28 ottobre 2010

Ancora foto che testimoniano il sadismo e la viltà dei soldati israeliani.


Non c’è niente da fare, i bravi soldatini di Tsahal non resistono al piacere di immortalare sé stessi, con video o foto poco importa, nell’atto di vessare e umiliare civili palestinesi inermi perché, naturalmente, ben legati e bendati.

Tre settimane fa avevamo avuto il “piacere” di vedere il video clip di un soldato israeliano che si esibiva in un allegro balletto accanto ad una donna palestinese, bendata e legata, arrestata nel dicembre del 2007 perché ritenuta affiliata ad Hamas.

Ancora prima era stato il turno di una soldatessa che aveva postato su Facebook alcune foto che la ritraevano in posa accanto ad altri prigionieri palestinesi, sempre legati e bendati. Le foto erano inserite in un album dal significativo titolo “l’esercito … il periodo più bello della mia vita”, evidentemente quello in cui poter sfogare il proprio sadismo e i propri istinti repressi ai danni di povera gente inerme e incolpevole.

Adesso è Breaking the Silence – l’organizzazione israeliana di veterani che raccolgono prove e testimonianze dei crimini commessi dall’esercito israeliano nei Territori occupati – che pubblica nuove foto di abusi ai danni di prigionieri palestinesi, commessi a Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso” a cavallo tra il 2008 e il 2009.

Nella foto che vi mostriamo, un soldato punta il proprio fucile d’assalto a pochi centimetri dalla faccia di un prigioniero palestinese, in un’altra quattro soldati israeliani puntano ridendo i loro fucili contro una ragazza palestinese in ginocchio, legata e bendata, in un’altra ancora un soldato dipinge sul muro di una casa la stella di Davide e sotto vi scrive in ebraico: “torneremo presto”.

Secondo quanto afferma Yehuda Shaul, uno dei fondatori di Breaking the Silence, il gruppo ha ricevuto decine e decine di foto di questo genere, che mostrano un comportamento brutale e vessatorio generalizzato tra le fila dell’esercito israeliano, diretta conseguenza dell’occupazione: “diventi corrotto e non riesci più a vederli (i Palestinesi) come esseri umani simili a te”.

Ci avevano raccontato che l’esercito israeliano è il più”morale” che esista al mondo, ma forse era solo una barzelletta…

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27 ottobre 2010

Guerra eterna.

Abbiamo visto come l’irrompere della questione della “ebraicità” di Israele da un lato serva a procrastinare sine die il processo di pace – data la irricevibilità da parte dell’Anp di un simile riconoscimento – ma, dall’altro, rifletta l’intima convinzione propria di gran parte degli Ebrei israeliani di godere di un vero e proprio “diritto divino” sull’intero territorio della Palestina storica.

Nell’articolo che segue (proposto nella traduzione di Medarabnews), Zeev Sternhell – dalle colonne di Ha’aretz – ci invita a inquadrare la questione sotto un aspetto più ampio, la necessità dello stato ebraico, ai fini della sua stessa esistenza, di una condizione di guerra perenne, all’esterno ma anche al suo interno.

All’esterno, perché i negoziati, e la necessità di una spartizione della terra con i Palestinesi per poter arrivare ad un accordo di pace, implicano il riconoscimento di eguali diritti in capo al popolo palestinese (ed anche per poter lucrare la solidarietà dell’Occidente nei confronti di uno stato “assediato” e “aggredito”).

All’interno, perché – come è stato autorevolmente affermato persino in Israele – uno stato può essere “ebraico” o “democratico”, ma non le due cose insieme.

Occorre ammettere la verità: i leader dei partiti di destra hanno una visione strategica e la capacità di guardare a lungo termine, e sanno anche come scegliere gli strumenti adatti per portare avanti la propria missione.

La proposta di emendamento alla legge sulla cittadinanza, il cui scopo è fomentare uno stato di ostilità costante tra gli ebrei e tutti gli altri, è solo un aspetto del più vasto piano di cui il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman è portavoce ufficiale. L’altro aspetto è la promessa fatta dal Ministro degli Esteri alle nazioni del mondo che la nostra guerra con i Palestinesi è una guerra eterna. Israele ha bisogno sia di un nemico interno che di un nemico esterno, di un constante senso dell’emergenza, perché la pace – non importa che sia con i Palestinesi nei Territori o in Israele – probabilmente lo indebolirebbe fino al punto di mettere in pericolo la sua esistenza.

E in effetti la destra, la quale include la maggior parte dei leader del Likud, è pienamente consapevole che la società israeliana vive sotto la minaccia di un crollo dall’interno. Infatti il virus democratico ed egualitario sta consumando la nazione dall’interno. Questo virus si basa sul principio universale dei diritti umani, e genera un denominatore comune fra tutti gli esseri umani semplicemente perché sono tali. E cosa hanno in comune di più gli esseri umani se non il diritto di essere padroni del proprio destino e uguali fra di loro?

Secondo la destra, il problema è proprio questo: i negoziati sulla divisione della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono gli uguali diritti dei Palestinesi, e perciò compromettono lo status unico degli Ebrei nella Terra di Israele. Di conseguenza, per preparare i cuori e le menti al controllo esclusivo degli ebrei sulla popolazione di tutto il territorio, è necessario attenersi al principio secondo cui ciò che conta veramente nella vita degli esseri umani non è ciò che li unisce, ma ciò che li divide. E cosa divide le persone più della storia e della religione?

Al di là di ciò, vi è una chiara gerarchia di valori. Siamo prima di tutto Ebrei, e solo se riceviamo assicurazioni che non vi sarà alcun conflitto tra la nostra identità tribale-religiosa e i bisogni del dominio ebraico, da una parte, e i valori della democrazia, dall’altra, Israele può anche essere democratico. Ma ad ogni modo, la sua natura ebraica riceverà sempre chiara preferenza. Questo fatto comporta una lotta senza fine, perché gli Arabi si rifiuteranno di accettare la sentenza di inferiorità che lo Stato di Lieberman e del Ministro della Giustizia Yaakov Neeman hanno preparato per loro.

È per questo motivo che questi due ministri, con il tacito sostegno del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, hanno rifiutato la proposta che il giuramento di fedeltà fosse “nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza”. Secondo loro, la Dichiarazione di Indipendenza, la quale promette uguaglianza per tutti a prescindere dalla religione e dall’appartenenza etnica, è un documento distruttivo il cui scopo reale all’epoca era di placare i non-Ebrei e guadagnarsi il loro appoggio nella Guerra di Indipendenza. Oggi, in un Israele armato fino ai denti, solo dei nemici del popolo potrebbero desiderare che venisse conferito valore giuridico ad una dichiarazione che in ogni caso quasi nessuno aveva mai preso sul serio.

È qui che la dimensione religiosa naturalmente acquisisce rilevanza. Come per i conservatori rivoluzionari dei primi anni del XX secolo e i nazionalisti neoconservatori dei nostri giorni, la religione gioca un ruolo decisivo nel consolidamento della solidarietà nazionale e nel preservare la forza della società.

La religione viene percepita, naturalmente, come sistema di controllo sociale senza contenuto metafisico. Di conseguenza, le persone che odiano la religione e il suo contenuto morale possono benissimo stare accanto a personaggi come Neeman, il quale spera che un giorno potrà imporre la legge rabbinica in Israele. Dalla loro prospettiva, il ruolo della religione è quello di consacrare l’unicità ebraica e di spingere i principi universali oltre i limiti dell’esistenza nazionale.

In questo modo, la discriminazione e la disuguaglianza etnica e religiosa sono diventate la norma in questo paese, e il processo di delegittimizzazione di Israele ha raggiunto un nuovo livello. E tutto ciò è conseguenza dell’operato di mani ebree.

Zeev Sternhell è uno storico israeliano di origine polacca; scrive abitualmente sul quotidiano Haaretz

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24 ottobre 2010

Parole sante!

Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si conclude oggi in Vaticano, nel suo messaggio finale approvato venerdì pomeriggio contiene alcune prese di posizione inequivocabili della Chiesa sulla questione del conflitto israelo-palestinese.

E, infatti, in esso si può leggere:

“Abbiamo avuto coscienza dell'impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell'occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati. Abbiamo riflettutto sulla sofferenza e l'insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani. Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa. Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto. Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l'unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.”.

… “Il Concilio Vaticano II ha pubblicato il documento Nostra aetate, riguardante il dialogo con le religioni, con l'ebraismo, l'islam, e le altre religioni. Altri documenti hanno precisato e sviluppato in seguito le relazioni con l'ebraismo. C'è inoltre un dialogo continuo tra la Chiesa e i rappresentanti dell'ebraismo. Noi speriamo che questo dialogo possa condurci ad agire presso i responsabili per mettere fine al conflitto politico che non cessa di separarci e di perturbare la vita dei nostri paesi.
E' tempo di impegnarci insieme per una pace sincera, giusta e definitiva … Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie. Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell'altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi.”.

E, infine: “... I cittadini dei paesi del Medio Oriente interpellano la comunità internazionale, in particolare l'Onu, perchè essa lavori sinceramente ad una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l'applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l'adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all'Occupazione dei differenti territori arabi.
Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo Stato d'Israele potrà godere della pace e della sicurezza all'interno delle frontiere internazionalmente riconosciute. La Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana. Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà e non resti un semplice sogno.”.

E, dunque, in buona sostanza, cosa ci dicono i vescovi?
Ci parlano della sofferenza del popolo palestinese, in primis della mancanza di libertà di movimento – e qui va notato che la Chiesa è l'unica istituzione a usare il termine corretto di “muro di separazione” senza adottare l'ipocrita termine di “barriera” - delle migliaia di prigionieri ingiustamente detenuti nelle carceri israeliane, della demolizione delle case, dei rifugiati, ci raccontano la sofferenza e l'insicurezza degli Israeliani, e a fronte di ciò indicano come unica soluzione possibile quella di “una pace giusta e definitiva”.

E in cosa consiste una pace “giusta” capace di durare nel tempo proprio perchè tale? In un accordo di pace che preveda il ritiro di Israele entro le frontiere del 1967 (la cd. "Green line”), quelle internazionalmente riconosciute, l'adozione di uno statuto per Gerusalemme che ne garantisca l'uguale fruizione e accesso per i fedeli di tutte e tre le grandi religioni monoteiste, una soluzione equa per il problema dei rifugiati, che magari non consisterà nel rientro in massa in Israele di milioni di persone, ma che non può nemmeno essere del tutto ignorato e accantonato da Israele come dai governi occidentali.

Una pace “giusta” cui deve arrivarsi a mezzo dell'intervento della comunità internazionale, in primo luogo dell'Onu, che dovrà adottare gli strumenti necessari per imporre l'applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e determinare la fine dell'Occupazione dei Territori palestinesi e non solo (il maiuscolo della “O” è nel testo del messaggio).

Ma quello che più impressiona per la sua durezza, probabilmente, è il passaggio relativo alla ripulsa dei vescovi rispetto ad ogni utilizzo di interpretazioni bibliche per fondarvi l'occupazione, la discriminazione, l'ingiustizia, la pulizia etnica.

Concetto maggiormente ampliato, nel corso della conferenza stampa di presentazione dei documenti conclusivi, da Cyrille Salim Bustros, arcivescovo di Newton dei greco-melkiti: “la promessa di Dio nell'Antico Testamento sulla Terra Promessa per noi cristiani è stata abolita dalla presenza di Cristo che ha stabilito il regno di Dio … Non ci sono più popoli preferiti, popoli eletti, … non ci si può basare sul tema della Terra Promessa per giustificare il ritorno degli Ebrei in Israele e l'espulsione dei Palestinesi”.

Concludendo poi: “si sono portati 4-5 milioni di Ebrei e si sono cacciati 3-4 milioni di Palestinesi dalle loro terre in cui avevano vissuto per 1.400 -1.600 anni … non bisogna basarsi sulla Sacra Scrittura per giustificare l'occupazione da parte di Israele della terra palestinese”.

E tali affermazioni risaltano ancor più rispetto all'assordante silenzio di Usa e Ue a fronte dell'irrompere nel processo di pace della pretesa israeliana che i Palestinesi riconoscano la “ebraicità” dello Stato di Israele.

Pretesa che, se da una parte sembra essere l'ennesimo escamotage israeliano per sabotare il processo di pace stesso e poter continuare a espandere le colonie, dall'altra è sintomatica della convinzione, profondamente radicata nella coscienza ebraica israeliana, che gli Ebrei hanno un diritto “divino” sull'intero territorio della Palestina, e che al massimo possono “concederne” qualche pezzetto agli Arabi purché la smettano di scocciare.

Soluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso la formula dei due Stati, applicazione delle risoluzioni Onu, fine dell'occupazione dei Territori palestinesi, inclusa Gerusalemme est, equa soluzione del problema dei profughi, questa è la via che i vescovi indicano perchè si raggiunga la pace tra Israeliani e Palestinesi.

Si può solo sperare che i tanti campioni della cristianità presenti in gran numero nel Pdl come nel Pd facciano tesoro del messaggio dei vescovi e si adoperino a favore di una pace “giusta e definitiva” tra Israeliani e Palestinesi, evitando di affollare becere manifestazioni partigiane organizzate da un colono israeliano.

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20 ottobre 2010

Un giuramento razzista e antidemocratico.

Molto ci sarebbe da dire sulla richiesta avanzata da Netanyahu ai Palestinesi di riconoscere Israele come “territorio del popolo ebraico”, in cambio della moratoria delle costruzioni nelle colonie, e sulla legge che impone, ai fini della cittadinanza, il giuramento di fedeltà ad Israele come “stato ebraico e democratico”.

Sul primo punto, Abu Mazen ha correttamente ricordato che l’Anp ha già riconosciuto da tempo Israele, e che l’ulteriore riconoscimento della “ebraicità” dello stato israeliano non riguarda certo l’Autorità palestinese e nulla ha a che fare con il processo di pace.

Ma è soprattutto il giuramento di fedeltà a Israele come “stato ebraico”, imposto ai non Ebrei, ad aver suscitato le maggiori proteste, non solo all’interno del mondo arabo.

Basterà qui ricordare quanto dichiarato da Oded Feller, avvocato del Centro israeliano per i diritti civili (ACRI): “gli emendamenti alla legge sulla cittadinanza sono illegittimi e contro la democrazia, perché obbligano le persone a dichiararsi fedeli a un’ideologia … Siamo di fronte a una pesante violazione della libertà d’espressione: uno stato che impone ideologie e controlla le opinioni dei suoi cittadini non è una democrazia”.

Persino monsignor Antonio Naguib – patriarca della Chiesa copto-cattolica d’Egitto e relatore generale del Sinodo speciale sul Medio Oriente – ha attaccato con forza gli emendamenti alla legge sulla cittadinanza israeliana, sostenendo che “non si può affermare e annunciare pubblicamente di essere uno stato democratico … e al tempo stesso dire che in questa democrazia si impone una cosa di questo genere … è una contraddizione flagrante”.

Secondo il filosofo israeliano Chaim Gans, Israele giustifica la presenza degli Ebrei in Terra Santa, sia all’interno di Israele sia nei Territori occupati, come se derivasse dal diritto sovrano degli Ebrei all’intero territorio. Questa interpretazione si riflette sia nella politica del governo nei confronti degli insediamenti colonici sia nelle sue politiche discriminatorie nei confronti della minoranza araba. Tale interpretazione è profondamente radicata nella coscienza ebraica israeliana e trova espressione anche nelle motivazioni di coloro i quali, siano essi di destra o di sinistra, sono pure disposti a “concedere” parti della “Terra di Israele”: si deve trovare un punto d’accordo e un modo per dividere il paese non perché sia giusto, ma perché lo richiedono le circostanze.

In tal senso, per le popolazioni arabe riconoscere il carattere ebraico dello stato di Israele è impossibile, in quanto significherebbe accettare uno status di inferiorità all’interno del territorio israeliano, al punto che ne potrebbero persino essere espulsi.

E non è un caso, peraltro, che di recente vi siano state imponenti manovre militari israeliane che hanno simulato una operazione di trasferimento forzoso degli Arabi dalle loro terre e dalle loro case. Non vorremmo che l’irrompere della questione della “ebraicità” di Israele nelle trattative di pace fosse un prologo ad una nuova operazione di pulizia etnica, per arrivare finalmente alla creazione di uno stato ebraico “puro”.

Di questo (e altro) tratta l’articolo che segue, scritto dall’analista libanese Saad Mehio e qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews.

A cosa mira tutto questo gran clamore in Israele attorno al “carattere ebraico” dello stato?

Le interpretazioni non sono molte, ma di fatto ruotano tutte attorno ad un’unica spiegazione: la volontà della leadership israeliana di trasformare lo slogan talmudico-sionista – riguardante la proprietà storica degli ebrei su tutta la terra di Palestina, e non solo (il “grande Israele”) – in una clausola delle trattative con gli arabi e con la comunità internazionale.

Così stanno le cose, in tutta semplicità.

In precedenza, era stato il riconoscimento arabo della legittimità dello stato di Israele, l’obiettivo che gli Stati Uniti avevano fatto proprio, in tutti i suoi particolari. E la più grande concretizzazione di questo obiettivo fu la risoluzione numero 242 del Consiglio di Sicurezza, che fu emessa subito dopo la guerra del 1967, la quale legava con precisione il ritiro dai terrori occupati al riconoscimento arabo della “legittimità” dello stato di Israele.

A quel tempo, il diplomatico americano Eugene Rostow – il padre spirituale di questa risoluzione – coniò lo slogan: “Se gli arabi vogliono giustizia, allora devono assicurare giustizia all’altra parte”. Il che voleva significare, chiaro e tondo, il riconoscimento ufficiale di Israele.

Tuttavia, le circostanze sono enormemente cambiate dopo gli accordi di Camp David, Oslo e Wadi Araba. La maggior parte degli arabi ha riconosciuto, pubblicamente o implicitamente, lo stato di Israele, e ha allacciato con esso – pubblicamente o implicitamente – relazioni diplomatiche, di sicurezza e commerciali.

Dunque, il riconoscimento della legittimità dello stato di Israele non era più sufficiente per giustificare gli scopi del movimento sionista, che si basavano – e continuano a basarsi – sul “diritto storico” degli ebrei su tutta la Palestina. Nonostante le divergenze su come realizzare questo obiettivo, tra le correnti del movimento sionista – che si è diviso in “pragmatici” (come Ben Gurion e gli altri leader del partito laburista), i quali acconsentono ad una “rinuncia” temporanea di alcuni di questi territori storici, e “ideologici” (i discepoli di Jabotinskij , seguaci del Likud e “talmudisti”) i quali rifiutano un tale compromesso – tutti erano d’accordo su un principio fondamentale: il dominio in ogni modo sull’intera Palestina.

Il rimedio all’insufficienza della condizione della “legittimità”, per soddisfare questo obiettivo, è arrivato proponendo la condizione del “carattere ebraico” di Israele. Ed è stata, in realtà, una soluzione geniale. Essa infatti mette i palestinesi, gli arabi e gli occidentali senza distinzione, davanti a una nuova equazione, che sostituisce l’equazione “terra in cambio del riconoscimento e della pace” – sulla quale si era basata la risoluzione 242, e con essa tutti gli sviluppi dello scorso mezzo secolo – con l’equazione “riconoscimento del ‘carattere ebraico’ della terra in cambio della pace”.

Questo capovolgimento nei criteri e nelle condizioni per una risoluzione, non è rimasto lettera morta, ma è stato messo in pratica velocemente, tramite iniziative quali:

- Presentare questa richiesta ufficialmente, nei negoziati diretti con i palestinesi a Washington e anche durante il vertice fra Obama e Netanyahu. Sebbene il presidente Abbas si sia trovato costretto a non prendere sul serio questo tipo di proposta, il presidente americano non ha seguito il suo esempio e ha rilasciato una dichiarazione riguardo al suo impegno assoluto a favore della sicurezza di Israele, dichiarazione che è stata subito interpretata da Netanyahu come un consenso del presidente americano al “carattere ebraico dello stato”.

- L’approvazione della proposta del ministro della giustizia israeliano, Yaakov Neeman, di cambiare la legge sulla cittadinanza israeliana, in maniera tale che chiunque desideri ottenere il documento d’identità israeliano dovrà pronunciare un giuramento di fedeltà a Israele in qualità di “stato ebraico e democratico”.

- Infine lo svolgimento, qualche giorno fa, di imponenti manovre militari da parte dell’esercito israeliano che simulano un’operazione di “transfert” (trasferimento/espulsione) degli arabi del ‘48 dalle loro terre e dalle loro case, in preparazione dell’attuazione dell’ideale di uno stato ebraico puro, che potrebbe essere realizzato sia obbligando i palestinesi a una soluzione che includa questo trasferimento, sia attraverso una nuova guerra totale.

Tutti questi sviluppi indicano che la questione del carattere ebraico di Israele non è più solo un gioco tattico a parole, ma è un orientamento strategico, i cui elementi stanno quasi giungendo a maturazione.

Saad Mehio è un analista politico libanese; scrive abitualmente sul quotidiano “al-Khaleej” degli Emirati Arabi Uniti

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19 ottobre 2010

Un thriller di propaganda filo-israeliana.


Esce proprio oggi nelle librerie Usa il nuovo thriller dello scrittore Joel C. Rosenberg dal titolo “Il Dodicesimo Imam”.

La trama è avvincente e suggestiva. Mentre gli “apocalittici” leader dell’Iran invocano l’annientamento di Israele e (niente meno…) degli Stati Uniti, l’agente della CIA David Shirazi viene mandato a Teheran con un unico obiettivo: distruggere le armi nucleari in possesso degli infidi iraniani, senza lasciar traccia (e ci mancherebbe…) e, soprattutto, senza innescare una guerra regionale (che sarebbe sempre alquanto spiacevole).

Mentre Shirazi si infiltra all’interno del governo iraniano, si diffonde la notizia di un oscuro uomo di fede salutato come il Messia islamico, meglio noto come il Mahdi o il Dodicesimo Imam. Si diffondono a macchia d’olio, in particolare, voci sui suoi miracoli, guarigioni, segni, prodigi, e su una nuova, terribile guerra.

Con la profezia del Dodicesimo Imam che sembra avverarsi, l’Iran si prepara a colpire Israele e a portarci tutti alla Fine dei Tempi. Shirazi deve intervenire per salvare il suo paese e noi tutti, ma il tempo scorre inesorabile…

Joel C. Rosenberg è un personaggio interessante. Americano, autore di best-seller e stratega della comunicazione, è un Cristiano evangelico il cui padre è stato cresciuto in una famiglia ebrea ortodossa. Collaboratore, tra gli altri, dell’attuale primo ministro israeliano Netanyahu, è il fondatore e presidente del Joshua Fund, un’organizzazione no-profit che si prefigge di “benedire Israele e i suoi vicini nel nome di Gesù, secondo la Genesi 12:1-3”.

Ora, un thriller politico dovrebbe narrare non fatti veri ma, almeno in una certa misura, verosimili; qui, invece, assistiamo ad un esercizio della più sfrenata fantasia, ad un sovvertimento della realtà, laddove è Israele a possedere armi atomiche e non l’Iran, è Israele a voler attaccare l’Iran e non viceversa, è Israele ad aver elaborato una dottrina che prevede l’uso delle armi nucleari nel caso in cui l’esistenza dello stato israeliano venga ad essere minacciata (la cd. Samson Option).

Ma, naturalmente, la propaganda filo-israeliana non conosce limiti.

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15 ottobre 2010

La pace di Israele è solo un bluff.

Gli ennesimi colloqui di pace tra Israeliani e Palestinesi, appena iniziati, si trovano già in una fase di stallo, a causa dell'ostinato rifiuto da parte di Israele di sospendere l'attività di espansione delle colonie: proprio in questi giorni, il governo Netanyahu ha approvato la costruzione di 3.500 nuove unità abitative, di cui 238 a Gerusalemme est.

E', dunque, abbastanza normale che non siano in molti a nutrire fiducia nel buon esito di questi negoziati e, tra essi, vi è anche il leader di Hamas Khaled Meshaal, qui intervistato da Gianni Perrelli per l'Espresso n.41 in edicola la scorsa settimana.

La pace di Israele e' solo un bluff.

colloquio con Khaled Meshaal di Gianni Perrelli

Il negoziato per il Medio Oriente è un'altra volta in un vicolo cieco per colpa dell'ostinazione di Israele. Noi Palestinesi non abbiamo la forza sufficiente per poter dialogare alla pari. E il loro premier, Benjamin Netanyahu, non fa nulla per colmare questo squilibrio e favorire lo sviluppo della trattativa. E rifiuta tutte le nostre proposte...

Khaled Meshaal, 54 anni, leader dal 2004 di Hamas (il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza e che nella galassia della resistenza ha le posizioni più radicali), è pessimista sulla ripresa dei colloqui promossa da Barack Obama tra Netanyahu e il Presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. E' da quattro decenni in esilio, non trascorre mai due notti di seguito nello stesso letto, ha subito almeno tre attentati.

Il più grave, nel settembre del '97, fu ordito proprio da Netanyahu (anche allora premier) che inviò a Amman una squadra di dieci agenti segreti. I sicari si intrufolarono di notte nella casa di Meshaal e, mentre dormiva, gli iniettarono una dose di veleno nel collo. Due degli attentatori furono arrestati. Re Hussein di Giordania intimò al governo israeliano l'invio dell'antidoto che strappò il capo palestinese alla morte.

"L'espresso" ha incontrato Meshaal in una sede superblindata alla periferia di Damasco. Occhio attento alle news che scorrono in televisione, scettico, quasi sprezzante, sull'invito rivolto da Netanyahu ai Palestinesi di non abbandonare il tavolo delle trattative.

"Abu Mazen, dopo la fine della moratoria sugli insediamenti, ha giustamente detto che è impossibile proseguire il dialogo. Ma il governo israeliano finge di cercare ancora la pace solo per dimostrare di essere veramente interessato al negoziato. Un modo per prendere tempo. Spetta alle grandi potenze smascherare questo inganno. In primo luogo agli Stati Uniti, ma anche all'Europa, che non può sottrarsi alle sue responsabilità. Perchè il dramma mediorientale è un bubbone che sta infettando tutto il mondo".

Migliorerebbe la prospettiva se in Israele fossero al governo i laburisti?

"Netanyahu è sicuramente un estremista. Ma anche quando erano al potere i laburisti non è successo niente. Il rifiuto degli israeliani dipende dal sionismo. Chi conosce la storia sa che è una filosofia di vita prima ancora che una dottrina politica".

Non pensa che Israele potrebbe avere un atteggiamento più morbido se decideste di liberare il soldato Gilad Shalit, prigioniero dal 2006?

"Per il momento il suo rilascio è fuori discussione. Nelle carceri israeliane i nostri prigionieri politici sono 8mila. Abbiamo proposto, in cambio della restituzione di Shalit, che ne liberassero un centinaio. Ma Netanyahu non è interessato".

Abu Mazen si è consultato con lei, magari indirettamente, prima di iniziare i colloqui di pace?

"No, i canali di comunicazione sono interrotti. Ma stiamo lavorando per riprendere a confrontarci. E' necessario fare uno sforzo comune per ritrovare l'unità fra tutti i gruppi della resistenza".

Hamas però è accusato di non rispettare a Gaza i parametri classici della democrazia.

"E' una affermazione ingiusta. Un frutto del complotto contro la nostra sicurezza che attraverso il blocco ha l'obiettivo di rovesciare il legittimo governo di Gaza".

Se fosse presente anche lei al negoziato quale strategia di dialogo adotterebbe?

"Prima di iniziare una vera trattativa per far cessare il conflitto, Israele dovrebbe impegnarsi a riconoscere sulla carta i nostri diritti. Solo così potremmo dialogare alla pari. Altrimenti, fino a che ci troveremo in una condizione di inferiorità, i colloqui per noi sono solo pericolosi. Servono invece a Netanyahu per uscire dall'isolamento cercando di relegare in secondo piano l'occupazione dei nostri territori. E sono utili anche ad Obama per rimontare la corrente alla vigilia delle elezioni di novembre".

Obama e Hillary Clinton sembrano in realtà guardare più lontano: al traguardo storico della pace duratura che conferirebbe un altissimo profilo all'attuale Amministrazione americana.

"Se è così, perchà non hanno mai mosso un dito contro la prepotenza degli israeliani? Noi abbiamo proposto di ripristinare le frontiere del '67. Ma gli Usa continuano ad avere un occhio di riguardo per Netanyahu che non mostra alcuna voglia di aderire a questo piano. Gli stessi giornali israeliani, sul fronte della sicurezza, scrivono che la linea politica di Obama è una garanzia per il loro popolo. E il mediatore americano George Mitchell nei suoi colloqui del Cairo ci ha esortato a non rompere il negoziato senza parlare della ripresa degli insediamenti".

Anziché irrigidirsi non sarebbe più costruttivo proporre qualche compromesso, andando incontro alla sacrosanta esigenza di sicurezza degli israeliani? Una trattativa non si sblocca mai se non si trova un punto di mediazione.

"Un giusto compromesso lo abbiamo individuato vent'anni fa quando, proponendo il ritiro di Israele nelle frontiere del '67, ci siamo detti disposti a rinunciare in cambio della pace al 20 per cento del nostro territorio. E' stata una concessione di non poco conto. Ora è ingiusto che ci chiedano altri sacrifici. L'obiettivo inderogabile resta la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, il ritorno ai confini antecedenti la guerra dei sei giorni, il diritto al rimpatrio dei profughi. Meno di questo non possiamo accettare".

Se neanche stavolta sarà individuata una via d'uscita, che scenario immagina per il futuro?

Se la porta resterà chiusa non potrà che continuare la nostra resistenza. Non abbiamo altra scelta".

Può scoppiare la terza Intifada?

"Può essere uno sbocco".

Ma accentuerebbe il vostro isolamento.

"Non siamo così soli. Ci è molto vicina la Turchia. E possiamo contare su amici fidati come l'Iran, la Siria, il Qatar, il Sudan".

Lei è mai stato contattato come possibile interlocutore dagli inviati di Obama?

"Direttamente no. Ci sono stati solo contatti marginali. Con funzionari in pensione mandati a Damasco per tastare il terreno".

Come giudica la politica estera di Obama?

"Le sue mosse iniziali sembravano dischiudere un approccio amichevole nei confronti del mondo arabo. Poi qualcosa è cambiato. E in questo negoziato Obama non si è certo stracciato le vesti per impedire che Netanyahu estendesse l'occupazione. E' possibile che il presidente americano sia animato da buone intenzioni, ma non riesce a metterle in pratica. O perchè non ha la forza sufficiente o perchè è ostacolato da influenze esterne".

Sul dossier Iran cosa pensa della linea di Washington?

"Penso che i problemi gli arriveranno ancora una volta da Israele, che sta valutando la possibilità di attaccare l'Iran".

Un'eventuale bomba iraniana non è una minaccia per tutto il Medio Oriente?

"Se a Obama da' fastidio la presenza dell'atomica in quest'area, perchè non interviene su Israele che l'ha in dotazione?".

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13 ottobre 2010

Gaza risponde a Roberto Saviano.



Abbiamo avuto già modo di parlare della maratona oratoria svoltasi lo scorso 7 ottobre a Roma, nel corso della quale gli "Amici di Israele" si sono imbarcati nel tentativo, a dire il vero impossibile, di migliorare l'immagine di questo stato-canaglia massacratore di bambini.

Il blog di Miguel Martinez riporta lo stralcio degli interventi di alcuni dei partecipanti, questo è invece il video di risposta a uno di essi, lo scrittore Roberto Saviano, del noto attivista e blogger Vittorio Arrigoni, che ha così commentato sul suo blog la manifestazione:

Giovedì 7 ottobre a Roma e' andata in scena un pantomima organizzata dai coloni israeliani che sa di istigazione alla violenza alla massima potenza, lodando ai massacri israeliani da Deir Yassin a Sabra e Shatila passando per una Gaza ridotta in macerie, un corteo di tifosi beceri e razzisti ha inneggiato a più di sessant’anni di occupazione e oppressione, al fosforo bianco contro scuole dell’ONU e ospedali, a migliaia di prigionieri politici rinchiusi e torturati nei lager, ai campi di concentramento ancora in voga nel 2010, alla costante pulizia etnica che ha prodotto e produce milioni di profughi e decine di migliaia di vittime in Palestina.

Fra i ferventi sostenitori di questo evento che getta vergogna sul nostro Paese anche lui c’erano Lucio Dalla, Massimo Ranieri, Raiz, Walter Veltroni, Piero Fassino, Furio Colombo, Francesco Rutelli, Giovanna Melandri, Rita Levi-Montalcini, Umberto Veronesi, Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giorgio Albertazzi e anche lui, l'autore di Gomorra.

Che il dolore dei torturati possa torturare i loro sogni.

In questo videomessaggio Gaza risponde a Roberto Saviano, ribatto colpo su colpo le allucinanti dichiarazioni dello scrittore estimatore di Peres rilasciate durante la manifestazione “Per la verità, per Israele."

Restiamo Umani

Vittorio Arrigoni da Gaza city

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11 ottobre 2010

Aggiornamento sul convoglio VivaPalestina5.

Chi ha avuto l’occasione di visitare la Palestina occupata conosce bene la tecnica dei check-point israeliani, quelli fissi e quelli mobili: una tecnica per controllare, umiliare, infliggere illegali punizioni collettive, fiaccare la resistenza della popolazione civile palestinese. Una tecnica che si è evoluta in forme sempre più sofisticate e disumane. Il check-point di Kalandia tra Gerusalemme e Ramallah, alcuni anni fa manteneva ancora qualche cosa di umano: la possibilità almeno di vedere in faccia l’oppressore; ora è stato aggiornato in un dispositivo tutto automatizzato e completamente anonimo che tratta i palestinesi come fossero dei sub-humans.

Dell’oppressore si possono ascoltare solo gli ordini.

Anche l’Egitto evidentemente si sta esercitando nella tecnica del check-.point con il convoglio VivaPalestina. Se è vero che la trattativa di Damasco si è conclusa con un accordo in cui il prezzo da pagare è stata la rinuncia di Galloway a entrare in Gaza, ora il governo egiziano continua a giocare sui tempi e sui modi dell’ingresso, sperando forse di fiaccare la resistenza dei 380 attivisti accampati nel campo profughi di Lattakya. Miserabili ritorsioni e intimidazioni da parte di un governo e di un potere che è avviato irrimediabilmente verso il tramonto. Ma non per questo si tratta di comportamenti tollerabili. Kevin Ovenden, direttore del convoglio, nella press conference di sabato 9, di fronte ai media mediorientali e internazionali, ha mostrato campioni delle armi di distruzione di massa di cui è dotato il convoglio: carte, penne, album da disegno, zainetti per gli studenti, medicinali, carrozzine per disabili e via enumerando. Evidentemente il governo egiziano non si rende conto del ridicolo di cui si rende responsabile. Ma non per questo tale atteggiamento è tollerabile e da parte del Convoglio parte l’invito di rivolgere proteste e pressioni ai governi, ai ministeri degli esteri e alle ambasciate dei 27 paesi partecipanti, affinché tale comportamento abbia immediatamente fine e il convoglio, fermo e in un certo senso sequestrato nel porto di Lattakya, possa partire per El Arish e da lì, senza ulteriori ostacoli, entrare a Gaza.

Press conferente di domenica 10 ottobre, ore 18: Kevin Ovenden fa il punto della situazione, annuncia che alle 11 di lunedì un gruppo di 30 veicoli algerini si sposterà dal campo profughi direttamente al porto di Lattakya , come forma di protesta e di pressione nei confronti delle autorità egiziane. Il convoglio ha già ottemperato a tutte le condizioni poste dai funzionari egiziani e sono stati forniti tutti i dati richiesti su attivisti, veicoli e aiuti; ma l’atteso via libera alla partenza ancora non arriva. In nessuno dei precedenti convogli le richieste egiziane erano state così assurde e particolareggiate.

Nella serata di domenica 10, tutte le nazioni presenti partecipano a un concerto-happening. Il gruppo italiano propone prima la lettura di un estratto da Stato d’Assedio di Mahmoud Darwish e poi si produce in una applauditissima esecuzione di Bella ciao, un simbolico collegamento fra la resistenza palestinese e la resistenza italiana nella lotta al nazifascismo.

Ism italia
Lunedì 11 ottobre 2010

Palestina News - voce di ISM (International Solidarity Movement) Italia http://www.ism-italia.org

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8 ottobre 2010

Solidarietà con la Senatrice Alima Boumediene-Thiery.

Parallelamente alla repressione dell'attivismo palestinese non violento – attuata con arresti arbitrari e uso sproporzionato della forza – Israele ha scatenato le sue lobbies sparse per il mondo per tentare di fermare il crescente successo del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), che mira a mettere sul banco degli imputati l'occupazione dei territori palestinesi e a mettere sotto pressione lo stato israeliano e le sue politiche razziste e discriminatorie.

E' chiara, infatti, l'estrema difficoltà dello stato israeliano nell'affrontare un movimento popolare di protesta assolutamente pacifica, contro cui non può brandire il solito armamentario fatto di vittimismo.

In questo quadro si inseriscono le incredibili accuse di “discriminazione contro la nazione israeliana” mosse contro la Senatrice francese Alima Boumediene-Thiery, alla cui difesa siamo tutti chiamati – come nota il documento di solidarietà del Forum Palestina che qui sotto riportiamo – per combattere una “battaglia di solidarietà e insieme di agibilità politica che va aldilà dei confini francesi e che rischia di essere un precedente per l’intera Europa”.

Piena solidarietà con la senatrice Alima Boumediene-Thiery
Sit In davanti all'ambasciata francese in Piazza Farnese

Il movimento di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni contro l’economia di guerra e l'apartheid israeliana è stato messo sotto processo in Francia per la seconda volta. Giovedi 14 ottobre la Senatrice Alima Boumediene-Thiery sarà chiamata sul banco degli imputati con l’accusa di “istigazione all'odio razziale” e “discriminazione contro la nazione israeliana”.

Questo processo ha luogo mentre, nonostante la complicità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nei confronti di Israele, sta crescendo in tutto il mondo un movimento di condanna e di pressione contro la politica razzista e la pulizia etnica israeliana, un movimento che si esprime anche attraverso lo strumento del Boicottaggio dell’economia di guerra israeliana.

In soli cinque anni questo movimento si è esteso, ramificato e strutturato dando vita a campagne di sensibilizzazione che hanno prodotto significativi risultati.

Molti sono i musicisti, gli attori di fama internazionale come Carlos Santana, Elvis Costello, Scott Heron, Gorilla'z, Dustin Hoffman solo per citarne alcuni, hanno ritirato la loro partecipazione ai festival promossi dalle istituzioni israeliane nella Palestina occupata, mentre intellettuali, artisti e docenti israeliani che hanno apertamente sostenuto le tesi sioniste e colonialiste israeliane sono stati "accolti" da partecipate contestazioni e azioni di boicottaggio in ogni angolo del vecchio continente.

La politica israeliana attraverso la pratica del terrore e dello spregio del diritto internazionale sta determinando nella coscienza generale la necessità di dare una pace giusta, una terra dai confini certi e rispettati al popolo Palestinese. L’equazione antisionismo uguale antisemitismo è giustamente recepita come un meschino ricatto morale, sono gli stessi democratici di cultura ebraica a sottolineare come sia immorale identificare la politica dello stato israeliano con l’ebraismo.

La campagna di boicottaggio sta macinando successi anche nel campo del boicottaggio economico, delle sanzioni istituzionali e del disinvestimento. Diversi governi e parlamenti dall’Uruguay, al Venezuela, al Cile hanno richiesto sanzioni nei confronti di Israele, molti sono i sindacati nazionali tra cui la USB e la Fiom, ai quali si è aggiunta la WFTU (World Federation Trade Union) che hanno adottato la campagna BDS.

L’affermazione del movimento BDS nato in Palestina e che va estendendosi come movimento internazionale, preoccupa molto i sionisti dentro e fuori Israele, tanto che il governo israeliano ha richiamato all’appello le lobbyes sioniste perché facciano pressione sui propri governi affinché il Boicottaggio sia perseguito per legge, magari utilizzando l’accusa di antisemitismo.

La repressione contro gli attivisti della campagna BDS è in piena escalation in Francia con processi contro gli attivisti ed ora con la persecuzione/intimidazione della senatrice Alima Boumediene-Thiery, che un anno fa ha partecipato ad un'azione BDS nella regione di Parigi e che supporta attivamente la campagna BDS. Il suo processo è previsto giovedì 14 ottobre a Pontoise (Nord di Parigi). Alima è accusata (come tutti gli altri attivisti BDS perseguiti) di “istigazione all'odio razziale” e “discriminazione contro la nazione israeliana”.

Il querelante, Sammy Ghozlan, è un noto lobbista sionista sostenuto nella sua azione dal governo francese. Il governo Fillon sta facendo pressioni sulla magistratura affinché i giudici francesi condannino i militanti del movimento BDS. Sammy Ghozlan ha intentato più di 80 denunce per razzismo, è un fanatico che scrive articoli deliranti sui siti dei coloni israeliani non solo contro i palestinesi ma anche contro il giudice internazionale Richard Goldstone definito una “merda” e un “bastardo” ed è riuscito a paragonare Obama al Faraone che “rese schiavi gli ebrei”.

Questo processo riguarda una compagna, una senatrice democratica ed è quindi l'intero movimento internazionale per il BDS che rischia di perdere con lei un membro del parlamento e il diritto a farla rieleggere in caso di condanna. Molti complici dei crimini di guerra israeliani sarebbero felice di sbarazzarsi di lei, perché Alima è attiva su molti fronti “scomodi”, come la questione degli immigrati, dell'islamofobia, della situazione dei prigionieri,e di ogni tipo di discriminazione e legge repressiva. Alima da membro del Parlamento Europeo nel 2002, ottenne un voto a favore della sospensione degli accordi commerciali fra Europa e Israele .La difesa di Alima è una battaglia di solidarietà e insieme di agibilità politica che va aldilà dei confini francesi e che rischia di essere un precedente per l’intera Europa.

Lunedì 11 Ottobre ore 17.30

Sit In davanti all'ambasciata francese in Piazza Farnese

Piena solidarietà con la senatrice Alima Boumedien-Thiery

Forum Palestina
Comitato con la Palestina nel cuore

per adesioni :
solidarietaconalima@gmail.com
cell.3471845229

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6 ottobre 2010

Un esercito di ballerini e di vili canaglie.

Non finiscono mai di sorprendere i soldati israeliani! In questo ultimo video, un soldato dell'Idf si esibisce accanto ad una prigioniera palestinese legata e bendata, mostrando le sue doti di ballerino e, insieme, il razzismo e l'immoralità che permea questo esercito di canaglie.

Non è la prima volta che i soldati israeliani si dedicano alle danze, come in quest'altro video girato a Hebron, che sollevò le proteste dei Palestinesi, alcuni dei quali, giustamente, manifestarono esibendo dei cartelli con scritto "andare a ballare a casa vostra"!

Ma, soprattutto, non è la prima volta che i soldati israeliani umiliano e deridono inermi palestinesi arrestati o fermati ai checkpoint, fotografandoli oppure augurandogli come dono - da parte degli infami della Golani - un bel pezzo di legno da infilare su per il c..o!

E ora ci tocca di assistere a questa ennesima prodezza da parte di un esercito di assassini e di vili canaglie, bravi solo a massacrare civili inermi o a molestare prigionieri legati e bendati, e pronti invece a scappare quando si tratta di affrontare una milizia appena un minimo organizzata, come accaduto di recente in Libano.

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5 ottobre 2010

La Israel Lobby italiana arruola nuovi adepti.

Giovedì 7 ottobre, alle ore 18:00, gli “Amici di Israele” si raduneranno a Piazza di Pietra a Roma per “dare il proprio contributo contro la campagna di demistificazione” in atto contro lo stato ebraico, con lo slogan “per la verità, per Israele”.

Ma quale “verità” ci racconteranno? Forse elogeranno la moralità e la moderazione dell’esercito israeliano, che in pochi giorni a cavallo tra il 2008 e il 2009 si è limitato a uccidere oltre 1.400 Palestinesi, di cui ben
352 bambini. Oppure esalteranno il carattere civile e democratico di un Paese che, unico al mondo, conduce una occupazione militare diretta di territori altrui, che si concede di tenere in carcere un Premio Nobel per la Pace, e il cui esercito non arretra nemmeno davanti all’infamia di usare bambini come scudi umani.

Come nota la lettera aperta del Forum Palestina sull’argomento, che riportiamo qui sotto, la Israel Lobby italiana è ben rappresentata, in modo bipartisan, in tutto l’arco costituzionale, ma ha ben poca influenza sulla società civile, all’interno della quale, pur se faticosamente (a causa della manipolazione e dell’occultamento delle notizie da parte dei media di regime), si fa sempre più strada la consapevolezza dell’iniquità e della ferocia dell’occupazione israeliana.

E così, per dare un maggior appeal alla manifestazione e per cercare di migliorare l’immagine di Israele (impresa, a dire il vero, titanica…), gli organizzatori della manifestazione, e in primis il colono israeliano illegale On. Nirenstein, accanto ai soliti Veltroni, Ferrara, Cicchitto, Buttiglione e compagnia, hanno cercato di arruolare alcuni volti nuovi che si suppone possano riverberare la simpatia e la popolarità di cui godono sullo stato-canaglia israeliano.

Spiace, dunque, che a questa operazione propagandistica si siano prestati personaggi di chiara fama come Roberto Saviano e Umberto Veronesi, nonché vari musicisti tra i quali Lucio Dalla, Massimo Ranieri e Raiz (ex Almamegretta).

Non si riesce davvero a capire come, ancora oggi, vi sia gente disposta ad arruolarsi sotto le bandiere del sionismo, a difesa di uno stato-canaglia i cui crimini sono facilmente conoscibili da chiunque attraverso le pagine web non di siti di ispirazione antisemita, ma di quelle di ong di chiara fama e sicura imparzialità come B’tselem o Human Rights Watch, o attraverso i documenti ufficiali dell’ONU e dell’OCHA.

P.S. Sullo stesso argomento, come segnalatomi in un commento dall’amica arial, si veda anche la ferma
presa di posizione degli Ebrei contro l’occupazione (Rete Eco).

Giovedi 7 ottobre a Roma, la Israel Lobby italiana, resa più attiva dalla presenza in Parlamento dell’on. Fiamma Nirenstein, (che in Israele vive nella colonia illegale di Gilo a Gerusalemme), ha organizzato un evento apertamente a sostegno dello Stato di Israele e della sua politica.

Che l’establishment israeliano si senta con l’acqua alla gola nelle sue relazioni internazionali e con il comune senso della giustizia che fortunatamente ancora agisce nell’umanità, era evidente da tempo. Ma gli "amici di Israele" in Italia non possono sottrarsi al senso di realtà che mette in contraddizione la politica israeliana con i più elementari criteri di giustizia.

La narrazione sionista sulla nascita e l’esistenza dello Stato di Israele si è retta fino a ieri su alcuni punti di forza che stanno però cedendo di fronte all’evidenza dei fatti:
1) La nascita di Israele come risarcimento del debito di sangue verso le comunità ebraiche perseguitate e sterminate dal nazifascismo e dal milieu reazionario e antiebraico esistente e agente in Europa;
2) La continua espansione territoriale di Israele rispetto ai confini stabiliti dall’ONU nel 1948 presentata come necessità vitale di “autodifesa” di un baluardo del modello occidentale dentro al “mare della barbarie arabo-islamica”.
3) Il rifiuto di Israele di ottemperare alle risoluzioni dell’ONU come esercizio della “specificità israeliana” nel contesto delle relazioni e della comunità internazionale
4) Israele presentato come paese perennemente minacciato e messo in pericolo dentro e fuori i suoi confini.

Questi quattro punti hanno agito per anni cercando di costruire intorno ad Israele una legittimità morale e internazionale che i fatti hanno però sistematicamente logorato e sgretolato. Per verificarlo è sufficiente guardare una mappa della regione, rammentare il massacro dei palestinesi a Gaza, il sanguinoso raid sulla nave Mavi Marmara, i bombardamenti sul Libano, la pulizia etnica dei palestinesi in corso a Gerusalemme etc. etc. etc. etc. etc.

In questa narrazione su Israele mancano sempre e completamente gli abitanti esistenti nella Palestina storica, cioè i palestinesi, i quali – come minimo – avrebbero tutto il diritto di vivere ed avere un proprio Stato almeno sui confini decisi dall’ONU nel ’48 oppure in un solo Stato in cui convivano democraticamente tutti coloro che abitano in quel territorio senza discriminazioni religiose, etniche, politiche.

La legittima terra palestinese in questi sessanta anni è stata sottratta quasi completamente da Israele riducendola a qualche agglomerato urbano in mezzo al territorio israeliano. Non solo. I palestinesi dovrebbero anche rinunciare a qualsiasi ambizione di sovranità e indipendenza per ridursi alla condizione di eterni profughi da affidare alle agenzie delle Nazioni Unite e al business delle ONG. Nella migliore delle ipotesi dovrebbero scomparire come istanza nazionale e finire assimilati dagli stati arabi confinanti.

Il risarcimento dell’Europa verso le comunità ebraiche è stato dunque pagato da un altro popolo – quello palestinese – e da una complicità che ha consentito ad Israele di agire e usufruire sistematicamente di un doppio standard nel rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani.

Questi dati di fatto – che sono e potrebbero essere conosciuti e documentati in modo più che inoppugnabile – hanno via via logorato la narrazione colonialista e sionista delle leadership israeliane e dei loro apparati ideologici di stato. Risultato? La comunità internazionale e l’umanità non riconosce più ad Israele la condizione di sentirsi uno “Stato più uguale degli altri”. La complicità o l’inerzia dei governi europei – e ovviamente degli USA – o l’attivismo aggressivo delle lobby filo-israeliane nei vari paesi, non basta più a permettere che, come ha detto lo storico israeliano Ilan Pappe, Israele possa continuare a fare quello che fa.

Ecco dunque che anche nel paese “migliore alleato di Israele in Europa” come l’Italia, la lobby filo-israeliana deve tentare il tutto per tutto per opporre al crescente, elementare e comune senso della giustizia verso i palestinesi, una propria dottrina ufficiale alla quale va piegata la politica, la cultura, l’informazione, la diplomazia.

Chi sono gli amici di Israele?

Sta qui la natura dell’evento del 7 ottobre messo in piedi dall’on. Nirestein e dal ristretto gruppo di "amici di Israele", un gruppo che da anni cerca di agire con la stessa efficacia della “Israel Lobby” negli Stati Uniti. Il problema è che la sua influenza è forte nel ceto politico e nei giornali patinati ma è debolissima nella società anche e proprio a causa della crescente divaricazione tra ceto politico, sistema dei mass media e la gente normale.

L’on. Nirestein e le autorità israeliane hanno dunque ritenuto opportuno cercare di arruolare in una narrazione ingestibile nuove personalità che possano godere di maggiore simpatia nella società di quanta ne ispirino e raccolgano i soliti Veltroni, Rutelli, Ferrara, Cicchitto, Buttiglione, Battista, Mieli etc.

Ed ecco che alcune personalità si prestano a questo arruolamento nel fronte di coloro che sistematicamente tacciono sulle sofferenze e le ingiustizie contro il popolo palestinese.

Dobbiamo ammettere che non ci meraviglia affatto l’adesione di quello che è stato giustamente e recentemente definito “un eroe di carta” come Roberto Saviano in questa armata dei silenti (ma sensibili ai potenti), o di un artista incline ormai al fascino della "potenza temporale" dello spirito come Lucio Dalla. Decisamente incomprensibili appaiono le adesioni di musicisti come Raiz (ex Almamegretta) e Massimo Ranieri o del prof. Veronesi.

Né può soprendere che ad aprire i lavori dell’evento “degli amici di Israele” sia un aperto erede del franchismo spagnolo come l’ex premier iberico Josè Aznar, autore di un recente pamphlet contro l’indigenismo in America Latina che riafferma tutta la narrazione razzista e colonialista nel rapporto tra occidente e latinoamerica.

I nuovi amici di Israele che accettano di arruolarsi in questa compagine, devono convivere con la propria coscienza e la propria complicità con il silenzio sulle ingiustizie tuttora subite dai palestinesi o espellerle dalla propria visione del mondo…esattamente come hanno fatto e stanno facendo i protagonisti della politica israeliana, anche nel nostro paese.

Nessuna complicità con il silenzio e l'apartheid

In Italia, fortunatamente, non esistono e agiscono solo i chierici e i soldati del silenzio. Esiste ed agisce un tessuto associativo e reti di solidarietà che hanno fatto della battaglia di giustizia e verità sulla questione palestinese un terreno non residuale né minoritario. Sono stati in grado di riempire intere piazze nelle città italiane e non solo esclusive sale convegni; sono attivi nella crescente campagna internazionale di boicottaggio, sanzioni, disinvestimento dell’economia di guerra israeliana; leggono e sanno scegliere autori di libri o produzioni artistiche giudicandone la coerenza morale oltre che le capacità; partecipano alla vita politica e culturale del paese; visitano spesso, documentano e raccontano quello che vedono nei territori palestinesi sottoposti all’occupazione militare e all’apartheid israeliani o nei campi profughi palestinesi; utilizzano efficacemente il mainstream annullando il ferreo controllo sull’informazione ufficiale; si muovono in Europa e nel mondo moltiplicando e amplificando le singole iniziative di protesta; espongono e ostentano la kefijah o la bandiera palestinese perchè sono vissute nella società come una emblemi di giustizia e di libertà e non di oppressione come quella israeliana. La forza dei loro argomenti è immensamente superiore a quella degli "amici di Israele". Costoro se ne facciano una ragione e chi ha un minimo di coscienza scelga di disertare l’esercito del silenzio, dell'occupazione e dell'apartheid.

Il Forum Palestina

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