29 maggio 2009

Il rapporto 2009 di Amnesty International: Israele e i Territori Palestinesi Occupati.

Ieri è stato presentato in vari capitali del mondo, tra cui Roma, il Rapporto Annuale 2009 di Amnesty International, che analizza la situazione dei diritti umani in 157 paesi e territori nell'anno precedente.

Qui di seguito riporto le note salienti che riguardano la situazione in Israele e nei Territori Occupati, l’ennesima, dura denuncia dei crimini di guerra commessi da Israele a danno del popolo palestinese, nella sconcertante indifferenza dei governo occidentali.

Va ricordato che gran parte dei crimini commessi dall’esercito israeliano durante l’operazione “Piombo Fuso”, ivi inclusi i massacri di civili innocenti e l’uso indiscriminato di armamenti proibiti, tra cui soprattutto il fosforo bianco, non formano oggetto del rapporto in quanto accaduti nei primi giorni del 2009.

Israele e Territori Palestinesi Occupati

Le forze israeliane hanno lanciato un'offensiva militare di una portata senza precedenti - dal nome in codice "Operazione piombo fuso" il 27 dicembre nella Striscia di Gaza, uccidendo molti civili e distruggendo abitazioni e altre proprietà civili. Fino ad allora, l'anno era stato segnato da una forte impennata di uccisioni di civili e altri soggetti da parte sia delle forze israeliane sia dei gruppi armati palestinesi in Israele e Territori Palestinesi Occupati (TPO) prima del raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco nel mese di giugno (cfr. Autorità Palestinese).

Tra i 425 palestinesi uccisi nella prima metà dell'anno, vi erano anche circa 70 bambini.

Oltre alla distruzione su vasta scala di abitazioni e proprietà nella Striscia di Gaza, le forze israeliane hanno distrutto anche decine di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, e nei villaggi beduini del sud di Israele. Per tutto l'anno l'esercito israeliano ha mantenuto rigide restrizioni di movimento per i palestinesi nei TPO, compreso un blocco nella Striscia di Gaza, che ha provocato un livello di crisi umanitaria senza precedenti e ha di fatto reso prigioniera l'intera popolazione di 1,5 milioni di abitanti della Striscia di Gaza. Questa situazione è risultata ulteriormente esacerbata dall'offensiva israeliana lanciata il 27 dicembre.

A centinaia di pazienti in condizioni mediche critiche che necessitavano di cure non disponibili negli ospedali locali è stato negato il passaggio per uscire da Gaza; diversi sono morti. Centinaia di studenti non hanno potuto spostarsi per raggiungere le università all'estero perché non autorizzati a lasciare Gaza, dove molti indirizzi di studio non sono disponibili. La maggior parte degli abitanti di Gaza sono dipesi dagli aiuti internazionali, ma il blocco imposto da Israele ha ostacolato la capacità delle agenzie delle Nazioni Unite di fornire assistenza e servizi.

In Cisgiordania il movimento dei palestinesi è stato fortemente limitato da circa 600 posti di blocco e barriere israeliane, e dal muro/recinzione di 700 km che l'esercito israeliano continua a costruire principalmente all'interno della Cisgiordania. L'espansione degli insediamenti israeliani illegali sui terreni confiscati ai palestinesi è aumentata a un livello mai visto dal 2001. I soldati e i coloni israeliani che si erano resi responsabili di gravi abusi nei confronti dei palestinesi, comprese uccisioni illegali, aggressioni e attacchi a proprietà, nella maggior parte dei casi hanno goduto dell'impunità. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane; le segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti sono risultate frequenti, ma le indagini su questi episodi sono state rare. Circa 8.000 palestinesi continuavano a essere detenuti nelle carceri israeliane, molti in seguito a processi militari iniqui.

Crisi umanitaria alimentata dal blocco di Gaza e da altre restrizioni

Il blocco continuo della Striscia di Gaza ha esacerbato una già spaventosa situazione umanitaria, con problemi di ordine sanitario e fognario, povertà e malnutrizione per i suoi 1,5 milioni di abitanti. L'offensiva militare israeliana lanciata alla fine di dicembre ha portato le condizioni sull'orlo della catastrofe umanitaria. Anche prima di allora, l'economia locale risultava paralizzata dalla mancanza di prodotti di importazione e dal divieto di esportare. La carenza di disponibilità dei beni di prima necessità ha alimentato l'aumento dei prezzi, rendendo circa l'80% della popolazione dipendente dagli aiuti internazionali. Le Nazioni Unite e altre organizzazioni di aiuti e di assistenza umanitaria si sono confrontate con ulteriori restrizioni che hanno ostacolato la loro capacità di fornire assistenza e servizi alla popolazione di Gaza e ne hanno accresciuto i costi operativi. I progetti di ricostruzione delle Nazioni Unite per fornire alloggi alle famiglie le cui abitazioni erano state distrutte dall'esercito israeliano negli anni precedenti sono stati sospesi a causa della mancanza di materiali da costruzione. Pazienti in condizioni gravi che necessitavano di cure mediche non disponibili a Gaza e centinaia di studenti e lavoratori che desideravano studiare o viaggiare per lavoro all'estero sono rimasti intrappolati a Gaza a causa del blocco; un numero relativamente esiguo ha potuto lasciare la zona su autorizzazione delle autorità israeliane. Diversi pazienti cui era stato negato il passaggio al di fuori di Gaza sono in seguito deceduti.

*Mohammed Abu 'Amro, un paziente malato di cancro di 58 anni, è morto a ottobre. Egli aveva cercato di ottenere il permesso per lasciare Gaza sin da marzo. Il permesso gli era stato negato per non ben specificati «motivi di sicurezza» ma era stato alla fine concesso una settimana dopo la sua morte.
*Karima Abu Dalal, una 34enne madre di cinque figli affetta dal linfoma di Hodgkin, è morta a novembre per mancanza di cure. Le autorità israeliane le avevano ripetutamente negato il permesso di viaggio per raggiungere l'ospedale di Nablus, in Cisgiordania, sin dal novembre 2007.

In Cisgiordania, circa 600 posti di blocco militari e barriere israeliane hanno limitato il movimento dei palestinesi, ostacolato il loro accesso ai posti di lavoro, di istruzione e alle strutture sanitarie e ad altri servizi. L'esercito israeliano ha continuato la costruzione del muro/recinzione di 700 km, per lo più all'interno del territorio della Cisgiordania. Questo ha separato decine di migliaia di contadini palestinesi dalle loro terre; essi hanno dovuto obbligatoriamente ottenere permessi per poter accedere ai loro terreni ma questi sono stati frequentemente loro negati.

Ai palestinesi è stato inoltre negato l'accesso ad ampie zone della Cisgiordania vicine agli insediamenti israeliani stabiliti e mantenuti in violazione del diritto internazionale, ed è stato loro impedito di accedere, se non in maniera strettamente limitata, alla rete di 300 km di strade utilizzate dai coloni israeliani.
*A febbraio, Fawziyah al-Dark, di 66 anni, ha visto negato il permesso di attraversare un posto di blocco militare israeliano per accedere all'ospedale di Tulkarem in seguito a un attacco di cuore. La donna è morta poco dopo.

*A settembre, soldati israeliani si sono rifiutati di permettere a Naheel Abu Rideh di attraversare il posto di blocco di Huwara e raggiungere l'ospedale di Nablus sebbene fosse in pieno travaglio. La donna ha partorito nell'auto del marito al posto di blocco; il suo bambino è poi deceduto.

Uccisione di civili palestinesi inermi

Circa 450 palestinesi sono rimasti uccisi e migliaia di altri feriti nel corso di raid aerei israeliani e in altri attacchi, la maggior parte dei quali sono stati condotti nella prima parte dell'anno nella Striscia di Gaza. Circa la metà degli uccisi erano civili, compresi circa 70 bambini. Il resto erano membri di gruppi armati uccisi in scontri armati o in raid aerei mirati. Altre centinaia di civili palestinesi sono rimasti uccisi e feriti negli ultimi cinque giorni dell'anno durante l'offensiva militare israeliana, alcuni in seguito ad attacchi diretti contro civili o edifici civili, altri in attacchi indiscriminati e sproporzionati.
Molte uccisioni di civili palestinesi durante la prima metà dell'anno e nel corso dell'offensiva militare di dicembre sono avvenute in risposta ai lanci di razzi e di mortaio da parte di gruppi armati palestinesi dalla Striscia di Gaza contro le vicine città e villaggi israeliani e contro le postazioni dell'esercito israeliano lungo il perimetro della Striscia di Gaza. Sei civili israeliani e diversi soldati sono rimasti uccisi in questi attacchi e altri 14 civili israeliani, tra cui quattro diciassettenni, sono stati uccisi in sparatorie e in altri attacchi per mano di palestinesi a Gerusalemme e in altre località del Paese.

*Nel corso di un'incursione militare di quattro giorni nella Striscia di Gaza alla fine di febbraio le forze israeliane hanno ucciso più di 100 palestinesi, circa metà dei quali erano civili estranei al combattimento, compresi 25 bambini. Tra le vittime vi era la sedicenne Jackline Abu Shbak e suo fratello di 15 anni, Iyad. I due sono stati entrambi uccisi da un unico proiettile esploso alla testa davanti alla loro madre e ai fratelli più piccoli, nella loro abitazione a nord della Città di Gaza il 29 febbraio. I colpi sono stati sparati da una casa che era stata occupata da soldati israeliani proprio di fronte all'abitazione dei ragazzi.

*Il 16 aprile le forze israeliane hanno ucciso 15 civili palestinesi, tra cui 10 bambini di età compresa tra 13 e 17 anni e un giornalista, in tre attacchi separati, in cui sono rimasti feriti decine di altri civili, nella zona di Jouhr al-Dik, nel sud-est della Striscia di Gaza. Dapprima, il fuoco del carro armato israeliano aveva ucciso sei bambini, 'Abdullah Maher Abu Khalil, Tareq Farid Abu Taqiyah, Islam Hussam al-'Issawi, Talha Hani Abu 'Ali, Bayan Sameer al-Khaldi e Mohammed al-'Assar. Poi, soldati israeliani da un carro armato hanno sparato granate flechette contro Fadel Shana', un cameraman della Reuters, uccidendolo, mentre stava riprendendo il veicolo militare. Un'altra granata sparata subito dopo ha ucciso altri due bambini, Ahmad 'Aref Frajallah e Ghassan Khaled Abu 'Ateiwi, ferendone altri cinque. Due di loro, Ahmad 'Abd al-Majid al-Najjar e Bilal Sa'id 'Ali al-Dhini, sono morti tre giorni dopo.

Sistema di giustizia militare

***Detenzioni

Centinaia di palestinesi, tra cui decine di minorenni, sono stati detenuti dalle forze israeliane nei TPO e molti sono stati trattenuti in incommunicado per periodi prolungati. La maggior parte sono stati rilasciati senza accusa, ma centinaia sono stati incriminati di reati inerenti la sicurezza davanti a corti miliari, le cui procedure spesso non hanno rispettato gli standard internazionali sull'equo processo. Circa 8.000 palestinesi arrestati nel corso del 2008 o in anni precedenti a fine anno erano ancora incarcerati. Tra questi vi erano circa 300 bambini e 550 persone trattenute senza accusa né processo ai sensi di ordinanze amministrative militari di detenzione, compresi alcuni trattenuti anche da sei anni.

*Salwa Salah e Sara Siureh, due ragazze di 16 anni, sono state arrestate di notte nelle loro abitazioni a giugno e a fine anno si trovavano ancora in detenzione amministrativa.
*Mohammed Khawajah, di 12 anni, è stato arrestato da soldati israeliani nella sua abitazione del villaggio di Ni'lin alle 3 del mattino dell'11 settembre. Egli è stato picchiato e detenuto assieme ad adulti in un campo di detenzione dell'esercito fino al 15 settembre, quando è stato rilasciato su cauzione. È stato accusato di aver gettato pietre contro soldati e deferito a una corte militare per essere processato.

*Decine di membri di Hamas facenti parte del Parlamento palestinese e ministri dell'ex governo dell'AP a guida Hamas sono rimasti detenuti senza processo, anche per due anni dopo il loro arresto. Le autorità israeliane li hanno trattenuti apparentemente per esercitare pressioni su Hamas affinché rilasciasse un soldato israeliano trattenuto nella Striscia di Gaza dall'ala armata di Hamas dal 2006.

Quasi tutti i detenuti palestinesi sono stati trattenuti in carceri di Israele in violazione del diritto internazionale umanitario, che vieta il trasferimento di detenuti in territorio della potenza occupante. Ciò ha reso difficile se non impossibile di fatto per i detenuti ricevere le visite dei familiari.

***Visite familiari negate

Circa 900 prigionieri palestinesi della Striscia di Gaza hanno visto negate le visite dei loro familiari per il secondo anno consecutivo. Molti parenti di detenuti palestinesi della Cisgiordania hanno anch'essi visto negato il permesso di visitare i loro congiunti per non meglio specificate ragioni di "sicurezza". Molti genitori, coniugi e figli di detenuti non potevano visitare i loro familiari detenuti da oltre cinque anni. Nessun prigioniero israeliano è stato sottoposto a questo tipo di restrizioni.

Tortura e altri maltrattamenti

Sono aumentate le segnalazioni di tortura e altri maltrattamenti da parte del Servizio generale di sicurezza israeliano (GSS), in special modo durante gli interrogatori di palestinesi sospettati di pianificare o di essere coinvolti in attacchi armati. Tra i metodi citati figurano l'essere legati in posizioni forzate dolorose, privazione del sonno e minacce all'incolumità dei familiari dei detenuti. Percosse e altri maltrattamenti di detenuti sono risultati comuni durante e nei momenti successivi all'arresto e nel corso di trasferimenti tra un luogo e l'altro.

Aumento di violenza da parte dei coloni

Nell'ultimo trimestre dell'anno sono aumentati in modo significativo gli attacchi violenti da parte di coloni israeliani nei confronti di palestinesi e delle loro proprietà in tutta la Cisgiordania, specialmente durante il periodo della raccolta delle olive e quando l'esercito ha tentato di evacuare una casa che era stata occupata da coloni a Hebron. I coloni che hanno condotto gli attacchi spesso erano armati. A Hebron, nel mese di dicembre, un colono ha sparato a due palestinesi, ferendoli.

Impunità

Raramente giudici militari hanno ordinato indagini su accuse di tortura e altri maltrattamenti avanzate da imputati palestinesi durante i processi a loro carico davanti a corti militari, e non sono noti procedimenti giudiziari nei confronti di ufficiali del GSS per aver torturato palestinesi. A ottobre, due associazioni per i diritti umani israeliane hanno sporto denuncia presso un tribunale richiedendo al ministero della Giustizia di rendere note informazioni riguardo alla sua gestione delle querele per tortura e altri maltrattamenti avanzate da detenuti palestinesi nei confronti di ufficiali del GSS.

L'impunità è rimasta la norma per i soldati e i membri delle forze di sicurezza israeliani e per i coloni israeliani che commettono gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei palestinesi, comprese uccisioni illegali, aggressioni fisiche e attacchi alle loro proprietà. Poche indagini sono state condotte in questo tipo di abusi e la maggior parte sono state chiuse per «mancanza di prove». I procedimenti giudiziari sono stati rari e solitamente limitati a casi resi pubblici da organizzazioni per i diritti umani e dai media; in questi casi, i soldati accusati dell'uccisione illegale di palestinesi sono stati incriminati di omicidio colposo, e non di omicidio volontario, mentre soldati e coloni giudicati colpevoli di abusi nei confronti di palestinesi hanno generalmente ricevuto sentenze relativamente lievi.

*Un soldato che aveva sparato a un manifestante palestinese a un piede mentre quest'ultimo era bendato, ammanettato e trattenuto dal comandante del soldato nel mese di luglio è stato accusato del reato minore di "condotta impropria". A settembre, il procuratore capo dell'esercito ha rigettato una raccomandazione dell'Alta Corte che chiedeva la formulazione di accuse più gravi.

Sgomberi forzati, distruzione di abitazioni palestinesi ed espansione di insediamenti israeliani illegali

Le forze israeliane hanno distrutto molte abitazioni palestinesi così come fabbriche e altri edifici civili a Gaza nei primi cinque giorni dell'offensiva militare lanciata il 27 dicembre, radendo al suolo interi quartieri. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno demolito decine di abitazioni palestinesi, sfrattando con la forza le famiglie e lasciando centinaia di persone senzatetto. Le abitazioni prese di mira erano prive di permessi edilizi, sistematicamente negati ai palestinesi. Contemporaneamente, le autorità israeliane hanno rapidamente accresciuto l'espansione degli insediamenti israeliani su terreni palestinesi confiscati illegalmente, in violazione del diritto internazionale.
*A febbraio e marzo le forze israeliane hanno distrutto diverse abitazioni e rifugi di animali a Hadidiya, un piccolo villaggio nella zona della Valle del Giordano in Cisgiordania. Circa 65 membri delle famiglie Bisharat e Bani Odeh, 45 dei quali minorenni, sono rimasti senzatetto.

*A marzo, soldati israeliani hanno demolito le abitazioni di diverse famiglie nei villaggi delle Colline meridionali di Hebron: Qawawis, Imneizil, al-Dairat e Umm Lasafa. La maggior parte dei senzatetto erano bambini. Tra quanti hanno perso la propria abitazione vi erano tre fratelli, Yasser, Jihad Mohammed e Isma'il al-'Adra, le loro mogli e i loro 14 figli.

*Nel vicino villaggio di Umm al-Khair, a ottobre le forze israeliane hanno distrutto le abitazioni di 45 membri della famiglia al-Hathaleen, in maggioranza bambini.

Rifugiati, richiedenti asilo e migranti

Ad agosto, l'esercito israeliano ha rimpatriato con la forza decine di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Egitto senza consentire loro la possibilità di impugnare la decisione e nonostante il rischio che li esponeva a gravi violazioni dei diritti umani in Egitto o nei rispettivi Paesi di origine, tra cui Eritrea, Somalia e Sudan.

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27 maggio 2009

Che ci fanno gli spioni di Israele in Libano?

Agli inizi della scorsa settimana, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva ammonito sulla possibilità che Israele stesse compiendo dei preparativi per una nuova guerra contro il Libano.

Le poche fonti che hanno riportato la
notizia avevano ricollegato le dichiarazioni di Nasrallah alle imponenti manovre militari in programma in Israele nel periodo compreso tra il 31 maggio e il 4 giugno prossimi. Nessuno, o quasi, in particolare sulla stampa a diffusione nazionale, ha ritenuto valesse la pena di raccontare anche che, in queste ultime settimane, in Libano è stata scoperta e smascherata una rete di spie che lavorava al soldo di Israele, inducendo il governo libanese a presentare una protesta formale alle Nazioni Unite.

E, ancora una volta, per venire a conoscenza delle malefatte dello stato israeliano, dobbiamo far ricorso alla stampa estera, in questo caso ad un articolo di Omayma Abdel Latif pubblicato su al-Ahram Weekly e qui proposto nella traduzione offerta dal sito
Medarabnews.

UNA GUERRA SOTTO UN ALTRO NOME
Al-Ahram Weekly, 21-27 maggio 2009

Ultimamente è difficile che passi un solo giorno senza che venga rivelata la scoperta di un’ulteriore cellula di spionaggio che opera in Libano per conto di Israele. Undici reti, composte da 15 sospettati, sono state scoperte dalle ISF (Internal Security Forces) libanesi nell’arco di un mese. Secondo fonti vicine a Hezbollah, “ciò che è stato rivelato è solo la punta dell’iceberg, poiché ulteriori cellule e uomini saranno arrestati”. Questi sviluppi giungono mentre il paese è in preda alla febbre elettorale per le consultazioni del 7 giugno. Essi coincidono anche con quelle che sono state definite le più imponenti manovre militari israeliane dal 1948.

Ad essere sinceri, non è una grossa novità scoprire cellule di spionaggio israeliane in Libano. Ciò che contraddistingue le reti scoperte recentemente, tuttavia, è il loro numero record ed il fatto che esse coprivano quasi tutto il Libano, da Beirut alla Bekaa, e – cosa ancora più importante – il sud, ovvero il territorio di Hezbollah. Mentre gli agenti israeliani vuotavano il sacco, il silenzio israeliano era assordante. L’unica reazione israeliana è stata di aprire il confine settentrionale per gli agenti in fuga diretti in patria lunedì scorso.

Le indagini iniziali rivelano intense attività di spionaggio. Dopo la guerra del luglio 2006, l’establishment militare israeliano comprese che parte dell’insuccesso nell’infliggere un duro colpo all’arsenale missilistico di Hezbollah era dovuto ai fallimenti dell’intelligence sul campo. Essa non ebbe più obiettivi da segnalare al sesto giorno di guerra, e non riuscì a paralizzare la capacità della resistenza di lanciare razzi. All’inizio del 2007, Israele decise di attivare le sue “cellule in sonno” in Libano. Ristabilì i legami con alcuni ex agenti e lavorò per reclutarne altri. Mentre queste reti operavano separatamente, Israele lavorò per insediare degli attori chiave come Ali Jarrah, Adib Al-Alam e Ziad Al-Homsy (Adib Al-Alam è un generale in pensione, arrestato ad aprile; Ziad Al-Homsy è il vicesindaco di Saadnayel, una cittadina nella Bekaa; per un ulteriore approfondimento si vedano anche “Security and Defense: Spying trouble in Lebanon” , apparso sul Jerusalem Post, e “Spies’ Roots Reach Deep in Lebanon”, apparso sul New York Times (N.d.T.) ), che avrebbero lavorato al reclutamento di altri. Il tipo di strumenti di spionaggio high-tech che è stato trovato in mano ad alcuni sospettati, e l’addestramento che avevano ricevuto, suggeriscono molto chiaramente che Israele era alla disperata ricerca di nuovi dati e di nuovi obiettivi.

Rimangono molti interrogativi riguardo alla scoperta di queste reti di spionaggio, soprattutto perché alcune di esse erano note a Hezbollah, ed erano sotto il suo vigile sguardo fin dal 2006. In secondo luogo, che tipo di attività era assegnato a queste reti, e fino a che punto Israele è riuscito, attraverso i suoi agenti, a violare la sicurezza della resistenza o addirittura dello Stato libanese, alla luce del fatto che alcuni dei suoi agenti lavoravano nelle istituzioni statali? Ad esempio, Al-Alam ha lavorato nel Servizio della Sicurezza Generale per 25 anni, mentre un altro agente, Haitham Al-Sohmorani, ha servito nelle ISF.

Cosa ancora più importante, questa attività di spionaggio sta a indicare una imminente azione militare contro il Libano? Lunedì scorso, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha ammonito che Israele potrebbe aver avviato una fase di preparativi per “una nuova guerra a sorpresa contro il Libano” – come testimonierebbero le manovre militari che dovrebbero svolgersi dal 31 maggio al 4 giugno – allo scopo di saldare vecchi conti con Hezbollah e ristabilire la sua perduta capacità di deterrenza militare.

Il lavoro per scoprire le cellule di spionaggio è iniziato nel settembre del 2008. La maggior parte degli sforzi è stata condotta dalle ISF, ritenute affiliate al leader della maggioranza Saad Al-Hariri, le quali non godono di una buona reputazione negli ambienti dell’opposizione. Alcuni hanno suggerito che la scelta di tempo per fare questa rivelazione sarebbe strettamente legata alle prossime elezioni in Libano. La versione ufficiale degli eventi, tuttavia, racconta un’altra storia.

Secondo Ashraf Reifi, comandante delle ISF, l’assistenza tecnica e l’addestramento forniti ai quadri delle ISF hanno messo in grado questi ultimi di rintracciare e smascherare cellule di spionaggio. Tuttavia, fonti vicine a Hezbollah ci hanno rivelato che l’assistenza tecnica occidentale fornita alle ISF ha reso effettivamente queste ultime in grado di scovare le spie, ma coloro che hanno fornito questa assistenza non si aspettavano che le ISF avrebbero utilizzato questo addestramento per prendere di mira agenti israeliani. Piuttosto essi volevano che le ISF si concentrassero sulle attività legate alla Siria ed alla resistenza.

Reifi ha affermato che è stato un errore tecnico di alcuni agenti israeliani che ha portato alla scoperta di queste reti. “Queste reti operavano separatamente, in modo tale che se un agente fosse stato preso non sarebbe stato in grado di dire nulla sugli altri. Ma un paio di settimane fa, le ISF hanno intercettato ordini israeliani che chiedevano agli agenti di tenere un basso profilo e di sbarazzarsi di alcuni degli strumenti di spionaggio ad alta tecnologia”, ha dichiarato Reifi.

Mentre alcuni agenti si erano concentrati sulla raccolta di dati riguardanti i principali membri di Hezbollah, altri raccoglievano rilevamenti su alcuni villaggi del sud. Gli agenti più importanti si sono concentrati su attività volte a fomentare le tensioni settarie. Al-Homsy, un ex membro di Al-Mustaqbal (il partito di Saad Al-Hariri), e vicesindaco di Saadnayel, un villaggio nella valle della Bekaa centrale, rappresenta un esempio significativo a questo proposito. Al-Homsy, che è stato arrestato dall’intelligence dell’esercito, è accusato di essere stato un attore chiave nel fomentare la violenza settaria fra Saadnayel, frazione a maggioranza sunnita, e il vicino villaggio di Talabaiya, a maggioranza sciita. I due villaggi giunsero a uno scontro sanguinoso nel 2008. Gli sforzi di riconciliazione non riuscirono ad arginare le ostilità, e si dice che Al-Homsy abbia giocato un ruolo nel fomentare le tensioni. Egli lanciò anche una campagna diffamatoria contro Hezbollah sulla pubblicazione “Al-Erada” (La Volontà), che poi si scoprì essere finanziata da sovvenzioni israeliane.

Il caso di Al-Homsy è il più curioso, poiché egli, da uomo che si vantava di aver speso la propria vita al servizio della resistenza contro Israele, è finito per diventare un agente del Mossad. Ma le ripercussioni del caso vanno ben al di là di Al-Homsy, e sollevano nuovamente l’interrogativo se Israele possa essere dietro gran parte della violenza a cui il Libano ha assistito a partire dall’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Al-Hariri nel febbraio 2005, incluso l’assassinio di 14 personalità libanesi e la violenza settaria che ha rischiato di riportare il paese sull’orlo della guerra civile.

Pochi sono rimasti sorpresi quando Nasrallah ha pesantemente criticato la magistratura libanese in un discorso tenuto venerdì 15 maggio. Molti residenti dei villaggi del sud ritengono la magistratura responsabile per le cellule di spionaggio che non sono state scoperte in passato. Ex agenti che furono consegnati da Hezbollah alla magistratura libanese dopo la liberazione del sud nel maggio del 2000, ricevettero delle sentenze molto leggere, che andavano dai sei mesi ai cinque anni. Hezbollah volle inviare un segnale nel momento in cui decise di non intraprendere azioni extragiudiziarie contro gli agenti di Israele per mostrare rispetto nei confronti delle istituzioni statali, anche quando si trattava di questioni estremamente delicate. Sheikh Naim Qassim, il vice segretario generale di Hezbollah, ha ora invitato la magistratura ad emettere sentenze di condanna a morte nei confronti di alcuni degli agenti smascherati.

Omayma Abdel Latif è projects coordinator presso il Carnegie Endowment for International Peace; in precedenza è stata vice redattore capo del settimanale egiziano “al-Ahram weekly”; si è occupata in particolare di movimenti islamici, e soprattutto dei Fratelli Musulmani in Egitto

Titolo originale:
War by another name

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21 maggio 2009

Il falso allarme della bomba demografica.

L’argomento della “bomba demografica” – e cioè il differenziale esistente nel tasso di natalità tra la popolazione palestinese e quella ebraica - è stato usato per decenni al fine di giustificare le politiche israeliane riguardanti i territori e, soprattutto, la definizione dei confini dello Stato israeliano.

Non è un mistero che il governo di Israele, e segnatamente il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, voglia arrivare ad una ridefinizione dei confini dello Stato in modo tale da includere all’interno di esso il maggior numero possibile di ebrei e di escluderne le zone a più alto tasso di insediamento di comunità arabe.

Lo studioso Paul Morland, in un articolo scritto su Ha’aretz lo scorso 8 maggio (qui proposto nella traduzione offerta dal sito Medarabnews), ci dimostra come queste paure siano assolutamente infondate, in quanto i tassi di natalità arabo ed ebraico stanno, in realtà, convergendo, e che anche nei Territori occupati si registra un deciso calo del tasso di natalità.

Il vero problema, si segnala giustamente, non sono le dimensioni della minoranza araba, ma la scelta delle politiche adatte a determinarne un maggior grado di integrazione sociale ed economica all’interno dello Stato israeliano.

Oggi all’opposto assistiamo, nei Territori occupati, ad un utilizzo di pratiche scriteriatamente intrise di razzismo e di apartheid, mentre, all’interno di Israele, permangono sostanziali discriminazioni razziali ai danni della minoranza araba, in campo legislativo, amministrativo, nella sanità, nel welfare, nel lavoro, nella distribuzione delle terre.

Eppure, una politica lungimirante dovrebbe facilmente comprendere come la minoranza araba in Israele potrebbe costituire un potenziale ponte verso la regione, ed una sua maggiore integrazione rappresenterebbe un esempio del carattere inclusivo e tollerante della società israeliana.

Ma così non è, e purtroppo i politici lungimiranti sembra che in questa regione scarseggino.

DISINNESCARE LA BOMBA DEMOGRAFICA
8.5.2009

La demografia è stata utilizzata per decenni in Israele, sia dalla destra che dalla sinistra, per promuovere e giustificare determinate politiche nei Territori e in materia di confini. Coloro che per primi hanno sostenuto il ritiro da Gaza e dalla Cisgiordania, ad esempio, citavano, oltre ad argomentazioni di ordine morale, il timore che nel territorio sotto il controllo israeliano gli arabi avrebbero finito per superare numericamente gli ebrei. Nel frattempo, il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha chiesto che i confini dello stato vengano ridefiniti in modo da escludere il maggior numero possibile di cittadini arabi, al fine di ridurre ciò che egli percepisce come una minaccia demografica per lo stato ebraico.

A prescindere dal fatto che queste proposte siano giuste o sbagliate, esse dovrebbero essere discusse in base al merito e non sulla base di falsi presupposti e paure. Pertanto, è importante che l’opinione pubblica abbia almeno una qualche idea di quella che è in realtà la situazione demografica. Ci possono essere delle controversie riguardo ai dati statistici nei Territori, ma all’interno di Israele i fatti parlano chiaro, e meritano di essere più ampiamente conosciuti.

Nei primi tempi dalla fondazione dello stato, la minoranza araba ha attraversato una “transizione demografica”, cosa che si verifica spesso quando le società tradizionali si trovano ad affrontare la modernità. L’assistenza sanitaria e il tenore di vita sono migliorati rapidamente, la speranza di vita è aumentata e la mortalità infantile è diminuita, ma, inizialmente, la dimensione delle famiglie è rimasta elevata. Come risultato, la popolazione araba di Israele è aumentata velocemente, e ha mantenuto, o addirittura aumentato, la sua quota percentuale all’interno della popolazione nel suo complesso, nonostante la massiccia immigrazione ebraica verso lo stato di Israele. Negli anni ‘60, le donne israeliane musulmane avevano ancora, in media, nove figli.

Tuttavia, alla prima fase della transizione demografica – un calo della mortalità, tassi di natalità persistentemente elevati, e quindi una rapida crescita della popolazione – segue sempre una seconda fase, in cui i tassi di natalità calano. Questo è ciò che già da qualche tempo sta avvenendo all’interno della società araba israeliana. Una donna araba israeliana oggi ha in media meno della metà dei figli che aveva negli anni ‘60, mentre il tasso di natalità ebraico si è recentemente stabilizzato o è addirittura aumentato. Questo si può verificare nel numero di bambini effettivamente nati ogni anno. Nel 2001, in Israele ci sono state circa 95.000 nascite ebraiche e 41.000 nascite arabe. Solo sette anni più tardi, nel 2008, le nascite ebraiche sono aumentate fino ad oltre 117.000, mentre le nascite arabe sono diminuite fino a meno di 40.000. In un periodo che corrisponde ad appena un quarto di generazione, le nascite arabe sono scese da circa il 30% del totale a circa il 25%. Questa è stata fino ad ora una tendenza costante. Se questa tendenza dovesse continuare, presto le nascite ebraiche e arabe, anno dopo anno, cominceranno a riflettere in linea di massima l’equilibrio generale di ebrei e arabi nella popolazione nel suo complesso - che è di 4:1 , ovvero rispettivamente l’80% e il 20%.

Ciò non dovrebbe essere una sorpresa poiché, sebbene il tasso di natalità ebraico relativamente elevato in Israele sia in controtendenza rispetto alle altre società progredite, il calo del tasso di natalità arabo in Israele coincide con le recenti tendenze nel mondo islamico. Oggi le donne israeliane nel loro insieme hanno più figli (2,77) rispetto alle donne in Iran (1,71), in Bahrain (2,53), in Algeria (1,82), in Marocco (2,57), in Indonesia (2,34) o in Turchia (1,87). Gli ultimi dati indicano che le donne israeliane hanno ora più figli rispetto alle donne in Egitto (2,72), in Giordania (2,47) o in Libano (1,87). Solo nel 2003, le donne siriane avevano un tasso di fertilità due volte superiore rispetto a quello delle donne israeliane. Nel 2008, lo scarto è stato solo del 16%.

Nulla di quanto detto fin qui tiene conto della popolazione araba al di là della linea verde. Qui i dati sono meno affidabili, ma due cose sembrano chiare: i tassi di natalità restano elevati, ma sono in rapida diminuzione. Il numero delle nascite in Cisgiordania nel 2003 ha rivelato che le donne palestinesi hanno, in media, cinque figli. Lo scorso anno, il numero medio di figli non era molto superiore a tre bambini, una trasformazione stupefacente per un periodo di tempo così breve.

Qualunque sia la situazione nei Territori, all’interno dello stato di Israele il messaggio è abbastanza semplice: i due tassi di natalità ebraico e arabo stanno convergendo. Ciò di cui i politici e l’opinione pubblica dovrebbero preoccuparsi non è tanto la dimensione della minoranza araba – sulla base delle recenti tendenze e proiezioni, è improbabile che essa possa crescere molto al di là del suo attuale 20% – ma piuttosto di che tipo di minoranza si tratterà. Sarà parte integrante della società? Aspirerà a migliorare la propria posizione, sia socialmente che economicamente? Potrà dare il proprio contributo, e godere dei frutti della società israeliana? Potrà rappresentare un potenziale ponte verso la regione, ed un esempio del carattere inclusivo e tollerante della società israeliana?

Oppure sarà emarginata, sempre più alienata ed ostile? Questo dipende molto dagli atteggiamenti della maggioranza ebraica e dalle politiche del governo. Dipende anche dalla presenza di una leadership araba pragmatica e realistica che cerchi di soddisfare gli interessi del proprio elettorato e che basi la propria strategia su una seria comprensione delle proprie prospettive demografiche.

Per ottenere un risultato favorevole, sarebbe prudente concentrarsi non su come disinnescare la “bomba demografica”, ma piuttosto su come disinnescare la bomba dei male informati e fuorvianti allarmismi demografici.

Paul Morland sta preparando una tesi di dottorato su demografia e conflitti etnici al Birkbeck College dell’Università di Londra

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15 maggio 2009

La vignetta del giorno: perchè non vi occupate del Darfur?


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13 maggio 2009

Intervista a Re Abdullah di Giordania.

A margine della visita del Papa in Terra Santa – prima tappa la Giordania – re Abdullah ha rilasciato diverse interessanti interviste, tra le quali spicca quella rilasciata al Times lo scorso 11 maggio (qui proposta nella traduzione offerta dal sito Medarabnews), in cui il sovrano di Giordania parla delle prospettive del processo di pace in medio oriente, soffermandosi sull’importanza dell’iniziativa di pace araba che prevede il riconoscimento di Israele da parte di 57 Stati (anche se, vi è da dire, nel numero sarebbero ricompresi anche Iran e Sudan…) in cambio del ritiro israeliano dai Territori palestinesi occupati.

Su una cosa, soprattutto, ha ragione Re Abdullah: probabilmente questa è una occasione irripetibile per raggiungere una pace regionale stabile e duratura, e se non sarà colta nel breve periodo il rischio concreto è che il mondo venga risucchiato in una nuova guerra in medio oriente, dalle conseguenze imprevedibili ma sicuramente rovinose.

La palla, ora, è nel campo israeliano e, soprattutto, in quello statunitense, un vero e proprio banco di prova per l’auspicato cambio di rotta dell’amministrazione Obama in politica estera. Non sarà facile, infatti, convincere un interlocutore come quello costituito da Netanyahu e dal suo governo di estrema destra che, fino ad ora, esita persino a dichiararsi esplicitamente favorevole alla nascita di uno Stato palestinese.

Re Abdullah: “Questa non è una soluzione a due Stati, è una soluzione a 57 Stati”.
11.5.2009

Com’è andata la visita del papa?

Credo che sia andata estremamente bene. Ho detto a Sua Santità che questo è il momento giusto. Lei sta venendo qui in pellegrinaggio spirituale con un messaggio di pace…come un messaggio di speranza per ciò che stiamo progettando di fare sul piano politico. Fa tutto parte di un unico importante sforzo. Questo è un delicato crocevia dal quale dobbiamo trarre vantaggio.

Dunque questa è una buona scelta di tempo fra la sua visita a Washington, e prima della visita del presidente Obama al Cairo?

Nei miei colloqui con lui mi sono concentrato sul fatto che lui è la dimensione spirituale mentre io lavoro nella dimensione politica. L’effetto a cascata sulla gente è sempre stato la sfida maggiore. Perciò il messaggio di riconciliazione, il messaggio di speranza per il futuro di Gerusalemme giunge con un tempismo perfetto, poiché vi è stato un diluvio di attività nelle ultime sei settimane, dopo il vertice di Doha e ciò che i paesi arabi stanno facendo nell’ambito dell’iniziativa di pace araba. L’attesa visita di Netanyahu a Washington la prossima settimana sarà il punto di svolta.

Ovviamente, sono sicuro che il presidente Obama stia tenendo per sé le proprie carte fino a quando non avrà ascoltato ciò che il primo ministro Netanyahu ha da dire. Io credo che il presidente sia impegnato a favore della soluzione a due stati. E’ impegnato a favore di questa soluzione ora. Egli avverte l’urgenza di agire oggi. Poiché non stiamo lavorando per la pace in uno spazio vuoto, senza nessun altro che sia qui. Perciò, questo è un momento cruciale.

Un cinico potrebbe dire: abbiamo avuto la conferenza di pace di Annapolis, abbiamo avuto la road map, l’iniziativa araba, quasi un decennio senza risultati. Qual è la differenza adesso?

Quattro o cinque decenni! Ci sono due importanti fattori. Siamo stufi e stanchi di questo processo. Stiamo parlando di negoziati diretti. Questo è un punto importante. Stiamo affrontando la cosa in un contesto regionale. Si potrebbe dire: attraverso l’iniziativa di pace araba. Gli americani la vedono come noi, e credo anche gli europei. La Gran Bretagna sta giocando un ruolo attivo estremamente vitale, più di quanto io abbia mai visto in dieci anni di esperienza, nel mettere insieme le persone.

Ciò di cui stiamo parlando non sono israeliani e palestinesi seduti intorno a un tavolo, ma gli israeliani seduti con i palestinesi, gli israeliani seduti con i siriani, gli israeliani seduti con i libanesi. E con gli arabi e il mondo islamico schierati per aprire negoziati diretti con gli israeliani nello stesso momento. Dunque, è il lavoro che deve essere fatto nei prossimi mesi che fornisce una risposta regionale a questo – questa non è una soluzione a due stati, è una soluzione a 57 stati.

Questo è il punto critico che scuote i politici israeliani e l’opinione pubblica israeliana. Volete rimanere la Fortezza Israele per i prossimi dieci anni? La sventura che ciò implicherebbe per tutti noi, incluso l’Occidente? Questo è diventato un problema globale. Noi stiamo dicendo agli israeliani che questa è una questione molto più grande degli israeliani e dei palestinesi. Io credo che l’amministrazione Obama questo lo comprenda. Io sono estremamente preoccupato all’idea di avere una conferenza fra sei mesi, ed un’altra fra un anno; questo non funziona. Credo che dovremo fare molta diplomazia di mediazione, portare le persone attorno a un tavolo nei prossimi mesi e trovare una soluzione.

Dunque lei sta lanciando un’offerta agli israeliani che dice: se viene fatto un accordo, questi sono i popoli che faranno la pace con voi, i popoli con i quali aprirete delle ambasciate e con i quali commercerete?

Se lei considera che un terzo del mondo non riconosce Israele – 57 paesi delle Nazioni Unite non riconoscono Israele, un terzo del mondo – le sue relazioni internazionali non possono essere così buone. Vi sono più paesi che riconoscono la Corea del Nord che non Israele. E’ dunque una presa di posizione molto forte, se stiamo offrendo che un terzo del mondo li incontri a braccia aperte. Il futuro non è il fiume Giordano o le alture del Golan, o il Sinai; il futuro è il Marocco sull’Atlantico, fino all’Indonesia nel Pacifico. Io credo che ci sia questo in ballo.

Vi sono state alcune notizie secondo le quali gli americani vi avrebbero chiesto di chiarire alcune parti dell’iniziativa araba, in particolare lo status di Gerusalemme ed il futuro dei profughi palestinesi.

Sono stato estremamente preciso nel portare una lettera per conto della Lega Araba che metteva in rilievo la proposta di pace araba, il desiderio arabo di lavorare con il presidente Obama per far sì che essa abbia successo, l’impegno a tendere una mano amichevole agli israeliani, e molte altre cose che potremmo probabilmente fare per il mondo.

Si trattava di notizie maliziose?

E’ difficile dirlo. Mi piacerebbe pensare che non lo fossero, che si trattasse solo di persone che hanno molto tempo a loro disposizione. Ma sono speculazioni molto lontane dalla realtà.

Vi è un governo di estrema destra in Israele che non accetta nemmeno una soluzione a due stati. Come supererete questo problema?

Dobbiamo trattare con quelli che abbiamo a disposizione. Solo perché vi è un governo di destra in Israele, non significa che dobbiamo gettare la spugna. Ci sono un sacco di ebrei americani e di israeliani che mi dicono che ci vuole un governo israeliano di destra per fare la pace. Io dico, speriamo che sia così! Netanyahu ha una grossa responsabilità andando a Washington. Io credo che l’atmosfera internazionale non sia favorevole alle perdite di tempo.

Ha mai trattato con Netanyahu in passato?

Ebbi tre mesi di sovrapposizione con lui [dopo la morte di re Hussein]. Furono probabilmente i meno piacevoli dei miei dieci anni di regno. Tuttavia, molte cose sono accadute negli ultimi dieci anni, e noi stiamo guardando allo scenario complessivo, e a ciò che è meglio per Israele (che credo sia la soluzione a due stati).

E che mi dice di Gerusalemme?

Non è un problema internazionale, è una soluzione internazionale. Gerusalemme sfortunatamente è stata un simbolo di conflitto per così tanti secoli. Dal principio di questo nuovo secolo, ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno è che Gerusalemme diventi un simbolo di speranza. Come incoraggiare le tre religioni monoteiste a fare di Gerusalemme un pilastro del futuro di questo secolo? Io avverto molta più maturità e comprensione, in questi tempi difficili di diffidenze culturali e religiose, che potrebbe essere l’elemento di unione di cui abbiamo bisogno.

Lei pensa che sarete in grado di prendere a bordo la Siria?

I siriani certamente vedono i vantaggi di un negoziato di pace con Israele, ed io confido nei miei colloqui con il loro ministro degli esteri in occasione della mia prossima visita a Damasco, confido che essi comprenderanno che questo è un approccio regionale; perché io credo fermamente che un approccio bilaterale fra Israele e la Siria sarebbe usato dall’una o dall’altra parte per perdere tempo. Io credo che questo approccio regionale a cui guarda Obama, e che è appoggiato da tutti noi, lanci un forte messaggio a Israele e sia un forte impegno a risolvere il problema siriano e quello libanese allo stesso tempo.

Dunque vi è un’enorme opportunità per la Siria di beneficiare del contesto regionale e di ingraziarsi l’Occidente. Perciò la mia speranza è che essi vedano come l’approccio dinamico sia cambiato; vi è la speranza che questa sia una situazione da cui tutti abbiano da guadagnare. Ciò che è bene per i palestinesi, è bene per i siriani, ed è bene per i libanesi.

Netanyahu si appresta ad andare al Cairo ed a Washington. Come pensa che si evolveranno le cose?

Il momento cruciale sarà cosa verrà fuori dall’incontro Obama-Netanyahu. Se vi sarà un tentativo di rinvio da parte di Israele sulla soluzione a due stati, o se non vi sarà una chiara visione americana di come portarla a termine nel 2009, allora tutta l’enorme credibilità che Obama ha nel mondo e nella nostra regione svanirà in una notte, se nulla verrà fuori a maggio. Tutti gli occhi saranno puntati su Washington, a maggio. Se non ci saranno chiari segnali per tutti noi, allora si affermerà la sensazione che questa è soltanto un’altra amministrazione americana che finirà col deluderci tutti.

Se i vostri piani di pace non avranno successo, avrà importanza?

Avremo una guerra. Prima della guerra libanese, dissi che ci sarebbe stato un conflitto con Israele. Lo dissi quattro o cinque mesi prima. Dissi che sarebbe accaduto o in Libano o a Gaza. Accadde in Libano. A novembre, dissi che ci sarebbe stata un’altra guerra in Libano o a Gaza. Pensavo che ci sarebbe stata una volta che Obama avesse assunto il suo incarico, ma si è verificata un mese prima. Se rimandiamo i nostri negoziati di pace, ci sarà un altro conflitto fra gli arabi – o i musulmani – e Israele nei prossimi 12 o 18 mesi. Accadrà per certo, così come ci sono stati gli altri conflitti.

Perciò questa è l’alternativa: avere un’altra guerra, altra morte e distruzione. Ma le sue implicazioni ora si riverbereranno molto più in là del Medio Oriente. Ci sono altre sfide in Afghanistan ed in Pakistan. C’è molto di più in ballo. Se a maggio verrà fuori che questo non è il momento adatto e che non c’è interesse per la pace, allora il mondo sarà risucchiato in un altro conflitto in Medio Oriente.

Intervista condotta da Richard Beeston

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6 maggio 2009

La divisione della Palestina: un successo israeliano.

La propaganda israeliana ama presentare la Striscia di Gaza come una “entità” autonoma e non più soggetta ad occupazione a seguito del “disengagement plan” di Sharon del 2005.

Per controbattere questa palese falsità si può facilmente osservare come Israele controlli ancora adesso le frontiere terrestri e marittime nonché lo spazio aereo di Gaza, imponendo un disumano e infame assedio a un milione e mezzo di Palestinesi, costretti a ricorrere agli aiuti umanitari per la loro stessa sopravvivenza. E’ chiaro dunque che, a termini del diritto internazionale, nei confronti della Striscia Israele deve considerarsi come una potenza occupante, in quanto ne ha il pieno controllo.

Si dimentica spesso di ricordare, tuttavia, come un altro aspetto dell’occupazione consista nel controllo dei registri dello stato civile: come ricorda Amira Hass nell’articolo che segue – qui proposto nella traduzione offerta dal sito
Medarabnews – ai residenti di Gaza è proibito vivere, studiare e lavorare nella West Bank senza il permesso di Israele (permesso, naturalmente, concesso di rado). Degno di nota il fatto che i Palestinesi di Gaza non possano entrare in Cisgiordania nemmeno attraverso il confine con la Giordania.

Nel novembre del 2005 il Governo israeliano e l’Autorità palestinese siglarono in pompa magna il cosiddetto accordo AMA (
Agreement on Movement and Access), sotto l’egida orgogliosa degli Usa e della Rice. Tale accordo – non è peregrino ricordarlo – prevedeva tra le altre cose che il collegamento tra la Striscia di Gaza e la West Bank fosse assicurato da convogli di bus per le persone (da attuarsi entro il 15 dicembre) e da convogli di camion per le merci (da attuarsi entro il 15 gennaio 2006). Si prevedeva, inoltre, che sarebbero iniziati subito i lavori per il porto di Gaza, e che si sarebbe predisposto un tavolo di discussione per il ripristino dell’aeroporto.

Che fine abbia fatto l’accordo AMA è sotto gli occhi di tutti, e questa vicenda dimostra, ancora una volta, quanto ci si possa fidare di Israele e degli accordi che sottoscrive.

Magari l’auspicato cambio di rotta dell’amministrazione Usa in Medio Oriente potrebbe cominciare proprio da qui, ponendo fine al criminale assedio di Gaza e ripristinando il quadro dell’accordo sull’accesso e il movimento da e per la Striscia.

UN SUCCESSO ISRAELIANO
20.4.2009

La totale separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza è una delle maggiori conquiste della politica israeliana, il cui principale obiettivo è prevenire una soluzione basata su decisioni e visioni internazionali, imponendo, al contrario, un compromesso basato sulla superiorità militare di Israele. Dinnanzi alla violenta rivalità tra i due movimenti in competizione per avere la meglio nel governo “farsa” palestinese, è semplice dimenticare lo sforzo che Israele ha profuso per separare famiglie, economie, culture e società tra le due parti dello stato palestinese in via di costruzione. Ai palestinesi, “aiutati” dalla geografia, non è rimasto altro che coronare questa divisione con il loro doppio regime.

Le restrizioni che Israele impose alla circolazione dei Palestinesi nel 1991 hanno invertito un processo che era stato avviato nel giugno del 1967. A quell’epoca, per la prima volta dal 1948, una cospicua porzione di Palestinesi viveva di nuovo nel territorio di un unico paese, senza dubbio un paese soggetto ad occupazione, ma per lo meno unitario. E’ anche vero che presto emersero tre categorie di residenti palestinesi: cittadini di Israele di terza classe, residenti di Israele (a Gerusalemme) e residenti dei “territori amministrati”. Eppure, il fatto di ripristinare vecchi legami sociali e familiari, e di creare nuove modalità di integrazione sociale, culturale ed economica si è rivelato più forte delle distinzioni amministrative. Il dinamismo, la creatività e l’ottimismo della prima Intifada (1987-1992) debbono molto alla realtà generata da questa libertà di movimento all’interno di un unico paese.

Israele ha posto un freno a questa libertà di movimento alla vigilia della prima guerra del Golfo. Dal gennaio del 1991, Israele ha solamente affinato la burocrazia e la logistica della scissione e della divisione: non solamente tra i Palestinesi dei Territori Occupati e i loro fratelli all’interno di Israele, ma anche tra i Palestinesi residenti a Gerusalemme e quelli residenti nel resto dei territori, e tra i residenti a Gaza e i residenti in Cisgiordania/Gerusalemme. Gli Ebrei vivono sullo stesso lembo di terra all’interno di un distinto e superiore sistema di privilegi, leggi, servizi, infrastrutture e libertà di movimento.

Un giorno, quando verranno aperti gli archivi, sapremo fino a che punto fu calcolato e pianificato questo processo. Nel frattempo, non possiamo ignorare il fatto che esso è iniziato nel momento in cui la Guerra Fredda e l’apartheid sudafricana stavano finendo, e mentre la comunità internazionale stava decidendo che era giunta l’ora di arrivare ad un accordo tra Palestinesi e Israeliani per la formazione di due stati sulla base dei confini del 4 giugno 1967.

Parallelamente al processo di Oslo, Israele ha intrapreso dei passi burocratici che vanificavano la clausola prevista dagli accordi di Oslo secondo la quale la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono un’unica unità territoriale. Ai residenti di Gaza è proibito vivere, studiare e lavorare in Cisgiordania senza il permesso di Israele (che è concesso raramente, e solamente a richiedenti favoriti). Ai residenti di Gaza è proibito entrare in Cisgiordania anche attraverso il confine con la Giordania. Amici e parenti vivono a soli 70 km di distanza, ma Israele non permette loro di incontrarsi. Oggi un Palestinese nato a Gaza che vive in Cisgiordania senza il permesso di Israele è considerato una “presenza clandestina”.

L’ambiguo disimpegno unilaterale da Gaza, compiuto da Israele nel 2005, ha perpetuato un processo iniziato nel 1991: la Striscia di Gaza e la Cisgiordania rientrano in tipi di amministrazione differenti, con Israele che abilmente presenta Gaza come un’entità indipendente non più soggetta ad una occupazione. Alle ultime elezioni palestinesi, Hamas si è dimostrato più convincente di Fatah nel momento in cui ha attribuito la “vittoria” palestinese e il ritiro israeliano a se stesso e alla propria lotta armata, e ha promesso che “Gerusalemme sarà la prossima conquista”. A ciò è seguita la presa di potere di Hamas a Gaza nel 2007, e la direttiva del presidente Mahmoud Abbas a decine di migliaia di impiegati dell’Autorità Palestinese di boicottare il loro posto di lavoro nella Striscia.

Negli ultimi colloqui per giungere ad un’unità palestinese, le domande sostanziali non sono state poste: l’opinione pubblica della Cisgiordania e di Gaza ha rinunciato al legame tra le due parti occupate nel 1967, fino alla remota realizzazione del sogno di un unico stato? I Palestinesi chiederanno conto alle loro due leadership dell’aiuto che esse hanno offerto a Israele nel separare i due territori? Per Hamas il legame con il mondo arabo e musulmano è più vitale del suo legame con la Cisgiordania? Il prestigio formale a livello internazionale, e i vantaggi di cui godono i loro burocrati, sono più cari all’ANP e all’OLP della popolazione di Gaza?

Le risposte devono provenire anche da parte israeliana, e soprattutto da coloro che affermano di appoggiare la pace. Prima della vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, la sede amministrativa dell’ANP si trovava a Gaza. Ciò non ha impedito che Israele perfezionasse le condizioni di separazione e divisione che hanno trasformato la Striscia nel campo di detenzione che è oggi, mentre la maggior parte dei pacifisti israeliani stava con le mani in mano. Anche se al Cairo avvenisse un miracolo e i Palestinesi ritrovassero la loro unità, il governo di Israele non rinuncerà di buon grado alla sua più grande conquista: separare Gaza dalla Cisgiordania. Questa conquista, che non farà che alimentare un sanguinoso conflitto, rappresenta un disastro per entrambi i popoli.

Amira Hass è una nota scrittrice e giornalista israeliana; è l’unica giornalista israeliana ad aver vissuto per anni con i palestinesi, a Gaza ed in Cisgiordania; scrive abitualmente sul quotidiano Haaretz

Titolo originale:An Israeli achievement

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5 maggio 2009

Palestina: la più grande prigione a cielo aperto del mondo (I puntata).

Questo video è il primo di cinque episodi, di circa 3 minuti ciascuno, che mostrano l'attuale situazione che i Palestinesi devono affrontare nella loro vita quotidiana.

Lo scopo di questi video è quello di sensibilizzare l'attenzione internazionale sulla prigionia del popolo palestinese, che ha bisogno dell'azione e dell'aiuto internazionale per riuscire ad interrompere l'assedio disumano e illegale a cui è sottoposto da parte di Israele.

In questi giorni, il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman ha iniziato un tour nei Paesi europei, prima tappa qui in Italia, accolto trionfalmente sebbene il governo di cui fa parte abbia esplicitamente dichiarato di non voler tener fede agli impegni di Annapolis e di voler riconsiderare gli obblighi della road map, evitando accuratamente ogni accenno alla nascita di uno Stato palestinese indipendente e dalle frontiere certe e riconosciute.

Nel frattempo, la Cisgiordania continua ad essere tenuta nella morsa del muro dell'apartheid, dei check point, delle strade ad uso ebraico esclusivo, delle colonie in continua espansione.

Nel frattempo, la Striscia di Gaza continua ad essere assediata, con una palese e ignobile violazione del diritto umanitario, che considera un crimine la punizione collettiva di un milione e mezzo di Palestinesi ridotti a dipendere dagli aiuti umanitari per la loro stessa sopravvivenza.

Voglio sperare che la diffusione di questo e degli altri video - cui vi invito a prendere parte - servirà a far prendere coscienza della gravità dei crimini commessi a danno della popolazione palestinese , e a far capire come oggi la più grave minaccia alla pace e alla stabilità del medio oriente sia proprio l'atteggiamento disumano e razzista di quello stato-canaglia che ha per nome Israele.

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4 maggio 2009

Vignetta: Israele, un partner per la pace.

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