31 marzo 2009

Quando verrà l'ora di discutere del nucleare israeliano?


Alla fine, anche l’esercito americano si è lasciato sfuggire quello che, in realtà, è il segreto peggio conservato al mondo: Israele possiede la bomba atomica.

Ufficialmente, gli Stati Uniti hanno sempre adottato una politica di ambiguità riguardo alla capacità nucleare israeliana, non riconoscendo mai – ma neppure negandolo – che Israele sia dotato di testate atomiche.

Ma uno studio del Dipartimento della Difesa, completato alla fine dello scorso anno, costituisce il primo caso in cui, in un rapporto non classificato, Israele viene esplicitamente definito come una potenza nucleare. A pagina 37 del rapporto del U.S. Joint Forces Command (JFCOM), infatti, si può leggere che “… c’è un arco crescente di potenze nucleari che va da Israele a ovest attraverso l’emergente Iran fino al Pakistan e all’India, e più avanti fino alla Cina, la Corea del Nord e la Russia ad est”.

Questo singolo riferimento è molto più di quanto fino ad oggi gli Stati Uniti abbiano pubblicamente ammesso riguardo alla capacità nucleare di Israele, benché in realtà il mondo intero, già dal 1986, conoscesse il programma atomico israeliano grazie alle rivelazioni di Mordechai Vanunu.

Alcuni anni dopo, esattamente nel 1991, il reporter investigativo Seymour Hersh pubblicò un libro intitolato “The Samson Option”, in cui rivelava in dettaglio la strategia israeliana di un massiccio attacco nucleare contro gli Stati arabi nel caso in cui l’esistenza stessa di Israele fosse in pericolo. Tra l’altro il libro rivela come già nel 1973, al terzo giorno della guerra dello Yom Kippur, Israele avesse minacciato di usare l’arma atomica, ricattando l’allora Presidente americano Richard Nixon e inducendolo ad autorizzare ulteriori rifornimenti militari.

Attualmente, si ritiene che Israele possieda circa 200 testate atomiche, ma alcuni analisti fanno giungere tale stima a 400 testate, eppure Israele e gli Usa continuano con il solito giochino di non ammettere, ma neppure di negare, la capacità nucleare israeliana. Ancora lo scorso 9 febbraio Barack Obama – nel corso di una conferenza stampa – ha preferito glissare sull’argomento pur a fronte di una esplicita domanda in tal senso della corrispondente Helen Thomas.

Ma c’è un motivo per questo atteggiamento palesemente ipocrita, e risiede nel fatto che, in base alla legge, gli Stati Uniti dovrebbero immediatamente cessare di fornire i miliardi di dollari annualmente destinati ad aiuti per Israele, ove fosse ufficialmente determinato che questo Paese ha un programma di armamenti nucleari. Questo perché il cd. Emendamento Symington, approvato nel 1976, vieta ogni assistenza a quelle nazioni che sviluppino tecnologie di proliferazione degli armamenti nucleari.

Vista la pluriennale tradizione di “cecità selettiva” degli americani nei confronti del nucleare israeliano, tuttavia, è logico attendersi che il rapporto del JFCOM non avrà nessuna conseguenza di rilievo, restando una semplice e innocua gaffe. Del resto, come ricordava Ha’aretz in un articolo dedicato al rapporto, già nel dicembre del 2006 era stato lo stesso Segretario alla Difesa U.S.A. Robert Gates a riferirsi ad Israele come una delle potenze nucleari che circondano l’Iran e che lo spingono a dotarsi anch’esso dell’arma atomica.

Eppure, nel momento in cui molti paventano come catastrofica l’ipotesi che l’Iran di Ahmadinejad si doti dell’arma nucleare, sembrerebbe giunta finalmente l’ora di discutere anche della questione dell’arsenale nucleare israeliano. Perché nulla è di maggior ostacolo ad ogni prospettiva di disarmo globale e di non proliferazione nucleare del regime di doppio standard applicato, anche in questo campo, a favore di Israele.

Di recente, in un articolo per l’International Herald Tribune, il Direttore dell’IAEA Mohamed El Baradei, ha sostenuto che il vero problema è che “il regime di non proliferazione nucleare ha perso la sua legittimazione agli occhi della pubblica opinione nel mondo arabo a causa di quello che viene percepito come un doppio standard concernente Israele, il solo Stato nella regione al di fuori del Trattato di non proliferazione e di cui è noto che possiede armi nucleari”.

Aggiungendo poi, con una bordata rivolta a Stati Uniti ed Israele: “soprattutto, dobbiamo porre fine alle evidenti violazioni di principi fondamentali del diritto internazionale quali le restrizioni all’uso unilaterale della forza, la proporzionalità nell’autodifesa e la protezione dei civili durante le ostilità, al fine di evitare il ripetersi di carneficine di civili come in Iraq e, più recentemente, a Gaza”.

Israele, in questi ultimi anni, ha dimostrato di non avere alcuna remora a dispiegare la terrificante potenza del suo arsenale bellico, dalle cluster bomb al fosforo bianco, dai proiettili DIME alle granate a flechettes, pur nella piena consapevolezza di mettere a repentaglio l’incolumità di intere popolazioni civili inermi.

E se un giorno decidesse che è l’ora di far rivivere Sansone?

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24 marzo 2009

Una pagina vergognosa.

Il recente rapporto di Richard Falk, Relatore Speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, pubblicato il 17 marzo e reso noto in questi giorni, traccia un bilancio dell’operazione “Piombo Fuso”, iniziata il 27 dicembre 2008 e terminata il 18 gennaio, rendendo evidente la presenza nella condotta dell’esercito israeliano di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.

Su un totale di 1.434 Palestinesi uccisi, soltanto 235 erano combattenti, mentre 960 erano i civili e 239 gli agenti di polizia, la maggior parte dei quali (235) uccisi durante il primo giorno di massicci bombardamenti; tra i civili, 121 erano donne e 288 bambini.

I Palestinesi feriti durante le operazioni militari (rectius, il massacro) sono stati 5.303, tra cui 828 donne e 1.606 bambini; è degno di nota come 1 abitante di Gaza su 225 sia stato ucciso o ferito durante “Piombo Fuso”, senza contare le lesioni di carattere mentale, anch’esse senza precedenti.

Va rilevato infatti che, secondo un recente rapporto citato dall’OCHA (Situation Report, 26.1.2009), il 96% degli abitanti di Gaza soffre di depressione, mentre l’86% dei residenti dei distretti di Gaza Nord e di Rafah soffre di depressione acuta; questi indici di deterioramento della salute mentale dei Palestinesi della Striscia indicano in sé l’ulteriore fallimento di Israele nel suo dovere, in qualità di potenza occupante, di salvaguardare la salute della popolazione sotto occupazione.

A parte le moschee e gli edifici governativi, ben 21.000 abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate durante le operazioni militari, ed un totale di 51.000 persone trova attualmente riparo in tende o ricoveri di fortuna.

Un così alto numero di civili non combattenti morti durante “Piombo Fuso” è derivato non solo dalle massicce violazioni del diritto umanitario da parte dell’esercito israeliano, ma anche dall’impossibilità per gli abitanti di Gaza – fatta eccezione per circa 200 donne di nazionalità straniera – di fuggire dalle zone dei combattimenti. E, invero, il massacro di Gaza è stato “l’unico conflitto al mondo in cui ai civili non è stato nemmeno consentito di fuggire”.

L’operazione “Piombo Fuso” resta e resterà per sempre una macchia indelebile, una pagina vergognosa nella storia di Israele, il cui esercito si è macchiato di crimini vergognosi e indicibili, che stanno emergendo sempre più nella loro gravità ogni giorno che passa. Crimini addebitabili, peraltro, anche ai vertici politici e militari, che hanno autorizzato e pianificato l’uso dei più terribili macchinari e ordigni bellici messi a disposizione dal progresso.

Ma è e resterà un marchio di infamia anche per quanti hanno assistito con complice inerzia a questo massacro disumano e, ancora prima, hanno consentito che un’intera popolazione di un milione e mezzo di persone venisse sottoposta ad un blocco totale di rifornimenti di cibo, medicinali, carburanti durato per ben 18 mesi, già esso in flagrante violazione degli articoli 33 e 55 della Convenzione di Ginevra.

E di tutto questo, un giorno, qualcuno ci chiederà conto.

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19 marzo 2009

Lettera a Papa Benedetto XVI.

Questa lettera-appello vede come primi firmatari i pellegrini che hanno partecipato, insieme ai cristiani di Betlemme, alla giornata di preghiera e sensibilizzazione Un ponte per Betlemme 2009, a partire da Don Nandino Capovilla.

Da credente quale io sono, non posso che condividerla ed esortare i lettori a firmarla.

NON DIMENTICHI!
Lettera a Papa Benedetto XVI

Carissimo Saidna, siamo sacerdoti, religiose, religiosi e laici che amano la Terra santa.

La comunione di fede e di fraterna amicizia che ci lega ai cristiani e alle comunità della terra del Santo, ci spinge a scriverLe questa lettera nel giorno in cui ha annunciato il Suo viaggio pastorale con il desiderio forte di "pregare per l’unità e per la pace".

La visita del Santo Padre alle Chiese locali in ogni parte della terra è sempre evento di Grazia per confermare nella fede, accogliere nella carità e incoraggiare nella speranza i fedeli delle parrocchie e delle diocesi. Per questo vogliamo esprimerLe la nostra preoccupazione per il grado di prostrazione, umiliazione e oppressione che i cristiani, in quanto palestinesi, vivono da decenni soprattutto nei Territori occupati.

Al Santo Padre che viene a confermare nella fede noi, ripetutamente pellegrini nelle comunità cristiane di Terra santa, confermiamo che la fede di questi nostri fratelli è duramente provata da indescrivibili sofferenze.

Al Santo Padre che viene per accogliere nella carità noi, che sperimentiamo la loro straordinaria ospitalità, attestiamo l’evangelica logica di nonviolenza che i palestinesi esercitano ogni giorno nei più di seicento check-point che frantumano le loro esistenze personali e familiari.

Al Santo Padre che viene a incoraggiare nella speranza noi, che tragicamente ne prendiamo atto ogni volta di più, ripetiamo che i nostri cristiani la stanno perdendo giorno dopo giorno, logorati dalla disperazione di una vita senza dignità e senza orizzonti di pace.

Santità, con questa lettera ci facciamo portatori della richiesta di tante sorelle e fratelli desiderosi di incontrarLa e di essere ascoltati perché, anche se fin dai tempi di Gesù la vocazione dei cristiani è stata quella del "piccolo gregge", la tragedia della loro crescente emigrazione a causa delle conseguenze dell’occupazione militare e del soffocamento economico, preoccupa non solo per la sua riduzione a meno del 2% della popolazione, ma anche perché in occidente è sempre più ricorrente la falsa interpretazione di questa diminuzione a causa di una presunta "persecuzione" da parte dei fratelli musulmani. Ma i nostri preti di Terra santa ci ribattono che non è questa la realtà dei fatti e, insieme ai loro fedeli, insistono con ancor più vigore e apprensione: "Non abbandonateci! Interessatevi di noi e della nostra vita strangolata dal sistema di permessi e restrizioni militari, espropriata, come la nostra terra natia, murata viva da quel muro illegale e immorale".

Noi ben conosciamo quanta ingiustizia deve sopportare il popolo palestinese, e in esso i cristiani, per la perversa opera distruttiva del sistema di occupazione militare che soffoca le esistenze e le aspirazioni basilari di sopravvivenza dignitosa nella loro terra, con l’ininterrotta colonizzazione, la distruzione delle case, l’abbattimento degli ulivi e la disgregazione della vita sociale ed economica delle comunità arabe, cristiane e musulmane. Questa non è la via per garantire sicurezza e portare pace.

Lei ben conosce le conseguenze del muro di apartheid che è stato costruito per più di settecento chilometri, non sul confine della Linea Verde del 1967, ma in gran parte dentro i Territori Palestinesi per rubare terre, sorgenti d’acqua e risorse. Questo "muro di distruzione" - come lo chiama il Patriarca emerito Sabbah - è la negazione di ogni possibile conoscenza e fiducia reciproca tra israeliani e palestinesi. Per questo Giovanni Paolo II amplificava la condanna inequivocabile della Corte de L’Aja e dell’Assemblea generale dell’Onu con la sua magnifica, lapidaria e nel contempo amara considerazione: "Non di muri ha bisogno la Terra santa, ma di ponti!".

Lei conosce il dolore di quei sacerdoti che faticano ad ottenere il visto dalle autorità militari israeliane. Trattati alla stregua di terroristi, non possono lasciare le parrocchie per andare in Patriarcato a Gerusalemme o per pregare nei luoghi santi e, a volte per anni, non riescono a far visita ai loro genitori -talvolta neppure il giorno del loro funerale- pena il rischio che venga loro negato il rientro nel luogo del ministero.

Santità, con la Sua parola, Lei potrà aiutare anche tutti i pellegrini di ogni parte del mondo a ripensare le modalità del pellegrinaggio: insieme alla preghiera nei luoghi santi è necessario mettere in programma l’incontro e l’ascolto delle "pietre vive", le comunità che da due millenni qui custodiscono la presenza cristiana. Ci aiuti Santità a rispondere all’appello del Patriarca di Gerusalemme Mons. Twal : "Vi siamo riconoscenti per gli aiuti concreti che non fate mancare alla Chiesa di Terra santa ma non dimenticatevi che abbiamo bisogno di giustizia e di pace!". Ci aiuti a compiere pellegrinaggi che aprano il cuore al dolore e alla paura che segnano la vita di questi popoli spalancando gli occhi sulle ingiustizie di cui milioni di esseri umani sono vittime quotidiane.
Santità siamo consapevoli che tanti, troppi villaggi desidereranno la Sua presenza; comprendiamo l’impossibilità di visitare tutta la Terra santa, ma siamo anche certi che tanti cristiani non avranno il permesso delle autorità militari israeliane per venire ad incontrarLa, così come non possono mai recarsi a Betlemme o a Gerusalemme per pregare. Tutti loro attendono una parola di conforto di fronte a questa palese ingiustizia confidando nella Sua preghiera. Non li dimentichi!

Non dimentichi Santità di onorare la memoria delle migliaia di ulivi strappati alla terra e alle famiglie cristiane di Aboud e concentrati simbolicamente nell’ambone della chiesa parrocchiale: un tronco abbattuto dalle ruspe, da cui risuona ad ogni Eucarestia la Parola che rende veramente liberi.

Non dimentichi Santità i nostri cristiani di Gaza. Siamo consapevoli di quanto sia difficile rispondere all’appello del parroco di andare a visitare la loro comunità, dopo il massacro che solo qualche settimane fa si è abbattuto sulla Striscia, mostruoso come la pioggia infuocata di bombe e di morte che ha ucciso insieme a 1500 persone, tra cui più di 400 bambini, le speranze di sopravvivenza di un popolo stremato da anni di embargo e prigionia.

Non dimentichi Santità che ogni venerdì dal 1 marzo 2004 ci sono suore, preti e laici che pregano il rosario sotto il muro che divide Betlemme da Gerusalemme, invocando il dono della pace e della giustizia per permettere ai due popoli di riprendere a vivere insieme sulla stessa terra.

Santità, Le chiediamo di far Sue le aspettative dei cristiani e di tutti gli uomini alla giustizia, alla dignità umana, alla pace giusta dopo tanta oppressione. Dal pulpito di Betlemme le Sue parole chiare e coraggiose potranno aiutare Israele e l’Autorità palestinese a riconoscere le reciproche responsabilità.

Non è più questo il tempo di parlare di "processo di pace". Questa è l’ora della pace. L’ora di restituire la libertà ai prigionieri, la terra ai proprietari, la sicurezza a tutti.

Betlemme, 8 marzo 2009 - II Domenica di Quaresima, Domenica della Trasfigurazione del Signore

LE FIRME DEI SACERDOTI, RELIGIOSE, RELIGIOSI E LAICI CHE CONDIVIDONO QUESTA LETTERA VERRANNO CONSEGNATE A PAPA BENEDETTO XVI IL 10 APRILE, VENERDI SANTO, TRADIZIONALE GIORNATA DI PREGHIERA E SOLIDARIETA’ CON LA CHIESA DI TERRA SANTA.

Primi firmatari sono i pellegrini che hanno partecipato, insieme ai cristiani di Betlemme, alla giornata di preghiera e sensibilizzazione Un Ponte per Betlemme 2009

don Nandino Capovilla, Venezia
seguono (fino ad ora) 376 firme
Firma

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13 marzo 2009

I coraggiosi della solidarietà per Gaza.

Questo video, realizzato da Paola Mandato, fornisce un breve ma efficace resoconto dell'attività e degli sforzi dei tanti coraggiosi, uomini e donne, che in questi mesi hanno rischiato e rischiano anche la vita pur di aiutare il popolo palestinese e, in particolare, quel milione e mezzo di residenti della Striscia di Gaza ancora oggi sotto assedio e privi di quanto necessario ad una vita minimamente dignitosa.

Nel difendere i diritti umani dei Palestinesi, questi eroi dei nostri tempi difendono anche i nostri, e dunque essi meritano ogni incoraggiamento ed ogni appoggio nella loro instancabile opera di umana e toccante solidarietà.

Grazie a Paola per questo bellissimo video, grazie a Vittorio Arrigoni e a tutti i volontari che si prodigano per non far dimenticare la tragedia di Gaza e dell'intero popolo palestinese.

Grazie a voi possiamo continuare a sperare che, un giorno non lontano, anche i Palestinesi possano realizzare la loro aspirazione alla libertà, ad una vita serena e decorosa, ad uno Stato indipendente e dai confini certi e riconosciuti.

Grazie a voi possiamo continuare a sperare che cessi l'incredibile atteggiamento di inerzia e/o di connivenza della comunità internazionale, che consente ancora oggi ad Israele di proseguire la costruzione del muro dell'apartheid, di espandere le colonie, di massacrare impunemente civili inermi ed innocenti, di essere un vero e proprio Stato-canaglia che impedisce ogni tentativo di ottenere la pacificazione della regione.

Che Dio vi accompagni.

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11 marzo 2009

Cambia la politica Usa in M.O., ma non il rapporto con Israele!

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come l’elezione di Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti abbia suscitato grandi aspettative per un significativo cambiamento della politica estera americana in medio oriente.

E, in effetti, qualcosa si muove, come mostrano ad esempio le dichiarazioni del Vice Presidente Biden circa un diverso approccio per la soluzione del conflitto in Afghanistan, che in ipotesi prevede anche il dialogo con i talebani “moderati”.

Quello che, sempre più, appare invece destinato a rimanere immutato è il rapporto con Israele e lo stretto legame di amicizia che, al di fuori di ogni logica, continua a sussistere tra gli Usa e questo vero e proprio Stato-canaglia, massacratore impunito di civili inermi.

Charles Freeman, nominato da Obama a capo del Consiglio per l’Intelligence nazionale, è stato costretto a rinunciare al proprio incarico. Il motivo? Alcune dichiarazioni inopportune relative ai fatti di Piazza Tienanmen e l’aver usato il termine “oppressione” per indicare il trattamento riservato da Israele ai Palestinesi dei Territori occupati: che orrore!

Qualche giorno addietro, in occasione della sua prima visita ufficiale al Parlamento europeo, il neo Segretario di Stato Usa Hillary Clinton – a proposito della inarrestabile espansione delle colonie israeliane nei Territori occupati – ha avuto modo di dichiarare che gli insediamenti colonici in Cisgiordania “non aiutano” il dialogo, e che l’argomento sarà uno di quelli che gli Stati Uniti affronteranno con il governo israeliano di prossima formazione.

Ma come, Israele è in procinto di costruire nella West Bank addirittura 73.000 nuove abitazioni da destinare ai coloni, un colossale piano edificativo che farebbe aumentare il numero dei coloni nella West Bank di poco meno di 300.000 unità e che porrebbe la definitiva pietra tombale sulla soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese, e l’unica dichiarazione ai massimi vertici dell’Amministrazione Usa è che l’espansione delle colonie “non aiuta”?

Il vero è – come dimostra anche la mancata visita nella Striscia di Gaza dell’inviato speciale Usa per il Medio Oriente George Mitchell – che gli Stati Uniti sembrano ancora troppo rigidamente legati al principio “non si tratta con i terroristi”, e ciò viene interpretato logicamente come una volontà di favorire Fatah rispetto ad Hamas ed una incapacità a proporsi come mediatore realmente imparziale delle rivalità interne palestinesi e, insieme, del conflitto che contrappone questi ultimi agli Israeliani.

Sembra di capire, insomma, che dietro alle belle parole ed alle aperture di Barack Obama, almeno per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, si nasconda la medesima politica estera di Bush, e non è proprio una bella notizia.

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10 marzo 2009

L'8 marzo delle donne palestinesi.


L’8 marzo, giornata internazionale della donna, è per noi soprattutto l’occasione per ricordare come la pluridecennale occupazione dei Territori palestinesi, l’assedio imposto alla Striscia di Gaza, a partire soprattutto dal giugno del 2007, e i crimini di guerra commessi da Israele colpiscano soprattutto le fasce più deboli della popolazione civile palestinese, e in primo luogo le donne e i bambini.

Non occorre ricordare come la più recente forma di violenza sistematica dell’esercito israeliano sia stata l’operazione “Piombo Fuso”, 22 giorni di raid e di bombardamenti in cui civili inermi, compresi donne e bambini, sono stati sistematicamente uccisi o mutilati dall’uso indiscriminato e criminale della forza da parte dei soldati di Tsahal, senza alcuna considerazione dei principi base del diritto umanitario, quello della proporzionalità e quello della distinzione; crimini per i quali ancora si attendono serie investigazioni e, soprattutto, la punizione dei colpevoli.

Secondo i dati più recenti, sono state 120 le donne palestinesi morte durante l’offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza, il che corrisponde all’8,3% del totale dei Palestinesi uccisi; il numero delle donne ferite ammonta a 735 (17% del totale), e numerosi sono i casi di gravi mutilazioni.

La gran parte di queste donne sono state uccise o ferite dai raid dell’esercito israeliano mentre erano in casa - a sbrigare i lavori domestici o a pranzo con la propria famiglia o ancora nel sonno – oppure addirittura mentre sventolavano una bandiera bianca o si trovavano all’interno di strutture e scuole dell’UNRWA, dove si erano rifugiate cercando scampo alla furia di Tsahal e andando, invece, incontro ad un tragico destino di morte.

Donne come la 50enne Rawhiya a-Najar, del villaggio di Khuza’a, uccisa il 13 gennaio mentre era in strada sventolando una bandiera bianca, per consentire ai suoi familiari di evacuare la casa in cui abitavano; o come le quattro mogli di Nizar Rayan, uccise insieme al marito (dirigente di Hamas) e ai loro undici figli di età compresa tra 1 e 12 anni, in un omicidio mirato fra i più sanguinosi tra quelli compiuti dagli assassini di Israele; o come la 16enne ‘Ayun a-Nasleh, uccisa lo stesso 1° gennaio insieme al suo fratellino di due anni e mezzo da un bombardamento dell’artiglieria israeliana che ha investito in pieno la loro casa a Gaza City; o come le cinque sorelle della famiglia Ba’lusha, uccise nella loro casa nel campo profughi di Jabalya da un bombardamento israeliano che intendeva colpire la vicina moschea.

Ed altre centinaia, più “fortunate”, sono riuscite a restare incolumi, ma hanno dovuto assistere all’orrore della morte dei propri mariti, padri, fratelli, figli.

Ma le sofferenze delle donne palestinesi non si limitano alle uccisioni indiscriminate, bensì includono anche la distruzione delle risorse economiche e/o il divieto ad accedervi, la demolizione delle case, i raid notturni nelle abitazioni alla ricerca di “terroristi”, l’espansione degli insediamenti, i checkpoint e le violazioni alla libertà di circolazione.

Un recente studio della rivista scientifica The Lancet (consultabile qui, ma occorre la registrazione), ha mostrato come nel 2000 – sulla base delle stime congiunte di WHO, Unicef e Un Population Fund – la mortalità materna si sia attestata sul livello di 100 morti ogni 100.000 nascite, a causa del pessimo stato della sanità palestinese e della pressoché totale impossibilità per le donne di ottenere cure adeguate al di fuori dei Territori.

A ciò aggiungasi che il tasso di mortalità infantile nei Territori palestinesi, nel periodo 2002-2006 è stata di 27,6 morti su 1000 per i neonati e di 31,6 morti su mille per i bambini al di sotto dei 5 anni (in Israele lo stesso indicatore è situato al 4 su 1000); tassi, questi, che dal 1990 hanno subito solo una modesta diminuzione, contrariamente a quanto accaduto negli altri Paesi arabi. Il perché si spiega anche con il cambiamento nelle principali cause di morte dei bambini, rappresentata ora dalla prematurità dei parti e dallo scarso peso alla nascita, da ricollegare al deterioramento nella qualità e quantità dell’alimentazione delle gestanti.

Le crescenti difficoltà negli spostamenti incidono, invece, sull’accesso agli esami prenatali e, soprattutto, sulla possibilità di raggiungere in tempo gli ospedali in caso di parto; secondo Lancet, il 10% delle donne palestinesi incinte ha dovuto subire ritardi compresi tra le due e le quattro ore per raggiungere le strutture mediche, laddove il tempo necessario per accedervi (senza i checkpoint e i blocchi stradali) sarebbe stato di 15-30 minuti.

Ma questi numeri non rivelano l’ansia delle donne, durante la gravidanza, legata alla possibilità di potersi recare in ospedale a partorire e ritornare incolumi a casa, dal che ne deriva un aumento dei parti in casa da un lato e, dall’altro, un considerevole incremento dei parti cesarei (passati dall’8,8% nel 2000 al 15% nel 2008).

Un’ansia non immotivata considerato che, dal 2000 al 2006, in ben 69 casi donne palestinesi sono state costrette a partorire ad un checkpoint israeliano, e in ben 36 casi si è verificata la morte dei bambini appena nati, come è accaduto ancora nel settembre del 2008 al neonato di Naheel Abu Rideh, bloccata dai bravi soldatini israeliani al checkpoint di Huwara.

In occasione della giornata internazionale delle donne, il Presidente Napolitano ha tenuto il suo discorso di circostanza, nel corso del quale ha reso noto di aver inviato una lettera al Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, in cui ha sottolineato che “la violenza sessuale contro le donne è un crimine contro l’umanità”.

Plaudiamo al discorso del Presidente, perché davvero lo stupro costituisce un atto di violenza intollerabile contro le donne, un crimine spesso usato in maniera sistematica nel corso dei conflitti che purtroppo insanguinano tante parti del mondo.

E, tuttavia, una denuncia di tale forza ed enfasi si sarebbe potuta e dovuta lanciare anche nei confronti dei crimini contro l’umanità commessi da Israele nei confronti delle donne palestinesi, atti barbari e disumani che avrebbero meritato di trovar posto anch’essi in una lettera al Segretario Generale dell’Onu, magari per sollecitare un’inchiesta sui crimini israeliani commessi a Gaza che non si limiti agli attacchi diretti alle strutture dell’Onu.

Ma, certamente, è molto più facile muovere denunce condivisibili ma generiche piuttosto che puntare un dito accusatore contro uno Stato-canaglia ben determinato. E se questo Stato è Israele, allora è davvero impossibile.

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Closed Zone


Nonostante abbia ripetutamente dichiarato di non aver più alcuna responsabilità su Gaza come potenza occupante, a seguito del “disengagement plan” di Sharon, Israele al contrario ha sempre mantenuto uno stretto controllo delle sue frontiere terrestri e marittime e dello spazio aereo, presidiando e regolando il passaggio ai valichi di frontiera, ivi incluso il controllo sostanziale, benché indiretto, di quello di Rafah.

Questo ferreo controllo, a partire dal giugno del 2007, si è tramutato in un vero e proprio assedio, che ha pressoché impedito ogni movimento di persone e cose da e per la Striscia di Gaza, con la sola eccezione del personale umanitario e dei beni di prima necessità (e in taluni periodi neppure di quelli).

Questa politica, che esplicitamente Israele ha ricollegato all’obiettivo di esercitare pressione sui “terroristi” di Hamas, ha violato e viola gravemente i diritti fondamentali di un milione e mezzo di esseri umani che vivono nella Striscia, ivi inclusi il diritto alla riunificazione familiare, all’istruzione, a ricevere adeguati trattamenti sanitari, a guadagnare quanto necessario per mantenere sé stessi e le proprie famiglie.

Gli effetti di questa chiusura totale – una vera e propria punizione collettiva bollata come crimine dalle convenzioni di diritto umanitario – si sono manifestati ancor più crudelmente durante i 22 giorni dell’offensiva israeliana denominata “Piombo Fuso”, durante i quali ai civili palestinesi inermi è stato persino impedito – caso unico al mondo – di fuggire dalle zone dei combattimenti.

Questo breve filmato di animazione (90”) è stato ideato e curato da Yoni Goodman, direttore dell’animazione del recente “Valzer con Bashir”, per conto dell’ong israeliana Gisha, e rappresenta un approccio inusuale per sottolineare l’urgenza di restituire a un milione e mezzo di persone – qui rappresentate dal ragazzino che insegue il proprio sogno di libertà – la pienezza dei propri diritti umani, a cominciare da quello all’incolumità personale, a godere di un livello di vita dignitoso e non legato alla mera sussistenza, alla libertà di movimento.

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5 marzo 2009

Appuntamenti da non perdere.

Sono tre gli appuntamenti riguardanti Gaza e la questione palestinese che vi volevo segnalare.

GAZA SU RAI TRE

La puntata di Presa Diretta - il programma di Riccardo Iacona - prevista per domenica 8 marzo alle ore 21:30 e in onda su Rai Tre, sarà dedicata a Gaza.

Gli inviati di Presa Diretta sono entrati nella Striscia di Gaza con la carovana di Crocevia e hanno incontrato, tra l'altro, Vittorio Arrigoni e gli altri attivisti dell'International Solidarity Movement.

Questa testimonianza è ancor più importante laddove si osservi che l'accesso alla Striscia di Gaza è sempre una questione defatigante e difficoltosa, se non del tutto impossibile, a causa dell'atteggiamento delle autorità israeliane che negano o consentono il passaggio ai valichi per motivi davvero imperscrutabili.

Così, ad esempio, Israele continua a negare l'accesso a Gaza agli operatori dell'ong israeliana B'tselem, così come lo ha negato ad una delegazione capeggiata da Giovanni Kessler, Presidente del Consiglio della Provincia di Trento, respinta al valico di Eretz dai soldati israeliani.

Perchè vietando all'opinione pubblica e ai suoi rappresentanti di entrare a Gaza e di constatare de visu le distruzioni causate dall'esercito israeliano e le intollerabili condizioni umanitarie in cui sono costretti a vivere i Palestinesi, Israele cerca disperatamente di salvare la propria "immagine" agli occhi del mondo, dispiegando l'immenso apparato propagandistico di cui dispone.

Solo così si può comprendere come qualche filosionista di casa nostra arrivi persino a sostenere che Gaza è "sostanzialmente intatta"!

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA

Il blog Salaam ci informa che il saggio di Ilan Pappe "La pulizia etnica della Palestina" (Fazi editore) verrà presentato venerdì 6 marzo, alle ore 20:30, presso i Chiostri di S. Corona (Vicenza): Elisabetta Bartuli, dell'Università di Venezia, introdurrà i relatori Alfredo Tradardi (curatore del libro insieme a Luisa Corbetta) e Giorgio Frankel, giornalista che collabora con Il Sole 24 Ore.

Lo stesso Tradardi, peraltro, è stato invitato a presentare il libro all'Università di Catania il giorno 27 marzo e, in date successive, dovrebbe fare lo stesso anche a Palermo, Messina e Siracusa (date e sedi da confermare).

E' persino superfluo sottolineare quanto importante sia l'opera di Pappe nello smentire la storiografia ufficiale israeliana e nel ricordare che la nascita dello Stato di Israele si sia accompagnata alla pulizia etnica di centinaia di migliaia di Palestinesi, accuratamente pianificata e sistematica, un crimine contro l'umanità che ha dato luogo ad episodi davvero terrificanti e disumani.

Un libro assolutamente da leggere e, peraltro, molto scorrevole.

GAZA IN CONSIGLIO COMUNALE A PALERMO

A seguito dell'approvazione all'unanimità, da parte del Consiglio comunale di Palermo, di una mozione di solidarietà con il popolo palestinese, si è deciso che la prossima riunione del Consiglio, in programma per il 12 marzo alle ore 16:00, sia aperta al coordinamento di solidarietà recentemente costituitosi e si svolga in collegamento telematico con il sindaco della città di Khan Yunis (gemellata con Palermo).

Un appuntamento da non perdere per noi palermitani!

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4 marzo 2009

La fine del processo di pace e la dissoluzione dei regimi politici storici in Israele e Palestina.

Nell’interessante articolo che segue, pubblicato il 25 febbraio sul sito dell’Alternative Information Center (AIC) e qui proposto nella traduzione offerta da Arabnews, Sergio Yahni parte dalla considerazione che il processo di pace israelo-palestinese – lungi dall’attraversare una semplice fase di stallo – è in realtà da considerarsi già concluso fin dal 29 settembre del 2000.

Questo ha determinato, da una parte, il disfacimento dell’Autorità Palestinese, ormai pressoché ininfluente, e, dall’altro, ha portato all’emergere all’interno di Israele di due diverse forme di autoritarismo, una civile e una militare, che si stanno sviluppando nel Paese.

Rimandando alla lettura dell’articolo di Yahni, non si può non sottolineare, ancora una volta, come ogni possibilità di recupero del processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, ormai invero problematico, risieda esclusivamente nell’intervento della comunità internazionale. Comunità internazionale che, con urgenza, deve recuperare un effettivo ruolo di “honest broker” del conflitto, che riconosca eguale dignità alle parti in causa e, soprattutto, che le impegni egualmente al rispetto della roadmap e delle risoluzioni Onu in materia.

Soltanto un rigido vincolo proveniente dall’esterno, che preveda anche la possibilità di sanzioni e di boicottaggi per chi “sbaglia”, potrà costringere Israeliani e Palestinesi ad assumere quelle decisioni dolorose e quelle reciproche concessioni necessarie per raggiungere un accordo di pace equo e duraturo.

Ma, con specifico riguardo agli Usa, i primi passi mossi da Hillary Clinton nella regione cominciano a far temere che le tante speranze suscitate dall’elezione di Obama e l’auspicato nuovo corso dell’ amministrazione americana si dimostreranno poco più di un bluff.

La fine del “processo di pace” e la dissoluzione dei regimi politici storici in Israele e Palestina
25.2.2009

Sebbene si continui a parlare del “processo di pace” israelo-palestinese come di un processo ancora in corso, anche se al momento in una situazione di stallo, in realtà questo processo si è concluso già otto anni fa, precisamente il 29 settembre del 2000, quando, confermando il fallimento dei negoziati di Camp David, iniziò l’offensiva israeliana contro il popolo palestinese. Da allora, tutti i tentativi della comunità internazionale di riprendere il processo, compresa l’iniziativa araba, sono falliti.

La controffensiva delle “organizzazioni non governative armate” palestinesi, contraddistinta da attacchi suicidi, insieme all’invasione israeliana delle aree della Cisgiordania controllate dall’Autorità Palestinese (ANP) ed al conseguente screditamento della già limitata sovranità di quest’ultima, hanno portato al disfacimento di tutti gli elementi più significativi del sistema politico palestinese.

Le organizzazioni islamiche, invece, considerandosi organizzazioni di resistenza, e non parte del processo di costruzione del paese, erano meglio preparate ad affrontare la violenza della repressione israeliana. Sono quindi riuscite a sopravvivere all’offensiva israeliana ed a mantenere la loro struttura politica.

Anche il sistema politico israeliano ha attraversato un processo di disgregazione. Nonostante l’apparente stabilità, esso è infatti gradualmente crollato in pezzi, a causa di successivi governi di breve periodo, che non sono riusciti a trovare una soluzione alla questione della sovranità dei territori palestinesi occupati.

Di conseguenza, il popolo israeliano ha quasi completamente perso la fiducia nel sistema politico. Tutti i maggiori partiti hanno perso la loro storica rappresentanza parlamentare. Il popolo israeliano si è infatti orientato, in un primo momento, verso alternative non politiche, ed ultimamente verso partiti autoritari. Inoltre, sia in Palestina, sia in Israele, la burocrazia militare sta assumendo sempre di più le caratteristiche di un partito politico, o comunque di una lobby politica influente. Nel caso palestinese, questo processo è stato il risultato quasi intenzionale della riforma delle forze di sicurezza palestinesi, avvenuta sotto la direzione del Pentagono americano. In Israele, invece, questo processo si è evoluto in modo non intenzionale.

Senza gli elementi essenziali della sovranità, il futuro dell’ANP è probabilmente irrilevante per comprendere come si evolveranno le politiche regionali sul lungo periodo. L’offensiva israeliana l’ha infatti trasformata in un’istituzione che a stento riesce a gestire la vita della popolazione palestinese sotto l’occupazione israeliana. Stando così le cose, più che altro essa aiuta Israele a ridurre i costi dell’occupazione. E’ invece la relazione tra Israele e la resistenza palestinese quella che determinerà il futuro della regione. La resistenza palestinese non è stata infatti sconfitta dall’offensiva israeliana contro i palestinesi a Gaza, né è stata danneggiata in modo serio, nonostante la distruzione generale delle infrastrutture ed il gran numero di morti tra i civili che essa ha provocato. Al contrario, proprio grazie all’offensiva, la resistenza ha addirittura aumentato la propria capacità di dettare le condizioni a Israele e all’Egitto.

Israele potrebbe scegliere di ignorare queste condizioni, ma a quel punto sarebbe costretta a scontrarsi con la propria opinione pubblica, che insiste nel chiedere la liberazione del soldato israeliano ancora nelle mani della resistenza. Inoltre, ignorando le richieste della resistenza di aprire i valichi di confine, e quindi riconoscendo, di fatto, l’esistenza di un territorio sovrano liberatosi grazie alla lotta armata, creerebbe un clima permanente di scontento nella regione, che metterebbe in pericolo i suoi alleati: l’Egitto, la Giordania e l’Autorità Palestinese. D’altra parte, accettando invece le richieste della resistenza palestinese, Israele riconoscerebbe la lotta armata come la miglior via per assicurare la liberazione del popolo palestinese.

Due forme di autoritarismo si stanno sviluppando sulla scena politica israeliana: una militare ed una civile. L’obiettivo dell’autoritarismo militare è quello di mantenere le attuali deboli strutture governative di Israele, che gli assicurano un ampio raggio d’azione, senza però dover governare direttamente il paese. Questo esclude quindi l’eventualità di un colpo di stato. Invece la forma di autoritarismo civile aspira a cambiare l’attuale regime. I politici che lo sostengono, come Avigdor Lieberman il cui partito Yisrael Beiteinu ha ottenuto 15 seggi alle ultime elezioni nazionali, mirano a concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo e, di conseguenza, a ridurre le competenze del potere legislativo e di quello giudiziario. Mentre questi politici sostengono le loro riforme con discorsi populisti anti-arabi, il loro maggiore obiettivo è quello di rimuovere l’attuale legislazione anti-corruzione.

Il crollo della sinistra israeliana alle ultime elezioni segna la fine del sistema parlamentare che essa aveva creato, sebbene il sistema forse sopravviverà ancora qualche anno. Il movimento laburista è riuscito a creare uno stato, però la sua strategia del “Muro di Ferro” per legittimarlo con la forza è fallita. Né i palestinesi né paesi arabi erano infatti disposti ad accettare la continua espansione dello stato israeliano e la sua violenta politica di supremazia.

Le caratteristiche del regime che sta ora emergendo in Israele sembrano essere ancora più autoritarie; ad ogni modo sembra difficile che esso avrà il potere necessario per richiedere ai cittadini israeliani i sacrifici indispensabili per implementare le sue politiche. D’altra parte, in parallelo alle caratteristiche autoritarie del regime emergente, stiamo assistendo alla nascita di nuove “dissidenze”, spogliate della fedeltà al sionismo. E’ qui, all’interno di questi movimenti, che risiede ogni eventuale possibilità di un significativo cambiamento all’interno di Israele.

Sergio Yahni è direttore dei programmi dell’Alternative Information Center (AIC), con sede a Gerusalemme

Titolo originale:
The End of the “Peace Process,” and Dissolution of the Historical Political Regimes in Israel and Palestine

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Lampedusa: censure e intimidazioni.

Non è propriamente l'argomento di questo blog, ma la questione di Lampedusa, i viaggi della speranza delle "carrette del mare" e l'inumano trattamento dei migranti nei centri di "accoglienza" italiani, costituiscono un argomento che non può non stare a cuore del sottoscritto e, ritengo, dei lettori.

E' per questo che pubblico volentieri l'articolo inviatomi da Fulvio Vassallo Paleologo, dell'Università di Palermo.

HANNO FALLITO E SI DIFENDONO CON LA CENSURA E LE INTIMIDAZIONI. LAMPEDUSA (R)ESISTE.

Lampedusa è scomparsa dai principali mezzi di informazione ed il regime politico-mediatico continua a propagandare le missioni dei suoi gerarchi e del suoi poliziotti, in Tunisia, in Libia, in Nigeria, per dimostrare la efficacia degli accordi bilaterali e il rigore delle ”politiche di contrasto dell’immigrazione illegale”. Sono certi, in questo modo, di moltiplicare ancora i consensi elettorali, distribuendo prima allarmismi creati ad arte, e poi propinando rimedi altrettanto falsi, ad una opinione pubblica imbambolata dai grandi canali televisivi.

Si è voluto creare così la situazione esplosiva di Lampedusa, prodotta dai caotici decreti firmati da Maroni alla fine di gennaio, per trasformare i centri che neppure potevano qualificarsi come centri di accoglienza (la vecchia base Loran della Marina) in centri di identificazione ed espulsione, e poi riconvertendo provvisoriamente in CIE i centri di prima accoglienza e soccorso (come la struttura di Contrada Imbriacola). Quando si volevano fermare nell’isola tutti i migranti che vi arrivavano, al punto da trasferire in quel lembo di terra, al centro del Canale di Sicilia, persino le procedure di asilo. Con la commissione territoriale, costretta per qualche settimana ad una improvvisa missione, da Trapani a Lampedusa, una missione poi interrotta di fronte al rischio di una procedura di infrazione davanti alla Corte di giustizia, per la evidente violazione di tutte le normative di emanazione comunitaria in materia di asilo e protezione internazionale.

Adesso la situazione di Lampedusa viene spacciata dal governo come ”ritorno alla normalità”, dopo il rogo del centro di accoglienza trasformato in gran fretta in un centro di identificazione ed espulsione, un rogo innescato dalla disperazione dei migranti rinchiusi per mesi senza un provvedimento legittimo di trattenimento, e non certo dalle visite di qualche parlamentare che ha potuto soltanto accertare condizioni disumane di detenzione, mentre continua la violazione delle più elementari normative sulla sicurezza.

E intanto l’isola, alla vigilia della visita del Commissario Europeo Barrot, programmata per il 13 marzo, continua ad essere presidiata da agenti antisommossa, gli unici clienti, per questa stagione, degli albergatori e dei ristoratori lampedusani abbandonati dai turisti. Forse quando finalmente arriverà Barrot, riusciranno a fargli trovare il centro vuoto, come è successo in passato, quando le visite ufficiali sono state annunciate con troppo anticipo, così saranno scomparse le prove viventi degli abusi commessi in queste settimane. Sarà meno facile fare scomparire le tracce di queste persone nei procedimenti giudiziari che comunque sono stati avviati presso i diversi tribunali italiani.

La verità sull’immigrazione irregolare nel Canale di Sicilia è un altra, e non conviene a chi specula sui grandi affari derivanti dalle ”politiche di contrasto dell’immigrazione illegale”. Solide alleanze basate, più che sul superamento delle antiche inimicizie, sui concreti argomenti della grande finanza internazionale.

Per coprire la verità si è giunti all’intimidazione, come quando si sono definiti sobillatori quegli operatori umanitari e quei rappresentanti parlamentari che hanno visitato (o tentato di visitare) i campi di detenzione di Lampedusa. Intimidazione, come quando si è permesso ai rappresentanti del governo libico di attaccare i giornalisti che avevano tentato di squarciare il velo di menzogne che ammanta il Trattato di amicizia tra Italia e Libia, ratificato alla cieca dal Parlamento italiano, un attacco personale che qualche giornale ha persino subito senza neppure concedere il diritto di replica ai suoi giornalisti.

La verità è un altra e non appena il tempo migliora si concretizza nei corpi di uomini, donne, minori che raggiungono comunque le coste siciliane e poi scompaiono, inghiottiti da un sistema poliziesco che impedisce persino il contatto con i familiari e gli avvocati. Troppo scomodi per i professionisti della sicurezza che adesso devono dimostrare la riuscita dei loro piani. La verità affiora in qualche raro articolo nelle pagine interne, come nel Corriere della sera del 3 marzo 2009. nei primi due mesi di quest’anno sono già arrivati in Sicilia 2120 migranti contro 1650 dello scorso anno, solo a Porto Empedocle, nell’ultima settimana oltre seicento migranti, quanti in un intero anno nel 2008. Complimenti ministro Maroni. E non dimentichi che molti sono richiedenti asilo. Che non riuscirà ad espellere in nessun modo, anche se manderà dentro i CIE i rappresentanti dei paesi di provenienza, come ha fatto anche a Lampedusa nelle settimane scorse.

E si è preferito fare proseguire verso nord, oltre Lampedusa, i migranti partiti dalla Libia, mentre si preparava l’ennesima sceneggiata tra Berlusconi e Gheddafi, tra abbracci, scambi di doni e dichiarazioni di solidarietà. E ancora la sera del 3 marzo un barcone con una sessantina di migranti a bordo è stato avvistato a 54 miglia a Sud di Lampedusa da un elicottero, di stanza sulla nave Sirio della Marina Militare, in servizio di perlustrazione nel Canale di Sicilia. Secondo quanto riferisce la stampa “il pattugliatore si sta dirigendo nella zona per prestare soccorso agli immigrati. Le condizioni del mare sono buone”.

E se le condizioni del mare peggioreranno? E quando non ci sarà tempo per scortare le imbarcazioni cariche di migranti fino a Porto Empedocle, per centinaia di miglia in mare aperto, oltre Lampedusa, cosa si aspetterà?

Che i migranti anneghino, o che da Roma arrivi il via libera per effettuare le azioni di salvataggio e condurre di nuovo i migranti in salvo nel porto più vicino, a Lampedusa?

Almeno siamo certi che la nostra marina continuerà, come in passato, ad anteporre il dovere di salvare la vita umana in mare rispetto alle esigenze di immagine del governo, che vorrebbe dimostrare di riuscire a fermare le partenze dalla Libia, “chiudendo” la rotta per Lampedusa. Anzi “chiudendo” l’intera isola di Lampedusa, trasformandola in un carcere. E continuano a trasformare il mediterraneo in un mare di morte, in un cimitero marino.

No quella rotta è ancora aperta, e non serviranno a nulla le sei motovedette cedute ai libici. Neppure a salvare le vite umane in mare, conoscendo il contenuto del protocollo operativo sottoscritto tra Italia e Libia nel dicembre del 2007.

Quella rotta che si vorrebbe sbarrare con i “pattugliamenti congiunti” costituisce l’unica via di fuga dall’inferno libico, l’unica possibilità di salvezza per chi cerca asilo o protezione internazionale, e anche per tanti migranti economici che devono abbandonare il proprio paese per la crisi economica internazionale che diventa disastro economico interno. Uomini, donne, minori, costretti dalla mancanza di canali di ingresso legale a farsi sfruttare due volte, prima dai trafficanti e poi, una volta giunti in Italia, dagli imprenditori della paura che producono clandestinità ed alimentano gli affari di quelle organizzazioni criminali che - a parole - tutti sostengono di volere combattere.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo

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La vignetta del giorno (by bendib).


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2 marzo 2009

Ricostruire Gaza, ma non solo.

Si apre oggi a Sharm el-Sheikh la conferenza internazionale dei donatori per la ricostruzione della Striscia di Gaza ed il rilancio dell’economia palestinese, a sei settimane di distanza dalla fine dell’operazione “Piombo Fuso” scatenata da Israele contro un milione e mezzo di Palestinesi pressoché inermi.

Nel suo discorso di apertura il Presidente egiziano Hosni Mubarak, dopo aver preconizzato che questo “sarà l’anno di un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi” (ma non doveva essere il 2008?), ha affermato: “… ora la vera priorità è l’arrivo ad un accordo per la tregua tra Palestinesi ed Israeliani e nonostante il venir meno di Israele, e la sua volontà di inserire la tregua nella trattativa per lo scambio dei prigionieri, noi speriamo che possa cambiare la sua posizione”.

Non è che ci si debba aspettare molto da questa ennesima conferenza di pace, l’ennesimo profluvio di belle parole – che abbiamo scelto di sintetizzare pubblicando l’appello del Segretario Generale dell’Onu – e una bella cascata di dollari che serve ai Paesi occidentali per lavarsi la coscienza per la loro inazione e complicità nel massacro di centinaia di civili inermi ed innocenti e, soprattutto, per sostituirsi ancora una volta, nelle vesti di ufficiali pagatori, a quello Stato canaglia che così tante morti e distruzioni ha provocato, ma che non viene mai chiamato a rispondere dei danni provocati né, tanto meno, a risarcirli.

Perché l’operazione “Piombo Fuso” non ha provocato solo 1.440 morti e 5.380 feriti (con il 47% del totale costituito da donne e bambini), ma ha provocato anche la distruzione totale di 3.875 abitazioni e quella parziale di altre 34.270, oltre a quella di centinaia tra moschee, edifici pubblici, siti industriali e commerciali, istituzioni educative e caritatevoli. Un rapporto del 16 febbraio di Save the Children Alliance stima in almeno 100.000 persone, inclusi 56.000 bambini, il numero dei profughi, la gran parte dei quali trova rifugio in tende o accampamenti di fortuna (non è il caso di ricordare che siamo in inverno…).

L’aspetto simpatico della vicenda, se vogliamo, è che gli 80 Paesi donatori e organizzazioni internazionali presenti in Egitto sono chiamati a raccogliere fondi per 1.326 milioni di dollari a favore della ricostruzione della Striscia e per 1.415 milioni di dollari a supporto del budget di bilancio dell’Anp: ma non doveva essere una conferenza per Gaza?

Anche i fondi già stanziati o promessi sono di incerta consistenza e destinazione e peraltro in molti casi, con formula vagamente minacciosa, sono vincolati alla effettività del processo di pace. Così, ad esempio, gli Stati arabi del Golfo contano di stanziare 1,65 miliardi di dollari, ma in un periodo di 5 anni, gli Usa metteranno in campo 900 milioni di dollari, di cui però solo 300 per Gaza, la Ue stanzierà 550 milioni di dollari, da destinare sia alla ricostruzione sia alla riforma dell’Anp.

Anche Berlusconi ha promesso 100 milioni di dollari come aiuto “per la sola ricostruzione di Gaza”, ma se questi fondi hanno la stessa consistenza di quelli stanziati per gli ammortizzatori sociali o per il rilancio dell’economia italiana, allora gli abitanti di Gaza possono stare freschi…

Naturalmente ricostruire Gaza è solo il primo passo. Come nota Ban Ki-moon nell’appello che segue, è necessario garantire alla Striscia dei valichi accessibili per il movimento delle persone e delle merci e, soprattutto, è necessario che si raggiunga tra Israeliani e Palestinesi un accordo di pace equo e duraturo, che veda la fine dell’occupazione dei territori e la nascita di uno Stato palestinese che comprenda Gaza e la West Bank e abbia Gerusalemme est come capitale.

E questo è vero, come non essere d’accordo, ma la cosa più importante è passare dalle parole ai fatti, perché di bei discorsi come quello del Segretario Onu ne abbiamo sentiti centinaia, in questi anni.

E, allora, come non ricordare che soltanto poco più di tre anni fa Israeliani e Palestinesi avevano firmato un
accordo per l’accesso e il movimento da e per la Striscia di Gaza (Agreement on Movement and Access), accordo che la comunità internazionale ha colpevolmente consentito che venisse da subito sabotato da Israele?

E come non ricordare i fiumi d’inchiostro versati dalla World Bank per segnalare l’inutilità dei finanziamenti allo sviluppo economico della Cisgiordania che non siano accompagnati da una significativa riduzione dei check-point, delle barriere, delle strade ad uso esclusivo dei coloni e di tutte le strutture a servizio della colonizzazione della West Bank?

E come non ricordare che, al riparo di Annapolis e delle innumerevoli e meramente dilatorie trattative di “pace” di questi anni, Israele ha continuato ha costruire nei Territori palestinesi e ad espandere le
colonie, senza alcuna seria opposizione da parte di alcuno dei partecipanti alla conferenza di Sharm el-Sheikh?

Per ironia della sorte, un articolo pubblicato oggi sul quotidiano
Ha’aretz svela come il governo israeliano sia in procinto di costruire in Cisgiordania più di 73.300 nuove unità abitative, di cui 15.000 già approvate e 58.000 in fase di approvazione.

Secondo Peace Now, se tutte le abitazioni in vario stato di progettazione venissero effettivamente costruite, il numero dei coloni nella West Bank raddoppierebbe, in base alla semplice stima di 4 nuovi residenti per ogni unità abitativa.

E’ chiaro che se un simile, colossale piano edificativo avesse luogo, anche solo in parte, la soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese morirebbe ancor prima di nascere; ed è per questo che – forse più dei soldi per la ricostruzione e dei tanti bei discorsi – sono oggi necessari fatti concreti per impedire che Israele, ancora una volta, riesca a sabotare ogni accordo con i Palestinesi e la pacificazione dell’intera area mediorientale.


RICOSTRUIRE GAZA, PRIMO PASSO VERSO IL PROCESSO DI PACE.
di Ban Ki-moon *

DURANTE i combattimenti avvenuti fra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 nella striscia di Gaza e nelle zone circostanti, sono state le popolazioni civili di Gaza e del sud Israele a subire il peso di violenza, distruzione e sofferenza inflitte su vasta scala. Ne è risultato un ulteriore fardello di miseria e disperazione, in una prospettiva di futuro del tutto incerto per la popolazione di Gaza, già da anni sottoposta a condizioni estreme. Agli effetti deleteri provocati da occupazione, blocco, guerra civile e tracollo economico si sono sommati morte, distruzione, allontanamento forzato dalle proprie abitazioni. Durante la mia visita a Gaza, appena due giorni dopo la proclamazione del cessate il fuoco, ho toccato con mano la profonda umiliazione inflitta alla popolazione: quello che ho visto e sentito mi ha lasciato profondamente scosso.

Ma le popolazioni civili di Gaza e del sud di Israele non sono state le sole vittime. Anche il processo di pace avviato all'indomani della conferenza di Annapolis del novembre 2007 ha subito un pesante contraccolpo. Nel momento in cui affrontiamo la sfida di provvedere all'assistenza umanitaria e alle attività di soccorso e ricostruzione, non va però dimenticata la necessità di riavviare i processi politici: tra palestinesi, tra palestinesi e israeliani e tra Israele e il mondo arabo.

Le tre settimane di intensi combattimenti si sono concluse con cessate il fuoco unilaterali annunciati da entrambe le parti il 18 gennaio. Da allora la situazione è rimasta comunque precaria, con ulteriori gravi episodi di violenza e chiusure continue dei valichi. Ciò rende evidente il bisogno urgente di giungere a un cessate il fuoco che sia duraturo, sostenibile e pienamente rispettato dalle parti, come richiesto dal Consiglio di Sicurezza. L'Egitto non solo ha lodevolmente guidato gli sforzi per raggiungere tale obiettivo, ma ha anche tentato di trovare soluzioni a una serie di questioni correlate: la completa ri-apertura dei valichi di accesso a Gaza, il rilascio dei prigionieri palestinesi in cambio del caporale Shalit e la riunificazione dei palestinesi. Il Cairo ha inoltre preso l'iniziativa di ospitare un incontro importante, questa settimana a Sharm el-Sheikh, per rispondere agli immediati bisogni economici dei palestinesi e disegnare le strategie volte alla ripresa e alla ricostruzione di Gaza.

Garantire valichi accessibili, come previsto dagli accordi internazionali, è essenziale per la tenuta di qualsiasi cessate il fuoco e per permettere agli aiuti umanitari di raggiungere la popolazione. Se vogliamo ripristinare un corretto regime di funzionamento dei valichi, occorre tenere in considerazione le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e in questo senso l'Autorità Palestinese dovrebbe essere in grado di assumersi le proprie responsabilità in virtù di questi accordi. A sua volta ciò comporta che la popolazione palestinese sia riunita sotto un unico governo, la cui azione si ispiri ai principi dell'OLP. Ho dichiarato che le Nazioni Unite coopereranno con un governo palestinese unitario, che riunisca Gaza e la Cisgiordania sotto l'autorità del presidente Abbas. Invito tutti i partiti palestinesi e tutti gli attori regionali e internazionali, a sostenere il processo di riconciliazione palestinese.

La crisi a Gaza, se non altro, ha messo in evidenza le radici profonde dei fallimenti politici del passato, il bisogno urgente di raggiungere una pace, giusta, duratura e complessiva, estesa a tutti i popoli del Medio Oriente. Così come occorre un governo palestinese unito impegnato a promuovere il processo di pace, abbiamo altrettanto bisogno di un governo israeliano che tenga fede ai propri impegni. Così come vogliamo che i palestinesi affrontino le questioni della sicurezza - e in questo senso è encomiabile quanto l'autorità palestinese sta facendo in Cisgiordania - è altrettanto necessario che gli israeliani diano attuazione a un congelamento effettivo dell'attività di insediamento. Il processo di espansione degli insediamenti da parte di Israele è illegale e inaccettabile e pregiudica la fiducia nel processo di pace in tutto il mondo arabo. In questo senso sto sollecitando tutti i partner internazionali a dare la massima priorità alla questione nel contesto dei rinnovati sforzi internazionali di pace.

Nel frattempo, le Nazioni Unite devono continuare a fornire assistenza umanitaria a Gaza e ovunque sia necessaria. Abbiamo lanciato un appello per l'assistenza poco dopo la fine dei combattimenti e mi auguro che il contributo dei donatori continui generoso, così come il sostegno all'Autorità Palestinese, dal cui bilancio dipendono migliaia di funzionari pubblici di Gaza oltre che la fornitura di servizi di base. Ho fatto appello a tutti le parti coinvolte affinché sia garantita la fornitura e la distribuzione degli aiuti umanitari in tutta Gaza, la sicurezza del personale umanitario e il pieno rispetto del diritto internazionale umanitario. Nessun ostacolo o interferenza deve pregiudicare gli aiuti umanitari.

Occorre inoltre garantire una transizione tempestiva dallo stadio dell'assistenza umanitaria d'emergenza alla fase di ripresa e ricostruzione, senza la quale migliaia di persone a Gaza resterebbero bloccati ad un livello di sopravvivenza e di mera dipendenza, il che metterebbe a repentaglio crescita economica di lungo periodo e stabilità. Gaza deve essere riportata ad un livello di normalità. Dobbiamo lavorare in stretta intesa con l'Autorità Palestinese, che sta pianificando le priorità della fase di ripresa e ricostruzione, in un'unità di intenti tra gli attori regionali e all'interno della comunità internazionale. Non possiamo poi trascurare la Cisgiordania, dove è necessario assistere l'Autorità Palestinese nei propri attuali sforzi di riforma. Perché i palestinesi vedano un miglioramento concreto nella loro vita quotidiana, Israele deve adottare misure immediate che accrescano il movimento e l'accesso a risorse chiave quali terra e mercati.

Il nostro obiettivo non dovrebbe essere semplicemente il ritorno alla situazione di Gaza prima del 27 dicembre, o al processo di pace. Ora più che mai è il momento di raggiungere una pace piena e globale tra Israele e i suoi vicini arabi. Se da una parte ci sforziamo di garantire assistenza e sostegno alla ricostruzione di Gaza, dobbiamo anche perseguire in modo instancabile l'obiettivo su cui siamo d'accordo da tempo ma che non siamo stati in grado di perseguire: la fine dell'occupazione iniziata nel 1967, la creazione di uno stato palestinese che comprenda Gaza, la Cisgiordania e includa anche Gerusalemme orientale, e che coesista in pace e sicurezza accanto ad Israele, e una pace giusta, durevole e complessiva tra Israele e tutti i suoi vicini arabi. Mi impegno a fare tutto ciò che è in mio potere, in qualità di Segretario Generale delle Nazioni Unite, per raggiungere questa pace in una regione di vitale importanza. La comunità internazionale deve assumersi le proprie responsabilità per facilitare il progresso del processo di pace, e farlo con insistenza, quando sia necessario. Dopo il tragico conflitto a Gaza, ciò è più urgente che mai.
* L’autore è Segretario Generale dell’Onu
(2.3.2009)

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