcuni civili ignari, rimasti vittime dell’esplosione: risultato, la morte del 13enne Majd Abu Aukal, e il ferimento (grave) di altri due Palestinesi.

Caspita, che rapidità nel fuggire questi terroristi palestinesi, più veloci di un fulmine, pardon, di un missile!

Nel secondo raid, a essere assassinato è stato un povero agricoltore di 32 anni, anche lui colpito in pieno da un missile israeliano che, in realtà, doveva essere indirizzato ad un gruppo di Palestinesi che avevano sparato alcuni colpi di mortaio contro il territorio israeliano: anche qui, i “terroristi” si sono volatilizzati in un niente, e il loro posto è stato preso dall’ignaro agricoltore, che sfortuna!

Al terzo tentativo, finalmente, a sud di Gaza City la Iaf è riuscita nell’intento di uccidere un militante di Hamas, che non stava lanciando o sparando alcunché, ma sempre un “terrorista” era, e dunque meritava certamente di morire.

La propaganda israeliana dipinge da sempre Tsahal come l’esercito più “morale” al mondo, che fa l’impossibile per colpire i “terroristi” palestinesi evitando di recare danno alla popolazione civile.

Negli anni, a questo scopo, l’oliata macchina propagandistica israeliana si è inventata ogni sorta di scusa e giustificazione atta a coprire quelli che, in realtà, erano e restano crimini di guerra e gravi violazioni del diritto umanitario.

Si è passati così, negli anni, dai soldati che avevano sparato “in aria” (dal che nacque l’amara barzelletta dei bambini palestinesi “volanti”) ai Palestinesi che si facevano scudo dei loro bambini, adesso la scusa che va per la maggiore è che i soldati (o gli aerei) stavano mirando a “un gruppo di terroristi che stavano sparando colpi di mortaio e/o razzi Qassam”, bla, bla, bla…

Ma la verità, naturalmente, è un’altra, ed è che l’esercito israeliano viola costantemente ogni norma e ogni precauzione posta dal diritto umanitario a tutela della popolazione civile in zone di guerra, facendo strame, in particolare, dei principi fondamentali della proporzionalità (intesa come proporzione tra il vantaggio militare che si presume di ottenere dall’azione e il danno prevedibile per i civili innocenti) e della distinzione (principio che vorrebbe che si distinguesse, in un attacco militare, tra civili e armati, evitando di recar danno ai primi, e che imporrebbe, in caso di dubbio, di rinunciare all’attacco).

Si spiegano così episodi gravissimi, veri e propri crimini di guerra spietati ed efferati, purtroppo passati nell’indifferenza e nella mancanza di reazioni da parte della comunità internazionale, quali l’uccisione della 33enne Wafa Shaker el-Daghma, avvenuta il 7 maggio all’interno della sua casa e davanti ai suoi tre figli, l’uccisione della 40enne Meyasar Metliq Abu Me’tiq (28 aprile), anch’essa colpita da un missile all’interno della sua casa e uccisa insieme a quattro dei suoi bambini (di età compresa tra 1 e 5 anni), l’uccisione di 13 Palestinesi (tra cui 8 bambini e un giornalista con scritto “press” davanti, di dietro e di lato), avvenuta il 16 aprile nei pressi del villaggio di Juhor al-Dik.

E, d’altronde, a dimostrare i crimini di guerra e le uccisioni indiscriminate operate da Tsahal sono le statistiche di B’tselem che mostrano come, dal 1° gennaio al 30 aprile di quest’anno, l’esercito israeliano abbia ucciso in territorio palestinese 174 militanti armati e 172 civili disarmati: ovvero un uccisione su due riguarda un civile inerme, e questo senza contare le esecuzioni “mirate” e i loro famigerati “danni collaterali”.

Con l’uccisione del povero Majd, salgono a 62 i bambini e i ragazzini massacrati dai macellai di Tsahal nei Territori occupati, 56 nella sola Striscia di Gaza: in tutto il 2007 erano stati “solo” 50.

Ma la colpa, naturalmente, è di questi maledetti “terroristi” che scompaiono più veloci di un missile!

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Diritto al ritorno.


Diritto al ritorno: si certo, su Marte!
di Adel Saead - Alnadwah Newspaper, Saudi Arabia

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19 maggio 2008

Libano: la pericolosa strategia Usa.

Uno dei mantra della politica di casa nostra è quello secondo cui Israele sarebbe l’unica democrazia in medio oriente, dimenticandosi regolarmente del Libano che è un regime parimenti democratico (e meno razzista…).

Una democrazia che, tuttavia, è estremamente fragile e zoppicante, in quanto il modello di convivenza libanese, basato sull’equilibrio dei vari gruppi confessionali, rischia periodicamente di crollare sotto i colpi delle pesanti ingerenze esterne dei vari attori che operano nella regione.

Ne costituiscono l’ennesima testimonianza gli scontri armati che hanno portato le milizie di Hezbollah a occupare temporaneamente Beirut, fino alla revoca delle decisioni governative che avevano costituito la scintilla delle violenze.

Spicca, in particolare, come sottolinea l’articolo del Guardian riportato qui di seguito nella traduzione offerta da Arabnews, l’incredibile incompetenza e il dilettantismo della politica estera Usa, che tanti guasti ha già determinato in medio oriente.

09/05/2008
Ancora una volta, l’amministrazione Bush si è prestata ad un gioco pericoloso nel Levante, senza rendersi conto né dei potenziali costi – umani e strategici – della sua mossa azzardata sul lungo periodo, né che esisteva la possibilità di trovare un’alternativa più saggia.

Il rischio più recente che essa si è assunto in Libano è stato, naturalmente, quello di incoraggiare – alcuni dicono ‘di richiedere’ – Israele a proseguire la sua distruttiva guerra di 33 giorni contro Hezbollah (e contro il Libano) nel luglio del 2006. Tale mossa ha fallito in modo clamoroso su vari fronti – ancor più clamorosamente giacché, come osservava il primo rapporto Winograd, esisteva un’alternativa molto più ragionevole alla guerra aperta, un’alternativa incentrata sul coordinamento di una forte pressione diplomatica nei confronti di Hezbollah stesso, che facesse leva su blitz militari mirati e distribuiti nel tempo, nonché sullo sfruttamento delle dinamiche interne libanesi, per far crollare gradualmente, sul lungo periodo, la motivazione di Hezbollah a possedere armi indipendentemente dallo Stato.

Alcuni mesi più tardi, l’amministrazione Bush ha messo in moto un’altra strategia pericolosa, per la quale i suoi alleati locali non erano pronti: il rovesciamento violento di Hamas a Gaza ad opera di una milizia legata all’ex “uomo forte” di Gaza, Mohammed Dahlan.

Ora il Libano si trova di nuovo in prima linea, e al centro dello scacchiere, con la decisione concertata, da parte della coalizione di partiti filo-americani (il fronte “del 14 Marzo”), di utilizzare ciò che rimaneva del “potere dello Stato” per affrontare direttamente Hezbollah sulla questione chiave della sua forza militare indipendente. Questa sfida, intervenuta dopo una serie di incontri tra i leader del fronte “del 14 Marzo” e alcuni responsabili statunitensi, si è posta essenzialmente come una messa sotto accusa della rete telefonica privata di Hezbollah, che era riconosciuta da tempo e tacitamente accettata. Ma, così come il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha sottolineato ieri, e come i leader del fronte “del 14 Marzo” sanno fin troppo bene – il sistema di telecomunicazioni del partito si trova al centro della sua strategia militare. Infatti è stato il motivo principale per cui Hezbollah è riuscito a mantenere un livello di coordinamento senza precedenti durante la guerra del 2006, malgrado gli sforzi estremamente sofisticati degli israeliani volti a rendere inefficace questo coordinamento.

Il fronte “del 14 Marzo” sembra aver annunciato chiaramente e drammaticamente la sua volontà di effettuare un “cambiamento strategico nel suo modo di trattare con Hezbollah”, come si è espresso un autore del quotidiano filo-governativo “al-Mustaqbal” in un commento pubblicato ieri – o come ha affermato il commentatore libanese Michael Young, in maniera ancora più pregnante, parlando di “un divorzio libanese”.

Ma questo cambiamento è davvero in atto nella misura che si crede? E – cosa forse ancora più importante – le forze “del 14 Marzo” ed i suoi alleati americani hanno correttamente calcolato che un livello limitato di violenza, di natura fortemente settaria, sia (a) sostenibile, evitando allo stesso tempo il caos totale, e (b) abbastanza forte da suscitare un disaccordo politico fatale in grado di separare gli sciiti libanesi dai loro sostenitori cristiani?

L’idea di utilizzare la questione della rete telefonica, nonché le affermazioni circa presunte telecamere che sorveglierebbero l’aeroporto di Beirut, come strumenti per isolare Hezbollah, per sollevare contrasti con la coalizione “del 14 Marzo”, e per spaventare i cittadini libanesi con la prospettiva che essi potrebbero essere “forse” nel mirino (come si è espresso Walid Jumblatt del fronte “del 14 Marzo”) era apparentemente una strategia intelligente; soprattutto tenuto conto delle elezioni parlamentari dell’anno prossimo, della continua pressione per eleggere finalmente un presidente, e delle recenti defezioni di importanti leader cristiani in precedenza allineati con l’opposizione.
Ma il problema di questo approccio, come osservava il giornalista libanese Rafik Khouri sul quotidiano “al-Anwar”, è che il fronte “del 14 Marzo” “non può ritrattare, o sarebbe praticamente finito, e non può andare sino in fondo con le sue direttive, a causa dei rapporti di forza sul campo”. L’esercito, come ha chiarito il suo comandante ieri, non intende e non può intervenire per conto del fronte “del 14 Marzo” al fine di eseguire decisioni “di stato” – soprattutto riguardo a questioni che Hezbollah ha dichiarato essere parte integrante del suo potenziale militare, e protette da un precedente riconoscimento “di stato”, che confermava il suo diritto a portare le armi.

Perciò, anche se gli Stati Uniti hanno speso di recente decine di milioni di dollari per armare e addestrare elementi dell’esercito libanese, e soprattutto le forze di sicurezza interne del fronte “del 14 Marzo”, il rapporto di forze (come anche nel caso di Gaza) continua ad essere a favore dell’opposizione in generale, e di Hezbollah in particolare. Da ciò si ricava l’impressione che il fronte “del 14 Marzo”, indubbiamente incoraggiato dagli USA, abbia calcolato che Hezbollah e l’opposizione non si sarebbero spinti a fare un aperto colpo di stato per le questioni attualmente in ballo, come era avvenuto a Gaza (in quanto ciò avrebbe gravemente danneggiato la legittimità della ‘resistenza’), e che sarebbe andato a buon fine – come era già avvenuto in altri momenti critici – il tentativo di contenere la violenza settaria fra sunniti e sciiti.

In altre parole, si pensava che non ci sarebbe stato un ‘divorzio’; che non ci sarebbe stato bisogno di riversare troppa forza nelle strade, e che il fronte “del 14 Marzo” sarebbe riuscito a ‘incastrare’ ancora l’opposizione. Scommettere su un ragionamento del genere, tuttavia, avrebbe avuto senso, solo se il fronte “del 14 Marzo” avesse lasciato spazio sufficiente per un compromesso in grado di preservare alcuni dei suoi successi apparenti, permettendo allo stesso tempo a Hezbollah di ritirare le proprie forze onorevolmente dal campo di battaglia – dopo che il fronte “del 14 Marzo” aveva evidenziato ai libanesi il problema della ‘sovranità statale’ ed il ‘pericolo’ rappresentato da Hezbollah. Ma le sue direttive radicali, e l’improvviso siluramento del capo della sicurezza aeroportuale, da parte di un governo la cui legittimità costituzionale rimane estremamente controversa, non ha lasciato alcuno spazio del genere.

Ciò che ha ottenuto, invece, è stato di ridurre i termini del conflitto ad una mera questione di forza – posizione che né il fronte “del 14 Marzo” né gli stessi Stati Uniti erano pronti a sostenere in questo momento. Infatti è altamente improbabile che le forze ONU nel Libano e gli alleati statunitensi del fronte “del 14 Marzo”, che già si trovano in condizioni difficili a causa della situazione in Iraq e in Afghanistan, possano intervenire per migliorare i rapporti di forza a beneficio del fronte “del 14 Marzo”.

L’interrogativo a cui ci troviamo di fronte ora – come è stato del resto negli ultimi trent’anni – è se saranno gli israeliani ad intervenire, qualora il fronte “del 14 Marzo” dovesse perdere progressivamente la capacità di mobilitare le risorse che gli restano, o se, piuttosto, Israele sarà soddisfatto di poter fare un passo indietro e godersi lo spettacolo del suo implacabile nemico che combatte contro i suoi stessi concittadini. Nasrallah pensa decisamente che il primo scenario sia il più probabile, viste le sue dichiarazioni di ieri secondo cui Hezbollah sarebbe perfettamente in grado di combattere su due fronti. In ogni caso, giunti al momento in cui lo spettro di un’altra invasione israeliana e / o di un’altra guerra civile viene percepito come imminente, non si può fare a meno di pensare alle vie alternative che sono state trascurate o evitate nel corso del tempo, soprattutto dopo che era stata stipulata l’alleanza politica tra le forze “del 14 Marzo” e Hezbollah a seguito del ritiro siriano dal Libano nel 2005.

Tuttavia, proprio come era avvenuto sulla scena israelo-palestinese, l’attore principale, Washington, è stato costantemente e vergognosamente assente, o tremendamente disinformato ai più alti livelli. Nei momenti più critici, la politica è stata condotta da una fazione ristretta di neoconservatori radicali della Casa Bianca – tra cui in primo luogo Elliott Abrams – i quali, a quanto sembra, cercano ancora di indirizzare il Libano lungo il sentiero che avevano tracciato per esso, sotto forma della “Rivoluzione dei Cedri”.

Sfortunatamente, come sembrano indicare gli eventi delle ultime 48 ore, la politica della negligenza e dell’intervento diretto occasionale, soprattutto da parte degli Stati Uniti, non ha portato né la pace né la vittoria ai libanesi, alla regione, o agli stessi Stati Uniti. Invece, a quanto pare, i partigiani dell’amministrazione Bush uscente sentono di dover disperatamente proclamare l’ultimo “missione compiuta”, anche se questa missione sta sfuggendo sempre più al loro controllo.
Nicholas Noe è direttore di Mideastwire.com, un servizio che offre traduzioni della stampa mediorientale, con sede a Beirut

Titolo originale:
A dangerous strategy

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I miei blog preferiti

Questa iniziativa del blog (R)evolution è l'opportunità per segnalare quei blog che per me, in questi mesi, hanno costituito un importante punto di riferimento e/o di ispirazione.
Senza voler fare torto ai numerosi altri blog ben fatti e interessanti, vorrei citare Kelebek di Miguel Martinez, i cui pezzi non sono mai inutili né banali, e poi Peacepalestine, Guerrillaradio, Freenfo, il blog di Antonio, la Tenda beduina e, con una menzione particolare, Frammenti vocali in mo.
In un'epoca in cui i media "ufficiali" sono sempre più appiattiti e, soprattutto, si fanno dettare l'agenda delle notizie dagli interessi della politica, i blog rappresentano sempre più una risorsa fondamentale ed una fonte preziosa di informazione.

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16 maggio 2008

La vignetta del giorno


"Che puzzle di merda ... c'è un pezzo che avanza!".
(di Juan Kalvellido. Spanish. Graphic designer, Artist)

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Campagna "Gaza vivrà": dopo Torino.

GAZA VIVRA’
Campagna per la fine di un embargo genocida

info@gazavive.com
http://www.gazavive.com/

1) TORINO, 10 MAGGIO
Pienamente riuscita l’assemblea contro l’embargo genocida
Brevi riflessioni

La giornata di sabato 10 maggio è stata il punto di arrivo di una lunga mobilitazione a sostegno della causa palestinese.

Proprio per questo è necessario trarre alcuni elementi di bilancio, decisamente necessari se si vuole continuare questa battaglia – che è al tempo stesso politica, culturale ed ideale - nella maniera più efficace.

La scelta di contestare la Fiera del Libro è stata assolutamente corretta. Politicamente utile e necessaria. Si è così impedito che un’operazione ideologica tesa a legittimare il crimine della Nakba restasse senza risposta.

Questo obiettivo andava perseguito al di là dei numeri e delle forze realmente mobilitabili.

Abbiamo dunque aderito e partecipato al corteo del 10 maggio.

Abbiamo però indicato la necessità di mettere al centro la questione di Gaza. Questione che richiama l’embargo criminale che miete vittime ogni giorno, ma anche la coraggiosa resistenza di un popolo che non intende in alcun modo piegarsi.

Perché Gaza era ed è centrale?

In primo luogo perché quello che a Gaza si sta consumando è il crimine più evidente e mostruoso compiuto dallo stato israeliano. Un crimine che è oggi il simbolo di una storia criminale che dura da 60 anni.

In secondo luogo perché indica la strada della resistenza al colonialismo ed all’imperialismo. Una strada che stanno percorrendo altri popoli, dall’Iraq, all’Afghanistan, al Libano.

E qui veniamo al vero nodo politico: il giudizio sulle vicende palestinesi dalle elezioni del gennaio 2006 ad oggi, passando per il golpismo di Abu Mazen e l’imbroglio di Annapolis.

Da parte nostra il giudizio è chiaro. La vittoria elettorale di Hamas (vittoria che avvenne anche in Cisgiordania, non solo a Gaza) fu il modo di dire un NO chiaro e forte ad una resa chiamata “pace” che i vertici dell’Anp stavano preparando.

In risposta a quel NO, Israele e Stati Uniti (con l’Europa a rimorchio) hanno tentato di rovesciare l’esito di elezioni riconosciute come democratiche da tutti gli osservatori internazionali.

A Gaza questo golpe è fallito: da qui l’inasprimento dell’embargo e dell’assedio con tutte le conseguenze che denunciamo da mesi.

E’ possibile, in questo scenario, non prendere posizione? Noi crediamo di no, anche perché pensiamo che la sconfitta di Gaza aprirebbe la strada alla sconfitta della causa palestinese.

C’è sufficiente consapevolezza di questo dato di fatto? Non ci sembra. In troppi continuano a barcamenarsi, oscillando magari tra duri slogan da corteo e fiacche prese di posizione politiche.
E questo è un grave problema.

******
Torniamo ora a Torino.
Se noi misurassimo le cose con il metro oggi attualmente in uso non avremmo che da essere soddisfatti.

L’assemblea indetta da Gaza Vivrà – con il titolo <> - è stata infatti un successo, sia per la partecipazione numerica, che per il clima che vi si respirava, dato che raramente si vede un’assemblea così attenta e compatta nel riconoscersi nelle analisi e nei ragionamenti proposti nei vari interventi.

Ma non ci interessa ragionare in questi termini, non ci interessa coltivare miseri orticelli mentre il Medio Oriente è in fiamme, altri fronti si aprono (vedi la situazione in Libano) ed altri ancora sono in preparazione.

E non ci interessa anche in considerazione della situazione che viviamo in Italia ed in Europa.

In Europa, ed in Italia in particolare, americanismo e filo-sionismo stanno andando avanti a passi da gigante. Le oscene dichiarazioni di Fini sul fatto che sarebbe più grave bruciare una bandiera israeliana che uccidere un ragazzo innocente parlano da sole. E parlano ancor di più in virtù delle flebili risposte di quella che dovrebbe essere l’“opposizione parlamentare”, che per bocca del suo leader ha detto – altrettanto oscenamente – che “non si devono fare graduatorie”. Ed acquistano un significato ancora più grave alla luce della presenza alla Fiera del candidato premier della fu Sinistra arcobaleno, Fausto Bertinotti.

Questi fatti, che ovviamente non ci sorprendono, ci dicono però una cosa: se Usa ed Israele sono in difficoltà, politica e militare, sui fronti caldi della loro Guerra Infinita; americanismo e sionismo si sono invece rafforzati non poco in una società europea ripiegata su se stessa e preda di un moderno totalitarismo che uccide la politica, la cultura e l’informazione, in una parola uccide la democrazia.

In questo quadro la mobilitazione di Torino ha rappresentato un fatto importante, un segnale di resistenza contro questa tendenza autoritaria, la manifestazione di una preziosa volontà di lotta da cui ripartire.

Sbaglieremmo però a non vedere le difficoltà. E sbaglia dunque, a nostro modesto avviso, chi ha enfatizzato la portata del corteo di sabato.

La verità è che abbiamo in qualche modo resistito ad un potente attacco della lobby sionista di centro-sinistra-destra, abbiamo tenuto testa alla sua operazione ideologica, ma tutto questo in un contesto di forte arretramento.

Ora si tratterà di discutere sul futuro, su come continuare la lotta.

Per quanto ci riguarda più direttamente, come Comitato Gaza Vivrà riteniamo necessario rilanciare un confronto con tutte le forze disponibili per costruire insieme le prossime tappe della mobilitazione contro l’embargo ed a sostegno della resistenza palestinese.


2) GAZA VIVRA’
Le ultime 5 tappe del tour della delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza



- Venerdì 16 maggio – ore 21 – PADOVA, Sala comunale “Pertini”, quartiere Mortise

- Sabato 17 maggio – ore 18 – OSIMO (AN), Sala Astea, via Guazzatore 20

- Martedì 20 maggio – ore 18 – BARI, Fortino S. Antonio, via Venezia, Bari Vecchia

- Mercoledì 21 maggio – ore 18 - LECCE, Sala della Provincia, via Salomi

- Venerdì 23 maggio – ore 16 - NAPOLI – Chiesa Croce di Lucca, Piazza Miraglia

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14 maggio 2008

Hebron, il regno del terrore di Tsahal.

Da dove nasce l'odio contro Israele? Forse anche da episodi del genere...
Gerusalemme - Seduto ad un tavolo da picnic in un’anomala oasi di pace da qualche parte in Israele, il ventiduenne, capelli scuri, T-shirt nera, jeans e Crocs rosse, è comprensibilmente esitante. Conosciamo il suo nome e se dovessimo usarlo verrebbe sottoposto ad un’indagine che porterebbe a una probabile condanna penale.

Gli uccelli cantano mentre ci descrive dettagliatamente alcune delle cose cha ha fatto e visto fare come soldato di leva a Hebron. E si tratta senza dubbio di azioni criminali: veicoli Palestinesi fermati senza alcuna buona ragione, finestrini distrutti e gli occupanti picchiati per aver ribattuto (per aver detto, ad esempio, che erano diretti all’ospedale); il furto di tabacco subito da un negoziante palestinese che viene poi picchiato a sangue quando protesta; il lancio di granate ad urto nelle finestre di Moschee mentre all’interno si prega. E c’è di peggio.

Il ragazzo ha lasciato l’esercito alla fine dello scorso anno, e la sua decisione di parlare fa parte di uno sforzo congiunto per rendere noto il prezzo morale pagato dai giovani Israeliani di leva in ciò che, probabilmente, è l’incarico più problematico nei territori occupati. E questo anche perchè Hebron è l’unica città Palestinese il cui centro è controllato direttamente dall’esercito, ventiquattro ore su ventiquattro, per proteggere i noti coloni integralisti che si trovano nell’area. Ci dice con decisione che adesso prova rimorso per quello che ripetutamente è accaduto durante il suo mandato.

Ma i suoi continui, anche se nervosi, ghigni e sorrisi ci fanno intuire, se pur minimamente, la spavalderia con cui avrebbe potuto descrivere le sue bravate tra amici al bar. Ripetutamente si rivolge all’ex-soldato più anziano che lo ha convinto a parlarci, dicendo, quasi per cercare rassicurazioni: “Lo sai come vanno le cose a Hebron”.

Il più anziano è Yehuda Shaul, che di certo “sa come vanno le cose a Hebron” avendo prestato servizio nella città in un’unità di combattimento all’apice dell’Intifada. È tra i fondatori di Shovrim Shtika, o Breaking the Silence (‘Rompendo il silenzio’), che pubblicherà domani le sconvolgenti testimonianze di 39 Israeliani- incluso questo giovane ventiduenne- che hanno prestato servizio nell’esercito a Hebron tra il 2005 e il 2007. Coprono una moltitudine d’esperienze, dalla rabbia e un senso d’impotenza di fronte ai spesso violenti abusi nei confronti della popolazione Araba da parte dei coloni integralisti, fino a le molestie da parte dei soldati, i residenti palestinesi picchiati senza alcuna provocazione, furti in case e negozi, e fuoco armato su dimostranti disarmati.

Il maltrattamento dei civili sotto occupazione è comune a molti eserciti nel mondo - incluso quello inglese, dall’Irlanda del Nord all’Iraq.

Paradossalmente però, pochi paesi a parte Israele hanno una ong come Breaking the Silence, che cerca - attraverso le esperienze dei soldati stessi - come scritto nel loro sito, “di forzare la società Israeliana ad affrontare la realtà che ha creato” nei territori occupati.

Al pubblico israeliano era stato dato un esempio negativo della vita militare a Hebron proprio quest’anno quando un giovane luogotenente della Brigata Kfir di nome Yaakov Gigi è stato condannato a quindici mesi di prigione per aver - dopo aver portato con sé altri cinque soldati - dirottato un taxi Palestinese per condurre ciò che i media israeliani hanno descritto come un “raptus di corsa scatenata”, in cui uno dei soldati ha aperto il fuoco ferendo un civile palestinese che si trovava di passaggio, per poi cercare di mentire e i coprire i fatti.

In un’intervista-confessione su Uvda, un programma investigativo della rete Israeliana Channel Two, Gigi, che prima d’ora era per molti versi un soldato modello, parla di come si “perda la condizione umana” stando a Hebron. Quando gli chiesero che cosa intendesse, rispose: “perdere la condizione umana vuol dire diventare un animale”.

A differenza di Gigi, l’esercito israeliano non ha condannato il soldato che aveva aperto il fuoco sul civile, insistendo che “gli eventi avvenuti all’interno della Brigata Kfir sono altamente inusuali”.

Ma come ci conferma il soldato ventiduenne, anche lui nella Brigata Kfir, nella sua testimonianza a Breaking the Silence, lui è stato “molte volte” coinvolto in gruppi che dirottavano taxi, mettendo l’autista nel sedile posteriore e ordinandogli di diriger loro in posti “dove odiano gli Ebrei” in modo da “fare un balagan” (ebraico per “gran casino”).

Esiste inoltre il conflitto tra fazioni palestinesi: “Ci hanno detto di andare ad investigare l’accaduto. Il comandante del nostro plotone era un pò fuori di testa. Comunque, quando individuavamo delle case lui ci diceva : “Ok, chiunque vedete armato con sassi o altro, non mi frega cosa - sparate”. Tutti penseranno che sia colpa dell’conflitto tra palestinesi...” E il comandante della compagnia sapeva? “Nessuno sapeva. Sono iniziative private del plotone, queste azioni.”

Li avete colpiti? “Certo, non solo loro. Chiunque venisse vicino... Particolarmente gambe e braccia. Alcuni hanno anche sostenuto colpi addominali... Credo che a qualche punto si siano resi conto che eravamo soldati, ma non ne erano certi... Non potevano credere che soldati facessero questo”.

Oppure l’uso di un bambino di dieci anni per localizzare e punire un 15enne che lanciava sassi: “Allora abbiamo preso un ragazzino Palestinese che stava nelle vicinanze, sapevamo che conosceva chi era stato. Diciamo che l’abbiamo colpito un pochino, per dirla alla leggera, finché non si è deciso a parlare. Lo sai come vanno le cose quando la tua mente è già incasinata, e non hai più pazienza per Hebron e gli arabi ed ebrei del posto.

“Il ragazzino era molto spaventato, avendo capito che gli stavamo addosso. Con noi c’era un comandante che era un po’ un fanatico. Gli abbiamo passato il bambino, e lui lo ha veramente picchiato a sangue... Si fermava lungo la strada per fargli vedere i buchi nel terreno, chiedendogli: ‘è qui che vuoi morire? O qui?’ Il ragazzino diceva, ‘No, no!’”

“Ad ogni modo, il bambino non riusciva a stare in piedi da solo. Stava già piangendo....E il comandante continua, ‘Non fingere’, mentre lo calcia ancora. Poi X, che aveva sempre difficoltà con certe cose, si mise in mezzo dicendo, ‘Non toccarlo più, basta’. Il comandante gli dice, “Sei diventato un sinistroide, o cosa?’ e lui rispondendo, ‘No, Io non voglio vedere certe cose.’”

“Noi stavamo li, vicino a tutto questo, ma non abbiamo fatto nulla. Eravamo indifferenti, sai. Ok. Solo dopo il fatto inizi a pensare. Non immediatamente. Facevamo cose simili ogni giorno....Era diventata un’abitudine...”

“Anche i genitori hanno visto tutto. Il comandante ordinò [alla madre], ‘Non ti avvicinare’. E caricò il fucile con il colpo in canna. Lei era molto spaventata. Poi mise la canna del fucile letteralmente in bocca al ragazzino. ‘Se qualcuno si avvicina, lo uccido. Non datemi fastidio. Io uccido. Non ho pietà.’ Allora il padre...prese da parte la madre dicendo, “Calmati, lasciali..., cosi lo lasceranno stare.’”

Non tutti i soldati che prestano servizio a Hebron diventano “animali”. Iftach Arbel, 23, proveniente da una famiglia di classe medio-alta e tendenzialmente inclinante a sinistra, ha servito come comandante a Hebron poco prima del ritiro da Gaza, quando secondo lui l’esercito voleva dimostrare di poter essere duro anche nei confronti dei coloni. Molte delle testimonianze, includendo quella di Arbel, descrivono come i coloni educhino i loro bambini, partendo anche dai quattro anni, a lanciare pietre contro i palestinesi, attaccare le loro case e anche al furto delle loro possessioni. Secondo Arbel, i coloni di Hebron sono “cattiveria pura” e l’unica soluzione è la “loro rimozione”.

Lui sostiene che sarebbe possibile, nonostante questo clima, migliorare il trattamento dei palestinesi. Aggiungendo: “Facevamo incursioni di notte. Sceglievamo una casa a caso, dalla foto aerea, in modo da esercitare le routine di combattimento, perchè è d’istruzione ai soldati sai, voglio dire, Io sono pienamente d’accordo. Ma poi a mezzanotte svegli qualcuno e gli metti la casa sotto sopra con tutti che ancora dormono sui materassi.”

Arbel dice che la maggioranza dei soldati si trova in qualche modo tra il suo esempio ad un estremo e quello dei più violenti sull’altro. Attraverso anche solo due testimonianze dei suoi coetanei, possiamo capire cosa intenda.

Uno di loro ci dice: “Facevamo tanti tipi di esperimenti per vedere chi poteva fare la migliore spaccata a Abu Snena. Mettevamo [i palestinesi] contro il muro, come per perquisirli, e gli dicevamo di allargare le gambe. Allarga, allarga, allarga, era un gioco per vedere chi lo faceva meglio. Oppure facevamo a chi riusciva a mantenere il respiro più a lungo.”

“Soffochiamoli. Uno dei soldati si avvicinava fingendo di perquisirli, poi d’un tratto iniziava a urlare come se gli avessero detto qualcosa e li soffocava...bloccandogli il respiro; devi premere il pomo d’Adamo. Non è piacevole. Guardare l’orologio mentre lo fai, fino a farlo svenire. Quello che impiega più tempo a svenire è il vincitore.”

Al di là della violenza c’è anche il furto. “C’è questo negozio di accessori per auto lì. Ogni volta, i soldati si prendevano radio, di tutto. Questo tipo, se glielo vai a chiedere, ti dirà molte cose che gli hanno fatto i soldati.

“Un’intera pergamena... facevano irruzione regolarmente. ‘Senti, se parli, ti sequestriamo l’intero negozio, distruggiamo tutto.’ Sai, era spaventato a parlare. Stava già trattando, ‘Sentite, mi state danneggiando finanziariamente’. Io personalmente non ho mai preso nulla, ma ti dico, c’era gente che si prendeva casse, interi sound system”.

“Diceva, ‘Per favore, datemi 500 shekel, ci sto rimettendo soldi.’ ‘Senti, se continui ci prendiamo tutto.’ ‘Ok, Ok, prendilo, ma sentite, non prendete più di dieci impianti al mese.’ Qualcosa del genere.

‘Sono già in bancarotta.’ Era così disperato. I ragazzi nella nostra unità si rivendevano tutto al rientro a casa, facevano scambi. La gente è cosi stupida.”

L’esercito dice che i soldati della Israeli Defence Force operano secondo “determinate e rigide norme di comportamento” e che la loro richiesta adesione a ciò deve solo “incrementare nell’eventualità che i soldati della Idf vengono a contatto con civili.” Aggiungendo che “Se vengono scoperte prove in supporto alle dichiarazioni, i colpevoli subiranno la massima attenzione giuridica.” Dice anche che “Il Military Advocate General ha rilasciato accuse contro una serie di soldati dovute a dichiarazioni di condotta criminale... I soldati trovati colpevoli sono stai puniti severamente dal tribunale militare, in proporzione al crimine commesso”. Non hanno finora quantificato le accuse.

Nella loro introduzione alle testimonianze, Breaking the Silence dice: “La determinazione dei soldati nel portare a termine la loro missione crea tragici risultati: Le norme in vigore perdono significato, l’inconcepibile diventa routine....[Le] testimonianze servono per dimostrare come i soldati vengano spediti nella brutale realtà che li circonda, una realtà dove le vite di molte migliaia di famiglie Palestinesi sono in balia di un gruppo di giovani. Hebron diviene quindi un esempio della flagrante realtà in cui i figli d’Israele vengono costantemente spediti.

Una forza per la giustizia

Breaking the Silence è stato fondato quattro anni fa da un gruppo di ex-soldati, la maggioranza dei quali ha servito nelle unità di combattimento della Israel Defence Force a Hebron. Molti prestano ancora servizio ogni anno come riserve. Hanno collezionato intorno alle 500 testimonianze di ex-soldati che hanno prestato servizio in Cisgiordania e a Gaza. La loro prima introduzione al pubblico è avvenuta con un’esposizione di fotografie fatte da soldati arruolati a Hebron, e la organizzazione mette anche a disposizione visite guidate della città per studenti Israeliani e diplomatici. Riceve fondi da organizzazioni come la Jewish Philanthropic Moriah Fund, la New Israel Fund, l’Ambasciata inglese a Tel Aviv e l’Unione Europea.

(Traduzione di Andrea Dessi per Osservatorio Iraq)

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In questo stesso giorno, nel 1948...

Esattamente sessanta anni fa, il 14 maggio del 1948:
- nel distretto di Acri, vennero conquistati i villaggi di al-Sumayriyya, di al-Zib e di al-Bassa, e i loro abitanti furono espulsi. Al-Zib, che era il centro della resistenza, fu bombardato fino a che la popolazione civile non fu costretta a fuggire, e poi raso al suolo. Ad al-Bassa, molti fuggirono prima dell'arrivo delle forze sioniste, sebbene alcuni rimanessero. Secondo il racconto di alcuni testimoni, i soldati israeliani ammassarono quelli che erano rimasti indietro dentro la chiesa locale. I soldati procedettero all'esecuzione di alcuni tra gli abitanti del villaggio più giovani , poi ordinarono agli altri di bruciare i corpi.
- Abu Shusha, situata vicino ad al-Ramla, venne parimenti occupata. Le truppe israeliane che occupavano la cittadina compirono un massacro dei suoi abitanti. Dalle 60 alle 70 persone furono assassinate prima del 21 maggio, mentre il resto degli abitanti venne espulso.
- Jaffa cadde nelle mani delle forze sioniste. Dei 70.000-80.000 Arabi che risiedevano nella città, ne rimase solamente un numero compreso tra i 3.600 e i 4.100. La maggior parte degli abitanti di Jaffa fu spinta verso il mare e costretta a fuggire con alcune imbarcazioni, finendo in altre città costiere palestinesi come Gaza o, più lontano ancora, in Egitto e in Libano.
Nasceva lo Stato di Israele, e nasceva sulla base della violenza sistematica e feroce, dell'espulsione della popolazione indigena, della pulizia etnica: 750.000 Palestinesi venivano cacciati dalle loro case e circa 400 villaggi venivano distrutti.
Ma - come ricorda lo storico Ilan Pappe - in Israele "il valore di uno Stato a base etnica è ancora al di sopra di qualunque diritto umano o civile".
E, difatti, l'opera sistematica di pulizia etnica da parte di Israele ancora oggi non è terminata.

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11 maggio 2008

La menzogna siro-palestinese

Secondo l’articolo che segue, scritto dal noto giornalista israeliano Akiva Eldar e pubblicato il 2 maggio sul quotidiano Ha’aretz (qui proposto nella traduzione fornita dal sito Arabnews), il canale diplomatico aperto dal premier israeliano Olmert con la Siria rappresenta, nella realtà, null’altro che un diversivo per nascondere l’assoluta mancanza di progressi nei colloqui di pace in corso fra Israele e l’Anp di Mahmoud Abbas.

Ciò che, soprattutto, appare preoccupante è l’assoluta distanza e inconciliabilità tra le posizioni di Israeliani e Palestinesi, e l’inaccettabilità delle condizioni di pace proposte dal governo israeliano anche da parte di un leader politico conciliante e ben disposto come Quisling-Abbas.

Già qualche giorno addietro, del resto, il quotidiano Yedioth Ahronoth aveva raccontato come Ahmed Qureia, il capo negoziatore palestinese, avesse sdegnosamente respinto da sé le mappe presentate dagli emissari del ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, in base alle quali Israele avrebbe mantenuto il controllo dei blocchi di insediamenti nella West Bank, dell’intera Gerusalemme nonché della Valle del Giordano.

Come possa arrivarsi alla pace sulla base di tali condizioni, che stravolgono ogni risoluzione Onu in materia e persino la road map, non è dato sapere.

Nel mentre, in barba ad ogni promessa e grazie al tempo concesso dalle lungaggini di questi negoziati effimeri e menzogneri, Israele continua ad espandere i propri insediamenti colonici illegali, soprattutto a Gerusalemme, dove un totale di 9.617 nuove unità residenziali nei quartieri della zona est della capitale si trovano a diversi stadi di realizzazione.

Nel mentre, in barba ad ogni promessa e rassicurazione, i check point in Cisgiordania, anziché diminuire per alleviare il “disagio” da questi provocato ad ogni aspetto della vita quotidiana dei Palestinesi, continuano a crescere di numero, passando dai 580 del 19 febbraio ai 612 dell’ultima
rilevazione dell’OCHA: trattasi di un incremento di quasi il 63% dal dato risultante all’agosto del 2005!
In questi giorni tanti, ivi compreso il nostro Presidente, hanno ritenuto, bontà loro, di ricordare che accanto al diritto all’esistenza dello Stato israeliano sussiste un analogo diritto dei Palestinesi ad avere un proprio Stato indipendente e internazionalmente riconosciuto.
Nessuno, tuttavia, ha pensato bene di spiegare come si possa arrivare a questo risultato in presenza di uno Stato che mente spudoratamente su ogni questione, che continua a violare il diritto internazionale e il diritto umanitario, che pone al proprio interlocutore condizioni di pace francamente ridicole e inaccettabili.

La menzogna siro-palestinese
(Ha’aretz, 2.5.2008)

Venerdì scorso, poche ore dopo che un terrorista aveva ucciso due guardie di sicurezza israeliane in Cisgiordania, e che alcuni elicotteri avevano cacciato dei lanciatori di razzi Qassam nella Striscia di Gaza, un piccolo gruppo di giovani israeliani e palestinesi si era seduto assieme in un albergo ad Aqaba. Un alto funzionario giordano aveva parlato con orgoglio agli ospiti, attivisti dell’organizzazione “Seeds of Peace”, a proposito di progetti economici comuni che beneficiano tutti e tre i popoli. Durante la pausa, l’oratore mi condusse in un angolo e mi chiese, “Mi può spiegare perché il suo governo sta ignorando la Giordania e l’iniziativa di pace araba?”. Poi, egli mi domandò: “Non capite quale catastrofe si abbatterà su di noi, sia giordani che israeliani, se non raggiungete un accordo con i palestinesi entro quest’anno?”.

Mercoledì scorso, il primo ministro Ehud Olmert ha avuto la possibilità di ascoltare la stessa cosa a più alti livelli. Re Abdallah ha invitato Olmert ad Amman, per ripetere il messaggio di angoscia che egli aveva trasmesso al presidente George W. Bush nei giorni precedenti. Non c’è bisogno di “essere una mosca sul muro” per sapere che cosa è stato detto nel palazzo reale. Il ministro degli esteri giordano Salah Bashir, che aveva accompagnato il re nel corso della sua visita negli Stati Uniti, aveva ammonito gli attivisti ebraici a New York che sprecare la possibilità di raggiungere un accordo di pace entro quest’anno “avrà gravi conseguenze per noi tutti “. I funzionari giordani di certo non parlavano della pace tra Israele e Siria.

Nel suo libro “The Much Too Promised Land”, Aaron David Miller, che è stato vice-coordinatore del team statunitense per i negoziati di pace israelo-palestinesi, scrive che ai tempi del governo di Yitzhak Rabin, l’approccio riassunto nella frase “la Siria prima di tutto” si era risolto in una profonda delusione. Sotto Ehud Barak, sostiene Miller, lo stesso approccio ha portato sia al blocco del canale israelo-siriano che ad una crisi tra Israele e i palestinesi. Il tentativo di Olmert di riaprire il canale siriano a scapito dei colloqui con i palestinesi, non solo non realizzerà nulla su entrambi i fronti; con la “longa mano” dell’Iran e di al-Qaeda (un nuovo periodico che l’organizzazione ha pubblicato a Gaza ha ricevuto la benedizione di Ayman al-Zawahiri) che raggiunge ogni angolo della regione, tale iniziativa potrebbe turbare anche la fragile pace con la Giordania e l’Egitto, e seppellire del tutto l’iniziativa di pace araba.

In base ad informazioni in possesso di alcuni stretti collaboratori di Olmert, sembra vi sia una gara tra gli emissari di Olmert inviati al presidente siriano Bashar al-Assad e i discreti colloqui che il ministro degli esteri Tzipi Livni sta portando avanti con il capo negoziatore palestinese Ahmed Qureia. Le recenti inchieste giornalistiche hanno raffigurato il primo ministro come un vigoroso statista, senza richiedere che egli pagasse un prezzo politico per questo. Dopo che Washington ha pubblicamente esposto i nefasti legami tra la Siria e la Corea del Nord, quali sono le probabilità che il presidente Bush cancelli Damasco dall’ “asse del male”? E’ difficile immaginare che Olmert ritenga che Assad possa rompere i suoi legami con l’Iran e con Hezbollah, fino a quando gli Stati Uniti lasceranno il presidente siriano davanti a una porta ermeticamente chiusa.

In realtà, Olmert è parte di una grande farsa organizzata in vista della prossima visita del presidente Bush – il promotore della dichiarazione di Annapolis, che annunciava “uno sforzo per raggiungere un accordo entro la fine del 2008″. Le voci di un presunto progresso nel tentativo di rinnovare i negoziati tra Gerusalemme e Damasco non sono altro che il tentativo di mimetizzare una grave battuta d’arresto nei colloqui di Israele con i palestinesi. Una fonte molto informata sui negoziati ha rivelato, questa settimana, che i motivi di disaccordo tra le due parti superano di gran lunga i punti di accordo.

E ‘difficile immaginare che il presidente palestinese Mahmoud Abbas sia tentato di accogliere la proposta israeliana, che chiede ai palestinesi di rinunciare all’8% della Cisgiordania (con una compensazione pari a non più del 2%), di accettare la sovranità israeliana sui luoghi santi di Gerusalemme, inclusa la Città Vecchia, e di accontentarsi di ricevere semplici briciole sul problema dei profughi (una riunificazione familiare per appena 10.000 persone). Tutto questo mentre Israele continua ad ampliare gli insediamenti e ad aggiungere posti di blocco sulle strade.

Quando i negoziati con i palestinesi giungeranno ad una clamorosa interruzione, e Hamas, avendo ristabilito la calma nella Striscia di Gaza, caccerà i residui del “fronte dei due Stati” fuori dalla Muqata a Ramallah, la favola dell’idillio con la Siria, mediato dai turchi, svanirà come un sogno. I pretesi negoziati attraverso due canali simultanei diventeranno un caso di doppia testardaggine israeliana.

Assad sbandiererà il suo infruttuoso corteggiamento di Olmert insieme alla violazione della dichiarazione di Annapolis. Egli invocherà l’attuazione della dichiarazione della Lega Araba pronunciata lo scorso marzo a Damasco, sosterrà che l’iniziativa di pace con Israele deve essere riesaminata, e chiederà che l’Egitto e la Giordania rispettino lo standard che vuole che la normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico sia condizionata al suo ritiro entro i confini del 4 giugno 1967. Questo è il pericolo di cui re Abdallah ha parlato a Bush. È per questo che egli ha invitato Olmert ad Amman.

Akiva Eldar è un analista politico israeliano; scrive abitualmente sul quotidiano “Haaretz”
Titolo originale:
[1] The Syrian-Palestinian lie

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9 maggio 2008

Aggiornamento campagna "Gaza vivrà" (4)

ROMPIAMO IL COMPLICE SILENZIO SU GAZA
Sono giunti in Italia da Gaza:
Gamal ELKOUDARY, deputato al Parlamento Palestinese, già Ministro della Sanità e Presidente del Comitato Popolare contro l’assedio di Gaza
Sameh HABEEB, coordinatore del Comitato.
Sono in corso incontri e iniziative in tutte le principali città italiane.

Saranno a Milano il 12 MAGGIO alle ore 21 presso la Casa della Pace, Via Dini 7 (fermata Metro Abbiategrasso).

Partecipate numerosi! E’ raro poter dialogare con chi vive a Gaza e ne organizza la resistenza contro l’assedio criminale di Israele. Nonostante il black-out informativo, la situazione umanitaria a Gaza è talmente grave che le notizie non possono non filtrare.

A Gaza si viene uccisi direttamente, come la madre e i suoi quattro figli da una cannonata nella propria casa, o indirettamente perchè le cure non sono consentite (gli ospedali non funzionano perchè Israele non fornisce energia elettrica e carburante per i generatori; Israele impedisce l’uscita di chiunque; 133 palestinesi sono già morti per questo e circa 1600 rischiano di morire perchè non è consentito loro di uscire per farsi curare).

L’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) non è più in grado di distribuire neppure gli aiuti alimentari.

Il tasso di disoccupazione è altissimo e quasi metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Le scuole sono costrette a chiudere.

Eppure Gaza resiste!

Israele ha bisogno del silenzio e della complicità internazionale per proseguire i suoi crimini impunemente. Non tollera testimoni: non ha fatto entrare nella Striscia delegazioni internazionali e neppure Jimmy Carter, colpevole di avere parlato di apartheid e di considerare Hamas un legittimo interlocutore.

Ascoltiamo le testimonianze di chi a Gaza,vive e resiste!

Incontro promosso da GAZA VIVRA’, Redazione de “Il Buio”, in collaborazione con la Comunità Palestinese di Lombardia.

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7 maggio 2008

Non disposte a stare a guardare senza far niente.

L’Olocausto non è solo una “industria” così ben descritta da Norman Finkelstein, che continua ancora oggi a generare copiosi dividendi politici a favore di Israele, ma costituisce anche uno dei fattori motivanti dell’azione di molti pacifisti israeliani, soprattutto delle donne.

Donne che vogliono sostenere ed aiutare i Palestinesi come un tempo altri aiutarono i loro genitori a sfuggire alle persecuzioni razziali; donne che rifiutano di essere occupanti e che non vogliono che, in loro nome, vengano perpetrati crimini bestiali come quelli posti in essere dall’esercito israeliano.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, pubblicato il 4 maggio scorso su Ha’aretz.
“Peccato che Hitler non abbia finito il lavoro” gridava un passante alle donne che prendevano parte alla protesta delle Donne in Nero ad Haifa. Tra loro una donna di 80 anni, una sopravvissuta dell’Olocausto con un numero tatuato sul braccio. “Tu non mi fai paura” rispose. “ ‘Gli specialisti’ mi facevano paura”.

Negli anni, commenti come “Tua madre era una kapò” oppure “Ritornatene in Polonia” sono stati scagliati contro molte delle donne di questo movimento che si oppone all’occupazione israeliana di Gaza e Cisgiordania, un’esperienza condivisa con altri movimenti pacifisti di donne – dice la sociologa Dr. Tova Benski, capo del Dipartimento delle Scienze Comportamentali al College of Management. Questo fenomeno è stato una delle ragioni per le quali la Benski ha deciso di condurre uno studio sul ruolo delle figlie di sopravvissuti dell’Olocausto, e delle stesse sopravvissute dell’Olocausto di sesso femminile, nei movimenti per la pace israeliani.

Quando Benski ha iniziato a intervistare varie attiviste per la pace riguardo alle loro motivazioni ed emozioni, la prima risposta che veniva fuori,-dice- era “Dobbiamo agire e partecipare perché un altro popolo è oppresso qui e io sto qui a guardare come facevano i Nazisti” Un’altra spiegava “Almeno nessuno potrà chiedermi:E tu cosa hai fatto?“ Le attiviste contro l’occupazione non credono che la situazione dei Palestinesi nei territori per quanto brutta possa essere sia comparabile all’Olocausto per gli Ebrei ma il loro trauma familiare ancora le spinge ad agire contro il fatto che si calpestino i diritti umani , qualunque siano le circostanze.

Lo studio di Benski che contiene numerose interviste è stato preceduto da circa 20 anni di ricerca fra le attiviste della pace che ha avuto inizio, dice, “nel 1985 con la costituzione di ‘Genitori contro il silenzio ‘, più comunemente detto ‘Madri contro il Silenzio’, e poi con ‘Peace Now’, ‘Yesh Gvul’ e la ‘Coalizione di Donne per la Pace’. Per tutto il tempo si sono evidenziate connessioni con la questione dell’Olocausto.. Dato che anch’io sono figlia di due sopravvissuti, mi sembrava del tutto naturale. Non ci trovavo niente di unico. Forse non volevo affrontare la cosa.”

Dopo lo scoppio dell’Intifada Al-Aqsa, Benski ha cominciato una ricerca sulle reazioni del pubblico alle proteste delle Donne in Nero. Secondo la sua analisi queste vertevano attorno al genere, la nazionalità e la sessualità (uno degli insulti più comuni diretti alle donne era “Puttane di Arafat”) I commenti che esprimono il proprio rincrescimento perchè Hitler non aveva potuto “finire il lavoro” sono quello che “mi ci ha fatto arrivare” dice Benski “E’ ovvio che la gran parte di noi era Ashkenazi. Tutto questo mi spingeva a riesaminare tutto il materiale che avevo raccolto negli anni.”
E allora si chiese come potesse non aver notato prima che molte attiviste per la pace erano figlie di sopravvissuti dell’Olocausto. Molte di loro nelle interviste condotte da Benski, ma anche in interviste che lei aveva trovato sulla stampa e in libri come Ahayot Le-Shalom (“Sorelle nella pace: voci femministe della sinistra”) edito da Hedva Isachar, attestano che questo aspetto biografico costituisce un fattore significativo rispetto al fatto di diventare attiviste per i diritti dei Palestinesi e contro l’occupazione dei territori.

Ma perchè in particolare le donne? E gli uomini che erano nati ed erano stati allevati da sopravvissuti dell’Olocausto? E’ qui che entra in campo una delle differenze di genere nella seconda generazione, dice Benski. Mentre le donne figlie di sopravvissuti rispondono in modo depresso, covano sensi di colpa e si identificano fortemente con le loro madri, per esempio, gli uomini generalmente reagiscono in modo più aggressivo, sulla scia di “Abbiamo bisogno di un forte esercito”, dice.

Quello che fanno queste donne, aggiunge è essenzialmente rovesciare il solito discorso sull’Olocausto.” Queste donne sono cresciute in Israele in un momento in cui si stava formando la percezione dell’Olocausto come ‘vergogna nazionale’ “ dice”Mi ricordo di essermi vergognata dei miei genitori perché ‘erano andati al massacro come pecore’. Il discorso dominante era che Israele doveva essere forte e il suo esercito doveva essere forte in modo tale che l’Olocausto non potesse più avere luogo. L’affermazione di Begin secondo cui ‘l’alternativa è Treblinka’ è solo una di tutta una serie di affermazioni del genere da parte dei leader israeliani. Il tema dell’Olocausto serve a giustificare una visione incentrata sulla sicurezza.

“Ma al contrario di quelli che dicono loro ‘Cosa volete- che ci sia un nuovo Olocausto? Che loro ci gettino in mare?’ queste donne trasformano la loro traumatica esperienza personale-familiare in un messaggio universale finalizzato a preservare i diritti umani, anche i diritti umani degli altri” continua Benski “Sono divise in due categorie: quelle i cui genitori sono stati salvati da non ebrei, tedeschi o altri, operano in base al senso di… Proprio come gli altri hanno aiutato i loro genitori a sopravvivere , loro devono aiutare i palestinesi che stanno soffrendo. E ci sono quelli che rifiutano di essere occupanti e rifiutano che siano fatte in loro nome cose che considerano inaccettabili. “ Così la memoria dell’Olocausto non diviene meramente il fondamento dell’inclinazione Israeliana alla sicurezza ma costituisce uno dei fattori motivanti alla base del movimento per la pace.”

Come sappiamo la stessa Benski è la figlia di sopravvissuti dell’Olocausto: sua madre, proveniente dalla Transilvania, sopravvisse ad Auschwitz mentre tutto il resto della famiglia perì in quel luogo. Suo padre fu internato in un campo di lavoro forzato, fuggì e si diede alla macchia. La sua famiglia immigrò in Israele nel 1951 e si stabilì a Yokneam. Benski parla di una casa che conteneva un grande segreto di cui a nessuno era permesso di parlare e dove erano accumulate “tonnellate di riserve di cibo”. “Mio padre morì prima di averne mai parlato” dice; “Mia madre cominciò a parlarne dopo la sua morte.” In merito alla connessione fra la storia della sua famiglia e la sua ricerca, dice “Devo portare a termine le mie personali considerazioni in merito.” Nel corso del lavoro, dice “Ogni volta che mi accorgo che sto perdendo la mia qualità di ricercatrice, faccio un piccolo passo indietro.”

E’ intenzionata a continuare con uno studio più approfondito sul tema e a scrivere un libro sulle dinamiche dello schieramento pacifista “femminista” o “femminile” in Israele. “Non ho ancora deciso che termine usare” spiega” perché non tutte le donne sono femministe e non tutte lo erano sin dall’inizio.” Lei stessa,dice, è stata una femminista sin da bambina: “In un tema scrissi che volevo essere la prima donna sulla luna.”

A casa di Daphna Banai parlavano dell’Olocausto, molto. La famiglia della madre di Banai scappò per un pelo da Berlino nel 1939. Molti parenti perirono durante la guerra. Banai, una delle attiviste di Machsom Watch (Donne contro l’occupazione e per i diritti umani), Re’ut-Sadaka (l’Organizzazione giovanile arabo-palestinese per la pace e la democrazia) e altre organizzazioni, dice “Ero completamente assorbita dal processo ad Eichmann. Avevo solo 11 anni e per due anni non ho né studiato né giocato. Stavo attaccata alla radio transistor. Ero rapita dalle testimonianze.”
Come Banai, Edna Toledano-Zaretski, una delle veterane fra le attiviste della pace e attualmente membro del consiglio municipale di Haifa per il partito Hadash, dice che il processo ad Eichmann e ancor prima quello a Kastner, ebbero un profondo effetto su di lei. “Mi sono chiesta – Come poteva la gente dire che non sapeva? La gente scompariva e gli altri non sapevano, non vedevano, non facevano niente riguardo a questo. L’atteggiamento in Israele era quello di dare la colpa alle vittime e io pensavo invece che si dovesse esaminare l’aggressore. Non ho mai pensato che noi fossimo immuni. L’indifferenza è il nemico in agguato. Devi assumere responsabilità per sapere quello che sta accadendo” dice Toledano-Zaretski.

Banai sottolinea che “è impossibile comparare l’esito dell’Olocausto con quello che sta accadendo nei territori. Quello che sta accadendo là è terribile, ma non ha niente in comune con l’Olocausto. Denigriamo comunque la memoria dell’Olocausto se non mettiamo a confronto i processi che vi hanno condotto. Sento che devo agire in modo tale da evitare che tali cose accadano di nuovo. Semplicemente ricordare è peccare contro la memoria dell’Olocausto. Da questo dobbiamo imparare, prima di tutto su noi stessi. La scorsa settimana, per esempio, un soldato minacciava di sparare a una donna di Machsom Watch. Poi lei gli ha chiesto “Ma dimmi, l’avresti fatto davvero?” e lui ha risposto “Se avessi ricevuto l’ordine, certamente. Sono deciso ad obbedire a qualunque ordine io riceva.”

“Un’altra attivista di Machsom Watch”, continua Banai, “raccontò di come sua zia, che era finita ad Auschwitz da adolescente e lavorava in un laboratorio di cucito, dicesse che c’era un soldato tedesco che di quando in quando sussurrava agli ebrei ‘Presto finirà tutto. I russi si stanno avvicinando’. E’ impossibile descrivere quanto questo li abbia incoraggiati. Gli Ebrei non conoscevano il nome del soldato e tra di loro lo chiamavano Moishele. ‘Voi donne” diceva la zia alla nipote di Machsom Watch ”voi siete Moishele.”

Tzafi Saar

Traduzione da Ha’aretz di Patricia Tough - Din Bologna
Titolo originale: “Unwilling to stand idly by
Link alla traduzione

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6 maggio 2008

Aggiornamento campagna "Gaza vivrà" (3)

GAZA VIVRA’
Campagna per la fine di un embargo genocida

info@gazavive.com
http://www.gazavive.com/

Oltre 800 persone a Genova, 600 persone a Vicenza, una piena riuscita di tutte le altre tappe del tour della delegazione di Gaza.
Un calore ed un entusiasmo straordinario a sostegno della lotta di resistenza del popolo palestinese e di Gaza in particolare.
Questi numeri rappresentano un grande fatto politico, un notevole salto di qualità nel lavoro di sostegno della causa palestinese. Questi numeri – frutto della mobilitazione della comunità araba e musulmana del nostro paese – ci dicono che la strada intrapresa è quella giusta. La strada è quella dell’unità della parte migliore della società italiana, quella che ancora crede nei valori di uguaglianza, libertà e fratellanza con le comunità immigrate che, respingendo la paura in cui il potere vorrebbe confinarle, possono dare oggi un contributo fondamentale alla lotta di liberazione dei popoli.
Continuiamo così!

Questo bollettino contiene:
1. Sabato 10 a Torino ASSEMBLEA PER LA FINE DELL’EMBARGO
2. SEMPRE IL 10 MAGGIO A TORINO
3. GAZA VIVRA’ – Continua il tour italiano della delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza

LA PAROLA A GAZA
Assemblea per la fine dell’embargo
Torino, sabato 10 maggio

- Per ascoltare la voce di chi vive quotidianamente l’oppressione
- Per conoscere la situazione nella Striscia, vero lager del XXI secolo
- Per capire le ragioni della resistenza palestinese
- Per condannare il golpe attuato contro i legittimi vincitori delle elezioni del gennaio 2006
- Per continuare la lotta contro l’embargo genocida

Per tutti questi motivi, per ricordare il 60° anniversario della Nakba, per protestare contro la Fiera Internazionale del Libro dedicata ad Israele ci ritroveremo a Torino sabato 10 maggio.
Aderiamo a tutte le iniziative di protesta contro la Fiera del Libro, ma vogliamo mettere la situazione di Gaza al centro della mobilitazione.
L’embargo, il lento genocidio che si sta consumando, è infatti il più grande atto di accusa sia nei confronti dello stato sionista che di chi in Italia sottolinea ogni giorno il proprio integrale sostegno ai criminali israeliani.
Chi ha voluto dedicare ad Israele la Fiera ha compiuto una chiara operazione politica ed ideologica. Rovesciamogliela contro partendo dalla denuncia dei crimini che questo stato sta compiendo.
Iniziamo a rispondere da Torino – città gemellata con Gaza – ad una politica sorda verso gli oppressi e servile con gli oppressori.

TORINO
Sabato 10 maggio – ore 10-14
Centro Italo Arabo Dar al Hikma
Via Fiocchetto 15
(zona Porta Palazzo)

ASSEMBLEA - MANIFESTAZIONE

Interverranno:
Gamal Elkoudary, parlamentare palestinese e presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza
Giulietto Chiesa, giornalista e parlamentare europeo
Gianni Vattimo, filosofo

Presiedono Leonardo Mazzei e Angela Lano

Interverranno inoltre:

Ugo Giannangeli – Gaza Vivrà
Mohammad Hannoun – ABSPP (Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese)
Alberto Tradardi – ISM Italia (International Solidarity Movement – Italia)
Maria Grazia Ardizzone – Campo Antimperialista
Un rappresentante della Comunità Islamica
Vainer Burani – Giuristi Democratici

Nel corso dell’assemblea è previsto un collegamento con Gaza, con l’intervento di un esponente del governo palestinese.

Promuovono:
Comitato Gaza Vivrà
Abspp – Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese

Aderiscono:
Soccorso Popolare, Padova – Fondazione Luigi Cipriani – Campo Antimperialista – ISM Italia (International Solidarity Movement – Italia) - Collettivo Iqbal Masih, Lecce – Associazione Juthur – Laboratorio Marxista – Associazione Zaatar - Antonia Sani, presidente WILPF (Women’s Intern. League for Peace and Freedom) – Legittima Difesa – Lupo, Osimo (AN) – Gp Caav (Gruppo promotore Coord. Antimperialista Antifascista Alto Vicentino)


Sempre il 10 maggio a Torino

Il Comitato Gaza Vivrà aderisce e partecipa al corteo che prenderà il via alle ore 15 da Corso Marconi (angolo Madama Cristina).

Alle ore 21, sempre presso il Centro Italo Arabo Dar al Hikma, andrà in scena lo spettacolo “Ingannati” del gruppo teatrale Narramondo, tratto da “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani.
Per la scheda completa leggi
http://www.narramondo.it/scheda_ingannati.html

GAZA VIVRA’
Continua il tour italiano della delegazione del Popular Committee Against Siege di Gaza

Si sono già tenuti i primi sei incontri con la delegazione proveniente da Gaza.
Gamal Elkoudary e Sameh Habeeb hanno trovato ovunque grande interesse ed una notevole partecipazione sia numerica che politica. In alcuni casi (vedi sopra) la partecipazione è stata assolutamente straordinaria.
Continuiamo così!

Calendario dei prossimi incontri:

- Martedì 6 maggio – ore 21 - FIRENZE, Sala Est-Ovest della Provincia, via dé Ginori 12

- Mercoledì 7 maggio – ore 19,30 - REGGIO EMILIA, presso la Moschea

- Mercoledì 7 maggio – ore 21,30 – REGGIO EMILIA, Centro Sociale AQ 16, via F.lli Manfredi 14

- Giovedì 8 maggio – ore 21 – BOLOGNA, Circolo culturale Iqbal Masih, via della Barca 24/3

- Venerdì 9 maggio – ore 13 – MILANO, Incontro con la Comunità islamica

- Sabato 10 maggio – ore 10 – TORINO, Centro Italo Arabo Dar al Hikma, via Fiocchetto 15

- Lunedì 12 maggio – ore 21 – MILANO, Sala da confermare

- Martedì 13 maggio – ore 21 – CASALE MONFERRATO (AL), Salone Anffas, via Leardi 8

- Venerdì 16 maggio – ore 21 – PADOVA, Sala comunale “Pertini”, quartiere Mortise

- Sabato 17 maggio – ore 18 – OSIMO (AN), Sala Astea, via Guazzatore 20

- Lunedì 19 maggio – LECCE

- Mercoledì 21 maggio – TARANTO

- Venerdì 23 maggio - NAPOLI

(aggiornamento al 5 maggio 2008)

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2 maggio 2008

Perchè non possiamo celebrare l'anniversario di Israele.

Qui di seguito riporto la traduzione di un lettera-appello di un gruppo di ebrei inglesi, pubblicata sul quotidiano The Guardian il 30 aprile scorso, dove si elencano le ragioni che non permettono a queste persone – né dovrebbero permetterlo ad alcuno - di festeggiare il 60° anno dalla fondazione dello Stato di Israele.

Si tratta di argomentazioni già note e storicamente accertate.

Come abbiamo avuto modo di osservare, la politica della durezza è stata ritenuta l’unico modo adatto ad affrontare il dilemma della legittimità di Israele in relazione ai suoi vicini, e la violenza sistematica è stata essenziale per consolidare lo Stato israeliano nel periodo 1947-1948, nonché per sostenerlo nei periodi di crisi successivi.

Secondo lo storico israeliano Ilan Pappe, intervistato dall’Unità il 1°maggio, “il sistema di valori su cui si fonda lo Stato di Israele” è stato strutturato “attorno a una ideologia etnocentrica che pone come prioritaria la necessità di avere uno Stato ebraico con una solida maggioranza ebraica che controlli larga parte dei Territori palestinesi. Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che portò all’espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l’opposto: l’obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Questa visione non è cambiata affatto dal 1948 ad oggi. Il valore di uno Stato a base etnica è ancora al di sopra di qualunque diritto umano o civile”.

E allora, come celebrare oggi i 60 anni di Israele senza nel contempo ricordare che la nascita di questo Stato coincide con la Naqba palestinese?

E, soprattutto, come festeggiare uno Stato che mantiene un’intera popolazione di un milione e mezzo di Palestinesi sotto assedio e in condizioni pietose, con scarsi rifornimenti di cibo e altri beni, con poca elettricità, con un sistema di trattamento di rifiuti devastato, con una sanità in condizioni definite miserevoli; in una parola, uno Stato che pone in atto una gigantesca punizione collettiva, un crimine contro l’umanità che è una vergogna tanto per Israele quanto per gli Stati che la consentono.

Come festeggiare uno Stato le cui truppe massacrano quotidianamente la popolazione civile inerme ed innocente, ivi inclusi i bambini di pochi mesi, utilizzando armamenti il cui uso in aree densamente popolate è proibito dal diritto umanitario.

Come festeggiare uno Stato che, mentre a parole sostiene di volere la “pace”, nei fatti continua ad operare nel senso esattamente opposto, espandendo i propri insediamenti colonici illegali, rifiutando di affrontare il problema dei profughi palestinesi persino nel senso di ammettere la propria responsabilità, proponendo all’Anp piani di “pace” che, come ancora qualche giorno fa riportava il quotidiano Yedioth Ahronoth, prevedono che Israele mantenga il controllo dei blocchi di insediamenti, della Valle del Giordano, di Gerusalemme?

No, non c’è assolutamente motivo di festeggiare alcunché se la festa di alcuni coincide con la rovina, la distruzione e la morte dei nostri fratelli, e spiace che anche il nostro Presidente si presti a fornire il proprio autorevole avallo ad una iniziativa che non unisce ma divide profondamente, sia in Italia che nel resto del mondo.

Noi non celebriamo l’anniversario di Israele.
(The Guardian, mercoledì 30 aprile 2008)

A maggio, le organizzazioni ebraiche celebreranno il 60° anniversario della fondazione dello stato di Israele. Ciò è comprensibile nel contesto di secoli di persecuzione culminati nell’Olocausto. Tuttavia, noi siamo Ebrei che non celebreranno. Sicuramente ora è tempo di riconoscere la storia degli altri, il prezzo pagato da un altro popolo per l’antisemitismo europeo e le politiche di genocidio di Hitler. Come ha messo in evidenza Edward Said, ciò che l’Olocausto è per gli Ebrei, lo è la Naqba per i Palestinesi.

Nell’aprile 1948, lo stesso mese dell’infame massacro di Deir Yassin e dell’attacco di mortai contro i civili palestinesi nella piazza del mercato di Haifa, il Piano Dalet entrò in funzione. Ciò autorizzò la distruzione di villaggi palestinesi e l’espulsione della popolazione indigena dai confini dello Stato. Non non celebreremo.

Nel luglio 1948, 70.000 Palestinesi furono cacciati dalle loro case a Lydda e a Ramleh nel periodo più caldo dell’estate senza cibo né acqua. Morirono a centinaia. E’ nota come la Marcia della Morte. Noi non celebreremo.

In tutto, 750.000 Palestinesi divennero rifugiati. Circa 400 villaggi vennero cancellati dalle mappe. La pulizia etnica non termino lì. Migliaia di Palestinesi (cittadini israeliani) furono espulsi dalla Galilea nel 1956. Molte migliaia in più quando Israele occupò la Cisgiordania e Gaza. Secondo il diritto internazionale e sulla base della risoluzione Onu 194, i rifugiati di guerra hanno il diritto al ritorno o alla compensazione. Israele non ha mai riconosciuto tale diritto. Noi non celebreremo.

Noi non possiamo celebrare l’anniversario della nascita di uno Stato fondato sul terrorismo, sui massacri e sulla spoliazione della terra di un altro popolo. Non possiamo celebrare l’anniversario della nascita di uno Stato che ancora adesso è impegnato nella pulizia etnica, che viola il diritto internazionale, che infligge una mostruosa punizione collettiva alla popolazione civile di Gaza e che continua a negare ai Palestinesi i diritti umani e le aspirazioni nazionali.

Noi celebreremo quando Arabi ed Ebrei vivranno da eguali in un pacifico Medio Oriente.

Seymour Alexander
Ruth Appleton
Steve Arloff
(seguono altre 102 firme)

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