30 giugno 2008

On line il sito di Bil'in in italiano.

Ricevo e pubblico volentieri il comunicato della redazione del sito in lingua italiana dedicato al villaggio di Bil’in.

E' on line (http://www.bilin-village.org/) la versione italiana del sito di Bil'in, villaggio palestinese simbolo della resistenza nonviolenta e creativa, diventato nel tempo modello di riferimento anche per gli altri villaggi che lottano contro l'occupazione israeliana. Il sito si propone di essere solo uno degli strumenti utili per diffondere a tutti i livelli il maggior numero di informazioni sulle lotte e le iniziative di Bil'in, sul movimento di solidarietà internazionale e sui principi che guidano tutte le espressioni della resistenza. Come primo passo è importante supplire al gap informativo che persiste soprattutto in Italia affinchè questa realtà e il suo messaggio vengano opportunamente tematizzati dai nostri mezzi di comunicazione.

Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all'indirizzo e-mail:
francesca.italia@bilin-village.org

Aggiungo solo, per chi non lo sapesse, che il villaggio di Bil’in, situato in Cisgiordania nei pressi della città di Ramallah, è da tempo luogo di manifestazioni non violente e di cortei, con cadenza settimanale, per protestare contro il muro di “sicurezza” illegale, l’esproprio delle terre palestinesi, l’espansione delle colonie, i raid dell’esercito israeliano.

A supporto di questa sacrosanta protesta, che viene imitata da un numero sempre maggiore di villaggi palestinesi, sono spesso schierati attivisti per la pace provenienti da tutto il mondo, e anche da Israele.

In quanto forma di lotta non violenta – che reclama semplicemente l’applicazione del parere della Icj dell’Aja e il ripristino della legalità internazionale – essa attira spesso le reazioni scomposte dell’amministrazione e dell’esercito israeliani.

Ancora venerdì scorso – nel corso di una marcia di protesta verso il muro di “sicurezza” che separa il villaggio dai suoi campi coltivati – i soldati israeliani hanno affrontato i manifestanti con gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma, ferendo due pacifisti, un americano e un irlandese, oltre a vari altri manifestanti colpiti dai sintomi derivanti dall’inalazione dei gas.

Intorno ai primi di giugno, nel corso di una analoga manifestazione, anche la Vice Presidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini e il Premio Nobel per la Pace Maired Corrigan sono rimaste intossicate dai gas lacrimogeni, mentre Giulio Toscano, membro della delegazione dei Giuristi democratici, è stato lievemente ferito.

I soldati dell’Idf sono soliti affrontare i partecipanti a questi cortei – ribadiamo assolutamente pacifici – con armi che, pur se classificate come non-lethal weapons, vengono tuttavia utilizzate impropriamente e in dispregio alle regole che ne disciplinano l’uso.

I proiettili rivestiti di gomma, in particolare, possono essere letali se sparati ad una distanza inferiore a quaranta metri, come dispongono le regole di utilizzo.

Il 14 marzo ad esempio, sempre a Bil’in, un ufficiale israeliano ha sparato a distanza ravvicinata contro un manifestante disarmato, che non tirava pietre e che non poneva assolutamente in pericolo la sicurezza delle truppe di Tsahal, come evidenziato dal video messo in rete da B’tselem; il giovane, successivamente, è stato ricoverato in ospedale e operato per l’estrazione del proiettile dalla coscia.

In altri casi analoghi, sono stati feriti due cameraman e un attivista giapponese ha perso un occhio.

Queste violenze assolutamente ingiustificate dimostrano la “pericolosità” per la potenza occupante di questa straordinaria esperienza di lotta non violenta che da tre anni a questa parte ha luogo nel villaggio di Bil’in, lotta che merita di essere sostenuta e diffusa in ogni modo.

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26 giugno 2008

Il funesto idillio tra la Ue e Israele.

Il 13 e il 14 luglio prossimi si svolgerà a Parigi un vertice che dovrebbe sancire la nascita di quella Unione per il Mediterraneo (UPM) così fortemente voluta dal Presidente francese Sarkozy.

E, tuttavia, vi sono numerosi paesi che mostrano perplessità sul percorso disegnato dalla Francia, sia in Europa (in primis la Germania) sia all’interno del mondo arabo (Algeria, Libia).

Il progetto di riavvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo è stato formalmente avviato nel 1995, sotto il nome di Euromed, con il processo di Barcellona; si trattava dell’incontro dei Quindici della Ue con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, condotto su un duplice binario riguardante lo sviluppo economico e la cooperazione nel campo della sicurezza.

Ma, ancora una volta, l’ostacolo più ingombrante lungo questo cammino si è dimostrato essere l’irrisolto conflitto israelo-palestinese, e in questi giorni molti, all’interno del mondo arabo ma non solo, hanno aspramente criticato la decisione dell’Unione europea di migliorare e intensificare ulteriormente i propri rapporti con Israele.

Su questo aspetto verte l’articolo che segue, pubblicato il 21 giugno sul magazine egiziano al-Masry al-Youm e qui riportato nella traduzione offerta dal sito arabnews.

Il 16 giugno, infatti, i Capi di Stato dell’Unione europea all’unanimità hanno deciso di stringere ulteriormente i rapporti con Israele in tutta una serie di campi, dall’economia al commercio, dalla ricerca alla giustizia, ivi incluso un ulteriore rafforzamento dei rapporti diplomatici tra le due parti.

Questa indubbia vittoria per Israele è frutto dell’intenso lavoro della diplomazia israeliana, che è riuscita a porre in secondo piano le critiche provenienti dal mondo arabo e persino dal premier palestinese “amico” Salam Fayyad, il quale aveva chiesto che questo rafforzamento delle relazioni tra la Ue e Israele fosse almeno subordinato alla cessazione dell’intensa attività di costruzione in atto negli insediamenti colonici.

Inutilmente
Fayyad aveva ricordato le dichiarazioni ufficiali della stessa Ue, secondo cui l’espansione degli insediamenti colonici “ovunque nei Territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est, è illegale” e “minaccia la fattibilità di una soluzione concordata a due Stati”. Anzi, per questo, è stato “punito” dal governo israeliano che si è subito vendicato trattenendo circa 20 dei 75 milioni di dollari dalle rimesse mensili di tasse e imposte spettanti all’Anp.

Come contentino, il premier palestinese ha ottenuto una semplice dichiarazione del Commissario europeo per le relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, secondo cui “l’espansione delle colonie ebraiche è una seria minaccia sia al processo di pace, sia alla possibilità di un futuro Stato palestinese”; la Ferrero-Waldner, tuttavia, si è subito premurata di sottolineare come la cessazione di ogni attività di espansione degli insediamenti colonici non costituisca affatto una precondizione al miglioramento dei rapporti con Israele.

Anziché, dunque, andare verso una auspicabile
sospensione dell’accordo euromediterraneo tra la Ue e Israele, i governi europei prendono la direzione esattamente opposta; eppure, come avevamo già ricordato, l’art.2 dell’accordo prevede che “le relazioni tra le parti … si fondano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, cui si ispira la loro politica interna e internazionale, e che costituisce elemento essenziale dell’accordo”.

Solo vuote affermazioni di principio, dunque.

Al pari di quelle contenute nella Dichiarazione di Barcellona, sottoscritte tra l’altro dall’attuale ministro della difesa israeliano Ehud Barak, che impegnavano (o meglio, avrebbero dovuto impegnare) i Paesi firmatari ad “agire in accordo con la Carta delle Nazioni Unite e con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, come pure degli altri obblighi sanciti dalla legge internazionale”, a “promuovere lo stato di diritto e la democrazia nei propri sistemi politici…”, a “rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali e a garantirne l’effettivo esercizio legittimo, ivi comprese la libertà di espressione, la libertà di associazione per scopi pacifici…”.

Eppure le violazioni da parte di Israele del diritto internazionale, dei diritti umani dei Palestinesi e delle stesse direttive europee sono state, e sono, numerose e rilevanti.

Senza voler ricordare le violazioni del diritto umanitario connesse all’assedio della Striscia di Gaza, ai quotidiani raid di Tsahal e all’assassinio indiscriminato di
civili, basterebbe citare:
- la violazione delle risoluzioni Onu e della road map determinata dall’attività di espansione in corso in almeno 101 insediamenti colonici (esclusa l’area di Gerusalemme), nonché le gare d’appalto pubblicate per oltre 840 nuove unità abitative nel periodo successivo ad Annapolis (a fronte delle 138 pubblicate negli 11 mesi precedenti);
- la distruzione di 185 strutture palestinesi, di cui 85 di tipo residenziale, nei primi 4 mesi successivi ad Annapolis;
- l’ulteriore incremento rilevato nei check point e negli altri ostacoli alla circolazione in Cisgiordania, che ora superano il numero di 600;
- il rifiuto di Israele di aderire al parere dell’Icj dell’Aja – fatto proprio da un voto dell’Assemblea Generale dell’Onu – che stabilisce la illegalità del muro di “sicurezza” per la parte costruita al di là della green line e ne chiede la immediata demolizione;
- la violazione delle norme dell’accordo euromediterraneo per quanto attiene ai prodotti provenienti dagli insediamenti colonici, anche con riguardo ai sussidi illegali riconosciuti dallo Stato israeliano ai coloni sotto forma di rimborso delle tasse pagate per l’esportazione.

Non bastano più le generiche dichiarazioni di principio non supportate da efficaci sanzioni, che pure la Ue ha dimostrato di saper prendere nei confronti di altri Paesi, l’Iran in testa; non basta che Sarkozy, in visita ufficiale in Israele, dichiari in modo estemporaneo che Gerusalemme dovrà essere condivisa tra i due popoli, tanto per tenersi buoni gli Arabi in vista del vertice di Parigi.

E fa specie che le voci più forti contro il rafforzamento dei legami tra la Ue e Israele sganciato da ogni condizione di rispetto dei diritti umani dei Palestinesi vengano, a parte che dal mondo arabo, proprio dall’interno di Israele, e soprattutto da quel giornalista coraggioso che risponde al nome di Gideon Levy.

Il quale è solo a
ricordarci che l’Europa, in questa maniera, sta perdendo il suo tradizionale ruolo di honest broker nel conflitto israelo-palestinese, schiacciandosi sulla posizione degli Usa e fornendo un cieco appoggio alle mille illegalità di Israele e al mostruoso boicottaggio di Gaza.

Resta davvero incomprensibile come debba essere un giornalista israeliano a rimproverarci perché veniamo a patti con una
occupazione criminale, anziché chiedere con forza il rispetto della legalità internazionale e quello dei più elementari diritti umani dei Palestinesi, divenendo in tal modo un semplice fantoccio degli Stati Uniti.

Ma tant’ è, l’Europa evidentemente ama Israele così tanto da negarsi la possibilità di una autonoma ed autorevole politica estera e da andare contro i propri interessi, ma anche contro gli interessi dello stesso Israele.

E, soprattutto, contro gli interessi della giustizia e della pace tra i popoli.

L’UNIONE EUROPEA PREFERISCE ISRAELE
21/06/2008

L’Unione Europea ha deciso ultimamente di rafforzare i propri rapporti economici, scientifici e tecnologici con Israele a tutti i livelli. La decisione permette alle compagnie israeliane di prendere parte ai progetti economici sostenuti dall’Unione, offrendo anche agli scienziati israeliani maggiori chance, rispetto al passato, di ottenere borse di ricerca finanziate dall’UE. Inoltre, a Israele è stata concessa la possibilità di partecipare direttamente ai programmi dell’Unione in campi come quello dell’istruzione, dell’ambiente e delle scienze aerospaziali.

Ciò è avvenuto malgrado l’opposizione dell’ANP e di alcuni paesi arabi (primo fra tutti l’Egitto) i quali hanno chiesto che questo rafforzamento su vasta scala dei rapporti con Israele fosse quantomeno condizionato a progressi concreti nel processo di pace. Gli arabi avevano anche chiesto, con minori speranze, che queste concessioni ad Israele fossero condizionate al congelamento della costruzione di nuovi insediamenti nei territori occupati.

L’Europa non ha ignorato del tutto questi appelli, tuttavia si è accontentata di accompagnare l’annuncio della decisione di accogliere di fatto Israele come un membro quasi a pieno titolo all’interno dell’Unione, con un appello generico e non vincolante che esorta lo stato ebraico a compiere passi volti a promuovere il processo di pace.

Quanto al nuovo accordo con Israele, esso è invece esplicito, vincolante, e preso all’unanimità – la stessa unanimità con cui l’Europa decise di boicottare la Striscia di Gaza dopo che Hamas ne aveva preso il controllo.

Dunque, forse per la prima volta nella storia dell’UE, le decisioni europee sono state dettate da criteri alquanto bizzarri. L’Europa, che afferma di sostenere i diritti umani ed i principi di libertà, boicotta i palestinesi, ovvero la parte che subisce l’occupazione, ed allo stesso tempo ricompensa la potenza occupante rafforzando i suoi rapporti scientifici ed economici con essa.

Inoltre, mentre fa di Israele un partner quasi a pieno titolo in campo economico, scientifico e tecnologico, offre agli arabi un progetto di ‘Unione per il Mediterraneo’ i cui obiettivi sembrano eminentemente politici, prevedendo l’adesione di Israele a prescindere dalle sorti del processo di pace.

Questi sviluppi sono parzialmente dovuti all’ascesa di nuovi leader, a livello europeo, maggiormente pronti a seguire i metodi e la visione politica di Washington, così come è stata definita dall’amministrazione Bush. Malgrado lo sbalorditivo fallimento di questa amministrazione a livello pratico, il linguaggio politico e le connessioni di pensiero che essa ha imposto (ad esempio stabilendo un legame fra al-Qaeda e Hamas, fra l’assenza di democrazia da un lato ed il rifiuto degli arabi di accettare Israele e la guerra al terrore dall’altro, ecc.) hanno avuto una profonda influenza sull’inconscio occidentale.

Ciò nonostante, bisogna dire che il rafforzamento delle relazioni scientifiche fra l’Europa ed Israele ebbe inizio fin dalla fine degli anni ’90, ovvero nel pieno dell’era di Chirac e Schroeder, in coincidenza con le crescenti difficoltà del processo di pace seguite all’arrivo di Netanyahu alla guida del governo in Israele.

Negli anni seguenti, l’Europa ebbe a disposizione numerosi strumenti di pressione per mezzo dei quali avrebbe potuto esortare Israele a porre fine alla sua devastante invasione della Cisgiordania durante la seconda Intifada – come ad esempio la revoca dei privilegi sul piano scientifico che abbiamo appena ricordato, o la reintroduzione del visto per gli israeliani che entrano nei paesi dell’Unione. Ma l’UE non fece neppure un accenno alla possibilità di ricorrere a simili strumenti. Non si può certamente far risalire tutto questo ai timori europei di una possibile reazione americana, visto che gli stessi Stati Uniti non hanno concesso ad Israele privilegi di questo genere. La cooperazione scientifica fra i due paesi è infatti relativamente contenuta, ed i cittadini israeliani possono entrare negli Stati Uniti solo disponendo del visto.

La verità è che l’Europa ha un interesse diretto nel rafforzare i rapporti con Israele, poiché ciò le torna utile in numerosi campi – come quelli dell’information technology e della programmazione informatica – per i quali Israele è considerata all’avanguardia.

Inoltre, le elite scientifiche ed intellettuali in Israele parlano lo stesso linguaggio parlato dai loro colleghi in Europa, ed hanno interessi simili, al contrario di quanto avviene nel mondo arabo, dove prevale un clima di isolamento scientifico, accompagnato da un progressivo scivolamento verso la chiusura intellettuale ed il fondamentalismo.

Sono queste le circostanze che hanno permesso ai principi politici di Bush di avere un’influenza concreta sui modi di vedere delle elite europee, malgrado i clamorosi fallimenti della sua amministrazione ed il crollo della sua popolarità.
E’ in queste circostanze che è maturata la decisione europea, malgrado la presenza di voci all’interno dello stesso Israele che hanno invitato l’UE a mostrare maggiore equilibrio, come ha fatto ad esempio il coraggioso giornalista Gideon Levy il quale, dalle pagine del quotidiano Haaretz del 17 giugno 2008, ha affermato che il rafforzamento dei rapporti, senza alcuna condizione, rappresenta una ricompensa per gli insediamenti, per l’assedio e per la riduzione alla fame dei palestinesi. “E’ in questo modo che l’Europa vuole vedere se stessa? ”, si chiede Levy.

E’ strano pensare che questo giornalista non sarebbe accolto, probabilmente, da nessuno dei nostri intellettuali, se giungesse in visita in Egitto, poiché una cosa del genere sarebbe vista come una normalizzazione dei rapporti! Noi continuiamo infatti a ritenere che azioni di questo genere – come accusare di tradimento un ministro che ha rapporti con Israele, o boicottare uno scrittore israeliano indipendentemente dai suoi orientamenti – possano influenzare veramente la politica di uno stato che è di fatto integrato a pieno titolo nell’Unione Europea in moltissimi campi. Fra le altre cose bizzarre, vi è poi il fatto che, se Levy fosse un giornalista egiziano, sarebbe probabilmente processato per quanto ha affermato, con l’accusa di aver danneggiato gli interessi nazionali! E’ questa un’altra ragione per cui il mondo fa a meno di noi.

Amr el-Zant è un astrofisico egiziano; è stato tra i fondatori del movimento pacifista egiziano

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24 giugno 2008

Ma davvero Israele vuole la pace?

La tregua faticosamente raggiunta tra Israeliani e Palestinesi, in vigore da giovedì scorso, già comincia a vacillare.

Nella notte di lunedì, infatti, alcuni colpi di mortaio sono stati sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele, e un proietto è caduto nei pressi della località di Nahal Oz senza provocare, tuttavia, né feriti né danni materiali. Secondo una portavoce dell’esercito israeliano, “Israele non ha risposto al fuoco e non ha violato la tregua”.

Se è vero che, formalmente, la tregua si limita infatti alla Striscia di Gaza e territori israeliani limitrofi, è da rilevare tuttavia che la portavoce dell’Idf ha “dimenticato” di ricordare che, qualche ora prima, i “travestiti” israeliani della Duvdevan – una unità d’elite composta da esperti sicari – avevano
trucidato a sangue freddo un militante della Jihad islamica, il 25enne Tareq Abu Ghali, e un suo collega di università, il 24enne Eyad Khanfar, nel corso del consueto raid di assassinio mascherato da operazione di arresto, avvenuto nel quartiere di al-Makhfiyeh a Nablus.

Entrambi i Palestinesi erano disarmati.

Siamo sempre di fronte alla stessa questione, ancora una volta: il principale ostacolo a una tregua effettiva tra Israeliani e Palestinesi continua ad essere rappresentato dall’ostinazione con cui Israele rifiuta di estendere il cessate al fuoco alla West Bank, limitandone l’applicazione alla Striscia di Gaza; ostacolo che già molti avevano denunciato in passato, a cominciare dall’inviato Onu Alvaro De Soto nel suo “End of mission report” del maggio 2007.

Su questo aspetto verte l’articolo di Gideon Levy pubblicato domenica 22 giugno su Ha’aretz, di cui appresso riporto la traduzione.

Come sottolinea Levy, il comportamento israeliano lascia sottintendere che Israele comprende soltanto il linguaggio della forza, la pace a Gaza si fa perché Sderot è sotto tiro, la Cisgiordania invece è tranquilla, nelle mani del governo-fantoccio del Quisling di turno, e dunque lì possono tranquillamente continuare i raid militari, le aggressioni dei coloni, l’espansione degli insediamenti, le eliminazioni “mirate”.

Sorge legittimo il sospetto, dunque, che Israele non voglia realmente la pace, e che questa tregua serva soltanto a dare un po’ di respiro a un Olmert in evidente difficoltà e ad assicurare la liberazione di Gilad Shalit.

Raggiunti entrambi questi obiettivi, non sarà difficile porre in essere l’ennesima provocazione contro i militanti palestinesi, per poi accusarli di aver rotto loro la “tregua”; sarà ancora più facile, per l’ennesima volta, piangere come vitelli orfani e gridare che tra i Palestinesi non vi è un partner con cui raggiungere un accordo di pace.

Ma chi non vuole davvero la pace è ben chiaro a Gideon Levy e a quanti non hanno paura di raccontare come stanno per davvero le cose.

QUIET IS MUCK
di Gideon Levy

Una grande catastrofe si è improvvisamente abbattuta su Israele: il cessate il fuoco è entrato in vigore. Cessate il fuoco, cessate i Qassam, cessate gli assassinii, almeno per ora. Queste buone e promettenti notizie sono state accolte in Israele cupamente, con pessimismo, persino con ostilità. Al solito, i politici, gli alti comandi dell’esercito e gli esperti sono andati di pari passo nel vendere il cessate il fuoco come uno sviluppo negativo, minaccioso e disastroso.

Persino dalle persone che hanno forgiato l’accordo – il primo ministro e il ministro della difesa – non si è udita una parola di speranza; giusto per pararsi il sedere in caso di fallimento. Nessuno ha parlato di opportunità, tutti hanno parlato del rischio, che sostanzialmente è infondato. Hamas si armerà? Perché di tutti i periodi durante il cessate il fuoco? Soltanto Hamas si armerà? Noi no? Forse si armerà, e forse si accorgerà che non dovrebbe usare la forza delle armi a motivo dei benefici della pace.

E’ difficile da credere: lo scoppio di una guerra viene accolto qui con molta più simpatia e comprensione, per non dire entusiasmo, di un cessate il fuoco. Quando i guerrafondai danno il via, i nostri tam-tam unificati lanciano solo messaggi incoraggianti; quando suona il cessato allarme, quando la gente a Sderot può dormire sonni tranquilli, anche solo per un breve periodo, siamo tutti preoccupati. Questo dice qualcosa sul volto malato della collettività: la pace è robaccia, la guerra è la cosa più importante.

Ancor prima che il cessate il fuoco fosse raggiunto, tutti andavano delineando il più tetro degli scenari: l’accordo non sarà mantenuto, sarà rotto immediatamente, Hamas si armerà, Israele ha ceduto. Nessuna di queste ipotesi è necessariamente vera. Nessun profeta di sventura potrebbe suggerire una alternativa migliore al cessate il fuoco, eccetto sempre maggiori spargimenti di sangue da entrambe le parti.

La tregua potrà esser mantenuta solo se rappresenta un preludio a ulteriori positivi sviluppi; più di ogni cosa, dunque, la tregua abbisogna del vento favorevole della buona volontà e delle dichiarazioni costruttive, non di quelle distruttive. Se continuiamo ad essere così cupi, il pessimismo si concretizzerà da solo. Molto dipende da noi.

Hamas vuole la tregua perché è funzionale ai suoi scopi. Questo non è necessariamente un male per Israele. Pochi mesi di tregua e la revoca dell’orribile assedio di Gaza potrebbero creare una nuova realtà. La protesta di Noam Shalit è comprensibile, ma la nuova atmosfera di calma è proprio il momento per assicurare finalmente il rilascio di suo figlio Gilad e quello di centinaia di prigionieri palestinesi – due sviluppi positivi per entrambi i popoli.

Si, la partita a somma zero tra noi e loro è finita molto tempo fa. E’ imbarazzante che siamo i soli a non averlo interiorizzato. E si, anche il rilascio di prigionieri palestinesi, un passo sempre presentato da parte nostra come un “prezzo”, può rappresentare una conquista per Israele, non solo per i Palestinesi. Una vita nuova e un po’ migliore a Gaza potrà assicurare una nuova vita anche ad Israele. Non per nulla, i giorni in cui è stata aperta una breccia nella barriera tra Gaza e l’Egitto sono stati i più tranquilli che il Negev abbia conosciuto in due anni.

A seguito del cessate il fuoco, può nascere un governo palestinese di unità nazionale che costituisca un partner reale e non virtuale, espressione dell’intero popolo palestinese e non di metà di esso. Certo, Hamas non abbandonerà rapidamente le sue posizioni integraliste, ma sotto l’egida di un governo unitario può sorprendere la gente, per lo meno in maniera passiva. Un accordo con un governo di tal genere non sarà un accordo di marionette tra Ramallah e Gerusalemme, quello conosciuto come “shelf agreement”. Se ottenuto, sarà un vero accordo. Il cessate il fuoco ha già dimostrato che non solo Israele vuole negoziare con Hamas, ma anche Hamas vuole negoziare con Israele. Non è una buona notizia?

Se fossi primo ministro, del tipo che ritiene che senza una soluzione a due Stati Israele non può continuare ad esistere, come Ehud Olmert ha dichiarato, farei di tutto per estendere immediatamente il cessate il fuoco alla Cisgiordania. Non è affatto chiaro il motivo per cui il raggiungimento della tregua a Gaza, senza estenderla alla Cisgiordania, è considerato un successo per Israele. Un successo? Un disastro. Fino a quando la tregua non sarà raggiunta anche in Cisgiordania, la calma a Gaza resterà in bilico. A Gaza non saranno in grado di mantenere la calma per gli atti di violenza compiuti da Israele in Cisgiordania. E’ questa la ragione per cui Israele non vuole estendere il cessate il fuoco?

Quell’idea che ha attecchito tra noi, che la calma equivale alla resa, dovrebbe essere ripensata. La nostra forza risiede solo negli assassinii? Siamo diretti solo verso un bagno di sangue? Il rifiuto di estendere il cessate il fuoco alla Cisgiordania mostra anche, ancora una volta, che Israele comprende soltanto il linguaggio della forza: si accorderà per una tregua in Cisgiordania solo quando anche da là verrano lanciati i Qassam. Tutto questo che messaggio manda ai Palestinesi? Volete la pace in Cisgiordania? Per favore, lanciate i Qassam anche su Kfar Sava.

Dunque questo è qualcosa di molto più profondo di un semplice cessate il fuoco. Riguarda l’immagine di Israele. La risposta negativa israeliana al cessate il fuoco ancora una volta solleva un grave sospetto: può darsi che Israele in realtà non voglia la pace?

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18 giugno 2008

Una vignetta che fotografa la realtà.


“Mio padre mi ha detto che voi Arabi siete dei malvagi terroristi animali” dice il bambino ebreo, e quello palestinese risponde: “mio padre non mi ha detto niente, è stato assassinato dal tuo!”.

A volte una vignetta è più efficace e fulminante di cento statistiche, riesce a fotografare perfettamente una realtà tragica e disperata con una battuta che strappa nulla più di un sorriso amaro, come amara è la consapevolezza del dramma senza fine vissuto dal popolo palestinese e dell’incredibile sovvertimento della realtà reso possibile dalla grancassa della propaganda sionista, dall’acquiescenza e dalla disinformazione sparsa a piene mani dai media, dal servilismo dei governi.

Per le cancellerie degli Stati occidentali e per i media di regime, i Palestinesi e Hamas rappresentano il male, il terrore, la strage di civili inermi, mentre Israele, la potenza occupante brutale e spietata, viene dipinta come la vittima di un’eterna aggressione e di un odio immotivato, uno Stato che si limita a difendersi dando prova di cautela e moderazione.

Eppure le statistiche ufficiali – disponibili a iosa per chi solo voglia consultarle – mostrano una realtà affatto diversa.

Secondo gli ultimi dati forniti dallo United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (oPt Protection of Civilians – Reports to the end of May 2008), nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2005 e il 31 maggio di quest’anno, i morti e i feriti delle due parti ammontavano alle seguenti cifre:

2005
Palestinesi uccisi 216 (60 bambini), feriti 1.260
Israeliani uccisi 48 (6 bambini), feriti 484
rapporto uccisi 4,5:1

2006
Palestinesi uccisi 678 (140 bambini), feriti 3.194
Israeliani uccisi 25 (2 bambini), feriti 377
rapporto uccisi 27:1

2007
Palestinesi uccisi 396 (53 bambini), feriti 1.844
Israeliani uccisi 13 (0 bambini), feriti 322
rapporto uccisi 30,4:1

2008
Palestinesi uccisi 397 (80 bambini), feriti 1.225
Israeliani uccisi 24 (4 bambini), feriti 170
rapporto uccisi 16,5:1

Già questi dati rivelano come il concetto di “risposta” israeliano sia molto più simile a quello di una “rappresaglia” di stampo nazista piuttosto che a quello di una “autodifesa” di uno Stato aggredito, posto che sia concepibile definire come vittima di una aggressione una nazione che porta avanti da più di quarant’anni un’occupazione militare ormai unica al mondo, caratterizzata dalla ferocia, dalla brutalità, dal totale disinteresse per il concetto stesso di diritti umani.

Ma l’obiezione che più spesso si avanza alla cruda realtà dei numeri e del massacro della popolazione palestinese è: sì, d’accordo, ma i “terroristi” colpiscono indiscriminatamente i civili, gli Israeliani al contrario cercano sempre di salvaguardarne l’incolumità; ma anche questa tesi naufraga miseramente alla luce dei dati statistici.

Nel periodo sopra considerato, dei 110 Israeliani uccisi dai Palestinesi, soltanto 29 (pari al 26,4%) erano civili, mentre il restante 73,6% delle vittime appartenevano all’Idf e sono state uccise durante raid militari.

Di contro, nello stesso lasso di tempo, dei 1.687 Palestinesi uccisi dall’esercito israeliano (escludendo quindi le vittime delle fucilate dei settlers…), il 47,13% erano militanti uccisi in combattimento, il 43,62% erano civili inermi e il restante 9,25% erano vittime di eliminazioni “mirate” o wanted persons uccise durante operazioni di arresto.

Per riassumere, dunque, nel periodo 1° gennaio 2005 – 31 maggio 2008 gli Israeliani hanno ucciso 1.687 Palestinesi, dei quali il 43% erano civili inermi e innocenti, mentre i Palestinesi hanno ucciso 110 Israeliani, dei quali il 26% erano civili inermi e innocenti, in un rapporto di 15,3:1 per quanto riguarda il totale delle persone uccise, rapporto che diventa di 24,4:1 se ci si limita a considerare la popolazione civile.

Eppure, anche di fronte a queste cifre, i Palestinesi continuano ad essere considerati terroristi anziché vittime e gli Israeliani vittime anziché assassini e carnefici, in un diabolico sovvertimento della realtà che trova difficilmente riscontri nella storia.


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13 giugno 2008

Quei bravi coloni.


In questi ultimi mesi, il numero di attacchi contro la popolazione civile palestinese, che vedono il coinvolgimento di coloni israeliani della West Bank, è in costante aumento; secondo gli ultimi dati resi noti dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (The Humanitarian Monitor, aprile 2008), nel solo mese di aprile sono stati riportati 25 incidenti di questo genere, rispetto ai 17 del mese di marzo, la maggior parte dei quali riguardanti gruppi di coloni armati che hanno attaccato Palestinesi al lavoro sulla loro terra o che portavano al pascolo le loro pecore.

L’ultimo di questi attacchi bestiali, assolutamente gratuiti e ingiustificati, è avvenuto domenica pomeriggio e ha riguardato un pastore palestinese 70enne, Khalil Salama al-Nawaj’a, sua moglie, la 68enne Thamam al-Nawaj’a, e il loro nipote Yousef, di 32 anni, picchiati selvaggiamente con mazze da baseball e spranghe da un gruppo di settlers mascherati provenienti dal vicino insediamento colonico di Susia.

Nel video che testimonia l’aggressione, visionabile sul sito internet della Bbc, si vede chiaramente la donna che pascola le proprie pecore a breve distanza dall’insediamento, i coloni che arrivano dalla sommità della collina, il brutale pestaggio della famiglia di pastori.

La Bbc ha chiesto un commento al portavoce della colonia, che ha declinato l’invito, mentre la polizia ha affermato che sta indagando sull’accaduto, benché la realtà dei fatti dimostri come molto raramente, nel passato, un colono israeliano sia stato arrestato per violenza contro i Palestinesi o le loro proprietà.

Giovedì, 12 giugno, un gruppo di israeliani armati provenienti dalla colonia di Yitzhar ha attaccato la casa della famiglia Khalaf, nella città di Howwara, ferendo a coltellate il 33enne Ahmad Khalaf e picchiando selvaggiamente il 25enne Samir Ali, entrambi successivamente ricoverati presso l’ospedale di Nablus; nessun arresto o fermo è stato effettuato dalla polizia israeliana.

Giovedì, 5 giugno, alcuni coloni provenienti da Kiryat Arba, insediamento situato a est di Hebron, hanno attaccato i civili palestinese a colpi di pietre e bottiglie, picchiando violentemente il 18enne Mahdi Maher Abu Hatta; nessuna arresto o fermo è stato effettuato dalla polizia israeliana.

Sabato pomeriggio, 3 maggio, coloni appartenenti all’insediamento di Yitzhar hanno dato fuoco ad alcuni campi coltivati nei pressi del villaggio di ‘Asira al-Qibliya, impedendo successivamente ai Palestinesi di raggiungere alcune aree interessate dall’incendio per spegnere il fuoco, scontrandosi con essi.

Giunti sul luogo, i soldati israeliani – anziché consentire ai pompieri di spegnere l’incendio ed arrestare i coloni autori del gesto – hanno apertamente spalleggiato i settlers, arrestando alcuni dei residenti del villaggio: forse erano stati troppo solerti nel cercare di spegnere le fiamme!

Ma, naturalmente, gli attacchi delle bestie coloniche non si limitano a queste violenze, né allo sradicamento di centinaia di piante di ulivo (oltre 1.200 nel solo mese di aprile), ma a volte hanno un esito ben più tragico.

Venerdì sera, 9 maggio, il 21enne Khaled Fat’hi al-Anati è stato ucciso a colpi di fucile dalle guardie della colonia di Ofra, mentre era a caccia nei terreni circostanti; nel mese di aprile, il 15enne Sherif Shtayyeh è stato investito e ucciso da un bus guidato da un colono israeliano mentre stava facendo attraversare al suo gregge la by-pass road situata vicino al villaggio di Salim, mentre il corpo senza vita di un altro palestinese 15enne è stato trovato nei pressi della colonia di Hamra.

Anche in questi casi, nessun arresto o fermo è stato effettuato dalle autorità israeliane…

Complessivamente, nel periodo compreso tra il settembre del 2000 e il mese di maggio di quest’anno, oltre 40 Palestinesi sono stati uccisi da coloni israeliani.

Degno di nota è il fatto che quando sono i Palestinesi ad attaccare un Israeliano, le autorità usano ogni mezzo a disposizione per arrestarli e sottoporli a processo, che avviene peraltro davanti ad una corte militare.

Viceversa, quando sono i coloni a commettere violenze o aggressioni, la polizia e l’esercito israeliani sono estremamente riluttanti a svolgere le dovute indagini, e nel corso degli “incidenti” non intervengono mai – come sarebbe loro dovere – a difesa dei Palestinesi e delle loro proprietà.

Nei rari casi in cui un colono è sottoposto a giudizio per crimini perpetrati nei Territori occupati, peraltro, esso viene giudicato in base al diritto penale israeliano e gode delle relative guarentigie, contrariamente a quanto accade per i Palestinesi che, come abbiamo detto, sono sottoposti alla giurisdizione delle corti militari.

Accade dunque che, per uno stesso reato e su uno stesso territorio, vengano applicate norme diverse in base alla nazionalità dell’autore del crimine, con una palese violazione (l’ennesima) del principio di eguaglianza di fronte alla legge.

Spesso si discute sullo status dei coloni israeliani, che secondo alcuni, pur risiedendo illegalmente negli insediamenti costruiti nei Territori occupati, godrebbero ugualmente delle garanzie previste dal diritto umanitario a tutela dell’incolumità della popolazione civile.

Ma definire “popolazione civile” queste sorte di bande paramilitari, spesso armate tal quale un esercito regolare e formate da bestie brutali e spietate, a volte appare davvero una forzatura.

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5 giugno 2008

E' imminente un attacco contro l'Iran?

In questi giorni molti analisti si chiedono se sia o meno concreta la possibilità di un attacco militare contro l’Iran, in coincidenza degli ultimi mesi della presidenza Bush.

Nell’interessante articolo che segue, pubblicato il 30 maggio dal quotidiano libanese The Daily Star e qui proposto nella traduzione del sito arabnews, l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer da una risposta a tale quesito, non proprio rassicurante.

Qui voglio solo aggiungere due brevi considerazioni, discostandomi nella seconda da quanto sostenuto dall’ex ministro nell’articolo.

1) La presenza in questi giorni a Roma del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione del vertice mondiale della Fao, è stata l’ennesima occasione colta al volo dal nostro governo per fare una doverosa brutta figura.

Proprio nel periodo in cui, infatti, l’Italia va pietendo urbi et orbi la concessione di un posto all’interno del Gruppo di Contatto che dovrebbe “risolvere” il problema del nucleare iraniano (il cd. Gruppo “5+1”, formato dalle cinque potenze con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania), la presenza di Ahmadinejad a Roma doveva rappresentare una vera e propria manna dal cielo, consentendo a Berlusconi e al suo ministro degli esteri di incontrarlo e di affrontare – con pacatezza pari alla fermezza – le varie questioni spinose sul tappeto: il problema del nucleare, le minacce ad Israele, le ingerenze in Afghanistan e in Iraq e, più in generale, nell’intera regione mediorientale.

E, invece, che accade? Berlusconi rifiuta di incontrare Ahmadinejad, gli fa lo sgarbo di non invitarlo a cena, addirittura si alza cinque minuti prima del suo discorso alla Fao per non doverlo annunciare, il nostro ministro degli esteri Frattini si rifiuta di incontrare il suo omologo iraniano e il Presidente della Camera Fini rinuncia ad incontrare l’ambasciatore iraniano a Roma.

Ora, non c’è chi non veda come sia del tutto assurdo e incomprensibile un tale comportamento, chiedere di entrare in un gruppo che dovrebbe trattare ed interloquire con la controparte iraniana sul problema del nucleare pacifico o meno e, contemporaneamente, negarsi al dialogo. Salvo lasciare che, qualche ora più tardi, Ahmadinejad venga acclamato da un folto gruppo di imprenditori ansiosi di concludere buoni affari: pecunia non olet!

Come faceva notare ieri Giuseppe Cassini su l’Unità – e qualche giorno addietro Lucio Caracciolo su La Repubblica – per entrare nel Gruppo dei “5+1” bisogna pur avere qualche merito concreto, avere un qualche risultato pratico da mostrare nel ruolo da noi preferito, quello di mediatori e di “facilitatori”, e come facciamo ad ottenerlo se neppure ci proviamo?

Capiamo bene come Berlusconi e il suo governo non abbiano voluto incontrare il presidente iraniano per non irritare gli Usa e, soprattutto, Israele; ma una posizione – vorremmo definirla moralistica – di chiusura così netta nei confronti dell’Iran, oltre che a rischiare di danneggiare i cospicui interessi economici che l’Italia ha in questo Paese, risulta peraltro assolutamente priva di effetti pratici.

Il mondo, e l’Italia, non ha bisogno di una imitazione caricaturale (in piccolo) della politica estera seguita dall’amministrazione Bush, e ciò e ancor più vero in un momento in cui persino negli Usa personalità politiche dal passato di rilievo quali Zbigniew Brzezinski e, soprattutto, Henry Kissinger non si fanno scrupolo di consigliare al presidente americano che verrà di dialogare con l’odiato “nemico”.

2) Hanno sollevato scalpore e suscitato numerose proteste le dichiarazioni provocatorie di Ahmadinejad riguardo alla “cancellazione” di Israele dalle mappe geografiche, sebbene lo stesso presidente iraniano si sia premurato, successivamente, di precisare che lui aveva solo voluto dare una “
notizia” riguardante “sviluppi che si stanno verificando”.

Nessun rilievo, invece, è stato dato dai media italiani alle ben più concrete minacce che, non da ora peraltro, Israele lancia contro l’Iran.

Così sono passati sotto silenzio le dichiarazioni del ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, secondo cui “la minaccia di una mossa militare esiste e non è stata tolta dal tavolo”, le indiscrezioni del quotidiano Yedioth Ahronot, secondo cui nel recente incontro tra il premier Olmert e Bush si è discusso anche di un possibile
attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane, il discorso tenuto martedì dallo stesso Olmert alla conferenza dell’Aipac, in cui ha sostenuto che “dobbiamo fermare la minaccia iraniana con ogni mezzo possibile”.

Ora, non se ne abbia a male nessuno, ivi incluso Ahmadinejad, ma le invettive e le minacce del presidente iraniano suonano – per dirla alla Cassini – “come un cembalo squillante di nessun effetto pratico”, mentre i tamburi di guerra israeliani sono alquanto più realistici e preoccupanti.

Ancora nessuno è riuscito a spiegare, peraltro, con quale autorità morale si possa chiedere all’Iran di rinunciare ad un nucleare fino a prova contraria pacifico quando Israele possiede un arsenale atomico di tutto rispetto (dalle 150 alle 200 testate, si presume) e non consente agli ispettori dell’IAEA di fare nemmeno una gita di piacere sul suo territorio.

Molto più corretto, e ragionevole, sarebbe impostare un discorso di denuclearizzazione dell’intera regione mediorientale, ma naturalmente non se ne parla neppure.

Israele potrebbe presto attaccare l’Iran.
30/05/2008

In conseguenza della fallimentare politica americana, la minaccia di un nuovo confronto militare continua a incombere sul Medio Oriente come una nuvola nera. I nemici degli Stati Uniti si sono rafforzati, e l’Iran – pur essendo bollato come membro del cosiddetto “asse del male”- è stato catapultato verso l’egemonia regionale. L’Iran non avrebbe mai potuto raggiungere questo risultato da solo, e di sicuro non in un periodo così breve.

Quella che fino ad ora era stata una latente rivalità tra Iran e Israele è stata così trasformata in una aperta lotta per il predominio in Medio Oriente. Ciò ha portato come risultato l’emergere di sorprendenti, se non bizzarre, alleanze: da un lato l’Iran, la Siria, Hezbollah, Hamas, e l’Iraq dominato dagli sciiti e appoggiato dagli americani; dall’altro Israele, l’Arabia Saudita e la maggior parte degli altri stati arabi sunniti, ognuno dei quali sente la propria esistenza minacciata dall’ascesa dell’Iran.

Il pericolo di un confronto di grandi proporzioni è stato ulteriormente acuito da una serie di fattori: l’aumento costante del prezzo del petrolio, che ha creato nuove opportunità finanziarie e politiche per l’Iran; la possibile sconfitta dell’Occidente e dei suoi alleati regionali nelle guerre ‘per procura’ combattute nella Striscia di Gaza e in Libano; l’incapacità del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di indurre l’Iran ad accettare una sospensione anche solo temporanea del suo programma nucleare.

Il programma nucleare iraniano è il fattore determinante in questa equazione, poiché minaccia l’equilibrio strategico regionale in maniera irreversibile. Il fatto che l’Iran – una nazione il cui presidente non si stanca mai di invocare l’annientamento di Israele, e che ne minaccia i confini a nord e a sud attraverso il proprio appoggio alle guerre ‘per procura’ combattute da Hezbollah e Hamas – possa un giorno possedere missili con testate nucleari, è il peggior incubo per la sicurezza di Israele. La politica non si basa solo sui fatti, ma anche sulle percezioni. Che una percezione rispecchi o no la realtà non è un elemento determinante, poiché conduce tuttavia ad una decisione.

Ciò accade in particolare quando la percezione riguarda ciò che le parti in causa considerano essere una minaccia per la propria stessa esistenza. Le minacce di distruzione del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad vengono prese seriamente da Israele, a causa del trauma dell’Olocausto. Inoltre la maggior parte dei paesi arabi condivide la paura di un Iran “nuclearizzato”. Questo mese, Israele ha festeggiato il proprio 60° anniversario, ed il presidente americano George Bush si è recato in visita a Gerusalemme per prendere parte alla commemorazione. Coloro i quali si aspettavano che la visita avrebbe principalmente riguardato lo stallo dei negoziati fra Israele ed i palestinesi sono stati amaramente delusi. L’argomento centrale di Bush, compreso il suo discorso alla Knesset israeliana, è stato l’Iran. Bush aveva promesso di portare il conflitto mediorientale in prossimità di una soluzione prima della fine del suo mandato, ma la sua ultima visita in Israele sembra indicare un diverso obiettivo: sembra che egli stia pianificando, insieme ad Israele, di porre fine al programma nucleare iraniano, e di farlo attraverso mezzi militari piuttosto che diplomatici.

Chiunque abbia seguito la stampa israeliana durante le celebrazioni del 60° anniversario e abbia ascoltato attentamente quanto è stato detto a Gerusalemme, non ha bisogno di essere un profeta per capire che i nodi stanno venendo al pettine. Basta considerare i seguenti punti:

1) “Basta con l’appeasement” è la richiesta portata avanti dall’intero panorama politico israeliano – con riferimento alla minaccia nucleare proveniente dall’Iran (con ‘politica di appeasment’ si intende la politica condiscendente adottata da Francia e Germania nei confronti del regime nazista durante gli anni ’30, nel tentativo di contenere l’espansionismo nazista evitando uno scontro diretto (N.d.T.) ).

2) Mentre Israele portava avanti i festeggiamenti, il ministro della difesa Ehud Barak ha dichiarato che un confronto militare ‘per la vita o per la morte’ è un’innegabile possibilità.

3) Il comandante dell’aviazione militare israeliana, ha dichiarato che le forze dell’aviazione sarebbero capaci di qualsiasi missione, non importa quanto difficoltosa, per proteggere la sicurezza della nazione. La distruzione di un impianto nucleare in Siria lo scorso anno, e l’assoluta mancanza di una reazione internazionale all’episodio, sono viste come un modello per le future azioni contro l’Iran.

4) L’elenco di armi richieste da Israele agli Stati Uniti, discusso con il presidente americano, si concentra principalmente sul miglioramento delle capacità di attacco e di precisione delle forze aeree israeliane.

5) Le iniziative diplomatiche e le sanzioni dell’ONU contro l’Iran sono percepite come totalmente inefficaci.

6) Con l’avvicinarsi della fine della presidenza Bush, e vista l’insicurezza riguardo alla possibile politica del suo successore, si ritiene che la finestra di opportunità per un’azione israeliana si stia progressivamente chiudendo.

Gli ultimi due fattori hanno un peso particolare. Mentre è risaputo che l’intelligence israeliana preveda che l’Iran giungerà al traguardo del suo programma nucleare militare al più presto fra 2010 e 2015, la sensazione comune in Israele è che la finestra di opportunità politica per sferrare l’attacco sia adesso, durante gli ultimi mesi della presidenza Bush.

Sebbene Israele riconosca che un attacco agli impianti nucleari iraniani comporterebbe rischi seri e difficili da prevedere, la scelta fra l’eventualità di accettare l’arma nucleare iraniana ed il tentativo di distruggerla militarmente, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero, è chiara. Israele non rimarrà fermo ad aspettare che le cose seguano il loro corso.

Il Medio Oriente si sta avviando verso un nuovo grande confronto nel 2008. L’Iran deve capire che se non si arriva ad una soluzione diplomatica nei prossimi mesi, vi è il rischio che esploda un nuovo pericoloso conflitto militare. E’ giunta l’ora di dare inizio a trattative serie.

L’ultima offerta da parte delle sei grandi potenze - i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania - è sul tavolo delle trattative, e si spinge molto in là nell’assecondare gli interessi iraniani. Ciò nonostante, la questione decisiva sarà riuscire a congelare il programma nucleare iraniano mentre sono in corso le trattative, al fine di evitare l’eventualità di un confronto militare prima che esse siano concluse. Se questo nuovo tentativo dovesse fallire, le cose potrebbero presto farsi serie, molto serie.

Joschka Fischer, ministro degli esteri e vice cancelliere tedesco dal 1998 al 2005, ha guidato il Partito dei Verdi per circa 20 anni

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4 giugno 2008

Sospendere l'accordo di associazione Ue-Israele.

L’accordo euromediterraneo di associazione tra la Ue ed Israele, firmato nel 1995 ed entrato in vigore nel 2000, mira essenzialmente a tre obiettivi: lo sviluppo del libero scambio tra gli Stati membri dell’Unione europea e Israele, il rafforzamento della cooperazione e l’instaurazione di un dialogo politico stabile tra le parti.

Tale accordo, in particolare, prevede un trattamento reciproco preferenziale tra la Ue e Israele, la riduzione dei dazi doganali e l’esenzione da essi nei rapporti commerciali; esso ha istituito, inoltre, un Consiglio di associazione, composto da membri del Consiglio della Ue, della Commissione europea e del Governo israeliano, che ha il compito di sorvegliarne l’esatta applicazione.

Attualmente, la Ue è il maggior importatore di beni israeliani, e il secondo più grande esportatore: nel solo 2006, l’ammontare totale delle merci commerciate tra l’Unione europea e Israele è stato pari a 23,5 miliardi di euro.

Da poco più di un mese, Israele e la Commissione europea hanno raggiunto un accordo relativo a mutue concessioni fiscali nel campo dei prodotti agricoli, alimentari e della pesca, in base al quale gli Israeliani contano di esportare in Europa un quantitativo più che raddoppiato di prodotti alimentari e bevande.

Nell’ambito di questo accordo, infatti, il 95% degli alimenti lavorati sarà esente da imposizioni o quote. Già adesso, peraltro, Israele esporta il 75% dei suoi prodotti agricoli freschi e lavorati nei mercati europei; l’accordo nel settore agricolo riguarda circa 1 miliardo di dollari di esportazioni israeliane, mentre il totale delle importazioni dall’Europa ammonta a circa 500 milioni di euro.

Chi scrive ritiene che questa situazione rappresenti per l’Europa un formidabile strumento di pressione per costringere Israele, finalmente, a raggiungere un accordo di pace con i Palestinesi che sia rispettoso delle prescrizioni del diritto internazionale e dei fondamentali diritti umani dei Palestinesi.

Molti dei prodotti esportati con etichetta israeliana, infatti, provengono in realtà da territori palestinesi occupati, e in specie dalla Valle del Giordano; ciò è in contrasto con la norma contenuta nell’art.83 dell’accordo euromediterraneo, che ne limita l’ambito di applicazione al territorio dello Stato di Israele, esclusi dunque i territori occupati nel 1967 e le colonie.

L’articolo 2 dell’accordo, inoltre, prevede che “le relazioni tra le parti … si fondano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, cui si ispira la loro politica interna e internazionale, e che costituisce elemento essenziale dell’accordo”.

Ora, non c’è chi non veda come la previsione dell’art.2 dell’accordo non trovi affatto applicazione per quanto attiene al trattamento riservato da Israele ai Palestinesi, i cui diritti umani fondamentali vengono quotidianamente conculcati da una occupazione militare brutale e spietata.

Basti pensare al sistema dei check point e delle strade ad uno esclusivo dei coloni nella West Bank, alla punizione collettiva inflitta a un milione e mezzo di Palestinesi nella Striscia di Gaza, alla demolizione di case e infrastrutture (ivi incluse quelle finanziate dalla stessa Ue), allo sradicamento di milioni di piante di ulivo, alla sottrazione di terra e di risorse a causa della costruzione del muro di “sicurezza” e dell’espansione ininterrotta degli insediamenti colonici, agli illegali arresti di massa e alle retate effettuate da Tsahal nei territori occupati (372 Palestinesi arrestati solo a maggio, tra i quali 32 minorenni).

Questo, senza considerare i raid militari e i crimini di guerra quotidianamente commessi dall’esercito israeliano, che nel solo mese di maggio sono costati la vita a ben 45 Palestinesi, ivi inclusi cinque bambini e due donne.

Naturalmente, chi scrive non è contrario per principio ad una sempre maggior integrazione di Israele nel mercato europeo, ma vorrebbe che tale processo fosse subordinato alla reale applicazione dell’art.2 dell’accordo euromediterraneo con Israele.

L’Europa non può continuare ad assistere inerte al quotidiano scempio dei diritti umani dei Palestinesi, alla distruzione della loro economia, alla quotidiana brutalità, devastazione e morte che regna nei Territori occupati.

E’ per questo che vi chiedo di firmare questa petizione, che mira appunto a chiedere la sospensione dell’accordo commerciale tra la Ue e Israele, in segno di protesta contro la continua violazione dei diritti umani e del diritto alla autodeterminazione del popolo palestinese.

Tale sospensione dovrebbe esser mantenuta fino a quando non sarà cessata l’illegale occupazione militare dei Territori palestinesi e l’inaudito assedio alla popolazione di Gaza, e fino a che Israele non si conformerà interamente alle previsioni del diritto internazionale e del diritto umanitario.

Non è chiedere troppo, mi pare.

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