29 ottobre 2008

Se sfilano i gay, possiamo farlo anche noi!


Stamani l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha accolto il ricorso presentato da due attivisti dell’estrema destra ebraica, Itamar Ben-Gvir e Baruch Marzel, consentendo loro di tenere una manifestazione a Umm al-Fahm, cittadina abitata in gran parte da Arabi israeliani, intorno alla metà di novembre.

Certamente concordiamo sul fatto che la libertà di manifestazione del pensiero è alla base della democrazia, e che impedire una manifestazione o un corteo perché ne potrebbero derivare proteste o scontri fisici costituirebbe un pericoloso precedente.

E, tuttavia, si vorrebbe che analoga libertà, in Israele come nel resto del mondo, fosse parimenti assicurata anche ad altri che vorrebbero diffondere le proprie idee senza dover rischiare il linciaggio morale o, addirittura, di finire in galera, come accade a chi scrive libri sulle “pasque di sangue” o a chi sostiene tesi negazioniste dell’Olocausto degli Ebrei.

Perché quelli che andranno in corteo a manifestare a Umm al-Fahm non sono persone miti e gentili che intendono propugnare la pace e la fratellanza nel mondo, ma si tratta, al contrario, di teppaglia razzista che andrà a sventolare bandiere al grido di “la Terra di Israele appartiene agli Ebrei”.

Ben Gvir, secondo quanto riportato dal sito web del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, avrebbe dichiarato prima dell’udienza: “così come migliaia di agenti di polizia sono stati dispiegati per proteggere la sfilata dei gay (a Gerusalemme), dovrebbe essere lo stesso anche in questo caso”.

Si tratta davvero di un ottimo paragone, che mostra tra l’altro quanto la comunità gay trovi l’approvazione e il sostegno della destra israeliana.

Peccato, però, che i gay, qualunque religione professino, non si siano mai sognati di diffondere volantini o messaggi come questo, pubblicato sul web e diffuso nei quartieri ebraici di Acri durante gli scontri avuti luogo a partire dall’8 ottobre di quest’anno: “L’Ebreo è il figlio di un angelo e l’Arabo è il figlio di un cane”.

Peccato, però, che nessun gay si sia mai sognato di fare affermazioni simili a quelle esternate dal sindaco di Ramle, Yoel Lavi: “Se gli Arabi vogliono confrontarsi cone me su questioni di tipo nazionalistico, sarò il primo ad aprire il fuoco su di loro. Ho molta esperienza di vita. Ogni volta che ho aperto il fuoco sugli Arabi io sono riuscito a restare vivo e loro sono morti”.

Si spera solo che la polizia israeliana, oltre ad assicurare il pacifico svolgimento del corteo e l’incolumità dei partecipanti, sappia con eguale fermezza difendere l’incolumità dei residenti di Umm al-Fahm e l’integrità dei loro beni; e si spera, anche, che venga adeguatamente sanzionato ogni eventuale slogan razzista in cui questa gentaglia, purtroppo impunemente, si è specializzata da anni.

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28 ottobre 2008

Aguzzini di frontiera.

Quella narrata da Gideon Levy su Ha’aretz nell’articolo che segue è l’incredibile e vergognosa vicenda di un 35enne Palestinese, onesto lavoratore e padre di famiglia, finito tra le grinfie degli aguzzini in divisa della polizia di frontiera israeliana, sol perché aveva deciso di recarsi a pregare nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme e, soprattutto, perché aveva osato pretendere che lui e gli altri Palestinesi fermati dai soldati fossero trattati con il rispetto e la cura dovuti ad ogni essere umano.

Questa storia ci racconta molte cose, le difficoltà dei Palestinesi a professare in piena libertà la propria religione, le difficoltà a muoversi dentro i territori occupati, il sistema di occupazione e di apartheid costituito dalle aree chiuse, dalle strade ad uso esclusivo degli Ebrei, dai checkpoint militari, l’annosa questione di Gerusalemme.

Ma soprattutto questa storia attiene al fatto che decenni e decenni di occupazione hanno portato ad un profondo degrado del sistema di valori e della moralità della società israeliana, che non si preoccupa in alcun modo dei bisogni e delle necessità dei propri vicini, che non riconosce ai Palestinesi alcun rispetto né eguale dignità di esseri umani, titolari di diritti fondamentali quali quello alla libertà di movimento, alla libertà di esercitare liberamente il proprio culto, alla salute e alla integrità fisica.

Protagonisti di questo ennesimo atto di violenza barbarica sono, ancora una volta, gli agenti della polizia di frontiera israeliana, già protagonisti – insieme a funzionari dello Shin Bet – degli abusi e dei maltrattamenti subiti dal giornalista palestinese
Mohammed Omer al posto di frontiera con la Giordania.

Di recente, sull’argomento, Richard Falk, il Relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi ha avuto modo di scrivere un rapporto di una ventina di pagine, in cui rileva come l’episodio in questione non può essere sminuito come un incidente o un’anomalia che riguarda alcuni membri insubordinati della sicurezza israeliana, in quanto tutti i Palestinesi sono soggetti a maltrattamenti e abusi arbitrari presso il confine o i checkpoint militari, in flagrante violazione delle previsioni contenute nella Convenzione di Ginevra.

Secondo Falk, Stati Uniti ed Europa dovrebbero dire molto chiaramente ad Israele che non intendono passare sopra alle sue continue violazioni del diritto internazionale.

Sottoscriviamo in pieno.

NOTTE DI PREGHIERA
di Gideon Levy, 25.10.2008

Ali Jabarin è solo un'ombra di quel che era. Da quando è stato arrestato e picchiato non lavora, dorme poco, soffre di frequenti mal di testa, vertigini ed incubi, e i suoi timpani a pezzi non gli danno tregua. Tutto a causa dei pugni degli agenti della Polizia di Frontiera che lo hanno arrestato mentre si recava alla funzione di preghiera per celebrare Laylat al-Qadr, la notte in cui Mohammed ricevette il Corano dal Cielo. Quella notte, calci e pugni sono piovuti sul pellegrino Jabarin, che vive solo a pochi minuti da Gerusalemme, ma a cui è proibito recarvisi, anche per queste preghiere più sacre.

Pochi mesi fa, quando sua madre era ricoverata al Makassed Hospital a Gerusalemme Est, Jabarin vi si introduceva furtivamente attraverso i condotti delle fognature che conducono fuori dalla sua cittadina. Si toglieva i pantaloni per guadare l'acqua lercia, alta fino al ginocchio, che usciva dall'altra parte della fogna, e si faceva strada verso la città santa. Ora anche questa opzione è finita: Israele ha sigillato la tubatura e chiuso la strada che conduce dalla parte vecchia di Beit Hanina - in cui abita - a quella nuova, situata all’interno dei confini della città di Gerusalemme.

Beit Hanina, un sobborgo di Gerusalemme, anche piuttosto prestigioso, è divisa fra la parte vecchia e quella nuova. Quella vecchia è tagliata fuori da Gerusalemme dalla Strada 443, che la separa dalla capitale, separando gli abitanti dalla città che era stata il centro delle loro vite. Nella parte vecchia di Beit Hanina, così come nelle cittadine adiacenti di Biddu e di Beit Iksa, centinaia di appartamenti restano vuoti, abbandonati dai loro residenti a causa del muro di separazione e della Strada di apartheid 443, destinata agli Israeliani, e soltanto a loro. L'autostrada per Gerusalemme è simile ad un'altra barriera di separazione. La prossima volta che passi per questa strada ricorda che, a causa di essa, Ali Jabarin non può pregare nel luogo a lui sacro.

Jabarin, 35 anni e padre di due bambine, con due gemelle in arrivo, lavora per un'organizzazione benefica per orfani ad Azzariyeh. Questa settimana, nella sua casa a Beit Hanina, ci ha raccontato la storia di quel che gli è successo, soffermandosi sui dettagli di ogni pugno e di ogni insulto subito.

La mattina del 25 settembre, alla fine del mese sacro del Ramadan, Jabarin telefonò a un amico nella sezione di Beit Hanina a Gerusalemme, dicendogli che avrebbe cercato di raggiungerlo, in modo da poter andare insieme alla moschea di Al Aqsa, per trascorrere la notte in preghiera. Jabarin si recò al checkpoint di Qalandiyah, sperando di essere in grado di arrivare a Gerusalemme. Fin lì, la sua preghiera venne esaudita. Racconta che c'era una folla di centinaia di Palestinesi, riusciti in qualche modo ad aprirsi un varco attraverso il checkpoint dopo che i soldati ne avevano perso il controllo, e di essersi trovato in mezzo a loro. È salito a bordo di un autobus palestinese dirigendosi a casa dell'amico, a Beit Hanina.

Alcuni minuti dopo essere sceso dall’autobus, mentre camminava verso la casa dell’amico, una jeep della Polizia di Frontiera gli si fermò bruscamente accanto; il guidatore gli chiese la carta di identità. Quella di Jabarin, dei territori, gli vietava di stare nel luogo in cui si trovava. Una passante gridò all'agente della Polizia di Frontiera: “Cosa volete da lui?” L’agente rispose con una pioggia di imprecazioni, e Jabarin gli disse: “Parla più educatamente. Stai parlando con un essere umano”. Allora sono cominciate le botte e le violenze: agli agenti della Polizia di Frontiera non piace essere rimproverati per come si comportano, in particolar modo da un Palestinese.

Dopo essersi rifiutato di entrare nella jeep fintanto che gli parlavano con sgarbo, Jabarin venne costretto a salire sul veicolo e fu portato in una struttura della Polizia di Frontiera ad Atarot. Egli venne condotto giù per alcuni gradini fino ad un ampio spazio in cui erano in stato di fermo circa 70 Palestinesi. Alcuni, come lui, avevano cercato di raggiungere la funzione di preghiera.

Erano i giorni del digiuno del Ramadan, e i prigionieri non avevano mangiato o bevuto alcunché dalla notte prima. Fra di loro vi erano pure alcuni bambini ed anziani. Su di loro, per tutto il tempo, era puntata una telecamera di sicurezza. Uno degli agenti della Polizia di Frontiera che li sorvegliava li insultava di continuo: “Chiaveremo tua madre, chiaveremo le tue sorelle, vi fotteremo tutti”, e così via. Riferendo le parolacce Jabarin, per l'imbarazzo, abbassa la voce.

Ad un certo punto, i prigionieri decisero di ignorare gli insulti, ed uno di loro cominciò a leggere ad alta voce da un Corano che portava con sé. L'agente della Polizia di Frontiera gli ordinò di tacere. Quello continuò lo stesso. Insulti e lettura andarono avanti pressappoco per tre ore, fino a circa le due del pomeriggio. Poi arrivò un nuovo agente della Polizia di Frontiera, uno che parlava bene l'arabo, e; anche lui cominciò a insultare i prigionieri – in arabo, questa volta. Dirigeva la maggior parte dei suoi insulti al tipo che continuava a leggere versetti dal Corano. Jabarin nuovamente non ha potuto stare zitto, si è alzato e ha detto qualcosa all'agente della Polizia di Frontiera sulle sue imprecazioni. L'agente è andato da lui; Jabarin ha pensato che gli volesse parlare. Aveva intenzione di dirgli, spiega, che lì c'erano bambini e vecchi, e che non avrebbe dovuto insultarli. Ma, invece di parole, hanno cominciato a volare contro di lui pugni e calci. I pugni diretti alla testa, i calci allo stomaco.

A Jabarin cominciò a girare la testa per i colpi che gli arrivavano sulla faccia e sulle orecchie, e presto è caduto sul pavimento, stordito. Egli poteva sentire di avere la schiuma alla bocca. Quando ne parla adesso, molti giorni dopo l'incidente, appare molto turbato. A ferirlo non sono stati solo i colpi e gli insulti, ma anche il fatto che tutto è avvenuto davanti a decine di altri prigionieri, fra cui alcuni bambini e adolescenti. È stato anche un colpo alla sua dignità. Dopo circa 10 minuti cercò di mettersi in piedi, ma non ne fu in grado. Aveva le vertigini e la nausea, come se avesse bisogno di vomitare. Con le ultime forze che gli restavano barcollò su per i gradini e chiese agli agenti della Polizia di Frontiera presenti di chiamargli un'ambulanza e la polizia. Oltre al trattamento medico, Jabarin voleva sporgere querela per il pestaggio.

La sua richiesta rimase senza risposta, e gli ordinarono di tornare giù alla stanza di detenzione. Racconta che sentiva scoppiare le orecchie dal dolore. Uno degli agenti della Polizia di Frontiera gli chiese chi lo avesse picchiato, aggiungendo che, chiunque fosse, non lo aveva fatto a sufficienza: “Avrebbe dovuto ammazzarti”. Nel frattempo sopraggiunse un uomo in abiti civili, armato di pistola, e condusse Jabarin nel suo ufficio. Jabarin racconta di avergli detto che non ci si dovrebbe rivolgere ai detenuti in modo così volgare, soprattutto durante il digiuno. Ha anche chiesto di conoscere il nome dell'agente che l'aveva picchiato, ma l'uomo in abiti civili non voleva dirgli ne' quel nome, ne' il proprio. Jabarin fu ricondotto nella stanza di detenzione, dopo che gli venne promesso l'arrivo di un'ambulanza.

Invece di un'ambulanza, arrivò un uomo con l’uniforme della Polizia di Frontiera che sosteneva di essere un medico. Jabarin gli chiede di vedere la sua tessera di sanitario, ricevendo un rifiuto. L'agente che l'aveva pestato gli disse: “Mi hai scocciato; il mio problema è che ti ho picchiato davanti alla telecamera”. Jabarin replicò di non aver bisogno di una telecamera: aveva 70 testimoni. L'agente della Polizia di Frontiera chiese ai detenuti se vi fosse qualcuno che avesse visto il pestaggio e volesse testimoniare, ma nessuno si alzò. Jabarin chiese chi dei giovani sapesse leggere l'ebraico, e quando qualcuno si fece avanti, gli chiese di leggere il nome dell'agente che l'aveva pestato, scritto in ebraico sul cartellino. Raad Malahala, “o qualcosa del genere”, era quel nome. Jabarin racconta di essere stato spinto e picchiato ancora ogni volta che chiedeva un'ambulanza. “Non dirmi di non essere mai stato picchiato prima”, disse sorpreso l'agente che lo pestava.

Intorno alle sei e mezza del pomeriggio, giunse l'ordine di rilasciare i detenuti. Venne ordinato loro di camminare in fila per uno, scortati da un agente della Polizia di Frontiera, verso il checkpoint di Qalandiyah. Al momento del rilascio, erano stati fermati ancora altri clandestini, fra cui donne e bambini; il massimo, secondo la stima di Jabarin, è stato di circa 100 detenuti. Dapprima egli ha rifiutato di andarsene a piedi, e ha continuato a chiedere un'ambulanza, ma la sua richiesta è stata respinta. Ha usato il cellulare per chiamare suo cugino, Karim Jubran, un ricercatore di B'Tselem (un gruppo per i diritti umani) nell'area di Gerusalemme, e gli ha spiegato cosa succedeva. Non molto tempo prima, quando era arrivato il momento di interrompere il digiuno, uno dei detenuti aveva gridato “Allahu Akbar” per indicarne la fine, e, secondo Jabarin, gli agenti della Polizia di Frontiera avevano picchiato pure lui.

Alla fine, si sono diretti a piedi verso il checkpoint. Jabarin, che poteva stare a malapena in piedi, si trascinava e veniva spintonato da un agente della Polizia di Frontiera. Finalmente, egli è stato caricato su un veicolo della Polizia di Frontiera e trasportato per il resto della strada fino al checkpoint. L'amico di Jabarin, un attivista dell'organizzazione per i diritti umani Al-Haq, da lì gli ha dato un passaggio in macchina e lo ha accompagnato direttamente all'ospedale Sheikh Zayed a Ramallah. Là gli hanno diagnosticato la rottura dei timpani per il pestaggio. B'Tselem ha registrato la testimonianza di Jabarin e prevede di presentare presto un reclamo al dipartimento investigativo della Polizia israeliana.

Un portavoce della Polizia di Frontiera questa settimana ha risposto: “Non siamo a conoscenza di un simile episodio. Alla ricezione del reclamo, esso sarà esaminato dal comandante del distretto 'circondario di Gerusalemme'. Allo stesso tempo, presenteremo un reclamo al Dipartimento Investigativo della Polizia, nell'ambito della politica di tolleranza zero per l'uso non autorizzato della forza. Ma prima controlleremo se l'episodio sia o no realmente accaduto”.
Link all'articolo:

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23 ottobre 2008

Uno stato binazionale: una soluzione realistica del conflitto israelo-palestinese?



Contraltare della cd. “opzione giordana” - segretamente accarezzata da Israele e da alcuni governi occidentali – è, in campo avverso, la soluzione del conflitto israelo-palestinese che prevede la convivenza di entrambi i popoli all’interno di uno stato unitario laico e democratico, previa annessione dei territori occupati ad Israele e attribuzione ai suoi abitanti di eguali diritti civili e politici.

Come nota il professor Sari Nusseibeh in un articolo pubblicato il 20 settembre scorso su Newsweek, qui di seguito proposto nella traduzione offerta dal sito web Arabnews, una tale soluzione – a dire il vero poco realistica – viene avanzata da alcuni in maniera del tutto strumentale, al fine cioè di mettere in guardia Israele dai pericoli insiti nella sua politica volta all’espansione delle colonie ed alla “giudaizzazione” di Gerusalemme est.

Per altri, invece, la preferenza per una soluzione che veda un unico stato binazionale come patria in cui convivano insieme Israeliani e Palestinesi nasce e si consolida a fronte dell’acclarato fallimento delle trattative di pace e del progetto di creare uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale; anche perché, in tal modo, verrebbe a crearsi un governo che alla fine potrebbe essere controllato dai Palestinesi in virtù della loro prevalenza demografica.

Una tale soluzione peraltro, secondo alcuni osservatori, potrebbe determinarsi sul campo al di là delle reali intenzioni delle due parti in causa.

Se da un lato, infatti, vi è l’impossibilità a trovare una soluzione condivisa per le due questioni principali che attengono allo status di Gerusalemme e al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, dall’altro anche l’abbandono, in tutto o in parte, degli insediamenti colonici da parte di Israele e la restituzione della West Bank ai Palestinesi, pur se in linea di principio appare un obiettivo più facilmente realizzabile, in realtà incontra difficoltà pratiche pressoché insormontabili.

Come può rilevarsi dal rapporto di
Peace Now dell’agosto di quest’anno – dal significativo titolo “Eliminating the Green Line” – nonostante il rinnovato impegno al meeting di Annapolis a congelare ogni attività di espansione delle colonie, l’attività costruttiva israeliana all’interno degli insediamenti non solo non si è arrestata ma risulta quasi raddoppiata in tutte le colonie e negli avamposti, sia al di qua sia al di là del muro di “sicurezza”; nessuno degli avamposti illegali individuati dalla road map è stato smantellato ma, all’opposto, molti di questi hanno fatto registrare una sensibile espansione, al pari degli insediamenti abitativi ebraici a Gerusalemme est.


Da una parte, dunque, Israele finge di negoziare un accordo di pace definitivo con i Palestinesi e, dall’altra, continua a costruire all’interno della West Bank, creando “fatti sul terreno” che allontanano sempre di più la possibilità di giungere alla creazione di uno Stato palestinese che non sia altro che un aggregato di bantustan, privo di risorse e di continuità territoriale.

E ciò e proprio quello che fa dire a Zeev Sternhell, in suo recente articolo su
Ha’aretz, “se la società israeliana non riuscirà a trovare il coraggio necessario per porre fine agli insediamenti, gli insediamenti porranno fine allo stato degli Ebrei e lo trasformeranno in uno stato binazionale”.

Ma anche questa previsione rischia di rivelarsi fallace, in quanto lo scenario che si verrebbe a prefigurare potrebbe essere un altro ancora, e cioè quello consistente in uno stato ebraico e “democratico” ad ovest (le virgolette sono d’obbligo, in quanto un Paese che presenta così forti tratti di discriminazione razziale in campo legislativo, amministrativo e sociale non può che essere tale solo da un punto di vista meramente formale), e un dominio ebraico brutale ed oppressivo (ossia uno stato dell’apartheid) a est della Green Line.

Dopo tutto, l’occupazione della West Bank dura ormai da più di quarant’anni e nulla vieta che perduri nei secoli a venire; almeno fino a che la comunità internazionale non si decida a riempire di contenuti fattuali le “pressioni” su Israele affinché si ripristini la legalità internazionale e si dia attuazione alle risoluzioni Onu a partire dalla n.242 del 1967.

E almeno fino a che i contribuenti europei non si stancheranno di contribuire al mantenimento dell’occupazione della West Bank pagando gli stipendi ai dipendenti dell’Anp e finanziando fantomatici progetti di sviluppo, nonché al mantenimento del vergognoso e inaudito assedio alla Striscia di Gaza pagando gli aiuti umanitari a un milione e mezzo di disperati.


LA SOLUZIONE DELLO STATO UNITARIO
20/9/2008

In un recente rapporto, Peace Now (una ONG israeliana) ha rivelato che, dopo le trattative di pace condotte ad Annapolis dal presidente George W. Bush, il numero di appalti concessi per costruire a Gerusalemme Est è aumentato di 38 volte rispetto all’anno precedente.

Dal 1967, quando lo stato ebraico ha occupato la Cisgiordania e Gaza, e soprattutto dai negoziati di pace di Madrid del 1993, Israele ha costruito circa 13 nuovi quartieri a Gerusalemme Est, che è oggi dimora di oltre 250.000 israeliani – quasi quanti sono i palestinesi a cui è consentito risiedere nella città. Se si ricorda che la quasi totalità dei piani che prevedono una soluzione a due stati per porre fine alla questione palestinese indicano Gerusalemme Est come capitale del futuro stato palestinese (accanto alla capitale israeliana a Gerusalemme Ovest), è facile capire perché molti palestinesi stiano perdendo fiducia in questo progetto.

C’è un’altra ragione per cui la soluzione dei due stati sta perdendo consensi: l’atteggiamento di Washington. E’ stato riferito che, durante una recente visita a Ramallah, il segretario di stato americano Condoleezza Rice, davanti a chi le ricordava che i palestinesi hanno già dimostrato la disponibilità a concedere ad Israele il 78% di quello che considerano il loro territorio, avrebbe replicato: “Dimenticate il 78%. Quello su cui si sta negoziando adesso è il restante 22%”. Il messaggio era chiaro: i palestinesi devono essere pronti a rinunciare ad altri territori.

Gli israeliani hanno a lungo descritto i loro insediamenti in Cisgiordania – ampie strisce di territorio che si estendono lungo l’asse nord-sud ed est-ovest, servite da superstrade, dalla rete elettrica, ecc. – come estensioni organiche della comunità israeliana. Ma l’edilizia israeliana (sempre secondo Peace Now) ha registrato un aumento del 550% nell’ultimo anno. Questo ritmo di costruzione, unitamente a quello del muro (o barriera di separazione), ed alle notizie sul desiderio di Israele di mantenere un controllo di sicurezza lungo l’estremità orientale della valle del Giordano, inviano un ulteriore messaggio: Israele progetta di mantenere il dominio su questo territorio per sempre. Se a tutto ciò si aggiunge l’ancora irrisolto problema dei profughi, non è così difficile capire perché numerosi sostenitori della soluzione a due stati stiano perdendo le speranze.

È importante ricordare che il movimento nazionale palestinese ha iniziato ad avallare l’idea di una soluzione a due stati, intesa come un compromesso pratico, solo 20 o 30 anni fa. Avendo compreso che Israele non sarebbe svanito, i moderati decisero che la loro maggiore speranza di ottenere uno stato era crearne uno accanto ad Israele, non uno che lo sostituisse. Eppure, i 15 anni di negoziati che sono seguiti hanno prodotto ben pochi risultati; e così non è una sorpresa che la fiducia in questa soluzione “pragmatica” sia in declino. L’assenza di progresso, insieme all’inequivocabile realtà espansionistica sul terreno ed alla crescente popolarità di Hamas, ha lasciato ben poco spazio a chiunque aspiri ad un futuro positivo per la Palestina. A meno che non si voglia riesumare la vecchia idea di uno stato binazionale, laico e democratico, in cui ebrei ed arabi possano vivere fianco a fianco in uguaglianza.

Per alcuni, come gli intellettuali e gli attivisti che compongono il “Palestine Strategy Group” (che ha recentemente sollevato questo caso sui giornali arabi), parlare dello scenario ad un solo stato ha lo scopo di mettere in guardia Israele sui pericoli posti dalle sue politiche espansionistiche. Questo gruppo preferirebbe ancora che emergesse una soluzione a due stati. Altri, ad ogni modo, stanno tornando alla visione dello stato unitario, adottata inizialmente da Fatah (il principale movimento nazionalista palestinese) verso la fine degli anni ’60. Il primo gruppo crede che parlare di uno stato unitario potrebbe inculcare un po’ di buon senso nelle teste dei leader israeliani. Il secondo invece preferisce questa soluzione perché creerebbe un governo che essi potrebbero alla fine controllare in quanto maggioranza demografica. Sebbene anche il primo ministro Ehud Olmert abbia recentemente riconosciuto il pericolo verso cui sta andando incontro Israele, non è chiara la posizione degli altri leader israeliani. Essi potrebbero tentare di rinviare il problema attraverso tattiche diversive, come quella di lasciare il controllo dei centri abitati della West Bank alla Giordania mantenendo però una supervisione militare. Tale soluzione era stata inizialmente suggerita da Israele negli anni ‘70. In base a questo scenario, anche Gaza sarebbe lasciata all’Egitto.

Ma, anche se la Giordania e l’Egitto dovessero farsi convincere ad accettare un simile fardello – e non lo faranno – nessuna di queste tattiche porterebbe una stabilità duratura nella regione. Coloro che propongono seriamente la soluzione dello stato unitario non sembrano rendersi conto di quanta sofferenza umana essa richiederà per essere realizzata. E anche suonare campanelli d’allarme, poteva aver senso 25 anni fa, quando la costruzione di insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania stava appena avendo inizio. Oggi, con più di mezzo milione di ebrei che vivono oltre la linea dell’ armistizio del 1949, è quasi troppo tardi per fare marcia indietro. E’ dunque tempo di agire, non di produrre altre parole.

In pratica, questo significa spingere nei prossimi mesi per un accordo che risulti accettabile per entrambe le parti. E ciò significa un accordo a due stati; gli israeliani non accetteranno nessun’altra soluzione. Molti palestinesi pensano che un singolo stato potrebbe essere l’ideale – in quanto significherebbe la sconfitta del progetto sionista e la sua sostituzione con uno stato binazionale che potrebbe eventualmente essere governato dalla maggioranza araba. Ma già molte navi sono naufragate su questi scogli. E lo stato unitario che emergerebbe da un conflitto disastroso sarebbe tutto meno che ideale.

Sari Nusseibeh è dal 1995 presidente dell’Università ‘Al-Quds’, che ha sede a Gerusalemme; scrive sulle questioni legate alla situazione arabo-israeliana da circa trent’anni

Titolo originale: The one-state solution

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21 ottobre 2008

Il 29 novembre a Roma per la Palestina.

SABATO 29 NOVEMBRE
MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA

Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese

La Campagna 2008 anno della Palestina è andata avanti anche dopo il successo politico di maggio e delle iniziative di contestazione della Fiera del Libro di Torino dedicata a Israele e negata alla Nakba dei palestinesi. E’ davanti agli occhi di tutti il perdurante tentativo di omettere la causa palestinese dall’agenda politica italiana. Questa sistematica omissione della questione palestinese, rivela una complicità politica, militare, diplomatica dei governi italiani con l’occupazione israeliana e l’apartheid contro i palestinesi.

Occorre dunque essere consapevoli della funzione soggettiva di una rete di solidarietà con la Palestina come quella che dalla fine del 2001 è stata attivata intorno all’esperienza del Forum Palestina. Spetta a questa soggettività agire affinché la causa palestinese non venga rimossa dall’agenda politica italiana, sia quella istituzionale che quella dei movimenti e del dibattito politico.

Malgrado decine di formule di soluzione e i numerosi giri di presunto negoziato, non si riesce ad uscire dall'empasse che perdura da quindici anni, dove i governi israeliani continuano ad intensificare la loro politica contro il popolo palestinese allargando gli insediamenti, rafforzando i muri di separazione, continuando nelle politiche delle chiusure e l'assedio ferreo e disumano della striscia di Gaza, considerata ormai il carcere più grande del mondo a cielo aperto.

In queste ultime settimane assistiamo ad un tentativo di seminare una vera e propria guerra di pulizia etnica: i coloni israeliani attaccano adesso i palestinesi nelle loro case,soprattutto in Cisgiordania, e la furia dei fanatici israeliani ha seminato terrore tra la popolazione araba nella città di Akko.

Sono passati sessant'anni dalla Nakba quando sono stati cacciati i palestinesi nel 48 dalle loro terre e distrutti più di 400 città e villaggi palestinesi in quell'area, sono passati 41 anni dall'occupazione israeliana del resto della Palestina nel 67, e sono passati esattamente 15 anni dagli accordi di Oslo, e non è cambiato nulla nella politica dei vari governi israeliani nei confronti del popolo palestinese. Alcuni regimi arabi, corresponsabili anche della tragedia del nostro popolo sono diventati più servili al volere americano israeliano, malgrado il loro piano di pace che è stato respinto e gettato nella pattumiera da parte dei governi israeliani prima e dopo Annapolis.

IL governo israeliano, appoggiato dagli Usa suo alleato strategico, vuole sempre e comunque più terre e meno palestinesi, più presunti negoziati e meno soluzioni concreti, continua a detenere nelle carceri 11.000 militanti palestinesi, ha spezzettato tutta la Cisgiordania con l'orrendo muro di separazione, rendendo infernale la vita quotidiana dei palestinesi. I due candidati alla presidenza americana fanno a gara per esprimere obbedienza al volere dei circoli israeliani che pretendono più armi e più soldi per proseguire nella politica di colonizzazione e di negazione al popolo palestinese dei diritti sanciti dalle Nazioni Unite da sessant’anni a questa parte.

I vari rounds dei colloqui israelo palestinesi tra il governo israeliano e l'autorità nazionale palestinese non hanno portato a nulla fino ad oggi.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato la giornata del 29 Novembre come giornata di solidarietà con il popolo palestinese. Nella storia politica mondiale le Nazioni Unite, cioè la legalità internazionale, hanno emesso decine di risoluzioni, mozioni, raccomandazioni a favore della causa del popolo palestinese, ma i vari governi israeliani li hanno trattati sempre da carta straccia.

La resistenza è un diritto sacrosanto di tutti i popoli oppressi, la difesa della propria vita, dei propri diritti, della propria terra, del proprio futuro è un diritto sancito dalle leggi internazionali e dalle varie convenzioni soprattutto quella dei diritti dell'uomo.

Oggi, in occasione della giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese, le comunità, le associazioni, le organizzazioni palestinesi in Italia si appellano all'opinione pubblica italiana, alle forze politiche, al parlamento italiano, a tutti gli amanti della giustizia e della libertà perché dimostrino di essere a fianco della giusta causa del popolo palestinese. Oggi, mentre assistiamo all'orrore del ritorno di certi rigurgiti razzisti, intravediamo il pericolo di nuove guerre e stragi di civili in Medio Oriente. Vorremo vedere gli italiani, i cittadini, le associazioni, i comitati di solidarietà gli immigrati, manifestare tutti insieme per il diritto all’autodeterminazione dei popoli oppressi e il trionfo della pace e della giustizia.

E'arrivato il momento di aprire gli occhi sulla gravità della situazione in Palestina e nei paesi limitrofi, come il Libano e la Siria, ma anche l'Iraq e l'Afghanistan, è arrivato il momento di non illudersi più della possibilità di risolvere tutto con la forza e con le tecnologie militari, di non imporre soluzioni contro la volontà dei vari popoli in tutte queste zone; la pace si conquista dando forza alle leggi internazionali, sostenendo i principi della equità e della giustizia, sostenendo che la libertà è un diritto di tutti, soprattutto di quelli che lottano per conquistarla da decenni.

Vorremmo vedere nel corteo di solidarietà con la Palestina tantissimi operai , tantissimi giovani, tantissime donne, vi invitiamo tutti a manifestare con noi:
- per la fine dell’occupazione israeliana della Palestina.
- per uno stato palestinese sovrano con Gerusalemme capitale,
-per Il diritto al ritorno ai rifugiati palestinesi, come è previsto dalla risoluzione Onu 184
- per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane
- per lo smantellamento del regime di apartheid e delle colonie israeliane
- per lo smantellamento dell'assedio imposto alla Striscia di Gaza
- per la revoca degli accordi di cooperazione militare Italia – Israele e il ritiro delle truppe dai vari teatri di guerra.
Ottobre 2008
Coordinamento delle comunità palestinesi in Italia
UDAP ( Unione Democratica Arabo Palestinese )

A ROMA PER LA PALESTINA
di Francesco Giordano

MARTIRI DELL’INTIFADA: Muoiono in piedi, luminosi sulla strada/splendenti come stelle,/le labbra sulle labbra della vita/ fronteggiano la morte/e scompaiono come il sole. (Fadwa Tugan).
Salwa Salah, Sara Siureh, entrambe 18 anni, sono state messe in “arresti amministrativi”, la detenzione senza processo, senza capi di accusa precisi; loro, come almeno 600 prigionieri politici palestinesi, tra cui 13 minorenni.

Ad Abdel Kader Zeid, 17 anni, Aziz Berat 20 anni e Mohammad Ramahi di 22 anni è andata peggio, sono gli ultimi assassinati dai killer sionisti.

Israele, paese che diversi (...) hanno voluto invitare come ospite “d’onore” alla Fiera del Libro di Torino; altri (...) si sono “limitati” a schierarsi a favore del vergognoso invito e contro chi invece organizzava il boicottaggio della partecipazione alla Fiera del Libro dell’unico paese che non rispetta le risoluzioni dell’ONU, che possiede centinaia di testate nucleari e che minaccia di bombardare l’Iran perché, forse, questo paese vuole dotarsi dell’energia nucleare.

A favore del boicottaggio si erano schierate forze politiche realmente di sinistra, intellettuali ed editori onesti, gruppi, associazioni sempre di sinistra, Centri Sociali non allineati con il potere, singole persone che ancora inorridiscono, e si indignano, davanti alle ingiustizie palesi come l’occupazione della Palestina da parte di Israele.Tutte queste forze hanno organizzato la magnifica manifestazione del 10 maggio a Torino che è terminata davanti alla fiera del libro facendo tremare i pochi partecipanti alla vergognosa parata sionista. Alla manifestazione si era arrivati attraverso centinaia di iniziative su tutto il territorio nazionale.

Sull’onda di quella vittoria ci siamo dati un’altro appuntamento nazionale per il 29 novembre a Roma, come chiusura dell’anno che abbiamo voluto dedicare alla Palestina, e per ricordare la Nakba, ovvero la catastrofe per il popolo palestinese, l’inizio della pulizia etnica voluta, programmata ed attuata dal sionismo.

Sarà una manifestazione forte e di totale appoggio alle ragioni del popolo palestinese, alla sua eroica Resistenza, espressa nelle varie forme che loro ritengono utili e necessarie, al coraggio con cui si battono contro una delle più feroci ed impunite occupazioni.Sarà un corteo colorato, massiccio, determinato che griderà anche le critiche ai governi occidentali, ai partiti di “sinistra” italiani, a chi collabora con i sionisti, in Italia, nel mondo arabo, in Palestina.Sarà un corteo che urlerà contro chi, muto e complice, assiste al genocidio ed alla pulizia etnica palestinese.

Il 29 novembre saremo a Roma perché è un appuntamento da non mancare per chiunque ha a cuore la pace, la giustizia, la dignità dei popoli. Gli altri, quelli che accettano l’occupazione girandosi dall’altra parte o che sono equidistanti, che restino a casa.

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15 ottobre 2008

La Giordania: una "patria alternativa" per i Palestinesi?

Nonostante la promessa di Bush di assicurare la creazione di uno Stato palestinese entro la fine del suo mandato, e nonostante le rassicuranti conclusioni a cui era giunto il vertice di Annapolis, la fine del 2008 si avvicina a grandi passi e un accordo di pace tra Palestinesi e Israeliani appare più lontano che mai.

La continua, ed anzi accelerata, espansione degli insediamenti colonici nella West Bank, il processo di “giudaizzazione” di Gerusalemme est, le continue frizioni e gli scontri tra Ebrei e Palestinesi nei Territori occupati e, ora, anche all’interno di Israele (vedi le violenze in corso a S. Giovanni d’Acri) costituiscono preoccupanti segnali di un aumento della tensione e delle spinte che, all’opposto, allontanano sempre più il traguardo di una pacifica convivenza di due popoli in due Stati confinanti dai confini certi e internazionalmente riconosciuti.

Da un punto di vista politico, le difficoltà della Livni a formare un nuovo governo e la necessità di imbarcare nella compagine governativa anche lo Shas implicano il congelamento di ogni discussione riguardo al futuro di Gerusalemme e, dunque, di fatto escludono ogni possibilità di accordo con i Palestinesi.

Prendono così quota le soluzioni “alternative” alla questione israelo-palestinese, quella che vorrebbe un unico Stato binazionale in cui Arabi ed Ebrei convivano insieme con eguali diritti e quella, tanto più cara ad Israele (ma non solo, come abbiamo
visto), che ritiene che già esista uno Stato palestinese, identificandolo con la Giordania, con tanti saluti per il diritto al ritorno e per la prevedibile gioia di re Abdullah II.

E, tuttavia, entrambe queste soluzioni alternative presentano delle difficoltà di attuazione pressoché insormontabili, di cui intendiamo qui occuparci esaminando dapprima l’opzione giordana nell’analisi svolta da Mohammed Hussein al-Momani in un articolo apparso il 10 ottobre sulla testata al-Ghad e qui proposto nella traduzione del sito Arabnews.

Vogliamo qui solo segnalare che, a nostro giudizio correttamente, l’autore si schiera senza tentennamenti a favore della soluzione a due Stati, l’unica pragmaticamente percorribile, individuando nella Ue il soggetto politico con le credenziali giuste per “costringere” alla pace i due popoli, aiutandoli e, se del caso, forzandoli a superare quel gap tra le rispettive posizioni che oggi appare assolutamente incolmabile.

Partendo, è il caso di ribadire, dalle previsioni della risoluzione Onu n.242 del 1967 e dall’applicazione del generale principio della inammissibilità dell’acquisizione di territori a mezzo della guerra, che non è in alcun modo negoziabile.


IL RULLO DI TAMBURI DELLA “PATRIA ALTERNATIVA”
10/10/2008

E’ un’aspirazione segreta di Israele e della comunità internazionale quella di affidare alla Giordania la soluzione della questione palestinese, attraverso l’assunzione, da parte di Amman, di un ruolo politico e di sicurezza in Cisgiordania [1]. Ciò rappresenterebbe per lo stato ebraico e per gli altri paesi del mondo la soluzione ideale della storica crisi mediorientale, che continua a far parte dell’agenda politica dei leader interessati alla sicurezza ed alla stabilità del Medio Oriente.

Un ruolo giordano in Cisgiordania tradurrebbe in realtà il desiderio del mondo di “esportare” il problema del popolo palestinese al di fuori del contesto politico israeliano, lontano dalle pressioni emotive che sono sempre presenti quando si ha a che fare con Israele. Ma – cosa ancora più importante – un ruolo giordano nella questione palestinese sarebbe visto con fiducia dalla comunità internazionale, a causa della credibilità e della tradizione politica e di sicurezza che può vantare lo stato giordano.

Questo sogno è sostenuto da una logica secondo cui, in sostanza, il divario fra il livello minimo di diritti che i palestinesi potrebbero accettare ed il livello massimo di concessioni che gli israeliani potrebbero fare è ormai molto grande, e continua a crescere giorno dopo giorno. Ciò spiega i timori dei sostenitori della pace di entrambi i fronti per il fatto che il tempo continua a passare, senza che si giunga ad un compromesso pacifico e condiviso. A causa di questa situazione di stallo e di questa contrapposizione radicata che continua ad aggravarsi, alcuni sostengono che una soluzione potrà essere trovata soltanto attraverso una terza parte che giochi un ruolo tale da permettere di colmare il baratro esistente fra le posizioni politiche delle due controparti.

Una teoria di questo genere è intrinsecamente insostenibile. Essa porta in sé i germi di una boria e di una presunzione politica inaccettabile, e non è sostenuta neanche da quel livello minimo di pragmatismo politico che ha conosciuto in passato il conflitto arabo-israeliano; così come non tiene conto del supremo interesse che Israele dovrebbe nutrire per l’esistenza di uno stato palestinese che rappresenti i diritti politici ed umani del popolo palestinese, poiché questa è l’unica garanzia al fatto che Israele continui ad essere una democrazia a maggioranza ebraica.

I fautori della teoria di un ruolo giordano in Cisgiordania non si rendono conto del fatto che un ruolo di questo genere non realizzerebbe le aspirazioni nazionali palestinesi, e che fra i palestinesi vi è chi ha cominciato a chiedere uno stato democratico binazionale unitario [2] rendendosi conto che Israele sta inconsapevolmente andando verso quest’unica soluzione possibile.

La teoria della “patria alternativa” incontra una opposizione salda e ferma da parte dell’interessato principale (cioè la Giordania (N.d.T.) ), sia a livello ufficiale che a livello popolare. Chiunque dia un’occhiata al panorama politico giordano si renderà conto che la posizione di rifiuto della Giordania nei confronti della questione della “patria alternativa” è la più netta da molti anni a questa parte, e che uscire da questa elementare verità nazionale equivarrebbe al suicidio politico per chiunque volesse tradurre in pratica questa idea [3].

E’ diritto della Giordania puntare il dito dell’accusa contro chiunque intenda proporre il progetto della “patria alternativa”, poiché tale progetto non tiene conto degli interessi politici fondamentali dello stato giordano, compreso il diritto all’esistenza. Il progetto della “patria alternativa” è infatti destinato a porre fine all’entità giordana così come la conosciamo oggi, per trasformarla in qualcosa di differente che potrebbe non rientrare nelle aspettative della comunità internazionale [4].

Ciò di cui Israele e la comunità internazionale si devono rendere conto è che la Giordania moderata ed equilibrata nei suoi rapporti internazionali, dedita alla sua credibilità e sostenibilità, è come una pietra focaia, piacevole al tatto ed alla vista, ma in grado di fare scintille se sfregata contro qualcosa di duro. Dall’applicazione della teoria della “patria alternativa” potrebbe emergere un aspetto della Giordania che il mondo non conosceva, qualcosa in grado di provocare pericolose scintille. La teoria della “patria alternativa” è per i giordani come l’invito a tornare al periodo della schiavitù per la società americana, o come esaltare la figura di Hitler davanti agli europei, o come negare l’Olocausto di fronte agli israeliani o agli ebrei del mondo.

Il ruolo giordano ed egiziano nell’ambito del conflitto arabo-israeliano è costruttivo e sufficiente, e si esplica nel compito giordano di addestrare le forze di sicurezza in Cisgiordania e nel ruolo di mediazione politica dell’Egitto. Ciò che serve non è sviluppare ulteriormente questo ruolo, poiché una cosa del genere si tradurrebbe in un ulteriore fardello per la soluzione del conflitto. Ciò che è necessario è invece un ruolo europeo che spinga verso la realizzazione della soluzione dei due stati, che rappresenta ormai un interesse prioritario per i palestinesi, per la Giordania, e per Israele.

Mohammed Hussein al-Momani è professore di Scienze Politiche presso la Yarmouk University, che ha sede a Irbid, in Giordania
[1] Questa ipotesi, generalmente definita come ‘opzione giordana’ o teoria della ‘patria alternativa’, in riferimento ai Palestinesi residenti in Cisgiordania, è quella che prevede l’annessione alla Giordania di quel che resta della Cisgiordania palestinese; nella sua versione più estrema, quella a lungo sostenuta da Ariel Sharon, l’opzione giordana equivale all’affermazione che lo Stato deiPalestinesi è la Giordania stessa, cioè il territorio a est del Giordano (N.d.T.)

[2] uno stato, cioè, che riunisca ebrei e palestinesi in un’unica nazione democratica (N.d.T.)

[3] il dibattito intorno alla teoria della ‘patria alternativa’ è tornato al centro dell’attenzione in Giordania nel giugno di quest’anno, a seguito delle dichiarazioni fatte da Robert Kagan, consigliere di politica estera del candidato repubblicano John McCain; in queste dichiarazioni, poi smentite, Kagan avrebbe affermato che la Giordania è la patria naturale dei palestinesi ed è la migliore soluzione per la questione dei profughi palestinesi; nonostante la successiva smentita, questi dichiarazioni hanno suscitato in Giordania condanne e polemiche protrattesi per lungo tempo; a proposito di tale vicenda si può consultare l’articolo apparso su ‘The National’, quotidiano degli Emirati Arabi Uniti, con il titolo: [2] “Jordanian option worries politicians” (N.d.T.)

[4] dopo che la Cisgiordania era stata sottoposta all’amministrazione giordana fino alla guerra del 1967, quando fu occupata da Israele, nel 1988 la Giordania decise di annunciare ufficialmente e definitivamente la rottura di ogni legame giuridico ed amministrativo con la Cisgiordania; per un resoconto sulla storia dei rapporti giordano-palestinesi si può consultare l’articolo [3] “Le relazioni giordano-palestinesi fra presente e futuro” (N.d.T.)

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14 ottobre 2008

Chiuso per festività.

Le forze armate israeliane, a partire da ieri e fino alla mezzanotte del 21 ottobre prossimo, hanno completamente sigillato la Cisgiordania, impedendo pressoché qualsiasi spostamento alla popolazione palestinese in vista delle celebrazioni ebraiche del Sukkot, la “festa delle capanne” che dura per l’appunto 8 giorni e rappresenta una delle più importanti festività ebraiche.

Questo periodo dell’anno, in realtà, vede lo svolgersi di numerose ricorrenze care all’ebraismo, ivi inclusi il capodanno ebraico (Rosh Hashana) e il giorno dell’espiazione (Yom Kippur), durante le quali, allo stesso modo, la West Bank ha dovuto subire una chiusura totale.

Che gli Ebrei onorino le proprie ricorrenze, del resto, è più che giusto, come è giusto che questi siano periodi di riflessione, di celebrazione e di festa.

Il problema, tuttavia, è che i Palestinesi della Cisgiordania in questo stesso periodo sono costretti a subire ulteriori restrizioni alla loro libertà di movimento, con ulteriori barriere e blocchi di cemento piazzati lungo le maggiori arterie e con i principali checkpoint totalmente chiusi o aperti soltanto in maniera sporadica.

Non è che, del resto, negli altri periodi dell’anno i Palestinesi se la passino meglio.

Secondo l’ultimo rapporto dello United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA Closure Update, 30 aprile – 11 settembre 2008), in Cisgiordania esistono complessivamente ben 630 ostacoli che impediscono la libera circolazione all’interno dei territori palestinesi occupati, con un incremento del 3% (19 ostacoli) rispetto alla fine di aprile del 2008, e addirittura dell’11,3% (64 ostacoli) rispetto al mese di settembre 2007.

Questo dato non include i 69 ostacoli dislocati nella sezione di Hebron controllata da Israele (H-2), posti a difesa dei bravi coloni della zona, come quelli di Kiryat Arba e Givat Havot che recentemente hanno attaccato alcuni proprietari terrieri palestinesi e volontari israeliani (tra cui quelli di Rabbis for Human Rights), o come quelli di Tel Rumeida che hanno picchiato un ragazzino 14enne la cui unica colpa era stata quella di cercare di impedirgli di rubare le olive dal terreno del padre.

Questo insieme di posti di blocco, fissi o “volanti”, blocchi di cemento, cumuli di terra e ostacoli vari interessa quasi i tre quarti delle principali strade che interconnettono i 18 maggiori centri abitati palestinesi della West Bank, che secondo il rapporto dell’OCHA risultano controllate dall’Idf e/o completamente interrotte; circa la metà delle strade secondarie, costruite negli anni proprio per supplire a questo disastrosa situazione, risulta peraltro anch’essa bloccata o controllata da checkpoint.

Neanche la Striscia di Gaza è rimasta immune dall’incombere delle festività ebraiche, considerato che – nel periodo compreso tra l’1 e il 7 ottobre – ai valichi di frontiera sono potuti passare soltanto 268 carichi di beni umanitari rispetto ad una media delle settimane precedenti pari a 843.

E qual è il motivo di questi ulteriori disagi e soprusi inflitti alla popolazione civile palestinese?

C’è lo dice Tsahal con il suo bravo comunicato ufficiale: i soldatini israeliani in questo periodo saranno in stato di massimo allarme “al fine di assicurare l’incolumità dei cittadini di Israele”, cercando di assicurare nel contempo, “al meglio delle proprie capacità”, la routine quotidiana della popolazione palestinese.

Tradotto in soldoni, quello che per gli Ebrei significa possibilità di festeggiare lietamente e serenamente, per i Palestinesi si traduce in chiusura totale e impossibilità di recarsi a scuola, al lavoro, dagli amici, essendo permessi soltanto gli spostamenti eccezionali, motivati da urgenze di carattere medico.

E davvero non si riesce a comprendere come questa gente possa attendere tranquillamente ai propri festeggiamenti sapendo che, contemporaneamente e a causa di questo, ci sono persone costrette a restare a casa e a subire disagi e sofferenze inconcepibili e immotivati.

Immotivati, certo, perché qui non si tratta della chiusura dei valichi di frontiera con Israele per evitare possibili infiltrazioni di “terroristi”, ma della chiusura totale e dell’impossibilità a spostarsi all’interno dei territori palestinesi, cosa che con la sicurezza di Israele non ha nulla a che vedere.

A meno che non ci si voglia riferire alla sicurezza delle centinaia di migliaia di banditi, noti come coloni, che illegalmente risiedono all’interno dei territori occupati, e allora si tratta di un altro discorso; banditi che, peraltro, in questi giorni stanno per l’ennesima volta dimostrando di sapersi “difendere” egregiamente da soli, attaccando gli agricoltori palestinesi, impedendo la raccolta delle olive, razziando e distruggendo auto e beni negli indifesi villaggi palestinesi, eventualmente dando addosso persino ai soldati israeliani quelle rare volte in cui cercano di imporre il rispetto della legge e dei diritti umani.

Ma una ragione per tutto questo esiste, e l’ha messa bene in evidenza il giornalista di Ha’aretz Aluf Benn in un recente articolo peraltro dedicato a diverso argomento (trattandosi di un pezzo interessante, potrete utilmente leggerne una sintesi qui): l’argomento Palestinesi viene del tutto rimosso dalla società israeliana quando non vi sono attentati suicidi, e pochi si preoccupano di quello che accade nella West Bank, dell’espansione delle colonie, del sistema delle chiusure, dei coprifuoco, delle vessazioni e dei soprusi cui quotidianamente sono sottoposti i residenti.

E quella che dovrebbe essere una misura militare temporanea atta a impedire scontri e attacchi contro i civili israeliani diviene, invece, un sistema permanente che – sia festa oppure un giorno come tanti – frammenta la West Bank in una miriade di cantoni e rende penosa la vita quotidiana ad un’intera popolazione, nell’indifferenza della quasi totalità della società israeliana e nella colpevole acquiescenza dei governi occidentali.

Ed è dunque “normale” che gli Ebrei festeggino in tutta tranquillità il loro Sukkot, dimentichi dei loro vicini che, chiusi in casa, soffrono in silenzio e rimuginano sentimenti di amicizia nei confronti dei loro oppressori.

Fin quando non trarranno da tutto ciò le debite conseguenze.

P.S. Sullo stesso argomento potete leggere anche questa lettera di Bassam Aramin, scritta con animo molto più sereno del mio in occasione della Pasqua ebraica.

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2 ottobre 2008

Uno Stato ebraico razzista.

Lo scorso 28 settembre, la Corte Suprema israeliana ha tenuto udienza per discutere di una petizione avanzata da Adalah e da altre organizzazioni per la tutela dei diritti umani, volta a chiedere che si ponga fine alla politica portata avanti dalla Israel Land Administration (ILA), che impedisce ai cittadini israeliani non ebrei di avanzare offerte d’acquisto per i terreni sotto il controllo del Jewish National Fund (JNF).

Secondo Adalah, infatti, l’ILA – in quanto organismo statale – nell’assegnare i terreni deve agire nel rispetto del principio di uguaglianza, e i cittadini arabi di Israele devono poter esercitare pienamente e liberamente il loro diritto alla terra. Al contrario, permettendo la vendita dei terreni controllati dal JNF soltanto agli ebrei, l’ILA partecipa attivamente nel perpetuare le odiose discriminazioni ai danni della popolazione araba israeliana.

Nel corso dell’udienza, gli avvocati che rappresentano il Jewish National Fund hanno annunciato di convenire su una precedente proposta avanzata dallo Stato di Israele, secondo la quale l’Israel Land Administration potrà assegnare i terreni in questione sulla base del principio di eguaglianza ma, in cambio, lo Stato compenserà il JNF per ogni singolo lotto di terra acquistato da cittadini non ebrei.

Poiché, tuttavia, il JNF e lo Stato di Israele non sono ancora riusciti ad accordarsi sulla formula con cui concretamente dovrebbe avvenire tale compensazione, la Corte ha concesso un rinvio di ulteriori trenta giorni al fine di raggiungere un eventuale accordo.

Il che, considerando che la petizione di Adalah è stata presentata nel 2004, fa impallidire persino i cronici ritardi della giustizia italiana…

La questione è di non poca rilevanza, dato che il JNF attualmente detiene circa 250.000 ettari di terra, pari al 13% dell’intera superficie di Israele, terra che fino ad oggi, come abbiamo visto, poteva essere venduta soltanto ai cittadini di religione ebraica per il tramite dell’ILA, una apposita agenzia governativa.

Qualora la Corte Suprema israeliana dovesse dare il proprio giudizio favorevole all’accordo tra lo Stato e il JNF, lo Stato di Israele dovrebbe compensare il JNF ogni volta che questo vende la propria terra ad un cittadino arabo, perpetuando in tal modo la politica discriminatoria nell’accesso alla terra nei confronti degli Arabi israeliani; al JNF, infatti, verrebbe consentito di tenersi comunque ben stretto quel suo 13% di territorio israeliano sul quale stabilire comunità ebraiche al 100%, laddove si consideri che la “compensazione” avverrà attraverso un meccanismo di scambio con analoghe estensioni di terra in altre zone del paese.

Chi giustifica queste politiche discriminatorie sottolinea come la mission del JNF sia proprio quella di distribuire la terra agli Ebrei della diaspora, e che i 250.000 ettari di proprietà del JNF – nelle parole di Israel Harel – sono stati comprati “dunam by dunam, clod by clod” con tante piccole donazioni nelle blue-box del JNF, per farli diventare “eterna proprietà del popolo ebraico, in accordo con il principio stabilito dal fondatore del moderno sionismo, Theodor Herzl …”.

A costoro si potrebbe far notare che – qualora non se ne fossero accorti – lo Stato di Israele è già stato fondato, e queste terre adesso devono poter servire a tutti i suoi cittadini.

Ma, soprattutto, a costoro si dovrebbe ricordare che gran parte di questi 250.000 ettari posseduti dal JNF erano in origine terre abbandonate o confiscate agli Arabi, successivamente rivendute al JNF da David Ben-Gurion nel periodo 1949-50, a prezzi irrisori.

Decisione, quella, assolutamente immorale ed illegale, in quanto non si trattava di terra di proprietà del governo israeliano, ma di quella conquistata con la guerra; decisione assunta, peraltro, con l’unico scopo di porre in essere uno stato di fatto che impedisse ai profughi arabi cacciati dalle loro terre di ritornarvi o di ottenere almeno un risarcimento.

Il titolo a questo articolo non è stato dato per caso, ma corrisponde a quello apposto ad un editoriale di Ha’aretz quando ha avuto modo di occuparsi della questione.

Salvo una diversa (e poco probabile) decisione della Corte Suprema, ILA e JNF continueranno a rappresentare la punta di diamante del persistere, in Israele, di una pratica discriminatoria nei confronti della minoranza araba che non riguarda solo l’accesso alla terra o l’edilizia abitativa (si pensi al trattamento riservato alla minoranza Beduina), ma investe anche altri settori, dalla sanità all’istruzione, dall’accesso alla cittadinanza alla distribuzione dei fondi per il welfare.

Ma c’è già chi ha affermato che uno Stato che voglia essere contemporaneamente “democratico” ed “ebraico” rappresenta una vera e propria contraddizione in termini.

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Tour italiano dei Ramallah Underground.

Ricevo dalla lista conflitti di Peacelink e volentieri pubblico.

Il gruppo dei Ramallah Underground verrá in Italia ad ottobre in varie date.

Ramallah Underground è nato a Ramallah (Palestina), dove fa tuttora base, dall'immediatezza della sperimentazione musicale e dall'esigenza di dare voce ad una generazione di Palestinesi e Arabi che si trovano ad affrontare un panorama politico turbolento e incerto.

Il gruppo è stato fondato da artisti come Boikutt, Stormtrap e Aswatt e ha sempre mantenuto l'impegno per l'onestà del proprio lavoro e per la necessità di portare nuova linea alla cultura araba. Per raggiungere questo scopo gli artisti combinano musiche che spaziano dall'elettronica araba, hip-hop, trip hop fino al downtempo con il senso profondo di appartenenza alla loro cultura locale e con la presenza significativa della Palestina nella loro vita. Il risultato è una nuova sonorità unica, mai sentita prima.

I testi e la musica esprimono angoscia e sfida e sono in sostanza la voce ribelle dei colonizzati contro i colonizzatori. I RU continuano a svolgere un ruolo determinante nella scena della cultura araba underground, mentre acquistano lentamente un'ampia popolarità globale e locale.
http://www.ramallahunderground.com/

Dal 10 di Ottobre fino al 19 di ottobre, suonano nei vari posti qui in Italia nelle seguenti date:

Reggio Emilia 10 Oct @ AQ16 http://www.myspace.com/labaq16
Bologna 11 Oct @ TPO http://www.myspace.com/cstpo
Padova 14 Oct @ Pedro http://www.myspace.com/csopedro
Milano 15 Oct @ Baraonda http://isole.ecn.org/baraonda/
Bergamo 16 Oct @ Paci Paciana http://www.pacipaciana.org/
Pisa 17 Oct @ Newrotz http://newroz.noblogs.org/
Roma 18 Oct @ STRIKE http://www.strike-spa.net/

Potete dar un'occhiata al loro sito su myspace:

Potete anche vedere questo event su facebook seguindo questo link:
http://www.new.facebook.com/event.php?eid=25224047986&ref=ts

Mi fa un gran piacere se lo girate questo a tutti i vostri amici!!!!!
Vi aspettiamo ! non perderla!
Salaam
Nura-- Palestina News - voce di ISM (International Solidarity Movement) Italia http://www.ism-italia.it/

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Come si educano alla pace i bambini israeliani...




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1 ottobre 2008

Incontro: essere cristiani in Terra Santa.

ESSERE CRISTIANI IN TERRA SANTA
affrontare l'occupazione, riscattare la speranza
Venerdì 10 ottobre 2008, ore 20,45
Istituto Missioni Consolata, Via Cialdini, 4 - TORINO

INTERVENGONO
don Nandino Capovilla, Referente di Pax Christi per la Palestina
Gianluca Solera, Coordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture
p. Ugo Pozzoli, Direttore di Missioni Consolata
Filippo Fortunato Pilato, Direttore di http://www.jerusalem-holy-land.org/ (http://www.terrasantalibera.org/)

MODERATRICE
Angela Lano, Direttrice di Infopal.it

Durante l’incontro verranno presentati i libri
BOCCHESCUCITE, di N. Capovilla e B. Tusset, Paoline
VOCE CHE GRIDA NEL DESERTO, di Michel Sabbah, Paoline
MURI, LACRIME E ZA’TAR, di Gianluca Solera, Nuovadimensione

Info: http://www.infopal.it/ - redazione@infopal.it - tel. 011.19838359

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