30 marzo 2011

In Europa le menzogne israeliane hanno sempre meno presa.

Nell’interessante articolo che segue, scritto da Daud Abdullah per il sito web di al-Jazeera e qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews, si da’ conto di un recente sondaggio condotto in vari paesi europei, da cui si evince un sempre crescente distacco tra i cittadini Ue e i rispettivi governi nazionali riguardo a Israele, al suo essere o meno uno stato “democratico”, ai rapporti da tenere con esso.

Nonostante l’aggressività e l’influenza economica e politica della lobby ebraica nei vari paesi europei, e malgrado la disinformazione sparsa a piene mani dai media di regime, nell’opinione pubblica si fa’ strada ogni giorno di più la consapevolezza della brutalità e dell’efferatezza dei crimini commessi da Israele e dell’intollerabilità delle quotidiane violazioni dei diritti umani poste in essere da questo stato-canaglia ai danni del popolo palestinese.

Una spinta in più per proseguire ed intensificare l’opera di informazione sui crimini dell’occupazione israeliana e le campagne di boicottaggio e di disinvestimento nei confronti dello stato ebraico.

Gli Europei divisi su Israele. di Daud Abdullah – 13.3.2011

Il Medio Oriente non è l’unica regione in cui si assiste ad un crescente divario tra i governi e le persone. Un importante sondaggio condotto in Europa ha mostrato come i governi siano sempre meno in sintonia con le opinioni delle loro popolazioni sul conflitto in Palestina.

Questo è uno dei principali risultati di un’indagine effettuata da un istituto di sondaggi con sede a Londra, l’unità di ricerca governativa e sociale dell’ICM, per conto del Centro Studi di Al Jazeera, del Middle East Monitor e del Muslim European Research Centre.

Il sondaggio, il primo del suo genere a concentrarsi esclusivamente sulle percezioni degli europei nei confronti del conflitto, è stato condotto in Germania, Francia, Spagna, Italia, Paesi Bassi e Gran Bretagna.

Dalla sua creazione nel 1948, gli europei hanno sempre simpatizzato con lo Stato di Israele. Gli hanno profuso illimitata assistenza diplomatica, politica e militare, e persino risorse nucleari, gentilmente offerte dai francesi. Il sondaggio rivela che ora gli europei guardano con poca simpatia a pratiche che sono chiaramente illegali, ingiuste e oppressive.

Mentre i governi europei, individualmente e collettivamente, rendono regolarmente omaggio alla democrazia israeliana – affermando che è l’unica democrazia in Medio Oriente – le loro opinioni pubbliche sono riluttanti a farlo. Il 34% delle 7.045 persone intervistate ritiene che Israele non sia una democrazia, mentre meno della metà del campione, ovvero il 45%, crede che lo sia.

In Italia e in Spagna, uno stupefacente 41% ritiene che Israele non sia una democrazia. Esprimendo questo punto di vista, l’opinione pubblica europea sembra voler dire ai governi: la nostra fedeltà va ai principi di democrazia, e non ai politici di carriera che agiscono in modo diverso.

Uno dei motivi più salienti dietro questo atto di accusa contro la democrazia israeliana è rappresentato dalle sue azioni “illegali” e dalla sua indifferenza nei confronti degli standard internazionali di comportamento. Metà degli europei, il 53%, considera illegale l’assedio alla Striscia di Gaza, il 60% ha detto che l’invasione dell’énclave nel 2008-09 è stata illegale, mentre il 64% ha affermato che l’attacco di Israele contro la Freedom Flotilla nel maggio 2010 era anch’esso illegale. Il messaggio che emerge dal sondaggio, a quanto pare, è che il futuro sostegno da parte degli europei deve essere guadagnato, e non va dato per scontato sulla base di menzogne o di un’adesione solo parziale alle norme internazionali.

Similmente, più di un terzo degli intervistati (il 34%) ha detto che gli ebrei che hanno la cittadinanza in un paese europeo non dovrebbero essere autorizzati a servire nell’esercito israeliano, a fronte di un mero 17% che ha affermato il contrario.

Israele come ‘potenza occupante’

Il cambiamento in atto oggi corrisponde al rifiuto del paradigma della «guerra al terrore», cinicamente usato come copertura per negare ai palestinesi il diritto fondamentale alla libertà. Gli europei, dunque, sono tornati alla formula «occupato/occupante». Il sondaggio ha rivelato una migliore comprensione della natura dell’occupazione israeliana.

Ha dimostrato che il 49% degli intervistati riconosce in Israele la potenza occupante, mentre il 22% ha dichiarato di non sapere se lo fosse o meno. Quando l’Università di Glasgow condusse il suo studio in Gran Bretagna nel 2001 scoprì che il 71% non sapeva che fossero gli israeliani ad occupare i territori palestinesi.

Benché il sondaggio dell’ICM riveli un netto miglioramento nella comprensione del conflitto, esso dimostra una chiara mancanza di consapevolezza della situazione, considerando il fatto che ci sono molte risoluzioni delle Nazioni Unite che fanno esplicito riferimento ad Israele come potenza occupante. In realtà, quindi, più cittadini europei dovrebbero essere consapevoli del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 2004, nel quale si afferma che “gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, sono illegali, ed un ostacolo alla pace e allo sviluppo economico e sociale” .

Un’altra rivelazione interessante emersa dal sondaggio riguarda il tema delle critiche rivolte a Israele. Mentre il 50% degli intervistati è d’accordo con l’opinione secondo la quale criticare Israele non rende una persona antisemita, solo il 12% ha detto che criticare Israele significa essere antisemita.

Questo particolare risultato, senza dubbio, colpisce al cuore le affermazioni di lobbisti filo-israeliani e di personaggi del calibro dell’ex primo ministro spagnolo Jose Maria Aznar, che equiparano il rivolgere critiche contro Israele all’antisemitismo.

Chiaramente sotto le pressioni di un’aggressiva lobby filo-israeliana, molti governi europei, tra cui la Gran Bretagna, hanno preso provvedimenti per cambiare le loro leggi in materia di giurisdizione universale. Il sondaggio, tuttavia, ha mostrato che una chiara maggioranza, il 58%, si oppone all’idea di cambiare le leggi al fine di rendere più facile a persone accusate di crimini di guerra recarsi in Europa, mentre solo il 10% è d’accordo con tali modifiche. In Gran Bretagna, solo il 7% sostiene simili cambiamenti.

Questa è la percentuale più bassa registrata in Europa. Va rilevato che 2.000 persone sono state intervistate in Gran Bretagna con un margine di errore del 2%. Eppure il governo in carica è determinato a portare avanti questa impopolare politica. Il messaggio clamoroso è che la giustizia non è monopolio di un determinato popolo, di una specifica religione o di un dato paese. Si tratta di un valore universale.

Coinvolgere Hamas

Un’importante risultato del sondaggio riguarda infine l’inclusione o l’esclusione di Hamas dai colloqui di pace. Sebbene l’Unione Europea abbia deciso nel 2003 di includere Hamas nella lista delle organizzazioni “terroristiche” e di escluderlo da qualsiasi negoziato, il 45% degli intervistati ha detto che Hamas dovrebbe essere coinvolto.

In Gran Bretagna, dove l’ex ministro degli esteri Jack Straw aveva svolto un ruolo fondamentale nell’inserire Hamas in questa lista, il 44% ritiene che Hamas dovrebbe essere incluso nel processo politico, e solo il 19% afferma che il movimento dovrebbe esserne escluso. Ancora una volta, su un tema tanto importante, i governi europei sembrano essere da una parte e le loro popolazioni da un’altra.

Negli ultimi anni Israele ha investito enormi risorse umane e materiali per migliorare la sua immagine pubblica in Europa. Mentre il sondaggio dell’ICM ha dimostrato che la sua lobby europea ha influito sulla politica così come sui mass media, tale azione di lobby non si è trasformata in sostegno pubblico.

La causa di questa sconfitta è la percezione crescente dell’opinione pubblica che Israele sia uno Stato che cerca di progredire e prosperare attraverso la sottomissione di un altro popolo. Oggi il pubblico europeo vede le cose diversamente. A differenza dei suoi governi, ritiene che la realizzazione di ciascuno potrà essere ottenuta soltanto attraverso il riconoscimento della dignità umana fondamentale e della libertà di tutte le altre persone, compresi i palestinesi.

Daud Abdullah è direttore del Middle East Monitor (MEMO)

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29 marzo 2011

Boicottare la rappresentazione dell'Aida in Israele.

A partire dai primi giorni del mese di giugno a Masada, sulle rive del Mar Morto, avrà luogo il Masada – Dead Sea and Jerusalem Opera Festival, una manifestazione che vede in programma la rappresentazione dell’Aida di Verdi con la partecipazione di solisti italiani e stranieri.

I solisti italiani invitati sono Marco Berti, Micaela Carosi, Alberto Gazale, Piero Giuliacci, Ambrogio Maestri, Stefano Secco e Carlo Striuli. Sono previsti, inoltre, un concerto dell’orchestra dell’Arena di Verona con la direzione di Giuliano Carella e un concerto di Andrea Bocelli.

Nell’ambito delle iniziative dell’ICACBI – Italian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel, è stata inviata a tutti gli artisti invitati e al Consiglio di Amministrazione della Fondazione Arena di Verona una lettera aperta contenente l’invito a boicottare la manifestazione, invito che verrà esteso successivamente anche agli altri artisti stranieri coinvolti.

Va ricordato che il Festival di Masada si svolgerà ad un anno esatto dal brutale abbordaggio della nave turca Mavi Marmara da parte dei commando israeliani, che ha causato la morte di nove attivisti, alcuni dei quali colpiti alla schiena e uccisi a sangue freddo.

Anche il luogo dell’evento, Masada, è il simbolo della militarizzazione e del fanatismo della società israeliana. A Masada, le reclute dell’esercito israeliano pronunciano il giuramento di fedeltà al grido di “Mai più Masada cadrà”. E Masada 2000 è anche il nome di una organizzazione di seguaci del rabbino Kahane, nota per aver inserito nel web una lista di proscrizione “dedicata” a tutti gli Ebrei che non accettano passivamente e non condividono i crimini e le brutalità dello Stato israeliano, sprezzantemente definiti come “Ebrei che odiano sé stessi”, la cd. “S.H.I.T. list”.

E, dunque, un’opera coloniale, l’Aida, in uno stato coloniale sullo sfondo di Masada, un mito sfruttato per costruire l’identità nazionale israeliana: una ragione in più per non essere coinvolti in questa operazione.

Anche il mondo artistico dovrebbe stare dalla parte dei Palestinesi: se non ora, quando?

Per approfondire:

ICACBI Italian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel

ISM- Italia


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16 marzo 2011

Anche l'Uruguay riconosce lo Stato palestinese

Ieri anche l’Uruguay ha annunciato di aver riconosciuto la Palestina come stato sovrano e indipendente, sull’esempio di quasi tutte le altre nazioni del Sudamerica.

L’Associated Press, per il gaudio dei sionisti, sostiene che, nel comunicato ufficiale, non viene fatta alcuna menzione specifica dei confini della nuova entità statuale, eppure basta leggere: l’Uruguay ha preso la decisione “di riconoscere lo Stato Palestinese come uno Stato indipendente e sovrano, in accordo ai principi del diritto internazionale e alla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, votata il 29 novembre del 1947, nonché alla Risoluzione 3236 … del 22 novembre del 1974 e alla Risoluzione 242 adottata dal Consiglio di Sicurezza il 22 novembre 1967”. Con il che, mi pare, la questione dei confini è abbondantemente risolta…

Questa decisione”, si legge nel comunicato, “è anche il risultato del progressivo rafforzamento dei legami dell’Uruguay con il popolo e con l’Autorità nazionale palestinese”. A questo proposito giova ricordare che l’Uruguay e l’Anp “hanno deciso di formalizzare le relazioni amichevoli esistenti e di stabilire le rispettive sedi di rappresentanza nelle città di Ramallah e di Montevideo”.

Sono già un centinaio le nazioni che hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato palestinese e, tra esse, 11 delle 12 nazioni sudamericane (l’unica a non averlo fatto è la Colombia, visti i suoi stretti legami con gli Usa…).

Sarebbe il caso che anche i Paesi europei, anziché limitarsi a dei pavidi “upgrade” dello status delle proprie missioni diplomatiche, si decidessero una volta tanto a prendere una posizione ferma e precisa, prima di farsi scavalcare, come al solito, dagli eventi.

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15 marzo 2011

Fermiamo la Pizzarotti!

La Pizzarotti & C. S.p.A. è un’impresa con sede in Parma che opera nei settori energetico, edilizia e restauro e realizza infrastrutture stradali, aeroporti civili e militari, e quant’altro.

Come forse a qualcuno è già noto, l’azienda in questione parteciperà alla costruzione di un treno ad alta velocità che percorrerà la tratta Gerusalemme – Tel Aviv in soli 28 minuti. Il problema è che questa grandiosa opera infrastrutturale passa per ben 6 chilometri e mezzo all’interno dei Territori palestinesi occupati, determinando per la popolazione residente – oltre ad ulteriori e illegittimi espropri di terra – anche un impatto ambientale devastante.

Un’opera del genere è palesemente in contrasto con il diritto umanitario internazionale, che vieta l’occupazione e lo sfruttamento dei territori occupati e, partecipandovi, la Pizzarotti si rende partecipe di un evidente crimine di guerra.
Già da un mese si è costituita la coalizione italiana
Stop that Train, che ha posto in essere una campagna d’opinione che mira a mettere pressione all’azienda di Parma affinché ritiri la partecipazione al progetto e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento (eventuali adesioni possono essere inviate al seguente indirizzo: fermarequeltreno@gmail.com)
Quello che segue è, invece, il manifesto con cui diverse associazioni annunciano una manifestazione di protesta il prossimo 16 marzo a Parma presso la sede sociale della Pizzarotti, in via Anna Maria Adorni, 1.


FERMIAMO I CRIMINI DELL’OCCUPAZIONE DELLA PALESTINA
FERMIAMO L’AZIENDA ITALIANA PIZZAROTTI!
Presidio il 16 marzo alle ore 17:30
Parma via Anna Maria Adorni n.1 (zona Stadio Tardini)


L’azienda italiana Pizzarotti è coinvolta nella costruzione del treno superveloce (conosciuto come progetto A1) che collegherà Gerusalemme a Tel Aviv passando illegalmente attraverso una porzione importante dei territori palestinesi da decenni sotto occupazione israeliana. Il tracciato della ferrovia infatti attraverserà il confine ufficiale dello Stato di Israele (la così detta Linea verde), invadendo la Cisgiordania occupata, sfruttando i territori palestinesi, per la costruzione di un’infrastruttura il cui uso sarà riservato soltanto agli israeliani, secondo quel modello di apartheid che Israele pratica ogni giorno sulla pelle dei palestinesi.

La Pizzarotti si giustifica asserendo che l’intervento assegnato all’azienda non riguarderà i Territori Occupati e non avrà nessun impatto ambientale.


NON E’ VERO!


Infatti: il tunnel la cui costruzione è affidata alla Pizzarotti attraverserà la Valle dei Cedri, in pieno territorio palestinese! Saranno necessarie, oltre alla ferrovia, una rete di strade di accesso ai cantieri per il passaggio delle enormi macchine da trivellazione, e discariche per smaltire le quantità di detriti e di terra di risulta dagli scavi: TUTTO IN TERRITORIO PALESTINESE!
Tre villaggi palestinesi, Yalu, Beit Surik e Beit Iksa, già danneggiati da una serie di confische territoriali per la costruzione del muro dell’apartheid, saranno isolati.
Un altro pezzo di territorio palestinese sarà di fatto annesso ad Israele!

“L’occupazione militare di un paese è regolata dalla quarta Convenzione di Ginevra e dal regolamento de La Hague secondo i quali la forza occupante può utilizzare i territori occupati esclusivamente per motivi militari oppure a vantaggio della popolazione occupata. La linea ferroviaria invece è solo a vantaggio degli israeliani, i palestinesi non avranno accesso al treno, quindi il progetto non ha alcuna giustificazione per transitare sui Territori Occupati”.

La Pizzarotti si giustifica sostenendo che “non è mai stata coinvolta in nessuna decisione riguardante la scelta dei criteri alla base della progettazione esecutiva”. Evidentemente la Storia non insegna nulla. Anche i membri del Consiglio di Amministrazione e i funzionari della IG Farben tedesca (oggi Bayer) produttrice dello Zyclon-B utilizzato nelle camere a gas naziste avranno sostenuto la stessa tesi, ma furono condannati dal Tribunale di Norimberga per genocidio e crimini di guerra.

Una serie di articoli e di studi hanno dimostrato che il treno veloce Tel Aviv-Gerusalemme costituisce una violazione del diritto internazionale.

IL COINVOLGIMENTO DELLA PIZZAROTTI S.P.A. (ASSOCIATA ALLA ISRAELIANA SHAPIR) IN QUESTO PROGETTO, NONOSTANTE LA SUA EVIDENTE ILLEGALITA’, COSTITUISCE COMPLICITA’ NEI CRIMINI DI GUERRA E CONTRO L’UMANITA’ COMMESSI DALLO STATO DI ISRAELE.

Associazione Zaatar – Genova, Associazione Amicizia Italia Cuba – Circolo di Parma, CIAC – Parma, Circolo comunista di Parma, Collettivo nonviolento uomo-ambiente Bassa Reggiana, Comitato Palestina – Bologna, Comitato Palestina – Modena, Coordinamento Pace e Solidarietà – Parma, Forum Palestina – Milano, GAP – Parma, ISM – Parma, Liberacittadinanza – Parma, Pdci – Parma, PRC – Parma, Rete dei Comunisti, Rete Dormire fuori – Parma, Un Ponte di Pace – Bassa Reggiana e MN, USB

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8 marzo 2011

8 marzo: una petizione per chiedere la liberazione delle donne palestinesi detenute nelle carceri israeliane


Oggi, 8 marzo, centinaia di donne palestinesi sono scese nelle strade per dare vita ad una serie di manifestazioni celebrative per il 100° anniversario della Giornata internazionale della donna, ma anche per chiedere la riunificazione delle diverse fazioni e per protestare contro l’occupazione israeliana.

A Gaza City, circa 500 donne hanno sfilato per il centro della città sventolando bandiere palestinesi e chiedendo la riappacificazione tra Hamas e Fatah al grido “no alle divisioni, si all’unità nazionale”.

Numerose le manifestazioni anche nella Cisgiordania occupata, in particolare a Hebron, a Jenin, a Nablus, nel villaggio di Burin e a Beit Ummar, dove sono intervenute le truppe israeliane. Nei pressi di Ramallah, circa 150 donne, tra cui 2 componenti del governo uscente di Salam Fayyad, hanno cercato di passare attraverso il checkpoint sulla strada che da Qalandiya porta a Gerusalemme, per protestare contro l’occupazione.

A Gerusalemme est, infine, circa 15 manifestanti hanno distribuito rose alle donne che entravano e uscivano dalla Città Vecchia attraverso la Porta di Damasco.

Ma l’8 marzo è anche l’occasione per ricordare come la pluridecennale occupazione dei Territori palestinesi, l’assedio imposto alla Striscia di Gaza a partire dal giugno del 2007 e, soprattutto, i crimini di guerra commessi da Israele colpiscano soprattutto le fasce più deboli della popolazione civile palestinese, e in primo luogo le donne e i bambini.

A partire dal settembre del 2000, l’esercito israeliano ha massacrato 222 donne e 193 bambine e ragazzine. Oltre 88.300 donne hanno perso la propria casa demolita dai bulldozer o durante le incursioni israeliane, 1.217 delle case distrutte a Gaza dalla furia degli assassini israeliani durante Piombo Fuso appartenevano a donne palestinesi. Inoltre, 5.348 donne sono state direttamente colpite dalla devastazione dei campi coltivati ad opera dell’esercito israeliano: 472 donne erano proprietarie dei terreni devastati. Nello stesso periodo, 1.667 donne di Gaza hanno perso i loro mariti, uccisi dai soldati di Tsahal.

Si stima, infine, che dal 1967 ad oggi siano state oltre 10.000 le donne palestinesi arrestate e detenute nelle prigioni israeliane. Alla data del 1° febbraio, sono ancora 36 le donne palestinesi incarcerate nelle prigioni e nei centri di detenzione israeliani, incluse 3 in regime di detenzione amministrativa, quel mostro giuridico proprio dello stato-canaglia israeliano che consente di detenere indefinitamente una persona senza processo e senza alcuna possibilità di difesa.

Le due prigioni in cui vengono detenute le donne palestinesi, peraltro, sono situate al di fuori dei Territori occupati, in chiara violazione della IV Convenzione di Ginevra.

Una di queste donne, come ci ricorda Infopal, è Iman Ghazzawi, detenuta nel carcere di Ramle, che proprio oggi “festeggia” 11 anni di prigionia. Iman è una delle quattro detenute palestinesi il cui coniuge è in prigione in Israele: le viene negata assistenza medica, non riesce a vedere i suoi due figli e, da dieci anni, non incontra il marito. In tal modo, le vengano negati, assieme alla libertà, anche i diritti fondamentali di donna, primo fra tutti quello ad essere madre.

Ma sono molte le donne palestinesi che devono subire, all’atto dell’arresto o della detenzione, varie forme di tortura e di maltrattamenti, tra cui percosse, insulti, minacce, perquisizioni invasive, molestie sessuali e abusi psicologici.

Le carceri israeliane, inoltre, mancano completamente di un approccio di genere, e così le detenute palestinesi soffrono per le dure condizioni di prigionia, ivi compreso il sovraffollamento delle celle, che mancano dei requisiti minimi di salute e igiene, per la negligenza dei medici e la mancanza di una assistenza sanitaria specialistica, per la impossibilità di studiare e, come abbiamo visto, per il diniego di ricevere visite familiari.

E’ per tutto questo che l’associazione per i diritti umani Addameer, in occasione della Giornata internazionale delle donna, ha promosso una petizione per chiedere il rilascio di tutte le prigioniere palestinesi. Il testo della petizione è il seguente:

Noi, sottoscritti membri della società civile mondiale, vogliamo celebrare l’8 marzo 2011, Giornata internazionale della donna, chiedendo alle autorità israeliane di rilasciare immediatamente tutte le prigioniere politiche e le detenute palestinesi dalle carceri israeliane, incluse le donne in regime di detenzione amministrativa. Condanniamo il trattamento crudele e discriminatorio a cui sono soggette le prigioniere politiche e le detenute palestinesi durante il loro arresto, gli interrogatori e in prigione, ivi comprese le molestie sessuali, le punizioni psicologiche e fisiche e le umiliazioni, nonché la privazione di una assistenza sanitaria specialistica. Tutto ciò avviene in violazione del diritto internazionale e deve cessare immediatamente.

Chi scrive ha già sottoscritto la petizione a questo link. Spero vivamente vogliate farlo anche voi.

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2 marzo 2011

Non è possibile delegittimare ciò che non è mai stato legittimo


Come abbiamo avuto modo di osservare, il termine “delegittimazione” è quello più usato dai politici israeliani e dai tanti amici che Israele ha nel mondo per tacitare quanti osano criticarne le politiche genocidarie, la pulizia etnica e l’occupazione dei territori palestinesi. Accade così che coloro i quali perorano la causa palestinese vengano accusati di negare subdolamente il diritto di Israele ad esistere e la legittimità stessa della sua esistenza.

In questa falsariga si pone l’articolo di Elena Loewenthal su La Stampa del 21 gennaio scorso, dove viene recensita l’ultima fatica letteraria di Pierluigi Battista, “Lettera a un amico antisionista”

La Loewenthal, dopo aver indugiato sui soliti temi cari alla propaganda sionista e aver citato niente meno che Martin Luther King, ripropone il mito del fronte arabo che “rifiutò” la risoluzione Onu del novembre del 1947 e fu causa della attuale tragedia palestinese.

Ma, come ci ricorda Massimo Mandolini-Pesaresi nell’articolo che segue, proprio i due capisaldi fondanti della “legittimità” di Israele, la Dichiarazione Balfour e la Risoluzione 181 dell’Onu, in realtà non sono in grado di legittimare alcunché.

La contradizion che nol consente”, ovvero la supposta “legittimità” dello stato d’Israele.
Massimo Mandolini-Pesaresi, 30.1.2011

“Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele.” (Primo Levi)

Lettera a un amico antisionista’ non è ancora arrivato in libreria e già se ne parla. In una recente puntata di Linea Notte (Rai 3, 19 gennaio scorso), l’autore, Pierluigi Battista, ha presentato la sua opera, sostenendo tesi discutibili, che non hanno suscitato confutazioni da parte dei giornalisti presenti. Il 21 gennaio, è stata la volta di Elena Loewenthal, che su La Stampa ha recensito il libro, battendo su temi consueti della propaganda sionista, con qualche vistoso errore. Mi sembra doveroso quindi articolare qui un punto essenziale della questione, su cui sembra che la disinformazione e mistificazione siano ormai endemiche. Mi soffermerò sul tema della “legittimità” dello Stato d’Israele.

Come ha acutamente osservato Alan Hart nel suo articolo del 5 aprile 2010, “The oxymoron of the de-legitimization of Israel”, non è possibile de-legittimare ciò che legittimo non è mai stato. Dopo questa perentoria dichiarazione, l’autore procede a valutare la portata dei due tradizionali fondamenti della “legittimità” dello Stato d’Israele: la Balfour Declaration del 1917 e la Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 29 novembre 1947.

Datata 2 novembre 1917, la Declaration, inviata in una missiva di Arthur Balfour a Lionel Walter 2nd Baron Rothchild (of Tring), costituiva il risultato dell’incessante sforzo di Chaim Weizmann, futuro primo presidente dello Stato d’Israele, e Nahum Sokolow, i due maggiori leader sionisti a Londra. Si noti che nel testo è chiaramente espresso il concetto che la creazione di una patria per il popolo ebraico non deve in alcun modo pregiudicare i diritti delle comunità non ebraiche residenti in Palestina (“nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine.”).

Va osservato che Arthur Balfour, allora Segretario di Stato per gli Affari Esteri, aveva, dodici anni prima, nel suo ruolo di Primo Ministro, introdotto una legge volta a limitare l’immigrazione ebraica nel Regno Unito. Inoltre, come Chaim Weizmann nota nei suoi diari: “Egli mi disse che un giorno aveva avuto occasione di conversare a lungo con Cosima Wagner, di cui condivideva molte idee antisemitiche” (He told me how he had once had a long talk with Cosima Wagner at Bayreuth and that he shared many of her anti-Semitic postulates). Tale collusione di sionismo e antisemitismo non dovrebbe sorprenderci, dato che lo stesso Theodor Herzl nei suoi Diari osservava: “Gli antisemiti diverrano i nostri migliori amici, i paesi antisemiti i nostri alleati.” (Anti-Semites will become our surest friends, anti-Semitic countries our allies).

Sempre sul carattere antisemitico della Declaration si espresse, nel suo celebre Memorandum, On the Anti-Semitism of the Present Government, Lord Edwin Samuel Montague, allora Segretario di Stato per l’India, e unico ebreo del gabinetto britannico: “Il Sionismo mi è sempre sembrato un’idea malvagia, incompatibile con lo spirito patriottico di un cittadino del Regno Unito” (Zionism has always seemed to me to be a mischievous political creed, untenable by any patriotic citizen of the United Kingdom).

In conclusione, la Balfour Declaration costituiva la formulazione di un progetto imperialistico all’interno della logica coloniale britannica. Con essa il Regno Unito si autoassegnava un Mandato su una regione, che era ancora – sia de iure che de facto – sotto la sovranità dell’Impero Ottomano. Si trattò pertanto di un progetto puramente politico, non di un’operazione ideologica o umanitaria a favore degli Ebrei.

Se un antisemita (Balfour) aveva posto le premesse per la creazione di uno stato ebraico in Palestina, furono le azioni militari e terroristiche della Haganah e della Stern Gang a rendere quel progetto coloniale una realtà. E così arriviamo alla seconda garanzia di “legittimità” per lo stato sionista: la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU riguardo alla costituzione in Palestina di due stati indipendenti, uno arabo e uno ebraico.

Anche in questo caso è facile osservare che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non aveva alcun diritto di prendere decisioni senza l’approvazione dei suoi legittimi abitanti, e proprio su questo punto si fondava la mozione dei paesi arabi alla Corte Internazionale, perché l’Assemblea Generale fosse dichiarata non competente a dividere un paese contro la volontà della maggioranza dei suoi abitanti (nel 1946 vivevano in Palestina 1.269.000 Arabi di contro a 678.000 Ebrei). In ogni caso solo il Consiglio di Sicurezza aveva il potere di rendere tali risoluzioni vincolanti. Non è un caso infatti che la risoluzione non sia mai stata approvata dal Consiglio di Sicurezza: mentre l’Assemblea Generale era ancora impegnata in ulteriori deliberazioni, David Ben-Gurion proclamò unilateralmente l’indipendenza dello Stato d’Israele, il 15 maggio 1948. Fu quello un giorno di lutto non solo per il sionismo socialista, che aspirava alla creazione di uno stato binazionale, fondato sulla collaborazione con i lavoratori arabi, ma anche per tutti gli Ebrei, che avevano fino allora osteggiato l’idea di uno stato ebraico.

Un emblematico esempio di quest’ultima opposizione fu la dichiarazione presentata da Rav Yosef Zvi Dushinsky e Rav Zelig Ruven Bengis, , mercoledì 16 luglio 1947, presso il Comitato Speciale per la Palestina (United Nations Special Committee on Palestine (UNSCOP)), al fine di fermare il progetto di creazione di uno stato ebraico in Terra Santa.

Dopo un lucido excursus storico, dal regno di Salomone fino alla situazione presente, il Rav cosí si esprime sul Mandato britannico:

“Molti travagli e massacri senza fine sarebbero stati risparmiati, se il Mandato fosse stato applicato nei modi auspicati dal mondo ebraico ortodosso” (Much trouble and endless bloodshed might have been avoided if the Mandate were to have been applied in the manner hoped for by Orthodox Jewry).

La sua denuncia poi del ruolo deleterio delle organizzazioni sioniste nel controllo dell’immigrazione ebraica in Palestina non è meno vibrante:

“Resta comunque un fatto deplorevole che un serio errore sia stato allora commesso, riconoscendo prima i leader sionisti e poi la Jewish Agency come rappresentanti ufficiali della popolazione ebraica” (However, it is a regrettable fact that a serious blunder was committed at the time by recognising first the leaders of Zionism and then the Jewish Agency as official representation of the Jewish population). La loro insistenza a voler costituire uno stato ebraico in Palestina “ha suscitato timore negli Arabi nostri vicini in merito a ulteriori immigrazioni ebraiche ed ha cosí dato inizio a una loro fiera opposizione” (This aroused the fear of our Arab neighbors in connection with further Jewish immigration and thus started the determined opposition on the part of the Arabs against Jewish immigration).

Come Rav Dushinsky ribadisce con fermezza nella conclusione del suo appello:

“Gli Ebrei ortodossi non hanno la minima intenzione di soggiogare alcun settore della popolazione della Terra Santa. Noi semplicemente chiediamo che le porte della Palestina siano aperte a tutti quegli Ebrei che non hanno una loro dimora …Vogliamo inoltre esprimere la nostra ferma opposizione alla creazione di uno stato ebraico in una qualsiasi parte della Palestina” (Orthodox Jewry has not the slightest intention of subjugating any section of the population of the Holy Land. We merely demand that the gates of Palestine be opened to all those Jews who have no home […] We furthermore wish to express our definite opposition to a Jewish state in any part of Palestine).

Non si poteva desiderare una dichiarazione più scevra di ambiguità ed esitazioni.

Quando, quattro mesi dopo, appariva ormai certo che si stava procedendo verso la spartizione della Palestina, Rav Dushinsky vergò un telegramma, datato 19 novembre 1947 (a cui fece seguito un memorandum, The Question of Jerusalem), in cui, a nome di 60.000 Ebrei residenti in Palestina, pregava l’Assemblea Generale dell’ ONU che la città di Gerusalemme fosse esente dalla sovranità dello Stato sionista e fosse posta sotto giurisdizione internazionale.

Alla luce dei fatti su presentati, appare sconcertante che al giorno d’oggi si cerchi ancora di distorcere la realtà storica in nome di un mito: la favola della fondazione dello Stato d’Israele, dotato di tutti i crismi della legalità e rappresentante esclusivo del mondo ebraico.

Se anche lo Stato sionista è riuscito a rubare la terra ai Palestinesi e il nome al popolo ebraico, non riuscirà mai a ottenere da nessuno la legittimità della propria nascita.

2011 © Massimo Mandolini-Pesaresi

Massimo Mandolini-Pesaresi è un professore italiano, che vive da anni negli USA. E’ autore di numerosi articoli e di due libri di critica letteraria. Attualmente è impegnato in varie iniziative a sostegno della causa palestinese.

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Morte agli Arabi!

Quei ragazzi ebrei che, verso la fine del 2010, hanno circondato e insolentito un gruppo di anziane donne palestinesi in visita allo Yad Vashem gridando loro “troie” e “puttane” sono solo una esigua minoranza, nient’altro che delle mele marce?

O non si tratta piuttosto di una degna rappresentanza di quella maggioranza ebraica razzista che approva entusiasticamente le regole rabbiniche che vietano di affittare le case agli arabi e proibiscono ogni tipo di rapporto tra arabi ed ebrei?

Purtroppo – e nonostante i media ammaestrati di casa nostra non ne accennino neppure lontanamente – pare proprio che si debba propendere per la seconda ipotesi, se consideriamo che persino il ministro israeliano degli affari sociali Isaac Herzog, in visita agli studenti arabi del Safed College, ha avuto modo di dichiarare: “mi sembrava di essere in Alabama negli anni ‘40”.

A Herzog, tuttavia, bisognerebbe far notare che tra coloro che legittimano il razzismo, divenuto così diffuso tra i giovani israeliani, vi sono proprio dei colleghi della compagine governativa e, in specie, il ministro dell’istruzione Gideon Sa’ar, distintosi recentemente per aver entusiasticamente spalleggiato la campagna criminalizzatrice lanciata dal gruppo studentesco Im Tirtzu contro i professori che appoggiano il boicottaggio accademico contro l’occupazione, e per aver tagliato il budget destinato all’educazione civica in favore di un curriculum di “studi ebraici” che ricomprende anche dei testi religiosi.

Recentemente un gruppo di giovani insegnanti ha inviato una petizione al ministro dell'istruzione, chiedendogli di “prendere chiaramente posizione contro le espressioni di razzismo che sono presenti ovunque”. Nella petizione, di cui ha dato notizia (soltanto in ebraico) lo Yedioth Ahronoth, i firmatari dichiarano: “Non possiamo rimanere in silenzio alla luce della crescente presenza all'interno degli edifici scolastici di espressioni di razzismo, verso chiunque sia diretto – contro gli Arabi, gli immigrati dall'Etiopia e dalla Russia, gli omosessuali e i lavoratori migranti. Vediamo noi stessi come degli educatori che devono lanciare un allarme. Una serie di studi e di sondaggi riflettono la realtà quotidiana che tutti noi sperimentiamo negli incontri con gli studenti: la prevalenza di razzismo e di crudeltà è in aumento tra i giovani israeliani. Noi siamo testimoni nel mondo dell’istruzione di questo crescente razzismo”.

Gli educatori israeliani mettono sotto accusa, in particolare, i rabbini che ricevono finanziamenti statali, i membri della Knesset e i sindaci per le loro “idee offensive e razziste” che “forniscono legittimazione a queste espressioni” degli studenti israeliani, “un fenomeno che rende ancor più difficile il tentativo degli insegnanti di affrontare il razzismo”.

A distanza di tre settimane dalla petizione, il sito in lingua inglese dello Yedioth Ahronoth accoglie ancora una volta il grido di allarme degli insegnanti israeliani, nell’articolo che segue.

La risposta di uno studente ad un test di educazione civica: Morte agli Arabi
di Tomer Velmer – 19.1.2011

Tre settimane dopo la pubblicazione di una petizione in cui si chiedeva al Ministro dell’Istruzione Gideon Sa’ar di adottare misure contro il razzismo che si va diffondendo all’interno delle scuole e nella popolazione, gli insegnanti hanno parlato a Ynet della dura realtà che sono costretti ad affrontare quotidianamente.

In un caso, uno studente liceale in una scuola nel nord di Israele ha scritto “morte agli Arabi” in un test di un corso di educazione civica. In un altro caso, uno studente di un liceo di Tel Aviv si è alzato in piedi durante la lezione e, con orrore del suo professore, ha dichiarato che il suo sogno è quello di arruolarsi come volontario della Guardia di Frontiera, “per poter crivellare a morte gli Arabi”. I suoi amici hanno accolto l’annuncio con un applauso.

Inoltre, dappertutto nel paese insegnanti di educazione civica trovano sui muri delle loro aule dei graffiti recanti slogan che vanno da “Kahane aveva ragione” a “un Arabo buono è un Arabo morto”. Altre espressioni incitano contro gli ultra-ortodossi e contro i profughi.

“Il dibattito politico è da biasimare per l’istigazione”

Secondo una fonte del Ministero dell’Istruzione, i recenti incidenti riflettono una escalation del razzismo tra gli studenti israeliani. E, in primo luogo, essa incolpa i politici di promuovere l’odio.

“Non stiamo parlando di una minoranza, o di ragazzi che provengono da famiglie con idee politiche estremiste, ma di ragazzi normali afflitti da ignoranza”, sostiene. “Il dibattito politico in questi ultimi anni ha dato legittimazione ai loro pregiudizi”.

La fonte ha anche osservato che lo studente che ha scritto “morte agli Arabi” nel suo test è uno studente con il massimo dei voti che conosce bene la materia – una circostanza che suscita allarme.

Ha raccontato che la scuola in questione ha trattato in modo intransigente lo studente, che ha espresso profondo rammarico per la sua azione. Ciò nonostante, la fonte ha affermato che non si è trattato solo di uno scherzo isolato, ma di una tendenza diffusa nella gioventù israeliana.

Una insegnante di educazione civica nella parte centrale di Israele ha raccontato che si trova costantemente di fronte al razzismo che scaturisce dal comportamento dei suoi allievi.

“Quando abbiamo una discussione in classe sull’eguaglianza dei diritti, la lezione diviene immediatamente fuori controllo”, ha detto. “Gli studenti ci attaccano, noi insegnanti, perché siamo di sinistra e antisemiti, e affermano che tutti i cittadini arabi che vogliono distruggere Israele dovrebbero essere deportati”.

L’insegnante ha osservato che le espressioni di odio aumentano specialmente quando lei discute del massacro di Kfar Kassem, vale a dire del significato di “Ordine Chiaramente Illegale”, un comando militare che espressamente viola la legge e a cui non si deve obbedire.

“E’ molto triste, ma gli studenti giustificano il massacro e dicono: “un Arabo buono è un Arabo morto”, racconta. “Spesso gli studenti che vogliono parlare a favore dei diritti umani o hanno paura di farlo temendo le reazioni dei loro amici, o per scusarsi mettono in chiaro che a loro gli Arabi non piacciono”.

“Dobbiamo crescere una generazione libera dall’odio”

Myriam Darmoni-Sharvit, che dirige la facoltà di educazione civica presso il Centro per le Tecnologie Didattiche, sente spesso i suoi colleghi lamentarsi che la situazione nelle classi è divenuta insopportabile.

“Gli insegnanti sono veramente disperati, sono esausti, e alcuni di loro ritengono che, da un punto di vista mentale, avere a che fare con gli studenti è difficile” afferma. “Quando sono in classe, si sentono come su un campo di battaglia, ed è per questo che spesso agiscono per ‘sopravvivere’ e scelgono di saltare dei capitoli o di insegnare la materia attraverso noiosi dettati per mantenere la calma”.

Il Ministero dell’Istruzione, in risposta, ha affermato che gli insegnanti dovrebbero spiegare agli studenti la differenza tra un disaccordo o una disputa e l’odio, la stereotipizzazione e la delegittimazione dell’umanità.

Il ministero ha inoltre sottolineato che l’obiettivo del sistema educativo è quello di “crescere una generazione libera da atteggiamenti razzisti, in grado di gestire tensioni sociali e differenze in una maniera che rispetti i valori dell’ebraismo e della democrazia , sui quali si fonda il nostro stato”.

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