30 aprile 2010

Se manifesti ti uccido!

Il filmato qui sopra mostra l’ennesimo crimine compiuto dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza: un giovane palestinese disarmato, che partecipava ad una manifestazione di protesta, colpito a morte dai cecchini israeliani la mattina del 28 aprile scorso.

Ahmad Sliman Salem Dib, un giovane di soli 19 anni, la mattina del 28 aprile stava partecipando ad una manifestazione di protesta contro la “zona della morte”, una zona cuscinetto profonda fino ad un chilometro che Israele ha arbitrariamente imposto lungo il confine all’interno della Striscia di Gaza, dove i residenti non possono entrare pena il rischio, appunto, di essere uccisi dalla soldataglia israeliana.

Il video, girato da un collaboratore dell’ong B’tselem, mostra inizialmente un gruppo di Palestinesi e di attivisti internazionali che si recano in corteo dal quartiere al-Shaja’iya, nella zona orientale di Gaza, fino alla barriera di confine con Israele.

I giovani, del tutto disarmati, dopo essere giunti ad una distanza di qualche decina di metri dal confine, si sono fermati fronteggiando una postazione dell’esercito israeliano, ed alcuni di essi si sono messi a lanciare delle pietre. Ad un certo punto si sente un solo colpo, è quello che costa la vita al povero Ahmad.

Il giovane, ferito, è stato subito trasportato all’ospedale Shifaa di Gaza City, dove però è spirato durante la giornata. Da rilevare che un altro colpo di fucile era stato sparato una decina di minuti prima senza colpire nessuno, ma non è stato colto dalle riprese video.

Il filmato mostra chiaramente il carattere menzognero (more solito) delle successive dichiarazioni del portavoce dell’esercito israeliano il quale, dopo l’assassinio del giovane, ha affermato che “i soldati hanno agito in modo da allontanare i dimostranti e hanno sparato con l’obiettivo di allontanarli. L’area nei pressi della recinzione di confine è una zona di combattimento e la presenza in quel luogo di elementi terroristici mette in pericolo gli abitanti di Israele e le forze di sicurezza che operano nell’area”.

Ma sparare colpi d’arma da fuoco per “allontanare i dimostranti” è illegale. Il video mostra chiaramente che i manifestanti non rappresentavano in alcun modo una minaccia per Israele, i suoi abitanti e gli assassini in divisa.

B’tselem in svariate occasioni ha documentato i numerosi “incidenti” in cui le forze di sicurezza israeliane hanno utilizzato mezzi letali contro Palestinesi che tiravano pietre e contro dimostranti disarmati nella West Bank. Dal maggio 2008 ad oggi, almeno 8 Palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani nel corso di simili manifestazioni di protesta, alcuni centrati da colpi d’arma da fuoco, altri colpiti da pallottole rivestite di gomma o da candelotti lacrimogeni sparati contro di loro ad altezza d’uomo e da distanza non consentita.

In questi ultimi anni, Israele ha imposto che l’area della Striscia di Gaza prossima al confine costituisca una vera e propria “zona della morte”, in cui ai soldati è consentito di sparare a vista contro chiunque, anche se – come in questo caso – non rappresenta alcuna minaccia per la sicurezza degli abitanti di Israele o dei soldati.

Questa zona – profonda fino ad un chilometro – impedisce agli agricoltori di Gaza di utilizzare circa il 10% dei terreni coltivabili di Gaza, con profonde ripercussioni sul già misero tenore di vita dei residenti della Striscia. In aggiunta, in diverse occasioni civili palestinesi sono stati feriti o arrestati in quell’area mentre cercavano di recuperare rottami da rivendere.

Queste assurde ed arbitrarie restrizioni hanno portato i Palestinesi e gli attivisti internazionali ad organizzare numerose marce di protesta, nel corso di una delle quali – svoltasi il 24 aprile – i soldati israeliani hanno ferito tre Palestinesi ed una attivista dell’International Solidarity Movement, la 28enne Bianca Zimmit.

Nel corso di questa settimana, l’esercito israeliano ha ufficialmente dichiarato che questa zona cuscinetto rappresenta una “combat zone”. Non è stato subito chiaro quali fossero le implicazioni operative di tale dichiarazione, adesso lo è.

Il nostro amico Vittorio Arrigoni (alias guerrillaradio) – eroico testimone a Gaza dei crimini israeliani – ha scritto sul suo blog: “continueremo a uscire con i civili resistenti-non violenti di Gaza, perchè anche senza di noi, loro continuerebbero a uscire lo stesso. E siamo ancora certi che la nostra presenza in loco qualcosa faccia. O almeno, ne sono convinti i palestinesi che richiedono la nostra presenza. Inshallah.
Siamo tutti pronti a morire per questo ideale stupendo che è la libertà di un popolo oppresso.
Ma ovviamente, nessuno di noi è pronto a morire…
Si marcia per la libertà e ormai è come camminare davanti ad un plotone di esecuzione assetato del nostro sangue”.

Dall’inizio dell’anno, Ahmad è il diciassettesimo Palestinese ad essere ucciso dagli assassini israeliani in divisa, mentre i feriti ammontano a oltre 70.

Questi morti e questi feriti hanno trovato poco spazio sui mezzi d’informazione italiani, nessuno spazio ha trovato l’assassinio a sangue freddo del giovane Ahmad, mio fratello che non c’è più.

E lo sconforto e la rabbia si rivolgono in parti uguali verso i suoi assassini vili e senza onore, e verso il giornalismo cialtrone e opportunista di casa nostra.

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28 aprile 2010

Israele non deve entrare nell'Ocse!

Abbiamo più volte sottolineato come sia indispensabile, e ormai indifferibile, esercitare una decisa e forte pressione internazionale per costringere lo Stato israeliano a compiere finalmente i passi necessari per arrivare ad un accordo di pace con i Palestinesi, primi fra tutti la fine dell’assedio a Gaza e la smobilitazione degli insediamenti colonici. Ciò, del resto, è auspicato anche dall’ “appello alla ragione” pubblicato l’altro ieri su le Monde da un gruppo di intellettuali ebrei che vivono in Europa.

E, del resto, risulta davvero inaudito che la comunità internazionale non abbia ancora provveduto ad isolare politicamente ed economicamente uno Stato come quello israeliano, che ha un triste record negativo nella violazione del diritto internazionale e dei diritti umani e nel compimento di efferati crimini di guerra.

In quest’ottica, il sito web degli “Ebrei contro l’occupazione” ci ricorda l’importante appuntamento in cui, nel prossimo mese di maggio, si dovrà decidere circa l’ammissione di Israele all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (
OCSE). Una prima riunione si svolgerà l’11 maggio, mentre il voto finale avverrà durante il Consiglio dell’OCSE, presieduto dal ministro Franco Frattini, il 28 e 29 maggio.

In Europa e in tutto il mondo è in corso una campagna volta a bloccare l’ingresso di Israele nell’organismo, e, a tal fine, basta il solo voto negativo di uno dei Paesi membri. Qui sono allegate cinque lettere in inglese da inviare via email ai rappresentanti delle nazioni più propense a votare no (Messico, Turchia, Irlanda, Svizzera e Portogallo), la sesta – da indirizzare ai ministri Tremonti e Frattini e all’ambasciatore italiano presso l’OCSE – è quella che segue.

Facciamo sentire la nostra voce!

gabinetto@esteri.it, affari.economici@cert.esteri.it, ufficio.stampa@tesoro.it, antonio.armellini@esteri.it, segreteria.ocse@esteri.it

ATT.NE:
On. Franco FRATTINI, Ministro degli Affari Esteri
On. Giulio TREMONTI, Ministro dell'Economia e delle Finanze
Amb. Antonio ARMELLINI, Rappresentante Permanente presso l'OCSE

Oggetto: Adesione di Israele all’OCSE

L'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE) prevede di riunirsi nel mese di maggio 2010 al fine di prendere una decisione formale sulla candidatura di Israele come stato membro dell'Organizzazione. Un voto per l'adesione di Israele all'OCSE sarà considerato dalla gente di coscienza in tutto il mondo come un atto di complicità decisivo e di vasta portata nel premiare e perpetuare l'occupazione, la colonizzazione e l'apartheid israeliana contro il popolo palestinese. Inoltre, comprometterà irrimediabilmente lo stato di diritto e contribuirà a rafforzare la cultura di impunità che ha permesso ad Israele di continuare a commettere crimini di guerra, che, alcuni esperti del diritto internazionale hanno descritto come un preludio al genocidio contro i Palestinesi nella Striscia di Gaza illegalmente assediata ed occupata.

Vi chiedo di far sì che Israele non sia ammesso nell'OCSE e di votare contro la sua adesione quando, a maggio, verrà fatto l'esame finale della sua domanda di ingresso. L'appartenenza all'OCSE alimenterà intensamente il militarismo, la belligeranza e l'aggressività israeliana, destabilizzando ulteriormente l'intera regione, minando la sicurezza nonché lo sviluppo sociale, politico ed economico e rendendo la ricerca di una pace giusta una meta irraggiungibile.

Non è pensabile che l’OCSE si rifiuti di tener conto delle prove presentate dalle organizzazioni per i diritti umani e della società civile nel corso del processo per l’esame della domanda di adesione di Israele[1]. Inoltre chiedo che l'OCSE riveda la sua decisione di non porre come ostacolo determinante per la sua adesione all'OCSE l'incapacità di Israele[2] di fornire statistiche economiche che distinguano tra lo stato di Israele e i territori palestinesi e siriani che esso occupa.

Ritengo inoltre che l'OCSE si renderà complice degli atti illeciti commessi da Israele, se non riuscirà ad affrontare e vedere la realtà di Israele come un potere oppressivo di occupazione e colonizzazione – come del resto ampiamente dimostrato - in Cisgiordania, Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza e se continuerà ad ignorare che il sistema israeliano di discriminazione razziale istituzionalizzata è la causa principale della povertà estrema tra i suoi cittadini palestinesi, così come peraltro evidenziato nelle stesse relazioni dell'OCSE.

Israele, come tutti gli altri Stati, deve rispettare le norme del diritto internazionale e dei diritti umani universali e deve rispettarli prima di essere accolto come membro dell'OCSE. Il rispetto e l'osservanza del diritto internazionale e dei diritti umani sono requisiti essenziali per i membri che accettino i regolamenti dell'OCSE. La Convenzione OCSE del 1960, per esempio, afferma che, per il raggiungimento degli scopi delle Nazioni Unite, sono essenziali “capacità economica, rispetto delle libertà individuali e favorire il benessere generale." Nella "Tabella di marcia per la l'adesione di Israele alla Convenzione OCSE", adottata nel novembre 2007, il Consiglio ha osservato che, per entrare a far parte dell'OCSE, Israele deve dimostrare il suo impegno a far valere i "valori fondamentali" condivisi da tutti i membri dell'OCSE e a rispettare i parametri relativi. I valori indicati dall'OCSE includono "un impegno per la democrazia pluralista basata sullo Stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani, il rispetto di aperti e trasparenti principi dell'economia di mercato e un obiettivo condiviso di sviluppo sostenibile."

Già condannato come uno stato che pratica l'occupazione, la colonizzazione e l'apartheid da un recente ed autorevole studio legale del Sud Africa sotto la supervisione dell'esperto di diritto internazionale ed ex relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani, il Prof. John Dugard, Israele non si comporta conformemente al diritto internazionale e ai parametri di riferimento dell'OCSE[3]. Israele non ha ancora attuato le raccomandazioni della missione d'inchiesta delle Nazioni Unite sul conflitto di Gaza e non ha indagato e perseguito, dove necessario, i responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità che hanno portato alla morte di oltre 1.400 palestinesi, la maggior parte civili, nell'inverno del 2008/9. Israele non ha ancora posto fine all'assedio illegale della Striscia di Gaza, che ha portato sull'orlo della carestia quasi 1,5 milioni di palestinesi, molti dei quali profughi che Israele aveva spodestato nel 1948. Israele non ha ancora smantellato il Muro illegale nei territori occupati della Cisgiordania come sentenziato nel parere consultivo dalla Corte internazionale di giustizia nel 2004. Israele non ha ancora posto fine alla sua occupazione di quasi 43 anni della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, non ha ancora terminato la sua impresa coloniale né rilasciato i Palestinesi arrestati e imprigionati. Israele non ha ancora trasformato il suo sistema politico e giuridico al fine di risarcire milioni di vittime palestinesi, compreso il diritto di ritorno per i profughi, e di consentire piena ed uguale partecipazione da parte dei suoi cittadini palestinesi. Solo allora Israele rispetterà gli standard delle democrazie pluraliste ritenuti fondamentali per l'OCSE.

Ribadisco le preoccupazioni espresse più volte presso l'OCSE da parte delle organizzazioni per i diritti umani e della società civile ed esigo che il nostro governo voti contro la domanda di adesione di Israele all'OCSE.

Distinti saluti,

[1] Vedere per esempio: - Lettera a Mr. Angel Gurria, Segretario generale, Ocse (22 organizzazioni della società civile e per i diritti umani), 28 Settembre 2008:
www.arabhra.org/HraAdmin/UserImages/Files/NGO%20Letter%20to%20the%20OECD.pdf; - Lettera ai Ministri degli Esteri agli Stati membri dell'Osce extra-UE (16 organizzazioni), gennaio 2009: http://www.badil.org/en/documents/category/36-regional-bodies; Lettera dell'Arab Higher Monitoring Committee all'Ocse, 27 febbraio 2010: http://www.haaretz.com/hasen/spages/1152638.html
[2] Vedere per esempio: http://original.antiwar.com/cook/2010/03/08/israels-oecd-bid-poses-problems-for-members/
[3] http://www.hsrc.ac.za/Document-3227.phtml

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27 aprile 2010

L'espansione delle colonie: un errore morale e politico.

“Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme est, un errore morale e politico…”.

E’ un passaggio dell’appello pubblicato ieri su Le Monde e sottoscritto da numerosi intellettuali ebrei che vivono in Europa, e che verrà presentato ufficialmente al Parlamento europeo il prossimo 3 maggio. Tra i firmatari spiccano molti nomi noti: gli scrittori Alain Finkielkraut e Bernard-Henri Levy, il Premio Nobel per la fisica Daniel Cohen-Tannoudji, l’ex Presidente della Svizzera Ruth Dreifuss, il rabbino di Bruxelles David Meyer, lo storico Pierre Nora, l’italiano Gad Lerner.

Gli argomenti del documento sono noti: partendo dall’assunto (condivisibile o meno) che l’unica soluzione percorribile del conflitto israelo-palestinese si basa sul principio “due popoli, due stati”, si pone con urgenza la questione di smobilitare gli insediamenti colonici nei territori palestinesi occupati e di consentire la nascita di uno Stato palestinese dotato della necessaria continuità territoriale e di adeguate risorse. Mantenere l’attuale status quo, infatti, porterebbe Israele davanti all’alternativa di diventare uno stato dove gli ebrei sarebbero minoranza (si tratta della soluzione che prevede un unico stato binazionale) ovvero di essere messo al bando dalla comunità internazionale a causa delle perduranti violazioni della legalità internazionale e del diritto umanitario.

Ma ciò che è davvero importante, a mio avviso, è l’appello agli ebrei della diaspora ad adoperarsi in ogni modo affinché prevalgano la voce della ragione e si giunga rapidamente ad una composizione pacifica di questo sanguinoso conflitto, esercitando ove necessario le dovute pressioni su chi questa pace non fa nulla per raggiungere.

Perché “allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele”. E, direi soprattutto, contro gli interessi della pace nel mondo.

APPELLO ALLA RAGIONE

Siamo cittadini ebrei di paesi europei impegnati nella vita politica e sociale dei nostri rispettivi paesi. Qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità. Il futuro e la sicurezza di questo stato al quale siamo così fortemente legati ci preoccupano.

Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto stato.

Per questa ragione abbiamo deciso di mobilitarci intorno ai principi seguenti:

1) Il futuro di Israele esige di giungere a un accordo di pace con il popolo palestinese sulla base del principio di “due popoli, due stati”. Lo sappiamo tutti, l’urgenza incalza. Presto Israele sarà posta di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno stato dove gli ebrei saranno minoritari nel loro proprio paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile.

2) E’ essenziale che l’Unione europea a fianco degli Stati Uniti eserciti una pressione forte sulle parti in lotta e le aiuti a giungere a una composizione ragionevole e rapida del conflitto. L’Europa in ragione della sua storia ha una grande responsabilità in questa regione del mondo.

3) Se la decisione ultima appartiene al popolo di Israele, la solidarietà degli ebrei della Diaspora impone di adoperarsi perché questa decisione sia quella giusta. Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perchè va contro i veri interessi dello Stato d’Israele.

4) Vogliamo dare vita a un movimento europeo capace di fare intendere a tutti la voce della ragione. Un movimento che si pone al di sopra delle differenze di parte e di ideologia con l’unica ambizione di adoperarsi per la sopravvivenza di Israele come stato ebraico e democratico, che è strettamente legata alla creazione di uno stato palestinese sovrano e autosufficiente.

E’ in questo spirito che vi chiediamo di firmare e fare firmare questo appello.

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26 aprile 2010

Gli Israeliani usano anche i morti per rinviare la demolizione delle case dei coloni.

La cd. Area C dei territori palestinesi occupati, in base agli Accordi di Oslo II del 1995, è quella sulla quale gli Israeliani mantengono tutt’ora il pieno controllo. Si tratta dell’area maggiormente estesa della West Bank (circa il 61% del totale), nella quale i Palestinesi devono convivere con i più importanti e popolosi insediamenti colonici illegali e, soprattutto, con le implacabili pratiche di pulizia etnica messe in atto da Israele.

Tali pratiche si attuano essenzialmente in due modi.

Da una parte gli Israeliani rendono estremamente difficoltoso l’accesso ai pascoli e il movimento di persone e merci, e impediscono ogni sviluppo alle essenziali infrastrutture idriche. Si spiegano in questo modo i risultati di una ricerca condotta nell’ottobre del 2009 dall’UNRWA, dal WFP e dall’Unicef tra le comunità di pastori e di beduini che vivono nell’Area C: il 79% dei nuclei familiari risulta affetto da insicurezza alimentare, il 5,9% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta, il 15,3% risulta sottopeso e il 28,5% soffre di arresto della crescita, dati davvero impressionanti e che non necessitano di alcun commento (cfr. OCHA – The Humanitarian Monitor, marzo 2010).

Dall’altra parte, è praticamente impossibile per i Palestinesi residenti in quest’area ottenere un permesso edilizio, foss’anche per il semplice ampliamento dell’abitazione necessitata dall’aumento del nucleo familiare.

E poiché i Palestinesi fanno figli come tutti e i nuclei familiari si accrescono, conseguenza di ciò è il fatto – testimoniato dall’OCHA – che le autorità israeliane, soltanto nei primi tre mesi del 2010, hanno demolito 57 strutture di proprietà di Palestinesi residenti nell’Area C, incluse 24 costruzioni di tipo residenziale, causando l’evacuazione di 118 Palestinesi. Solo nel mese di marzo, inoltre, gli Israeliani hanno notificato gli ordini di demolizione relativi ad ulteriori 20 strutture, di cui 14 di tipo residenziale, mettendo a rischio di evacuazione altri 121 Palestinesi residenti nei governatorati di Betlemme, Gerico ed Hebron.

E mentre le autorità israeliane sono così solerti nel demolire le case costruite senza permesso dai Palestinesi, sulla terra di loro proprietà, non altrettanto accade per le costruzioni illegali edificate dai coloni israeliani, presenti in gran numero nell’area. E non stiamo parlando della generalità delle costruzioni coloniche – tutte illegali secondo il diritto internazionale in quanto costruite su territori occupati manu militari – ma di quelle belle casette costruite su terreni di proprietà privata di Palestinesi e, dunque, illegali secondo la stessa legge israeliana.

E, per evitare la demolizione di questi edifici, gli Israeliani non lasciano nulla di intentato, arrivando persino a strumentalizzare i morti per raggiungere questo scopo. E’ questo il tema dell’amara riflessione del giornalista israeliano Gideon Levy per Ha’aretz.

Chi ha detto che Ehud Barak è insensibile? Chi ha accusato falsamente Gabi Ashkenazi di essere un tipo di poche parole? E chi li sospetta di non essere in grado di lavorare insieme? Il ministro della difesa e il capo di stato maggiore hanno assunto una posizione comune alla fine della scorsa settimana per impedire la demolizione di alcune abitazioni illegali nell’avamposto illegale di Givat Hayovel. Alcune di queste case sono state costruite su terreni privati palestinesi, in altre parole, su terra sottratta illegalmente, e altre sono state costruite su “terreni statali” o su “terreni sotto indagine” (survey land è un termine che sta ad indicare il terreno la cui proprietà deve ancora essere accertata e su cui ogni costruzione è proibita, n.d.r.), altri termini ingannevoli che spuntano dalla scorta infinita di trucchi israeliani.

L’esercito israeliano ha persino tirato fuori dal magazzino una scusa particolarmente ridicola che non sentivamo da tempo: queste case sono “importanti per la sicurezza” in quanto sono “punti di controllo” dove è “importante” la presenza dell’Idf. Come se l’Idf non possa presidiare un luogo senza tali abitazioni.

Barak e Ashkenazi si sono uniti in questo compito perché in due di queste case vivono delle famiglie in lutto: la famiglia del Maggiore Ro’i Klein, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, e la famiglia del Maggiore Eliraz Peretz, ucciso tre settimane fa lungo il confine con Gaza. Non è chiaro se questo fronte unito ai vertici aveva lo scopo di impedire solo la demolizione delle abitazioni di queste due famiglie o quella di tutte e 18 le case ordinata dall’Alta Corte di Giustizia. Entrambe le possibilità sollevano seri interrogativi. Il sangue di coloro che muoiono in combattimento lava via le loro colpe? Come possiamo fare discriminazioni tra un colono illegale ed un altro? Perché mai a quel Palestinese il cui terreno è stato occupato dovrebbe interessare se uno di quei coloni viene ucciso in azione? Ed ecco il fatto diabolico: di tutti i giorni, proprio nel giorno in cui Barak e Ashkenazi hanno reso nota una commovente lettera indirizzata al Presidente dell’Alta Corte Dorit Beinisch chiedendo “riguardo e sensibilità”, l’Idf demoliva altre case. I bulldozer dell’Amministrazione Civile hanno distrutto un edificio di due piani e due negozi a Kafr Hares, demolendo anche una casa ed una fabbrica a Beit Sahur e un’altra casa ad Al-Khader. Sedici persone sono adesso senzatetto, tra cui ragazzini e un bambino di un anno. La gente dell’Amministrazione Civile si è presa la briga di sottolineare che questo è stato solo l’inizio delle operazioni di demolizione. Non è venuto in mente a nessuno nell’Idf di verificare se magari la famiglia Sultan ad Hares o la famiglia Musa ad Al-Khader erano in grado di addurre circostanze attenuanti tali da giustificare “riguardo e sensibilità”. Potevano anch’essi aver perso un figlio? E, in tal caso, qualcuno avrebbe pensato di fermare la demolizione per questo motivo? Non fate ridere l’Idf, l’Amministrazione Civile, Barak, Ashkenazi e tutti quanti noi. Quelli sono Palestinesi, mica esseri umani.

La demolizione delle case a Givat Hayovel era stata decisa nel 2001, quando tutti in queste famiglie erano ancora vivi. Costoro hanno costruito le loro case irresponsabilmente, senza permessi, e sapevano che stavano rubando la terra. Vi sono molti altri coloni come loro.

Questo è il peccato originale a cui è seguito il peccato del deliberato ritardo delle autorità, che in questo caso è durato per circa nove anni come periodo per dare attuazione alla sentenza sulla petizione di Peace Now. Il Segretario generale di Peace Now Yariv Oppenheimer adesso dice che sta cedendo sulla demolizione delle case dei Klein e dei Peretz. Lo si può capire. E’ difficile distruggere una casa i cui residenti hanno appena concluso la loro settimana di lutto.

In effetti, non è umano. Ma, come al solito, ci occupiamo delle questioni marginali piuttosto che di quelle importanti. Mentre l’evacuazione degli avamposti non ha mai avuto un termine operativo, mentre il rapporto Sasson è diventato un manufatto archeologico senza nessun valore, perché di tutti i luoghi ci stiamo occupando proprio di Givat Hayovel? Ci mancano altri avamposti da evacuare, senza famiglie in lutto? Inoltre, l’intera faccenda degli avamposti “illegali” – come se anche un solo insediamento fosse legale – non è mai stata il nocciolo del problema. E’ molto comodo per tutti trasformare la vicenda di Givat Hayovel in un’altra foglia di fico ipocrita e fuorviante.

I coloni stanno sbandierando in giro il problema di queste case per il proprio bisogno di spillare ancor più la simpatia del pubblico e di aumentare l’opposizione a tutte le evacuazioni. Barak e Ashkenazi stanno sbandierando in giro il problema di queste case per mostrare quanto vorrebbero far rispettare la legge nei territori, solo che non ci riescono. Persino il sistema giudiziario di tanto in tanto cerca di dimostrare che è prudente nell’applicare la legge e non fare discriminazioni quando si tratta di coloni. Tutto ciò non è niente di meno che ridicolo.

Queste due case dovrebbero essere lasciate stare – persino l’intero avamposto. Finché resta l’insediamento principale, Eli, che differenza fa se resta questa sua appendice?

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15 aprile 2010

Ma quanto sono sexy i soldati israeliani!


Sono in forma, abbronzati, sicuri, e trasudano una tale virilità israeliana che è difficile resistere. Queste qualità apparentemente rendono i soldati israeliani una delle attrazioni più richieste per i turisti gay.

Negli ultimi anni, sono stati fatti svariati tentativi per vendere l’immagine di Israele come di un paese accogliente per i turisti gay. Due società di New York in particolare, la Steele Travel e la Lucas Entertainment offrono pacchetti di viaggio in Israele espressamente dedicati alla comunità gay.

La Lucas Entertainment, una società di produzione di materiali porno, recentemente ha giocato una carta vincente nella battaglia per i portafogli turistici. In aggiunta ai siti popolari per i turisti gay che si recano in Israele, l’azienda Usa offre un’attrazione che molti turisti gay non vorrebbero mai perdere, la visita ad una base dell’esercito israeliano e una foto ricordo con un soldato sexy scattata da un fotografo professionista.

Mentre l’Idf soffre di un’immagine particolarmente negativa sui media di tutto il mondo, si scopre che per i soldati israeliani in sé è tutta un’altra storia. Almeno, questo è ciò che ritiene Michael Lucas, attore e produttore porno nonché proprietario della Lucas Entertainment.

“Il fotografo israeliano con cui lavoro conosce un sacco di soldati attraenti, e ne ha già fotografati alcuni. Così ne raduniamo un certo numero, e chiunque nel gruppo è interessato può scattare una foto con loro”, assicura.

Lucas, nato in Russia da una famiglia ebrea ed emigrato da bambino negli Stati Uniti, proclama spesso nelle interviste il suo amore per Israele. L’anno scorso, è persino venuto in Israele per girare un film porno dal titolo “Uomini di Israele”.

Adesso arriva la fase successiva. Lucas sta commercializzando un viaggio turistico organizzato di nove giorni in Israele, che partirà il prossimo 26 maggio. Per 2.800 dollari (escluso il viaggio aereo), i turisti gay potranno visitare i siti turistici israeliani così come incontrare i soldati. Fino ad ora, 18 persone si sono iscritte per il viaggio.

“Io faccio delle donazioni negli Usa agli Amici dell’Idf (un’accolita di filantropi che ai primi di marzo, presso il Waldorf Astoria di New York, ha raccolto ben 20 milioni di dollari in donazioni per i criminali di guerra israeliani, n.d.t.) , ed è più che accettabile che i donatori visitino le basi quando giungono in Israele”, spiega Lucas. “Ho presentato una richiesta, e stiamo lavorando per organizzare la visita. Voglio portare i turisti in una base militare, affinché vedano gli Israeliani come persone in cerca di pace che non desiderano la guerra, ma cercano soltanto di proteggere sé stessi”.

Gli Amici dell’Idf, in risposta, hanno detto che tutti i donatori vengono ricevuti nelle basi dell’esercito.

Nonostante il messaggio sionista, Lucas si accerta di presentare i soldati israeliani come una fantasia. Sul sito web che promuove il tour, sono raffigurati uomini muscolosi che indossano pantaloni militari. In un’altra foto, si vede Lucas che abbraccia un uomo ed entrambi indossano uniformi dell’esercito israeliano.

Lucas sostiene che non sta organizzando questi viaggi soltanto per scopi di lucro personale: “non vedo alcun problema se un gruppo di turisti gay visita una base dell’Idf. Sto facendo quello che lo Stato non è stato ancora abbastanza intelligente da fare – vendere al mondo il lato bello di Israele”.

Ma certo, una bella donazione come può non aprire ogni porta, persino quelle delle basi militari israeliane! E poi, cosa non si farebbe per migliorare l’immagine di Israele nel mondo, che, in effetti, ne ha davvero bisogno.

Chissà soltanto se qualcuno si prenderà la briga di raccontare agli amici gay americani, in visita nelle basi militari dell’Idf, che i soldati israeliani saranno pure abbronzati ed attraenti, ma sono, soprattutto, dei micidiali assassini di bambini.

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14 aprile 2010

Le statue di Palermo si schierano con i Palestinesi.


Ogni giorno ha la sua pena, e questo è vero soprattutto in Palestina.

E’ di questi giorni la notizia secondo cui un nuovo ordine militare, che ha lo scopo di evitare ogni “infiltrazione”, entrerà in vigore questa settimana, rendendo possibile la deportazione di decine di migliaia di Palestinesi residenti in Cisgiordania, o la loro incriminazione con accuse che comportano il carcere fino ad un massimo di 7 anni: i Palestinesi diventano dunque degli “infiltrati” persino in quel poco di terra che Israele si è degnato di lasciar loro!

A Gaza, intanto, non contenti del massacro dell’operazione “Piombo Fuso”, i soldati israeliani continuano a compiere raid e incursioni militari, e ieri mattina hanno ucciso altri quattro Palestinesi in uno scontro nei pressi del valico di Kissufim.

Tutto questo nel silenzio più assoluto dei media e nell’indifferenza dei governi occidentali, ancora una volta tristemente complici del progetto sionista di pulizia etnica e di annientamento di ogni resistenza alla colonizzazione da parte del popolo palestinese.

Ma c’è ancora, per fortuna, chi non si rassegna al prevalere dell’ingiustizia e della cieca barbarie, e si inventa nuove e singolari iniziative per tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla tragedia di un popolo che, ancora oggi, non riesce a vedere riconosciuto il proprio diritto all’autodeterminazione e a vivere in un proprio Stato internazionalmente riconosciuto.

Si tratta, ad esempio, dei militanti di Forza Nuova e degli aderenti ai circoli “L’Avamposto” e “Ordine Futuro” di Palermo, che ieri notte hanno rivestito molte delle statue di Palermo con la caratteristica kefiah palestinese.

Lo scopo era quello di promuovere la Conferenza che si svolgerà il prossimo 16 aprile alle 18:30 in via Villa Florio 62 (con la collaborazione dell'Associazione "Terra Santa Libera"), e che si propone di fare il punto sulla questione palestinese con l'ausilio di un nutrito e qualificato numero di relatori, fra cui spicca il nome del sacerdote don Curzio Nitoglia.

Ma si tratta anche, a ben vedere, di un garbato rimprovero alla municipalità di Palermo che è sì gemellata con la città di Khan Younis, nella Striscia di Gaza, ma solo formalmente. Perché, ad oggi, ancora aspettiamo che questo gemellaggio si riempia di contenuti concreti.

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13 aprile 2010

Fondo pensioni svedese disinveste da azienda israeliana.

Il maggiore fondo pensioni svedese, Forsta AP-Fonden, ha dismesso la sua quota di azioni della Elbit Systems a causa del fatto che questa compagnia partecipa ai lavori di costruzione del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania. La Elbit, in particolare, costruisce e gestisce il sistema di sorveglianza di sicurezza collegato al muro.

Nonostante le doglianze israeliane che si basano sulla nota tesi propagandistica secondo cui il muro ha una semplice funzione difensiva – dimenticando che esso corre per gran parte su territorio occupato e mira piuttosto a consolidare l’illegale annessione di ulteriori terre e risorse palestinesi – il Consiglio etico del sistema pensionistico svedese ha stabilito, all’inizio di questo mese, che la condotta della Elbit viola le linee guida etiche dei fondi.

Quattro fondi pensione su cinque (AP1, AP2, AP3, e AP4), seguendo l’indicazione del loro Consiglio etico, hanno deciso pertanto di disinvestire dalla compagnia israeliana che, con la sua attività, contribuisce alla violazione di fondamentali norme del diritto umanitario.

Così recita il comunicato ufficiale che ha annunciato la decisione: “il Consiglio Etico raccomanda che la Elbit Systems Ltd debba essere esclusa da ogni portafoglio, in quanto ritiene che la compagnia, attraverso la sua attività di sviluppo, fornitura e manutenzione di un sistema di controllo costruito appositamente per alcuni settori della barriera di separazione in corso di costruzione nella West Bank, possa essere ricollegata alla violazione di norme e convenzioni fondamentali”.

Tale decisione si ricollega ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia dell’Aja del 2004 – che ha statuito l’illegalità del muro per la parte costruita su territorio occupato e ne ha chiesto la demolizione – e segue ad una analoga iniziativa assunta, lo scorso mese di settembre, dal fondo pensionistico statale norvegese.

E’ un vero peccato che le tante aziende italiane che hanno rapporti d’affari con Israele non abbiano mai istituito al loro interno un Consiglio etico che vieti di avere rapporti commerciali con stati-canaglia che violano quotidianamente i pilastri del diritto umanitario.

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Conferenza a Palermo: l'apocalisse nei disegni sionisti.


CONFERENZA
a PALERMO
Venerdì 16 aprile 2010
Via Villa Florio 62, ore 18,30

"L'apocalisse nei disegni sionisti"

RELATORI:
don Curzio Nitoglia
Giuseppe Provenzale
Antonio Rino Tagliaferro
Filippo Fortunato Pilato
Fadi Shirak (via internet)

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I massimi esperti di pulizia etnica.


(vignetta di Carlos Latuff)

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12 aprile 2010

Il Vescovo emerito di Grosseto: lo scandalo pedofilia è un "attacco sionista".

Dietro allo scandalo dei preti pedofili, che vede la Chiesa cattolica sottoposta ad un furibondo attacco mediatico, si celerebbe in realtà una manovra raffinata di matrice ebraica? E’ (o meglio, sarebbe questa) la tesi del Vescovo emerito di Grosseto, l’81enne Giacomo Babini, esposta in una intervista pubblicata venerdì 9 aprile sul sito web Pontifex, di cui riportiamo i passi essenziali.

"La pedofilia é una cosa orrenda e basterebbe un solo caso per far gridare allo scandalo, ma mi consta che anche in altre confessioni ve ne siano e in proporzione maggiore a quella della Chiesa cattolica". Ma chi orchestra questa manovra?: "i nemici di sempre dei cattolicesimo, ovvero massoni ed ebrei e l'intreccio tra di loro a volte é poco facile da capire". Precisa: "ritengo che sia maggiormente .... un attacco sionista, vista la potenza e la raffinatezza, loro non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali. In fondo, storicamente parlando, i giudei sono deicidi".

Ora saltano: "ci sta poco da saltare. Le Scritture lo dicono bello chiaro. Magari lo erano in modo inconsapevole, hanno goduto della ignavia di Pilato, certo: ma deicidi sono, il crucifige lo hanno detto loro e non altri". Poi precisa: "la loro colpa fu tanto grave che Cristo premonizzò quello che sarebbe accaduto loro con il non piangete su di me, ma sui vostri figli".

Che cosa intende dire?: "l'olocausto fu una vergogna per la intera umanità,ma ad esso occorre guardare senza retorica e con occhi attenti. Non crediate che Hitler fosse solo pazzo. La verità é che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono la economia tedesca. Una tanto veemente reazione si deve anche a questo, la Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura".

Il suo non è un discorso politicamente corretto: "poco male, ma compito dei vescovi é parlare chiaro, sì sì, no, no. Furono deicidi e questo non lo dice Babini, lo dice il Vangelo, volete rinnegarlo o cambiarlo? Certo, per buonismo si arriva anche a questo". Precisa: "Cristo é il Redentore, é morto anche per la salvezza degli ebrei e di tutti e ciascuno di noi giornalmente lo crocifigge col peccato, ma dal punto di vista storico, si trattò di deicidio, bello e buono".

Perché scriviamo che questa “sarebbe” la tesi di Monsignor Babini? Perché, a breve distanza, lo stesso Vescovo – attraverso l’ufficio stampa della Conferenza episcopale italiana – ha diramato una secca smentita prendendo le distanze da quanto pubblicato dal sito Pontifex: “in ordine ad alcune agenzie che mi attribuiscono dichiarazioni sui fratelli ebrei da me mai pronunciate, preciso che in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze”. “Rinnovo ai nostri fratelli maggiori nella fede la mia fraterna stima e piena vicinanza, in sintonia con il Magistero della Chiesa costantemente riaffermato dal Concilio Vaticano II in poi”.

Ma cosa era successo nel lasso di tempo tra la pubblicazione dell’intervista e la successiva smentita?

Era successo che, curiosamente, i primi a reagire alle dichiarazioni di Mons. Babini erano stati gli ebrei americani dell’American Jewish Committee, con un comunicato ufficiale in cui il Direttore per gli affari interreligiosi David Rosen aveva invitato la Cei a “condannare categoricamente questi stereotipi calunniosi, che purtroppo evocano la peggiore propaganda cristiana e nazista precedente alla II guerra mondiale”.

Vicenda conclusa? Macché!

Immediata, infatti, è stata la replica del direttore del blog cattolico Pontifex, Bruno Volpe: “…Dunque, é bastato uno starnuto degli ebrei di america ed ecco la smentita, che poi non é della Cei per Monsignor Babini al quale va la nostra stima. Ma per rinfrescare la memoria alla Cei e agli ebrei, ricordiamo che nel 27 gennaio in intervista mai smentita lo stesso Babini diceva: "Gli ebrei usano la shoa come una clava". Poi il 25 gennaio: "Gli ebrei non sono più i nostri fratelli maggiori, lo sono stati sino all'antico testamento e all' arrivo di Cristo, hanno poi hanno scelto di non essere i nostri fratelli maggiori".

Siamo certi che il buon Babini si sia preso dalla Cei una bella tirata di orecchie. Ma come don Abbondio uno se il coraggio non lo ha non se lo può dare. Vuole dire che presto metteremo on line il testo registrato della intervista … Prendiamo atto con piacere che ora per Babini sono diventati i Fratelli Maggiori, il 25 gennaio non lo erano. Shalom, la Cei si arrende agli ebrei. Finirà in Tribunale? Noi attendiamo e con i nastri: la pazienza si é esaurita”.

Dunque esisterebbe una registrazione audio dell’intervista rilasciata da Mons. Babini e, in effetti, pare abbastanza improbabile che quelli di Pontifex se la siano inventati di sana pianta. Le opinioni espresse dal Vescovo emerito di Grosseto, peraltro, riflettono quelle proprie di una consistente parte del clero cattolico, di orientamento maggiormente tradizionalista. Opinioni che si ricollegano, inoltre, a quanto dichiarato recentemente dall’ex Segretario di Stato Angelo Sodano, secondo cui gli odierni attacchi al Papa riecheggiano quelli a suo tempo mossi contro Pio XII, criticato per i suoi silenzi di fronte al dramma della Shoah.

Ora, al di là dei giudizi e delle opinioni espresse nell’intervista – che ognuno può o meno condividere – vorrei far notare che Mons. Babini, in svariate interviste e dichiarazioni, ha rivolto parole di fuoco, tanto per fare un esempio, anche contro l’Islam e la comunità omosessuale. Eppure è curioso che le dichiarazioni del Vescovo facciano scandalo – e trovino ampio spazio sui media – solo quando ad essere attaccati sono gli ebrei.

E trovo sconcertante che, mentre lo scandalo pedofilia all’interno della Chiesa trova amplissimo spazio sui media di tutto il mondo, del traffico di organi, che vede implicati oggi un ex generale dell’esercito israeliano e, ieri, alcuni rabbini ultra-ortodossi, pare non voglia occuparsi nessuno. Perché scarsamente meritevole di attenzione o che altro?

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6 aprile 2010

In soli 3 mesi arrestati più di 1.400 Palestinesi.

Nei primi tre mesi di quest’anno, i soldati israeliani hanno fermato ed arrestato più di 1.400 Palestinesi, inclusi 90 residenti nella Striscia di Gaza.

Lo rende noto il Comitato nazionale di supporto ai prigionieri che, in un comunicato ufficiale, ha lamentato come il numero degli arresti a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania sia in sensibile aumento, con 400 arresti nella sola città di Gerusalemme.

Secondo il portavoce del Comitato, tra i fermati a Gaza vi sono 18 pescatori, mentre quasi tutti gli altri Palestinesi arrestati nella Striscia erano solo dei poveracci che raccoglievano rottami nei pressi del confine settentrionale.

Tra gli arrestati anche sette donne, delle quali tre sono state rilasciate dopo qualche tempo, mentre le altre quattro sono ancora detenute, inclusa Muntaha al-Tawil, la moglie del sindaco di El-Bireh, che si trova in detenzione amministrativa da circa tre mesi.

Fermati anche ben 225 Palestinesi minori di 18 anni, e i soldati israeliani non hanno esitato, in vari casi, ad arrestare persino ragazzini di soli 12 anni, come è accaduto, da ultimo, il 24 marzo.

Molti Palestinesi che vivevano coltivando la terra sono ora sempre più spesso costretti, per sopravvivere, a raccogliere rottami e calcinacci per poi rivenderli alle fabbriche che provvedono a riciclarli. Questo a causa dell’impossibilità di coltivare la terra nelle zone di confine, dove Israele ha unilateralmente imposto una zona-cuscinetto, profonda un chilometro, dove è impedito l’accesso a pena di essere uccisi a fucilate.

Ma neanche raccogliere rottami è consentito ai Palestinesi di Gaza.

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1 aprile 2010

Israele sta perdendo la battaglia delle interpretazioni.

In questi ultimi tempi, nonostante l’assidua opera “educativa” della propaganda israeliana e il silenzio di gran parte dei media ufficiali sui crimini commessi quotidianamente da Israele, si fa sempre più strada una diversa percezione del conflitto israelo-palestinese, che vede riportati alla realtà i diversi ruoli dei due attori, i Palestinesi come popolo oppresso e vessato, gli Israeliani come spietato popolo di occupanti ed espropriatori di risorse.

Molti, in particolare, non credono più alla favola di Israele come “rifugio” per gli ebrei perseguitati nel mondo, ma lo vedono più realisticamente come una nazione di eterni colonizzatori, di violatori del diritto internazionale, di espropriatori di risorse, di brutali oppressori di una popolazione indifesa.

E, soprattutto, si fa strada sempre più l’idea che sia proprio Israele il maggior ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente, con la sua ostinata opera di giudaizzazione del territorio occupato di Gerusalemme est, con i suoi assassinii all’estero tipici di uno stato-canaglia, con i suoi continui raid e il massacro di povera gente inerme.

Ma anche i governi occidentali alleati di Israele sono ormai stanchi delle tattiche dilatorie israeliane, e sembrano non più disposti a tollerare il permanere dello status quo e lo stallo delle trattative tra Israeliani e Palestinesi, imputandone la colpa ai primi e chiedendo a Israele di compiere i passi necessari, per quanto “dolorosi” essi possano essere.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto il 25 marzo da Michael Young per il sito web del quotidiano libanese Daily Star e tradotto da Medarabnews.
25.3.2010

Alcuni affermeranno che l’espulsione di un diplomatico israeliano (a quanto si dice un agente del Mossad) dal Regno Unito, questa settimana, è un battibecco transitorio tra alleati, a seguito dell’uso di falsi passaporti britannici da parte di Israele nel recente assassinio di un dirigente di Hamas a Dubai. Dopotutto, si potrebbe aggiungere, il primo ministro Margaret Thatcher fece qualcosa di simile nel 1988, senza conseguenze durature. Eppure le cose sembrano piuttosto diverse, questa volta.

I funzionari israeliani devono prendere atto che l’interpretazione del loro conflitto con i palestinesi sta cambiando radicalmente al di fuori di Israele. A parte i dettagli, nel panorama complessivo un numero sempre maggiore di paesi vede Israele come ‘il problema’ – e non stiamo parlando qui dell’antipatia popolare che Israele sembra spesso provocare in Asia e in America Latina. Anche in regioni più amichevoli, come negli Stati Uniti e in Europa, la percezione che si sta consolidando è che l’irresponsabile piano israeliano di espansione degli insediamenti stia distruggendo tutte le prospettive di un accordo reciprocamente soddisfacente con i palestinesi, e che l’instabilità che ne deriva danneggerà tutti.

Nel polverone originato dalla visita del vicepresidente americano Joe Biden in Israele, due settimane fa, è stata prestata relativamente scarsa attenzione al suo importante discorso all’Università di Tel Aviv, dove una frase ha accuratamente riassunto il dilemma di Israele. “Non è un segreto che le realtà demografiche rendano sempre più difficile per Israele rimanere una patria ebraica e allo stesso tempo un paese democratico, in assenza di uno stato palestinese”, così Biden ha ammonito i suoi ospiti.

Con questa affermazione, il vicepresidente non faceva che riecheggiare un tema che gli stessi funzionari israeliani hanno da tempo riconosciuto. Se tutto rimarrà invariato, Israele continuerà a controllare una popolazione palestinese in crescita, i cui diritti – necessariamente, date le esigenze della sicurezza israeliana – Israele continuerà a violare in misura ancora maggiore di quanto non stia facendo oggi. Né questo risolverà nulla, perché la demografia fa il suo corso, fino a quando due popoli sono in lotta per un pezzo di terra – o cercano di concludere una pace impossibile.

L’unica alternativa per Israele è un’espulsione su vasta scala dei palestinesi, che screditerebbe completamente Israele agli occhi del mondo. In un certo senso gli israeliani stanno pagando questa scelta prima ancora che venga fatta. Né mai lo sarà. Israele semplicemente non ha alcuna opzione di espulsione. Forse può ridurre la popolazione araba di Gerusalemme; può momentaneamente isolare i palestinesi all’interno di alcune enclave in Cisgiordania e a Gaza; ma senza una soluzione politica, si tratta di mere misure tampone, odiose, che costano agli israeliani un prezzo politico sempre più gravoso da sostenere.

Ecco perché l’interpretazione si è modificata, e perché che oggi Israele si trova di fronte, per la prima volta, a delle critiche sul piano morale da parte degli alleati. Uno stato che ha sostenuto se stesso per decenni come una ‘creazione morale’, un rifugio per gli ebrei sofferenti del mondo, sta essenzialmente facendo in modo che l’unica prospettiva a lungo termine per israeliani e palestinesi sia la violenza. Malgrado il sostegno dichiarato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nei confronti di una soluzione a due stati, Israele non ha alcuno sbocco da proporre all’infuori del perpetuarsi di una rovinosa situazione di stallo. E siccome ha il controllo della terra, ricade su Israele l’onere di definire tale sbocco.

L’abilità di Israele di trascinare il processo negoziale a tempo indeterminato è stata notevolmente facilitata dall’incompetenza palestinese. L’Autorità Palestinese guidata da Mahmoud Abbas si sta sforzando di riprendere l’iniziativa tra i palestinesi, mentre Hamas, malgrado ottimistiche ipotesi che suggeriscono il contrario, non ha alcun interesse ad entrare in colloqui di pace con Israele. Eppure, il disastroso atteggiamento di Hamas che ha portato alla guerra di Gaza, oltre un anno fa, ha notevolmente indebolito la strategia militare del movimento, mentre i palestinesi oggi sono maggiormente disposti ad andare avanti con il progetto di costruzione dello Stato promosso dal primo ministro Salam Fayyad in Cisgiordania, se gli sarà permesso di giungere alla fine a qualche risultato.

L’Autorità Palestinese ha dovuto subire molte critiche, soprattutto da parte dei presunti sostenitori della causa palestinese. Ma l’approccio di Fayyad è l’unico progetto realistico che i palestinesi possano perseguire oggi – un progetto di consolidamento interno. Cosa ancora più importante, mentre il mondo guarda Abbas e Fayyad concentrarsi sulla riforma interna, vede anche Israele in una luce diversa. I palestinesi, per una volta, sono riusciti a modificare l’interpretazione del loro rapporto con Israele a proprio vantaggio.

Ecco perché il protratto scetticismo in merito alla portata della controversia tra Israele e gli Stati Uniti, o tra Israele e il Regno Unito, è irrilevante. Né gli americani né gli inglesi romperanno con Israele, né ora né mai. Tuttavia, non sono nemmeno disposti a continuare a tollerare la tesi di Israele secondo cui le sue politiche in Cisgiordania sarebbero giustificate dalla mancanza di un partner palestinese. Come ha affermato Biden nel suo intervento a Tel Aviv, “sinceri passi verso una soluzione a due Stati sono anche necessari per dar forza a coloro che vogliono vivere in pace e in sicurezza con Israele, e per indebolire i loro rivali, che non vorranno mai accettare questo futuro”.

In definitiva, i leader israeliani insisteranno di non aver alcun obbligo, eccetto che nei confronti del loro stesso popolo. Essi non terranno conto dell’intensificarsi della frustrazione nei confronti delle loro azioni, basandosi sull’assunto che la sicurezza di Israele è una questione israeliana. Ma come può esser vero ciò? Se l’Iran acquisirà armi nucleari, la sicurezza di Israele sarà più strettamente legata a quella degli Stati Uniti. Ogni eventuale ombrello nucleare regionale americano riguarderà anche Israele, a prescindere dall’arsenale nucleare israeliano. Quanto ai palestinesi, il loro problema non è mai stato così internazionalizzato – con le sue ripercussioni che vengono avvertite in innumerevoli capitali straniere. La questione dello stato palestinese potrà essere oggetto di dibattito presso le Nazioni Unite in un futuro non troppo lontano. La libertà di Israele di compiere passi unilaterali sta diminuendo perché le dinamiche mediorientali ora hanno un impatto in un numero molto elevato di paesi.

Un’ipotesi ancora più inquietante è che il termine per una qualsiasi soluzione al conflitto israelo-palestinese sia ormai scaduto da tempo, rendendo questa intera discussione inutile. In base a questa lettura, i palestinesi hanno il tempo dalla loro parte, in quanto essi costituiranno una maggioranza numerica nei confronti degli ebrei entro breve. Pertanto, tutto ciò che possiamo aspettarci è un’aperta ostilità armata, che ancora una volta durerà per generazioni. Questa potrebbe essere una valutazione troppo cupa. O forse potrebbe non esserlo.

Michael Young è un giornalista americano-libanese, residente a Beirut; oltre a scrivere abitualmente sul quotidiano libanese “Daily Star”, è coeditore della rivista americana “Reason”

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