30 settembre 2009

La vignetta del giorno: chi sopra, chi sotto...


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L'impotenza di Obama.

A otto mesi dalla promessa del Presidente Usa Barack Obama (appena insediatosi) di impegnarsi a fondo per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, le speranze che la sua elezione e i suoi alati discorsi avevano suscitato vanno scemando ogni giorno di più.

Se gli Usa non riescono nemmeno ad ottenere da Israele il “congelamento” delle colonie illegali in Cisgiordania, ovvero un semplice stop a tempo determinato dell’attività edilizia di espansione degli insediamenti, come potranno arrivare a sciogliere i nodi ben più complessi che attengono a Gerusalemme est e al problema dei profughi palestinesi?

E’ questo il tema di un interessante intervento redazionale di Medarabnews, che viene riportato qui di seguito per la sua sintetica completezza nel trattare le questioni in campo.

Il vero è che gli Usa e Obama non vogliono o non riescono a mettere in campo quelle pressioni politiche ed economiche che sono essenziali per convincere il riottoso “alleato” israeliano a rientrare nell’alveo della legalità internazionale e a consentire la nascita di uno Stato palestinese economicamente sostenibile, con il pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese troppo a lungo conculcati.

Certo, Obama può parlare – in maniera appassionata e coinvolgente come sa – di pace e di disarmo, lo ha fatto di recente all’Onu.

Ma non si capisce bene come si possa denunciare l’Iran come minaccia nucleare e contemporaneamente tacere sulle centinaia di testate nucleari possedute da Israele, pronte ad essere usate sulla base della cd. “Samson Option”.

Non si capisce bene come si possa parlare di pace e di giustizia tra i popoli e contemporaneamente relegare in un cassetto il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza, con il suo accurato resoconto relativo al massacro di oltre 1.400 Palestinesi, in massima parte civili inermi, compiuto dagli Israeliani, e con le sue denunce relative ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità commessi dagli assassini di Tsahal, crimini che non possono ancora una volta restare impuniti.

Legittimare ogni azione compiuta dallo Stato israeliano – persino i suoi crimini più atroci ed efferati – rende i discorsi di Obama insopportabilmente carichi di ipocrisia e, in definitiva, non aiuta in alcun modo, ed anzi ostacola, il perseguimento di un accordo di pace complessivo in Medio Oriente.

BALBETTA L’INIZIATIVA DI OBAMA PER LA PACE IN MEDIO ORIENTE.
30.9.2009

A otto mesi dalla solenne promessa del presidente americano Obama (allora appena insediato alla Casa Bianca) di impegnarsi a dare nuovo impulso al processo di pace fra Israele e i palestinesi, le speranze di veder riprendere il cammino verso una soluzione del conflitto arabo-israeliano hanno subito un duro colpo.

La misura su cui l’amministrazione Obama aveva puntato per ristabilire la fiducia reciproca fra le parti – ovvero il congelamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, accompagnato da una progressiva normalizzazione dei rapporti fra i paesi arabi e Tel Aviv – si è scontrata con la dura realtà del rifiuto posto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Obama ha convocato ugualmente a New York un vertice e tre – fra lui, Netanyahu ed il presidente palestinese Mahmoud Abbas – in occasione del quale ha annunciato la sua intenzione di passare direttamente ai negoziati sul “final status”, ovvero sui termini dell’accordo di pace conclusivo fra israeliani e palestinesi.

Ciò non ha impedito alla maggior parte degli osservatori, soprattutto nel mondo arabo, di esprimere la propria delusione per quanto accaduto: per Obama si tratta infatti di una sconfitta che non lascia ben sperare per il futuro. Incassare il rifiuto di fermare gli insediamenti è equivalso, a detta di molti, a una grave manifestazione di debolezza: Obama ha dimostrato che in questo momento non è in grado di esercitare pressioni sul governo israeliano [1].

Inoltre, a tutt’oggi non esiste alcuna tabella di marcia per i negoziati, alcun meccanismo di monitoraggio, alcun ruolo preciso al tavolo negoziale per il mediatore americano e per gli altri membri del Quartetto (UE, Russia e ONU). In altre parole, non esiste un piano di pace definito, e non esiste un meccanismo negoziale.

Numerosi osservatori hanno fatto rilevare [2] che fra i pilastri dei futuri negoziati vi sono il destino dei profughi palestinesi, il futuro di Gerusalemme Est, e il destino degli insediamenti. Rifiutandosi anche soltanto di “congelare” gli insediamenti (mentre un accordo di pace definitivo dovrebbe prevedere lo smantellamento della maggior parte di essi), ritenendo Gerusalemme parte integrante dello stato di Israele, e chiedendo che i palestinesi ed i paesi arabi riconoscano Israele come stato “ebraico”, Tel Aviv di fatto cancella a priori questi tre elementi fondamentali di ogni futura trattativa.

Se molti tacitamente riconoscono che un accordo di pace fra le parti realisticamente potrà prevedere il ritorno di parte dei profughi in Palestina, ma solo di un numero puramente simbolico di essi entro i confini di Israele, per altro verso la presenza degli insediamenti israeliani in Cisgiordania rende di fatto impossibile l’esistenza stessa di un futuro stato palestinese.

D’altra parte, molti analisti concordano sul fatto che gli insediamenti rappresentano una realtà sul terreno che sarà difficilissimo eliminare [3], soprattutto se si tiene conto che molti di essi sono stati costruiti con la connivenza dei governi israeliani succedutisi al potere dal 1967 ad oggi, e che i coloni rappresentano una lobby politica molto forte all’interno di Israele.

Più di 250.000 coloni israeliani risiedono in Cisgiordania, mentre quasi 200.000 vivono a Gerusalemme Est. Un eventuale accordo di pace comporterebbe dunque o l’evacuazione di quasi mezzo milione di persone, oppure che i coloni diventino una minoranza nel futuro stato palestinese (ipotesi di non meno difficile realizzazione).

All’interno dello stesso stato di Israele, tuttavia, diversi osservatori ritengono che l’attuale status quo sia altrettanto insostenibile [4]. Il futuro di Israele non può non passare attraverso un accordo di pace e una pacifica convivenza con i palestinesi. Malgrado ciò, non solo l’attuale governo, ma anche buona parte della classe politica israeliana ritiene che una soluzione negoziata al momento non sia possibile, e che l’unica alternativa praticabile sia una politica di deterrenza sostenuta dall’uso della forza.

Sulla stampa internazionale non sono pochi, però, coloro che ritengono che l’attuale vittoria di Netanyahu possa tradursi in una futura sconfitta per Israele, oltre che per il suo governo. Innanzitutto, lo spostamento dell’attenzione sui negoziati per il “final status” potrebbe comportare l’insorgere di tensioni nel governo Netanyahu, composto da forze eterogenee accomunate solo dal rifiuto di una soluzione negoziata. Tali tensioni potrebbero addirittura portare alla caduta dell’esecutivo. Ma anche in questo caso, rimarrebbe tuttavia il problema di fondo dell’estrema frammentazione del panorama politico israeliano, che ha come diretta conseguenza la paralisi politica del paese, soprattutto di fronte a scelte cruciali per il suo futuro.

Tali scelte non sono però ulteriormente rinviabili. La classe politica israeliana non può ragionevolmente pensare di trascinare a tempo indeterminato l’intollerabile realtà dell’occupazione – prolungando indefinitamente una situazione di disuguaglianza, drastica limitazione delle libertà fondamentali, e soprusi quotidiani – senza compromettere definitivamente il carattere democratico dello stato, e senza subire conseguenze sul piano regionale.

Non va dimenticato, ad esempio, che il blocco economico ai danni della Striscia di Gaza prosegue tuttora, continuando a colpire una popolazione di un milione e mezzo di persone, già stremata da anni di privazioni e dal devastante conflitto dello scorso gennaio. Tale blocco prosegue anche se Hamas si sta astenendo dal lanciare razzi e sta compiendo ogni sforzo per impedire attacchi da parte delle altre fazioni palestinesi presenti a Gaza.

A coloro che sostengono che questo è il risultato dell’azione di “deterrenza” delle forze armate israeliane, si può obiettare che lo stesso livello di calma e di non belligeranza fu ottenuto con la tregua bilaterale che precedette l’attacco israeliano a Gaza. Tale tregua, tuttavia, prevedeva anche che, a seguito della fine del lancio dei razzi, Tel Aviv avrebbe aperto i valichi ponendo fine all’ “assedio”. Ma anche allora i valichi non furono mai aperti.

Il conflitto di Gaza ha avuto – ed ha tuttora – un impatto profondissimo in tutto il mondo arabo. Esso, oltre a causare la morte di 1.400 palestinesi, ha distrutto le strutture essenziali di questo esile e sovrappopolato lembo di terra.

A nove mesi dall’inizio dell’attacco militare israeliano, la ricostruzione non è ancora partita, perché Israele non permette l’ingresso dei materiali necessari nella Striscia. Tutto questo obbliga migliaia di persone a vivere in condizioni spaventose, alloggiate in tende o in prefabbricati privi dei servizi più elementari, ed in condizioni di povertà estrema.

Lasciar incancrenire realtà di questo genere, e prolungare indefinitamente lo status quo in Medio Oriente si tradurrà inevitabilmente, e drammaticamente, in nuove violenze e in nuovi conflitti – forse anche in tempi relativamente brevi.

E’ questo l’allarme che hanno lanciato, fra gli altri, molti commentatori arabi [5], i quali hanno messo in guardia sulle conseguenze che un ennesimo fallimento negoziale potrebbe comportare, in Palestina e nel mondo arabo.

L’avvento di Obama aveva infatti generato enormi speranze in tutto il Medio Oriente [6], come già era accaduto in precedenza con l’iniziativa di pace promossa dal presidente Bill Clinton. La continua frustrazione di tali speranze, ed il permanere di condizioni di ingiustizia nel Levante arabo non potrà che determinare dolorosi contraccolpi.

L’influenza iraniana nel mondo arabo, in particolare, è vista come una minaccia da gran parte dei cosiddetti “regimi arabi moderati”. Tuttavia, non potendo offrire alcuna soluzione alla questione palestinese ed al conflitto arabo-israeliano, tali regimi si trovano a dover combattere con armi spuntate la crescente influenza che l’Iran esercita su settori consistenti delle loro popolazioni.

In altre parole, la mancata soluzione della questione palestinese si traduce in un ulteriore fattore di delegittimazione (oltre a quelli dovuti all’assenza di democrazia, alla corruzione, ecc.) per i regimi arabi che hanno scelto la via del negoziato.

La retorica di Netanyahu, di cui il discorso pronunciato la scorsa settimana all’Assemblea Generale dell’ONU costituisce un tipico esempio, risulta essere perfettamente speculare a quella del presidente iraniano Ahmadinejad.

Sulla stampa israeliana, vi è chi ha affermato [7] che, quando il premier israeliano paragona implicitamente Hamas ai nazisti, facendo un accostamento fra i rudimentali razzi Qassam ed il bombardamento di Londra che sterminò oltre 40.000 persone durante la seconda guerra mondiale, legittima coloro che nel mondo arabo-islamico compiono l’operazione opposta paragonando a loro volta i metodi israeliani e quelli nazisti. Quando denuncia i “tiranni di Teheran” per aver infierito sui manifestanti iraniani all’indomani delle controverse elezioni presidenziali del giugno scorso, mentre i soldati israeliani adoperano le stesse tecniche contro le manifestazioni nonviolente del villaggio palestinese di Bil’in (così come in altre innumerevoli occasioni), non fa altro che mettere a nudo ancora una volta il proprio approccio demagogico e strumentale alla crisi iraniana da un lato ed alla questione palestinese dall’altro.

Atteggiamenti di questo genere hanno come unico risultato quello di ricompattare le masse arabo-islamiche diseredate e private dei propri diritti attorno alla figura di un presunto “nuovo eroe” islamico, che questa volta sarà incarnato dal presidente iraniano Ahmadinejad. Allo stesso tempo tali atteggiamenti contribuiscono a far mancare la terra sotto i piedi a quei paesi arabi che hanno accettato la “soluzione dei due stati” – quegli stessi paesi arabi che Netanyahu vorrebbe mobilitare contro l’Iran.

La questione palestinese rischia in questo modo di diventare ostaggio della crisi iraniana [8], ed ogni rinvio nella ripresa di negoziati seri e concreti rende questa possibilità sempre più probabile.

A pagare il prezzo di questi rinvii e di queste strumentalizzazioni politiche potrebbero essere (drammaticamente) le popolazioni della regione: palestinese, israeliana, e di tutto il Medio Oriente.

[1] non è in grado di esercitare pressioni sul governo israeliano:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/obama-netanyahu-tragedia-farsa/
[2] Numerosi osservatori hanno fatto rilevare:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/insediamenti-e-fallimento-mitchell/
[3] una realtà sul terreno che sarà difficilissimo eliminare:
http://www.medarabnews.com/2009/09/30/la-verita-insediamenti-cisgiordania/
[4] sia altrettanto insostenibile :
[8] ostaggio della crisi iraniana:

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25 settembre 2009

Campagna per la liberazione di Mohammad Othman.

Il 22 settembre scorso Mohammad Othman è stato arrestato dai soldati israeliani al Ponte di Allenby, il valico di confine tra Giordania e Palestina. Da allora, egli si trova detenuto presso il carcere di Huwara come prigioniero di coscienza, arrestato solamente a causa della sua attività in difesa dei diritti umani.

Mohammad, 33 anni, è il coordinatore giovanile della campagna Stop the Wall e ha dedicato gli ultimi dieci anni della sua vita alla difesa dei diritti umani dei Palestinesi. Nell’ambito della Campagna contro il Muro dell’Apartheid, egli ha lottato contro l’espropriazione delle terre dei contadini palestinesi e contro il coinvolgimento delle imprese israeliane ed internazionali nella violazione dei diritti umani dei palestinesi.

Il suo villaggio, Jayyous, è stato letteralmente devastato dal Muro dell’apartheid e dall’espansione della colonia di Zufim, edificata dalle società di Lev Leviev. Società che si trovano ora a dover affrontare una riuscita campagna di boicottaggio a causa della violazione dei diritti delle popolazioni indigene.

Mohammad stava tornando da uno dei suoi viaggi in Norvegia, nel corso del quale ha incontrato alcuni alti funzionari, incluso il Ministro delle Finanze norvegese Kristen Halvorsen. Il Fondo Pensione nazionale norvegese di recente ha annunciato di aver disinvestito da Elbit, la compagnia israeliana che fornisce sia apparecchi aerei senza pilota e altra tecnologia militare alle forze di occupazione israeliane, come pure i sistemi di sicurezza per il muro e per gli insediamenti colonici.

Questa non è la prima volta che dei Palestinesi attivisti per i diritti umani vengono arrestati al ritorno di viaggi all’estero. Recentemente, Muhammad Srour, testimone oculare per conto della Missione Conoscitiva Onu su Gaza, è stato arrestato sulla via del ritorno da Ginevra. Tale arresto è stato un chiaro atto di rappresaglia contro Srour per aver denunciato le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Arrestare i Palestinesi al loro ritorno dall’estero non è che un’altra tattica israeliana per cercare di mettere a tacere gli attivisti palestinesi per i diritti umani. Essa serve a completare la politica globale di isolamento del popolo palestinese dietro checkpoint, muri e filo spinato.

E’ dunque di assoluta urgenza, anche per noi, mobilitarci per aiutare Mohammad Othman, firmando la petizione on-line per la sua liberazione o scrivendo direttamente all’ambasciata israeliana per protestare contro il suo arresto.

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24 settembre 2009

Lettera/appello in favore dei prigionieri palestinesi.

La Lista Civica Nazionale Per il Bene Comune ha predisposto una lettera aperta in favore dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, che è stata consegnata giovedì 17 settembre al Presidente del Senato ed ai senatori presenti, tutti gli altri l'hanno poi ricevuta con il servizio postale .

Con questa lettera si è voluto segnalare che – a fronte della mobilitazione internazionale per la liberazione del soldato Shalit – nessuno sembra ricordarsi delle migliaia e migliaia di Palestinesi illegalmente detenuti nelle carceri israeliane, arrestati spesso secondo procedure arbitrarie e sottoposti a quotidiane umiliazioni, a maltrattamenti, a torture.

Ci si dimentica che Gilad Shalit non è un povero cristo qualunque, ma è un soldato appartenente a quelle forze di occupazione che dal giugno del 2007 continuano a strangolare i Palestinesi della Striscia di Gaza, sottoponendoli a una punizione collettiva – vietata dal diritto umanitario – che non ha uguali al mondo.

Ci si dimentica che in media, tra i Palestinesi incarcerati in Israele, vi sono ogni mese almeno 375 minori, 39 dei quali di età compresa tra i 12 e i 15 anni, in chiara violazione delle norme contenute nella Convenzione Onu sui diriti del fanciullo del 1989, che pure Israele risulta avere sottoscritto.

Ci si dimentica dei quasi 400 Palestinesi incarcerati in regime di detenzione amministrativa, quella vera e propria mostruosità giuridica che consente ad Israele di trattenere in carcere civili palestinesi senza alcuna accusa o processo, sulla base di qualche soffiata o invenzione prezzolata proveniente dagli scantinati dei servizi segreti israeliani.

Detenzione che può durare fino a sei mesi, ma che può essere prorogata per ulteriori sei mesi e poi sei mesi e così via all’infinito: il risultato è che almeno 218 Palestinesi – secondo i dati dell’ong B’tselem - sono detenuti in carcere da più di un anno senza che a loro carico sia stata formulata alcuna precisa accusa, senza conoscere il perché dell’arresto, senza essere stati sottoposti ad alcun processo.

Ci si dimentica, infine, che la grande maggioranza dei prigionieri palestinesi è detenuta in territorio israeliano, in chiara violazione della IV Convenzione di Ginevra.

Ritengo, dunque, importante promuovere e sottoscrivere l’appello che segue, chi vuole potrà farlo inviando una mail a: presidente@perilbenecomune.net oppure scrivendo a: Per il Bene Comune, Piaz.le Stazione 15, 44100 Ferrara – tel./fax. 0532.52.148

IL TESTO DELLA LETTERA

Signor Presidente del Senato, Signori Senatori della Repubblica,

abbiamo registrato con sorpresa la notizia che il Senato ha approvato una risoluzione che chiede il rilascio di un soldato di Israele, catturato mentre partecipava ad una operazione militare ordinata per “perlustrare” un villaggio della striscia di Gaza.

Sorprende che tale presa di posizione non abbia nemmeno accennato agli oltre 11.000 (undicimila) palestinesi rapiti e illegalmente imprigionati dall’esercito e dalle autorità d’occupazione israeliane, ben sapendo che tra queste ci sono anche il Presidente della Assemblea Nazionale (Parlamento) e oltre cinquanta sindaci e dirigenti politici palestinesi, tra cui 21 parlamentari.

Confidando sulla adesione del Senato della Repubblica alla Carta Universale dei diritti dell’Uomo e sull’indipendenza sua e degli attuali senatori dalle pressioni della lobby filo sionista, noi facciamo appello a lei ed a tutti i senatori affinché venga posto un rimedio a tale “dimenticanza”, assumendo una posizione più giusta, equilibrata e dignitosa, in cui venga chiesto alle autorità civili e militari di Israele:

di rispettare le 72 (settantadue) risoluzioni e le deliberazioni dell’ONU sin qui ignorate;

di porre fine alla occupazione militare e alla colonizzazione della Palestina e del Golan;

di liberare i colleghi parlamentari palestinesi che sono stati rapiti;

di liberare tutti i prigionieri da anni in carcere senza processo e colpevoli unicamente di non gradire l’occupazione militare della propria terra;

di fare piena luce sul traffico d’organi che avviene dopo le morti “accidentali” dei prigionieri.

Fernando Rossi

Senatore della XV Legislatura

Lista Civica Nazionale Per il Bene Comune (www.perilbenecomune.net)

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23 settembre 2009

Israele in Africa.

I retroscena del recente tour del ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman in alcuni Paesi dell'Africa sub-sahariana in un articolo pubblicato da Galal Nassar per l'egiziano al-Ahram Weekly (10-16 settembre), qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews.


Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, a capo di un nutrito convoglio di politici, militari e consulenti per la sicurezza, oltre che di una delegazione di commercianti e rappresentanti delle maggiori compagnie israeliane, è andato recentemente a bussare alla porta di 5 Stati dell’Africa sub-sahariana. Le 54 nazioni dell’Africa per decenni hanno respinto le aperture diplomatiche di Israele. Oggi, l’amministrazione Netanyahu evidentemente ritiene che vi sia una possibilità di far breccia in quel muro. Dopotutto, alcuni paesi arabi ora riconoscono Israele. Tra questi non ultimo è l’Egitto, Stato che per lungo tempo aveva vanificato il sogno di Golda Meir e dei suoi successori di penetrare in Africa ed approvvigionarsi alle sue abbondanti fonti di ricchezza.

Attualmente, non solo molti Stati africani sono pronti a migliorare i propri rapporti con Israele, ma alcuni hanno già iniziato ad esplorare la possibilità di una cooperazione strategica. Tel Aviv apprezza pienamente il vasto potenziale che l’Africa offre. Oltre a disporre di abbondanti risorse naturali, l’Africa è un continente di importanza strategica per il mondo arabo, ragione per la quale Israele ha avuto un ruolo nell’armare alcuni regimi africani e nell’aggravare le crisi esistenti tra altri, incluse quelle in Somalia, Sudan, Eritrea e Sudafrica. Israele ha inoltre utilizzato parte del continente per i suoi esperimenti militari e scientifici, nel corso dei quali ha distrutto terreni adibiti all’agricoltura, ed ha seminato corruzione e miseria.

Se i popoli dei Paesi che Lieberman ha visitato pensano davvero che egli sia interessato a far crescere le loro economie, a migliorare la loro produzione agricola, ad ottimizzare le loro ingenti risorse idriche, e a mettere a loro disposizione l’esperienza tecnologica d’Israele, si stanno sbagliando. Essi stanno commettendo un errore ancora più grave se credono che Israele si preoccupi delle vite e del benessere dei popoli africani, sia impaziente di migliorare i loro standard di vita, di liberarli dalla piaga della povertà, della disoccupazione, delle malattie e della siccità, e di soffocare i focolai della guerra civile, delle ribellioni e dei conflitti fratricidi. Né Israele li aiuterà a superare le discriminazioni ed i complessi di inferiorità che Tel Aviv sostiene siano stati perpetuati e alimentati dagli arabi. Per quanto voglia far credere il contrario, Israele non è un porto sicuro per il loro benessere ed il loro futuro. Le preoccupazioni di Israele sono dettate solamente dalla logica dei suoi piani. Lo stato ebraico non potrebbe aver meno a cuore la stabilità, il benessere, la sicurezza e la stabilità delle popolazioni africane. Il Sudan offre la prova più lampante di ciò. Accusando il paese di armare e sostenere la resistenza palestinese, Tel Aviv sta lavorando assiduamente per accerchiare ed isolare il Sudan dall’esterno, e per alimentare la ribellione dall’interno.

Israele ha da tempo cercato di sfruttare le ricchezze minerali dell’Africa. Tel Aviv pianifica di appropriarsi dei diamanti africani e di lavorarli in Israele, paese che è già al secondo posto nel mondo nel campo della lavorazione dei diamanti. E a giudicare dalla composizione dell’entourage di Lieberman, Israele è inoltre interessato all’uranio africano, al torio, e ad altri elementi radioattivi utilizzati per produrre combustibile nucleare. Inoltre sta cercando nuovi mercati per la sua produzione di armi leggere. Sembra anche che non pochi militari in pensione stiano cercando opportunità di lavoro come addestratori di milizie africane, come confermerebbero i tentativi portati avanti da altri membri della delegazione di Lieberman. Le enormi riserve di petrolio in molti paesi africani costituiscono un’altra importante priorità nell’agenda di Israele, con Tel Aviv che sta cercando una propria compartecipazione nelle operazioni di esplorazione, estrazione ed esportazione di petrolio.

Fin dagli anni ’50 del secolo scorso, Israele ha cercato di compromettere la sicurezza idrica dell’Egitto consolidando la propria influenza sui paesi che si trovano tra le foci del Nilo e la zona dei grandi laghi dell’Africa centrale, e sugli altipiani dell’Etiopia. Tenendo l’Egitto occupato con la questione della propria sicurezza idrica, Israele immagina di poter ridimensionare il ruolo del Cairo nel conflitto arabo-israeliano.

Le preoccupazioni di Israele nei confronti dell’Iran hanno avuto anch’esse molta importanza nell’agenda del viaggio africano di Lieberman. Israele ha tenuto d’occhio molto da vicino la penetrazione iraniana in Africa, dove Teheran, seguendo le orme di Pechino, è coinvolta in una serie di importanti progetti di sviluppo. Tel Aviv è molto sospettosa circa le ambizioni di Teheran in un continente così ricco di materie prime utili per produrre combustibile nucleare, e spera di costituire una rete di relazioni strategiche per controllare l’espansione dell’influenza iraniana in Africa. In questo sforzo, un elemento a suo favore è rappresentato dai suoi stretti legami con Washington. Gli Stati Uniti possono infatti usare la loro grande influenza in Africa per appianare molti ostacoli che altrimenti impedirebbero la penetrazione africana di Israele.

Il ministro degli esteri israeliano crede di potersi infiltrare nel “giardino di casa” del mondo arabo-islamico al fine di privarlo della sua profondità strategica. E’ perciò essenziale che mettiamo in luce la vera natura dei piani economici e militari di Israele in Africa e ne riveliamo i reali motivi. Il fatto che Israele sia fisicamente presente nella Palestina occupata non significa che il pericolo sionista minacci solo la Palestina e i palestinesi. L’obiettivo dei piani sionisti riguarda ogni angolo del mondo arabo-islamico, nel quale essi alimentano crisi, organizzano complotti, sfruttano le risorse, indeboliscono le competenze, ed in generale cospirano contro le popolazioni. Si può individuare la mano sionista dietro molti conflitti che imperversano fra i regimi arabi. La sua rete di spionaggio cerca di infiltrarsi nelle società arabe e musulmane. Ora più che mai, i tentacoli militari, economici e politici di Israele hanno raggiunto ogni parte dell’Africa dissimulandosi sotto apparenze umanitarie, al fine di sfruttare la fame e la disperazione del continente per costringere gli arabi e i musulmani ad allontanarsi da una terra nella quale sono sempre stati i benvenuti. Il mondo arabo-islamico deve agire rapidamente per mantenere aperte le porte dell’Africa. Ciò richiede una nuova strategia che allo stesso tempo impedisca ad Israele di accerchiare il mondo arabo e di ottenere il controllo delle sue risorse di ricchezza e di benessere.

Galal Nassar è un giornalista egiziano; scrive abitualmente sul settimanale al-Ahram Weekly

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22 settembre 2009

Vignetta del giorno: gli Usa in soccorso degli assassini.


(autore: Carlos Latuff)

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The Palestine Poster Project.

Dan Walsh, un artista americano di Silver Spring, Maryland, da anni raccoglie poster e manifesti rigurdanti la Palestina e il Medio Oriente in genere.

Scopo di questa raccolta è quello di promuovere negli Usa e nel mondo un dialogo aperto sulla questione palestinese, vista attraverso l'arte, la cultura e la storia palestinese espressa dal linguaggio dei poster.

Walsh è studente alla Georgetown University e ha già avuto modo di presentare il suo lavoro presso varie televisioni e università americane, ed anche presso la Birzeit University e la Yasser Arafat Foundation di Ramallah nel maggio del 2009. Quest'anno è stato anche vincitore dell'Oxtozy Prize della Georgetown University.

La collezione di Walsh conta oltre 3.000 poster, che egli colleziona con passione già da diversi anni e che sono in parte visibili in questo sito, costantemente aggiornato.

Se avete poster e/o manifesti da inviare per sostenere questa interessante iniziativa potete contattare Giovanna Magnoli, ghiofan@gmail.com.

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18 settembre 2009

Intervista a Jeff Halper (1).

Quella che segue è la prima parte dell'intervista che Lorenzo Galbiati ha fatto quest'estate, via email, al pacifista israeliano Jeff Halper, candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2006 e unico israeliano presente nella spedizione del "Free Gaza Movement", che nel 2008 ha rotto per la prima volta il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza.

E' un'intervista interessante che tratta di vari argomenti, di sionismo e antisionismo, razzismo e antisemitismo, apartheid e pulizia etnica, metodi non violenti e boicottaggio, soluzioni al conflitto israelo-palestinese, ed è per questo che ho acconsentito volentieri all'invito dell'autore a diffonderla.

Jeff Halper, ebreo israeliano di origine statunitense (è nato nel Minnesota nel 1946), è urbanista e antropologo, e insegna all’Università Ben Gurion del Negev.

In Israele ha fondato nel 1997 l’ICAHD, Israeli Committee Against House Demolitions (http://www.icahd.org/), associazione di persone che per vie legali e con la disobbedienza civile si oppongono alla demolizione delle case palestinesi, e che forniscono supporto economico e materiale per la loro ricostruzione. Per questa attività, e per il suo attivismo pacifista, Halper è stato arrestato dal governo israeliano una decina di volte, ed è ora considerato uno dei più autorevoli attivisti israeliani per la pace e i diritti civili.

Oltre alle sue attività accademiche e per l’ICAHD, Halper scrive libri ed è un conferenziere internazionale. Nel 2006 è stato candidato al Premio Nobel per la Pace dall’American Friends Service Committe. Nell’agosto del 2008 Halper ha partecipato alla spedizione per Gaza del “Free Gaza Movement”*. La spedizione era costituita da un gruppo internazionale di attivisti dei diritti umani, tra i quali l’italiano Vittorio Arrigoni, e ha raggiunto Gaza a bordo di un peschereccio partito da Cipro, rompendo così per la prima volta l’embargo marittimo imposto da Israele alla Striscia di Gaza.

In questi giorni Halper è in Italia per un giro di conferenze e per promuovere il suo libro “Ostacoli alla pace”, Edizioni “una città”. Il programma delle sue conferenze è consultabile su: http://www.unacitta.it/ .


I PALESTINESI, UN POPOLO DI TROPPO - INTERVISTA A JEFF HALPER (1)
a cura di Lorenzo Galbiati - traduzione di Daniela Filippin

Tu sei un cittadino dello “stato ebraico” di Israele, uno stato fortemente voluto nel Novecento dal movimento sionista e ottenuto dopo 50 anni di grande emigrazione degli ebrei europei nel 1948, sulla spinta della fine della Seconda guerra mondiale e del terribile crimine della Shoah. Che cos’è per te oggi, concretamente, il sionismo?

Halper: “Il sionismo fu un movimento nazionale che ebbe un senso in un determinato tempo e luogo. Mentre i popoli d’Europa cercavano un’identità come nazioni rivendicando i loro diritti all’autodeterminazione, allo stesso modo si comportavano gli ebrei, considerati all’epoca dalle nazioni d’Europa stesse un popolo separato. Tuttavia, due problemi trasformarono il sionismo in un movimento coloniale che oggi non può più essere sostenuto. Innanzitutto, il sionismo adottò una forma di nazionalismo tribale, influenzato dal pan-slavismo russo e dal pan-germanismo del centro Europa, culture dominanti nei territori dove la maggior parte degli ebrei vivevano in Europa, rivendicando la terra d’Israele fra il Mediterraneo e il fiume Giordano come fosse un diritto esclusivamente ebraico. Questo creò i presupposti per un inevitabile conflitto con i popoli indigeni, quelli della comunità araba palestinese, che ovviamente rivendicavano un proprio Paese dopo la partenza dei britannici. Se il sionismo avesse riconosciuto l’esistenza di un altro popolo nel territorio, “alloggiare” tutti in una sorta di stato bi-nazionale sarebbe stato ancora possibile. Ma pretendere la proprietà esclusiva, pretesa che anche oggi sussiste dai sionisti e da Israele, rende non fattibile uno stato “ebraico”. Il secondo problema fu che il paese non era disabitato. Una proprietà esclusiva del territorio avrebbe potuto funzionare se fosse stato completamente privo di abitanti. Ma visto che la popolazione palestinese esisteva ed era in effetti in maggioranza, cosa che sta avvenendo anche oggi, una realtà bi-nazionale esisteva già allora e doveva essere gestita come tale.”

Molti anni fa tu ti sei trasferito dagli USA in Israele: è stata una scelta dovuta a motivi contingenti, personali, o spinta da una motivazione ideologica?

Halper: “Sono cresciuto negli Stati Uniti negli anni ‘60. Sono sempre stato coinvolto nelle attività politiche della sinistra (o perlomeno la nuova sinistra): i movimenti per i diritti civili di Martin Luther King, il movimento contro la guerra in Vietnam ecc. Dunque, dopo il 1967 sono diventato critico dell’occupazione d’Israele (Israele non fu mai un argomento politico di grande rilievo prima di quel momento). Ma gli anni ‘60 furono anche un periodo in cui molti di noi cittadini americani bianchi di classe media rifiutavamo il materialismo americano e la conseguente superficialità della sua cultura, cercando significati più profondi attraverso la ricerca delle nostre radici etniche. Man mano che divenivo più distaccato dalla cultura americana, la mia identità di ebreo diventò centrale – ma in senso culturale e viscerale, non religioso. Ho viaggiato attraverso Israele nel 1966, mentre ero in transito per andare ad effettuare delle ricerche in Etiopia, e il paese mi “parlò”. Provai un senso di appartenenza che risultò soddisfacente alla mia ricerca di un’identità, pur restando conscio a livello politico dell’occupazione, a cui mi opponevo. Quando mi sono trasferito in Israele nel 1973, mi sono immediatamente unito ai movimenti pacifisti di sinistra.

Le mie vedute negli anni sono cambiate coi tempi e le circostanze. Ormai non sono più un sostenitore della soluzione dei due stati, visto che non ritengo che Israele sia realizzabile come stato “ebraico”, sostenendo al contrario la soluzione dello stato bi-nazionale. Però credo ancora che gli ebrei abbiano legittimamente diritto a un posto in Israele/Palestina, anche come entità nazionale. Non siamo stranieri in questa terra e non accetto la nozione che il sionismo sia semplicemente un movimento coloniale europeo (sebbene si sia effettivamente comportato come tale).”

In Europa, e segnatamente in Italia, sta passando l’equazione antisionismo uguale antisemitismo; infatti, il nostro presidente Napolitano durante la Giornata della Memoria del 2007 ha detto che va combattuta ogni forma di antisemitismo, anche quando si traveste da antisionismo, e qualche mese fa, il presidente della Camera Fini ha detto in tivù, di fronte all’accondiscendente presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, che oggi l’antisionismo è la nuova forma che ha assunto l’antisemitismo. Come spieghi questo fenomeno? Che significato ha a livello politico internazionale?

Halper: “Questo è il risultato di una campagna martellante da parte del governo israeliano per mettere a tacere qualsiasi critica contro Israele o le sue politiche. Diversi anni fa, in una riunione di strategia tenutasi al ministero degli affari esteri, un “nuovo antisemitismo” fu inventato, che sfruttava in modo conscio e deliberato l’antisemitismo per fini di pubbliche relazioni israeliane. Il “nuovo antisemitismo” affermava che ogni critica mossa contro Israele era anche antisemita. Tutto ciò non è solo falso e disonesto da un punto di vista politico, ma pericoloso per tutti gli ebrei del mondo. L’antisemitismo è effettivamente un problema che andrebbe combattuto assieme ad altre forme di razzismo. Definirlo solo in termini israeliani lascia altri ebrei della diaspora senza protezione. E’ quindi considerato accettabile essere antisemiti, vedi Fini e gli evangelisti americani come Pat Robertson, ad esempio, purché si è “pro-Israele”. Loro lo sono per vari motivi (principalmente perché Israele si è allineata con elementi destrorsi e fascisti ovunque nel mondo). Ma se sei critico di Israele come Paese, ed abbiamo tutti il diritto di esserlo, non sei antisemita però vieni condannato e zittito secondo la dottrina del “nuovo antisemitismo”. E’ conveniente per Israele ma pericoloso sia per gli ebrei della diaspora che per chiunque si batta a favore dei diritti umani e contro il razzismo.”

In Israele hai fondato l’Icahd, l’Israeli Committee Against House Demolitions, con il quale ti sei opposto, anche fisicamente, alla demolizione di molte case palestinesi, finendo più volte in carcere per questo. Come giudichi le politiche israeliane per l’assegnazione della terra e per i permessi edilizi? Credi si possa parlare di apartheid?

Halper: “I governi israeliani più recenti hanno tentato di istituzionalizzare un sistema di apartheid, basato su un “Bantustan” palestinese, prendendo a modello ciò che fu creato nell’era dell’apartheid in Sud Africa. Quest’ultima creò dieci territori non-autosufficienti, per la maggioranza abitati da neri, ricoprenti solo l’11% del territorio nazionale, in modo da dare al Sud Africa una manovalanza a buon mercato e contemporaneamente liberandola della sua popolazione nera, rendendo quindi possibile il dominio europeo “democratico”. Questo è esattamente ciò che intenderebbe fare Israele – il proprio “Bantustan” palestinese comprenderebbe solo il 15% del territorio della Palestina storica. In effetti, dai tempi di Barak come primo ministro, Israele ha proprio adottato il linguaggio dell’apartheid. Quindi il termine usato per definire la politica di Israele nei confronti dei palestinesi è hafrada, che in ebraico significa “separazione”, esattamente come lo fu in Afrikaans. Apartheid non è né uno slogan, né un sistema esclusivo del Sud Africa. La parola, come viene usata qui, descrive esattamente un regime che può aver avuto origine in Sud Africa, ma che può essere importato e adattato alla situazione locale. Alla sua radice, l’apartheid può essere definita avente due elementi: prima di tutto, una popolazione che viene separata dalle altre (il nome ufficiale del muro è “Barriera di Separazione”), poi la creazione di un regime che la domina definitivamente e istituzionalmente. Separazione e dominio: esattamente la concezione di Barak, Sharon e eventualmente, Olmert e Livni, per rinchiudere i palestinesi in cantoni poveri e non autosufficienti.

La versione israeliana dell’apartheid è tuttavia persino peggiore di quella sud africana. In Sud Africa i Bantustans erano concepiti come riserve di manodopera nera a buon mercato in un’economia sud africana bianca. Nella versione israeliana i lavoratori palestinesi sono persino esclusi dall’economia israeliana, e non hanno nemmeno un’economia autosufficiente propria. Il motivo è che Israele ha scoperto una manodopera a buon mercato tutta sua: all’incirca 300 000 lavoratori stranieri provenienti da Cina, Filippine, Thailandia, Romania e Africa occidentale, la pre-esistente popolazione araba in Israele, Mizrahi, etiope, russa e est europea. Israele può quindi permettersi di rinchiuderli là dentro persino mentre gli vengono negate una propria economia e legami liberi con i paesi arabi circostanti. Da ogni punto di vista, storicamente, culturalmente, politicamente ed economicamente, i palestinesi sono stati definiti un’umanità di troppo, superflua. Non gli resta che fare da popolazione di “stoccaggio”, condizione che la preoccupata comunità internazionale sembra continuare a permettere a Israele di attuare.

Tutto ciò porta oltre l’apartheid, a quello che può essere definito lo “stoccaggio” dei palestinesi, una della popolazioni mondiali “di troppo”, assieme ai poveri del mondo intero, i detenuti, gli immigrati clandestini, i dissidenti politici, e milioni di altri emarginati. “Stoccaggio” rappresenta il migliore, e anche il più triste dei termini per definire ciò che Israele sta creando per i palestinesi nei territori occupati. Siccome lo “stoccaggio” è un fenomeno globale e Israele è stato pioniere nel creare un modello di questo metodo, ciò che sta accadendo ai palestinesi dovrebbe essere affare di tutti. Potrebbe costituire una forma di crimine contro l’umanità completamente nuovo, e come tale essere soggetto a una giurisdizione universale delle corti del mondo come qualsiasi altra palese violazione dei diritti umani. In questo senso “l’occupazione” di Israele ha implicazioni che vanno ben oltre un conflitto locale fra due popoli. Se Israele può confezionare e esportare la sua articolata “matrice di controllo”, un sistema di repressione permanente che unisce una amministrazione kafkiana, leggi e pianificazioni con forme di controllo palesemente coercitive contro una precisa popolazione mantenuta entro i limiti di comunità murate con metodi ostili (insediamenti in questo caso), mura e ostacoli di vario tipo contro qualsiasi libero spostamento, allora, in questo caso, come scrive lucidamente Naomi Klein nel suo libro The Shock Doctrine, altri paesi guarderanno ad Israele/Palestina osservando che : “Un lato sembra Israele; l’altro lato sembra Gaza”. In altre parole, una Palestina Globale.”

Ti abbiamo visto in alcuni filmati descrivere la situazione di Gerusalemme est, spiegare quante e quali case palestinesi sono state distrutte: che cosa sta succedendo a Gerusalemme est? Si può parlare di pulizia etnica per Gerusalemme est, come fa Ilan Pappé?

Halper: “Concordo con Pappé nell’affermare che la pulizia etnica non stia avvenendo solo nella Gerusalemme est, ma anche nel resto dei territori occupati e in tutto Israele stesso. L’anno scorso il governo israeliano ha distrutto tre volte più case dentro Israele – appartenenti a cittadini israeliani che naturalmente, erano tutti palestinesi o beduini – rispetto al numero che ha distrutto nei territori occupati. L’ICAHD ha come scopo quello di resistere all’occupazione opponendosi alla politica di Israele di demolire le case dei palestinesi. Dal 1967 Israele ha distrutto più di 24 000 case palestinesi – praticamente tutte senza motivo o giustificazioni legate alla “sicurezza”, oltre ad aver dato decine di migliaia di ordini di demolizione, che possono essere messi in atto in qualsiasi momento.”

Israele negli ultimi 4 anni ha sostenuto due guerre di invasione sanguinarie, quelle contro il Libano e la Striscia di Gaza. Ha ricevuto da molte parti accuse di crimini di guerra, sia per il tipo di armi che ha usato sia per la volontà deliberata di colpire la popolazione e le strutture civili, impedendo in molti casi i soccorsi medici. Come spieghi l’apparente consenso di una grande maggioranza di cittadini israeliani nei confronti di queste guerre? Come spieghi l’adesione a queste soluzioni politiche da parte di intellettuali considerati “pacifisti” come Grossmann e Oz?

Halper: “In Israele, la popolazione ebraica è ben poco interessata sia all’occupazione che al più universale principio della pace. Sono entrambi non-argomenti in Israele (non credo che siano stati menzionati una sola volta durante la passata campagna elettorale). Gli ebrei israeliani stanno attualmente vivendo una vita piacevole e sicura, e Barak e gli altri leader sono riusciti a convincere la gente che non esiste soluzione politica, che agli arabi non interessa la pace (siamo bravissimi a dare la colpa ad altri per evitare le nostre responsabilità di grande potenza colonizzatrice degli ultimi 42 anni!). Finché tutto sarà tranquillo e l’economia andrà bene, nessuno vuole sapere nulla degli “arabi”. Credo che dobbiamo rinunciare a sperare di vedere il pubblico israeliano come elemento attivo del cambiamento verso la pace. La maggior parte degli israeliani non si intrometterebbero in una soluzione imposta se la comunità internazionale dovesse insistere nell’imporne una, ma non farebbero alcun passo significativo da soli in quella direzione. Alla stessa maniera dei bianchi in Sud Africa, che accettarono e in alcuni casi dettero il benvenuto alla fine dell’apartheid, e che al tempo stesso non sarebbero mai insorti contro di essa. Invece per quel che riguarda gli “intellettuali”, anche loro non vedono. E’ la dimostrazione che si può essere estremamente sensibili, intelligenti, ricettivi come Amos Oz e alcuni dei nostri professori, che tuttavia rimangono al sicuro nella loro “nicchia”.”

Tu da qualche anno sostieni che non è più praticabile sul campo la soluzione due nazioni due stati, poichè Israele ha ormai occupato con il Muro, le colonie e le strade gran parte della West Bank. Sostieni quindi la soluzione di uno stato laico binazionale. Oggi, dopo la carneficina di Gaza, e dopo le elezioni israeliane, è ancora immaginabile questa soluzione?

Halper: “Noi dell’ICAHD crediamo che la soluzione dei due stati sia irrealizzabile – a meno che si accetti una soluzione da apartheid, un mini-stato palestinese sovrano solo a metà sul 15% del territorio palestinese storico, spezzettato in ciò che Sharon chiama quattro o cinque “cantoni”. Non li vediamo né come fattibili né giusti o pratici, sebbene Israele li veda come una soluzione e stia spingendo in questa direzione al processo di Annapolis. Per noi la questione non è solo di creare uno stato palestinese, ma uno stato autosufficiente. Non solo questo minuscolo stato palestinese dovrà sopportare il ritorno dei rifugiati, ma un 60% di palestinesi sotto l’età di 18. Se emerge uno stato che non ha alcuna possibilità di offrire un futuro ai suoi giovani, una economia autosufficiente che può svilupparsi, rimane semplicemente uno stato-prigione, un super-Bantustan.
Credo che se non si materializzerà la soluzione dei due stati, e la soluzione per uno stato bi-nazionale (che io preferisco) verrà effettivamente impedita da Israele e la comunità internazionale, allora preferirei una confederazione economica medio orientale che comprenda Israele, Palestina, Giordania, Siria e Libano, nella quale tutti i residenti della confederazione abbiano la libertà di vivere e lavorare all’interno della stessa. Israele/Palestina è semplicemente un territorio troppo piccolo per poterci infilare tutte le soluzioni necessarie – la sicurezza, lo sviluppo economico, l’acqua, i rifugiati. E alla fine, quanto sarà grande lo stato palestinese sarà importante solo se verrà concepito come un’entità indipendente, economicamente autonoma. Se ai palestinesi sarà concessa la sovranità anche solo di un piccolo stato, più ristretto rispetto ai confini del ‘67, ma comunque avente l’intera confederazione per sviluppare la propria autonomia economica, credo che questo potrebbe rivelarsi lo scenario migliore. Ma questa è una proposta ambiziosa e campata in aria per il momento, e resta finora senza sostenitori (sebbene Sarkozy stia anche pensando in termini regionali). Quando si vedrà che la soluzione dei due stati è fallita, credo che allora la gente inizierà a cercare una nuova soluzione. E credo proprio che allora l’idea della confederazione risulterà sensata.”

Credi che esistano forze politiche parlamentari, in Israele, in grado di sostenere un accordo autentico con i Palestinesi, in vista di una pace e della creazione di uno stato palestinese?

Halper: “L’unico ostacolo a un’autentica soluzione dei due stati (cioè uno stato palestinese disteso su tutti i territori occupati, con pochissime modifiche agli attuali confini) è nella volontà di Israele di permettere che avvenga. Giudicando dai fatti che si vedono sul terreno, la costruzione di nuovi insediamenti in particolare, nessun governo israeliano, né di destra né tanto meno di sinistra o centro, ha mai veramente considerato la soluzione dello stato palestinese come fattibile. Per rendere le cose ancora più difficili, se un simile governo dovesse mai emergere (e non ve n’è uno in vista), non avrebbe alcun mandato, alcuna autorità per evacuare gli insediamenti e “rinunciare” ai Territori Occupati Palestinesi considerato l’estrema frammentazione del sistema politico israeliano.

Semplicemente, fra i partiti politici non vi è alcuna unità d’intenti per concordare veramente una soluzione di pace e di due stati. Ecco perché, se la comunità internazionale dovesse forzare Israele a ritirarsi per una vera pace, il pubblico israeliano la sosterrebbe. Israele non è destrorso quanto la gente immagina. Ho quindi una formula per la pace: Obama, l’ONU o la comunità internazionale dovranno dire a Israele: 1) Vi amiamo (gli israeliani se lo devono sentir dire); 2) Garantiremo la vostra sicurezza (QUESTA è la preoccupazione maggiore del pubblico israeliano); 3) ora che è finita l’occupazione, sarete fuori da ogni centimetro cubo dei Territori Occupati Palestinesi entro i prossimi 2-3-4 anni (e noi, la comunità internazionale, pagheremo per il dislocamento).

Credo che ci sarebbe gente a ballare per le strade di Tel Aviv se tutto ciò avvenisse. Questo è esattamente ciò che vorrebbero gli israeliani, ma non possono sperarci, visto il nostro sistema politico. E’ altamente improbabile che ciò avvenga.”

Che giudizio dai all’azione politica dei dirigenti palestinesi di Fatah ed Hamas dalla morte di Arafat a tutt’oggi?

Halper: “Ovviamente l’andamento della leadership palestinese è altamente problematico. Dobbiamo ricordare, tuttavia, che negli ultimi 40 anni Israele ha sostenuto una sistematica campagna di omicidi, esili e incarcerazioni dei capi di governo palestinesi, quindi la leadership attuale è mutilata (si potrebbe essere ingenerosi e, alla luce delle campagne condotte dall’autorità palestinese contro la sua stessa gente, affermare che l’attuale leadership di Fatah sia ancora viva e funzionante perché Israele sa bene chi deve eliminare e chi risparmiare).

Una delle mie maggiori critiche rivolte all’attuale leadership di Fatah riguarda la sua inefficacia nel veicolare la causa palestinese all’estero. Nonostante un cambiamento dell’opinione pubblica ormai più a favore dei palestinesi, soprattutto dopo l’invasione di Gaza, la leadership non ha saputo sfruttare il momento propizio per inviare i propri portavoce presso le popolazioni ed i governi del mondo (in effetti, nell’ultimo anno, incluso il cruciale periodo della transizione verso l’amministrazione Obama, non vi è stato un solo rappresentante palestinese a Washington – e i rappresentanti palestinesi all’estero, con qualche rara eccezione, sono generalmente inefficaci). Al contrario di Israele, pare che la leadership palestinese si sia quasi ritirata dal gioco politico.

In questo vuoto lasciato da Fatah, Hamas è giunto sulla scena come il “salvatore”, la forza/partito/leadership che resisterà ad Israele, resisterà alla “soluzione” dell’apartheid, manterrà l’integrità palestinese e combatterà la corruzione. Mentre la sua ideologia religiosa ed il suo programma dovrebbero essere considerati inaccettabili per qualsiasi persona minimamente progressista, si dovrebbe perlomeno ammirare la resistenza di Hamas e ammettere che stia effettivamente controbilanciando ciò che è stata percepita come la collaborazione di Fatah con Israele.”

Credi che se la classe politica palestinese usasse dei metodi di lotta nonviolenta, quali il digiuno pubblico, e se convincesse la popolazione palestinese israeliana o che lavora in Israele a forme di sciopero generalizzato potrebbe ottenere dei risultati concreti?

Halper: “I metodi non-violenti sarebbero potuti essere efficaci. Se la leadership palestinese fosse più portata alla strategia, potrebbe usare a proprio vantaggio metodi non-violenti, come il movimento BDS (Boicottaggio/Disinvestimento/Sanzioni) e altre campagne analoghe con gruppi di pressione efficaci. Ma non lo fanno.”

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17 settembre 2009

Due appuntamenti da segnalare.

Rompiamo l'assedio ai diritti dei Palestinesi.

La Lista Civica Nazionale Per il Bene Comune organizza Venerdì' 18 settembre, alle ore 21, a TORINO presso il centro DAR AL-HIKMA di via Fiochetto 15,

ROMPIAMO L'ASSEDIO ai diritti dei palestinesi

ore 21:
Proiezione video realizzato durante la Carovana della Speranza entrata in Gaza nel mese di maggio '09.
Collegamento con la città assediata di Gaza, da cui parleranno Vittorio Arrigoni della Ong I.S.M. ed il Ministro Osama Al-Esawi.

ore 22:
Interventi di
Elvio Arancio, coordinamento PBC;
Gianni Flamini, scrittore e giornalista;
Mohammad Hannoun, Presidente dell'Associazione Palestinesi in Italia;
Gerry MacLochlainn, del Sinn Fèin, vice capo della carovana europea;
sen. Franco Turigliatto, di Sinistra Critica;
Presiede Monia Benini, Presidente PBC

Ospiti d'onore i componenti della delegazione italiana che ha partecipato alla Carovana della Speranza per Gaza.
Sarà in distribuzione un DVD con il filmato sulla Carovana e il materiale documentario che verrà utilizzato da un comitato internazionale di giuristi per portare il governo e l'esercito israeliani di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia.
Il conflitto israelo-palestinese e i cambiamenti nella politica mondiale.

Due esponenti del movimento pacifista israeliano parleranno dei recenti attacchi a Gaza, del rischio di un nuovo sistema di apartheid e della campagna Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

JEFF HALPER, Direttore del Comitato israeliano contro la demolizione di case (ICHAD), autore del libro "Ostacoli alla pace"

SHOSHANA HALPER, Attivista Donne in nero Israele, Machsom Watch

22 settembre 2009 ore 18.00 Roma, Sala Luigi Pintor, via Scalo di S. Lorenzo, 67

CONFERENZA STAMPA
21.09.2009 ore 11.30, Fondazione Basso, via Dogana Vecchia, 5
Promosso da Action for Peace

Jeff Halper è in Italia per un tour nazionale promosso da Una città per presentare il suo libro "Ostacoli alla pace". www.unacitta.it

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15 settembre 2009

Nelle galere israeliane c'è sempre posto per i ragazzi palestinesi!

Sono passato da una vita normale a casa ad una fatta di manette, privazione del sonno, urla, minacce, cicli di interrogatori e gravi accuse. In queste circostanze, la vita diventa cupa, piena di paura e di pessimismo, giorni così duri che le parole non possono descriverli (testimonianza di Mahmoud D., 17 anni).

Secondo gli ultimi dati forniti dalla sezione palestinese di Defence for Children International, il numero dei Palestinesi minori di 18 anni detenuti all’interno delle prigioni dell’Israeli Prison Service (IPS) o nelle strutture di detenzione dell’esercito israeliano – all’interno di Israele e nei Territori occupati – nel mese di agosto è stato pari a 339.

Resta dunque ancora alto, nel corso del 2009, il numero dei giovani palestinesi incarcerati nelle galere israeliane, con una media di 375 detenuti per mese che, rispetto al 2008, fa segnare un aumento di ben 56 unità (+ 17,5%).

Il dato che più preoccupa e disturba, tuttavia, consiste nel fatto che ben 39 degli adolescenti che languono nelle carceri di Israele sono di età compresa tra i 12 e i 15 anni, con un aumento dell’85% rispetto allo stesso dato fatto registrare nel 2008.

Israele risulta tra le nazioni firmatarie della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 1989, che all’articolo 37 prevede che nessun fanciullo possa essere privato della libertà in maniera illegale o arbitraria e testualmente recita: “l’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”.

Niente di ciò viene rispettato da Israele.

Le retate e gli arresti di Palestinesi minorenni costituiscono una routine per i lanzichenecchi di Tsahal, e vengono condotti in maniera brutale e spietata. Ragazzini indifesi vengono tirati giù dal letto alle prime ore dell’alba, buttati dentro un veicolo militare bendati e ammanettati, portati via senza alcuna indicazione alle famiglie su dove siano portati e per quali accuse siano stati arrestati.

Durante gli “interrogatori”, a questi ragazzini – a volte solo dodicenni – viene negato il permesso di vedere un avvocato o di ricevere visite dalle famiglie. Questi “interrogatori”, in realtà, confinano assai da vicino con la tortura e si avvalgono anche di tecniche proibite quali l’uso eccessivo di manette e bende sugli occhi, l’uso di calci e schiaffi, il mantenere a lungo posizioni dolorose, l’isolamento e la privazione del sonno.

Con queste gentilezze, la maggior parte dei ragazzini cedono e firmano confessioni scritte in ebraico, lingua che conoscono poco o per nulla. Gli “interrogatori” non sono mai videoregistrati, come prevede invece la legge israeliana per i propri cittadini.

Tutto questo per non parlare di quell’assoluta mostruosità giuridica che è la cd. “detenzione amministrativa”, una detenzione che avviene senza accusa o processo, ed è spesso basata su qualche soffiata o invenzione prezzolata proveniente dagli scantinati dei servizi segreti israeliani. La detenzione amministrativa può durare fino a sei mesi, ma questo iniziale periodo può essere prorogato per ulteriori sei mesi indefinitamente.

Sei mesi, e poi sei mesi, e chissà quanto tempo ancora, con una chiara e stupefacente violazione di diritti basilari quali quello di essere portati a conoscenza delle accuse che vengono rivolte, ad un giusto processo, a controbattere e a confutare i motivi della detenzione.

Due casi per tutti, e solo tra i più recenti.

Hamdi al-Ta’mari è stato arrestato per la prima volta il 25 luglio 2008, prelevato alle quattro del mattino dai soldati israeliani nella sua casa di Betlemme. Liberato il 13 novembre 2008 e successivamente arrestato di nuovo dopo un mese, Hamdi è attualmente al suo quarto ordine di detenzione amministrativa, confermato da una corte militare israeliana il 20 agosto di quest’anno. Durante un interrogatorio svoltosi nel dicembre 2008, Hamdi è stato accusato di appartenere ad un’organizzazione vietata, e tuttavia non è stato incriminato per alcun reato, non ha subito alcun processo, né alcuna prova a supporto di tale allegata appartenenza è stata mostrata ad Hamdi o al suo avvocato. Hamdi, al momento del suo primo arresto, aveva solo 15 anni.

Il 14 agosto, Rami Shilbayieh ha ricevuto il suo terzo ordine di detenzione amministrativa, successivamente confermato lo scorso 2 settembre. Quando è stato arrestato ed è stato emesso il primo ordine di detenzione amministrativa, Rami aveva 17 anni, e adesso si trova in carcere – senza alcuna accusa e senza aver subito alcun processo – dal 15 dicembre del 2008.

Una volta pronunciata la sentenza – o emesso l’ordine di detenzione – la stragrande maggioranza dei ragazzi palestinesi viene detenuta all’interno del territorio israeliano, in palese violazione della IV Convenzione di Ginevra. Molti bambini non ricevono visite dai loro familiari, ed è garantita loro un’istruzione molto limitata in due sole delle cinque strutture utilizzate per la detenzione dei minori palestinesi.

I maltrattamenti e le torture nei confronti dei ragazzini e degli adolescenti palestinesi sono istituzionalizzati e si svolgono in un clima di totale impunità. Tra il 2001 e il 2008, oltre 600 denunce sono state presentate in relazione ai pestaggi e alle torture praticate durante gli interrogatori della Israeli Security Agency (ISA) ma, ad oggi, nessun indagine è stata condotta su questi fatti.

E’ sempre fonte di stupore, per me, il considerare come Israele possa tranquillamente violare leggi, convenzioni e trattati internazionali senza che alcuno abbia niente da ridire. Eppure qui siamo in presenza di gravi e reiterate violazioni della IV Convenzione di Ginevra, della Convenzione Onu contro la tortura, della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo.

Ma gli ebrei d’Israele, in quanto popolo eletto, sono evidentemente al di sopra di ogni legge terrena.

Un soldato mi puntava contro il fucile. La canna del fucile era a pochi centimetri dal mio viso. Ero così terrorizzato che cominciai a tremare. Egli si prese gioco di me e disse: ‘stai tremando? Dimmi dov’è la pistola prima che ti spari’! (testimonianza di Ezzat H., 10 anni).

Ecco come si comporta il più valoroso e “morale” esercito al mondo, orgoglio di questo “faro di civiltà” che – piuttosto che la luce – sa diffondere solo la tenebra dell’odio, della brutalità e dell’insensata violenza.

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9 settembre 2009

La crisi dell'acqua a Gaza.

Lo scorso tre settembre, il Coordinatore Umanitario dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, Maxwell Gaylard, insieme a varie ong umanitarie che operano nel settore dello sviluppo, ha lanciato l’ennesimo appello per porre fine al blocco immorale e criminale che Israele ha imposto ad un milione e mezzo di Palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza a partire dal giugno del 2007.

Tra le altre terribili conseguenze che questo assedio comporta per gli abitanti di Gaza, infatti, vi è anche il quasi totale collasso del sistema idrico e igienico-sanitario di Gaza, con gran parte della popolazione che non riesce ad avere accesso all’acqua corrente in maniera continuativa (alcuni non ne hanno affatto) e con il sistema di trattamento delle acque reflue del tutto insufficiente a impedire che si riversino in mare enormi quantitativi di liquami non trattati o trattati solo parzialmente, con grave danno non solo per la salute della popolazione ma per l’ambiente in generale.

Vi è, da una parte, un
pericolo immediato di malattie ed epidemie, dovuto alla contaminazione della falda acquifera e dalla mancanza di pompe per la clorazione e dei pezzi di ricambio necessari agli impianti di purificazione e disinfezione.

Ma anche laddove l’acqua riesce ad essere purificata ed è, quindi, priva di batteri, essa risulta contenere alti livelli di cloruri, nitrati e altri contaminanti. Complessivamente, solo il 5-10% dell’acqua estratta dalla falda acquifera può considerarsi potabile secondo gli standard raccomandati dal WHO. Nel governatorato di Khan Younis, ad esempio, il livello medio di nitrati rilevato nel 2008 era tre volte maggiore dello standard WHO (169 rispetto a 50 mg/l.). Non è ozioso ricordare che alte concentrazioni di nitrati, tra le altre conseguenze, possono comportare la cd. sindrome “blue baby”, i neonati che vengono alla luce in condizioni cianotiche (cfr. OCHA, The Humanitarian Monitor – luglio 2009).

Ancora una volta, dunque, chi opera sul campo segnala i pericoli derivanti dal prolungarsi del criminale assedio israeliano della Striscia di Gaza, la negazione della dignità umana inflitta ai suoi abitanti, il venir meno di diritti fondamentali quali quelli alla salute, al libero e sicuro accesso all’acqua, ad un adeguato standard di vita.

Ma nessuno pare interessarsi alle sorti di un milione e mezzo di Palestinesi, a cui uno Stato canaglia e criminale nega ogni diritto fondamentale e financo lo status e la dignità di esseri umani.

Comunicato stampa
Le organizzazioni umanitarie profondamente preoccupate per la crisi idrica e igienica in atto a Gaza; Chiedono l’immediata apertura dei valichi di Gaza.

Il Coordinatore Umanitario delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati, Maxwell Gaylard, insieme con la Association for International Development Agencies (AIDA), ha lanciato oggi un appello per un accesso totale e senza restrizioni per i pezzi di ricambio ed i materiali assolutamente necessari per ripristinare i servizi idrici e igienici di Gaza.

“Il deterioramento e il collasso degli impianti idrici e fognari di Gaza sta accentuando una già severa e prolungata negazione della dignità umana nella Striscia di Gaza” ha affermato Gaylard. “Al cuore di questa crisi vi è il crollo degli standard di vita della popolazione di Gaza, caratterizzato dalla diminuzione dei mezzi di sussistenza, dalla distruzione e dal degrado delle infrastrutture essenziali, e da una accentuata contrazione nella fornitura e nella qualità di servizi vitali nel campo della salute, dell’acqua, dei servizi igienici” ha aggiunto Gaylard.

Secondo la legislazione sui diritti umani, ogni persona ha il diritto ad un adeguato standard di vita e ai più alti livelli ottenibili di servizi sanitari. Entrambi questi diritti includono l’accesso a sufficienti quantitativi di acqua non dannosa, raggiungibile ed accessibile, al pari di idonei servizi e strutture igienico-sanitari.

In conseguenza della chiusura dei valichi di Gaza imposta da Israele a partire dal giugno del 2007, è stato vietato l’ingresso a Gaza dell’attrezzatura e delle forniture necessarie alla costruzione, alla manutenzione e al funzionamento degli impianti idrici e fognari, portando ad un graduale deterioramento di questi servizi essenziali. Le distruzioni causate durante l’offensiva militare israeliana nel 2008/2009 hanno aggravato una situazione già critica, lasciando alcuni servizi ed impianti sull’orlo del collasso. Sebbene da allora sia stata permessa l’entrata di alcuni materiali essenziali per la costruzione e le riparazioni, questo non è neanche lontanamente sufficiente a restituire alla popolazione di Gaza un sistema idrico e fognario pienamente funzionante.

Attualmente a Gaza circa 10.000 persone sono prive di allaccio alla rete idrica e un ulteriore 60% della popolazione non ha accesso all’acqua corrente in maniera continuativa. A partire dal gennaio 2008, inoltre, a causa dei danni agli impianti di trattamento dei liquami, dell’insufficienza della capacità di trattamento dovuta al rinvio dei progetti di ammodernamento degli impianti, e della grave carenza di combustibile e di energia elettrica necessari alla loro operatività, ogni giorno vengono scaricati nel Mediterraneo dai 50 agli 80 milioni di litri di acque reflue non trattate o trattate solo parzialmente.

Il Coordinatore Umanitario delle Nazioni Unite e le Organizzazioni Non Governative lanciano un appello al Governo di Israele affinché adotti immediatamente le misure necessarie per assicurare l’ingresso a Gaza dei materiali per la costruzione e la riparazione necessari per rispondere alla crisi idrica e igienica in atto nella Striscia di Gaza. “Senza affrontare gli immediati bisogni essenziali della popolazione e senza facilitare lo sviluppo e la gestione a più lungo termine del degradato settore idrico e fognario, la salute pubblica e più in generale l’ambiente rimarranno significativamente a rischio. L’inquinamento non conosce frontiere o barriere, e le popolazioni di tutta la regione sono minacciate dalle deficienze del sistema idrico e fognario di Gaza”, ha ricordato Gaylard.

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8 settembre 2009

Palestina, tre conferenze da non perdere.

CON LA TERRA SANTA NEL CUORE

TRE CONFERENZE DI TESTIMONIANZA:
a Torino - Roma - Palermo,
il 19, 24 e 26 settembre 2009


I RACCONTI DELLE “PIETRE VIVE” DI TERRA SANTA, LE COMUNITÀ A RISCHIO D’ESTINZIONE, TESTIMONIANZE DIRETTE - RESOCONTI FOTOGRAFICI - VIDEO FILMATI ORIGINALI SENZA CENSURE E BAVAGLI

“LA VERITÀ VI RENDERÀ LIBERI”

"Alleanza per la Terra Santa Libera", in collaborazione con i diversi circoli, istituti e associazioni di seguito citati, che hanno voluto dare il loro contributo alla riuscita di queste serate, è lieta di invitarvi alle conferenze di Torino, Roma e Palermo, le quali sono anche l'occasione per il nostro amico Fadi Shirak, che ha dovuto passare più volte le forche caudine sioniste per raggiungerci, di conoscere la nostra bella Italia e gli amici italiani che vorranno ascoltare le sue storie di ordinaria ingiustizia ai danni di un popolo intero. Filippo Fortunato Pilato, responsabile organizzativo, lo accompagnerà e introdurrà.

Video e foto saranno proiettati. Diversi testi sull'argomento verranno presentati e venduti direttamente nelle rispettive sale.

Non fate mancare la vostra calorosa presenza, perchè Fadi, fra tre settimane, se ne dovrà tornare nella "galera Palestina", da suo figlio.

DI SEGUITO I DETTAGLI DELLE CONFERENZE, CITTA' PER CITTA'

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A TORINO : SABATO 19 SETTEMBRE - ORE 20,30
Presso il “Centro Educativo della Provvidenza”
Sala della Biblioteca - C.so Trento 13

RELATORI:

UNA GUIDA ARABO-CATTOLICA DI TERRA SANTA
Fadi Shirak

UN SACERDOTE, STORICO ED ESPERTO DI TEOLOGIA E POLITICA DI TERRA SANTA
Don Curzio Nitoglia

UN ORGANIZZATORE DI PELLEGRINAGGI E SUPPORTO ALLE PIETRE VIVE DI T.S.
Filippo Fortunato Pilato

UNA GIORNALISTA ITALIANA TESTIMONE
Angela Lano

UN CORRISPONDENTE DAL LIBANO
Dagoberto Huseyn Bellucci

IL MODERATORE
Alessio Margaroli

Organizzazione a cura di:Alleanza per la Terra Santa Libera

con la partecipazione di: InfoPal.it

per informazioni : aid@terrasantalibera.org

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A ROMA : GIOVEDI’ 24 SETTEMBRE - ORE 19
Presso l’aula magna della Chiesa Americana
Via Napoli 58 (angolo via Nazionale) - Roma

RELATORI:

UNA GUIDA ARABO-CATTOLICA DI TERRA SANTA
Fadi Shirak

UN SACERDOTE, STORICO ED ESPERTO DI TEOLOGIA E POLITICA DI TERRA SANTA
Don Curzio Nitoglia

UN ORGANIZZATORE DI PELLEGRINAGGI E SUPPORTO ALLE PIETRE VIVE DI T.S.
Filippo Fortunato Pilato

Organizzazione a cura di: Alleanza per la Terra Santa Libera

in collaborazione con: Circolo di Ordine Futuro-Roma

per informazioni : aid@terrasantalibera.org

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A PALERMO : SABATO 26 SETTEMBRE, ORE 18:30
AULA MAGNA "ISTITUTO PLATONE"
( VIA S. BONO, 31 – TRAVERSA VIA SAMPOLO )
Info: 331 2455423

RELATORI:

UNA GUIDA ARABO-CATTOLICA DI TERRA SANTA
Fadi Shirak

UN ORGANIZZATORE DI PELLEGRINAGGI E SUPPORTO ALLE PIETRE VIVE DI T.S.
Filippo Fortunato Pilato

Organizzazione a cura di: Alleanza per la Terra Santa Libera

in collaborazione con: Circolo di Ordine Futuro-Palermo

in collaborazione con: Istituto Carlo Magno

per informazioni : aid@terrasantalibera.org

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Visita http://www.gerusalemmeterrasanta.org/ per ulteriori informazioni, aggiornamenti, notizie, video, libri, mercatino d'artigianato palestinese, per sostenere le pietre vive di Terra Santa, per superare i muri, per testimoniare, per non poter dire " ...io non sapevo...". Carità e Verità non possono essere separate.

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1 settembre 2009

Perbacco, ai bambini di Gaza non insegnano la Shoah!

Dunque la notizia più importante che riguarda le istituzioni scolastiche nella Striscia di Gaza – almeno secondo il sito internet di rainews24 – è che “i circa 200.000 bambini istruiti nelle scuole dell’Onu nella Striscia di Gaza continueranno a non saper nulla dell’Olocausto”, e questo perché nel libro di testo adottato dall’UNRWA (l’Agenzia Onu che si occupa dei rifugiati) non vi è alcuna menzione di questa tragedia.

Si potrebbe qui ricordare che – in maniera speculare – nei libri di testo israeliani non si fa alcun cenno alla nakba, l’espulsione di 750.000 nativi palestinesi dalle loro terre e la distruzione di centinaia di villaggi che hanno preceduto ed accompagnato la nascita dello Stato di Israele, così ben raccontata dall’ultimo saggio dello storico israeliano Ilan Pappe (“La pulizia etnica della Palestina", ed. Fazi).

Ma questa sarebbe un’osservazione invero miserevole, perché in realtà è una vergogna che i bambini palestinesi non sappiano nulla della Shoah. Se conoscessero meglio la storia del popolo ebraico, le sue millenarie sofferenze, la morte di milioni di ebrei nei campi di sterminio nazisti, certamente sarebbero più umani e comprensivi nei confronti degli ebrei d’Israele, e accetterebbero di buon grado le dure conseguenze che devono patire a causa del criminale assedio imposto da questo Stato canaglia alla Striscia di Gaza.

I bambini palestinesi, peraltro, sarebbero avvantaggiati nello studio storico della persecuzione degli ebrei da parte della Germania nazista, dato che possono provare sulla propria pelle, nella realtà con cui devono quotidianamente confrontarsi, quello che era il trattamento riservato agli ebrei del ghetto di Varsavia.

Resterebbe, certo, da spiegare a questi bambini perché mai devono essere loro a pagare, insieme alle loro famiglie, per la tragedia del popolo ebraico e per i sensi di colpa di noi europei, ma questo è solo un dettaglio.

Più interessante sarebbe capire perché mai un’informazione imbelle e asservita dia conto di queste notizie, dimenticando di informare la pubblica opinione sullo stato disastroso in cui versa il sistema educativo palestinese a Gaza.

Eppure poco più di un mese fa, esattamente il 28 luglio, l’Onu e le Agenzie internazionali che operano nella Striscia di Gaza avevano pubblicato un appello per l’immediata riapertura delle frontiere di Gaza e la fine dell’assedio israeliano, anche al fine di risanare il sistema educativo di Gaza.

Secondo l’Onu, “durante i 23 giorni dell’operazione militare israeliana “Piombo Fuso” a Gaza, 18 scuole sono state completamente distrutte e almeno 280 sono state danneggiate. Oggi, ad un mese dall’inizio del nuovo anno scolastico, e a più di sei mesi dal cessate il fuoco, nessuna di queste scuole è stata propriamente ricostruita o ripristinata, a causa della mancanza di materiali da costruzione . Dall’imposizione del blocco, gli studenti hanno dovuto affrontare la cronica mancanza di supporti educativi quali libri di testo, carta, divise…”.

“Il blocco ha causato sofferenze indicibili ai bambini di Gaza, che affrontano un altro anno scolastico in condizioni terribili” ha detto Philippe Lazzarini, facente funzioni di Coordinatore umanitario nei Territori occupati.

Prima di assicurarsi che gli studenti palestinesi a Gaza studino l’Olocausto, forse bisognerebbe far sì che abbiano le scuole in cui studiare, i libri di testo da leggere e la carta per scrivere, e le uniformi da indossare.

Forse, prima, bisognerebbe costringere Israele a togliere un blocco infame e vergognoso imposto a un milione e mezzo di Palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, un crimine umanitario inaudito che grida vendetta e che incredibilmente viene tollerato dalla comunità internazionale.

Poi magari ci andrò io stesso a insegnare la Shoah ai bambini di Gaza.

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