30 giugno 2011

Striscia di Gaza: una crisi umanitaria, un assedio criminale

Uno dei cardini della macchina propagandistica messa in piedi da Israele contro gli attivisti della Freedom Flotilla 2 consiste nell’apodittica affermazione secondo cui nella Striscia di Gaza non solo non vi è alcuna crisi umanitaria, ma addirittura in essa si trovano beni e mercanzie di ogni sorta, un vero e proprio paese di Bengodi.

Così, ad esempio, due giorni fa il Capo di Stato Maggiore israeliano Benny Gantz ha dichiarato che rappresentare Gaza come un luogo in cui si soffre la fame è una vera e propria finzione: “Chiunque legga i giornali vedrà … che la situazione che si rispecchia a Gaza è quella di parchi acquatici e di spiagge, e che la distanza tra questo ed un problema umanitario è così grande che non vi è alcuna relazione”.

Ora, io non so bene quali giornali legga il Capo di Stato Maggiore dell’Idf, ma gli atti ufficiali che sono disponibili al pubblico raccontano una realtà ben diversa e disperata.

A Gaza, oltre il 70% della popolazione basa la propria esistenza in vita sugli aiuti umanitari provenienti dalle ong internazionali; a Gaza, il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’incredibile tasso del 45,2% (cfr. UNRWA – Labor Market Briefing Gaza Strip, Second-Half 2010); a Gaza, Israele continua a impedire l’importazione di materiali da costruzione, eccetto che per i progetti di organizzazioni internazionali, che ammontano al 7% del fabbisogno complessivo; a Gaza, le esportazioni di prodotti e manufatti sono state totalmente vietate a partire dallo scorso mese di maggio.

Secondo Richard Falk, il Relatore Speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, il blocco israeliano alla Striscia di Gaza costituisce “una politica deliberata di punizione collettiva che è indifendibile legalmente e biasimevole moralmente. Essa mira a negare ai Palestinesi l’umanità ed una vita dignitosa,” ha affermato. “Il blocco di Gaza deve essere tolto interamente e immediatamente”.

Riferendosi ai recenti rapporti dei media sui diffusi problemi sanitari nella Striscia, Falk ha sostenuto che la situazione della sanità a Gaza è “a dir poco catastrofica”.

Dei 480 farmaci contenuti nella lista delle medicine essenziali, 178 (il 37%) sono segnalati con livelli di stock pari a zero, e più di 190 tipi di medicinali in magazzino o sono scaduti o sono prossimi alla scadenza. Citando i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), Falk ha affermato che la grave carenza di farmaci vitali sta avendo un impatto critico sulla possibilità di continuare a fornire assistenza sanitaria.

“Israele, quale potenza occupante, ha l’obbligo secondo il diritto internazionale umanitario di ristabilire e di mantenere l’ordine pubblico e la vita civile, incluso il benessere pubblico per la popolazione civile, ha detto. “Questo comprende, tra l’altro, provvedere e mantenere le infrastrutture, la salute e le condizioni materiali di vita”.

“L’embargo totale di Gaza da parte di Israele, tuttavia, non solo nega la possibilità di una vita normale all’intera popolazione civile di Gaza, ma la punisce anche collettivamente per atti di cui non ha alcuna responsabilità”.

L’attuale situazione nella Striscia di Gaza dunque – non ce ne voglia il buon Gantz – non solo costituisce una conclamata crisi umanitaria, ma rappresenta una chiara e sistematica violazione del diritto internazionale umanitario, che dovrebbe comportare la responsabilità penale degli alti gradi militari e dei governanti israeliani che a vario titolo la pongono in essere. Ed è davvero incredibile e moralmente inaccettabile che la comunità internazionale, ivi compreso il nostro Paese, abbia consentito e consenta il protrarsi di questa situazione da oltre quattro anni.

Ma, ormai lo abbiamo imparato, nei vocabolari in uso in Israele la voce “diritti umani” semplicemente non esiste.

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29 giugno 2011

Atti di sabotaggio contro la Freedom Flotilla 2

Ieri gli organizzatori della Gaza Freedom Flotilla hanno chiesto alla polizia e alle autorità portuali greche di garantire la sicurezza delle navi e di indagare sul loro recente sabotaggio. Alcuni degli attivisti hanno annunciato che contano essi stessi di fare la guardia alle navi.

Due delle navi, una svedese e una greca, sono state sabotate negli ultimi due giorni. Secondo gli organizzatori, le eliche di entrambe le navi sono state danneggiate, e i tubi di collegamento con i motori sono stati danneggiati a tal punto che si sarebbe potuta verificare un’esplosione una volta iniziata la navigazione, se i danni fossero passati inosservati.

Il sito web Ship to Gaza Sweden ha pubblicato un video che mostra i danni apparentemente arrecati alle navi.

Uno degli organizzatori, Manolis Plionis, ha detto alla DPA che la nave svedese, la Juliano, dal nome dell’attivista ebraico-palestinese assassinato Juliano Mer Khamis, è stata sabotata ieri mattina. “Abbiamo trovato un’incrinatura nell’elica della nave la cui riparazione ci porterà via qualche giorno”, ha affermato. “Questo non ci impedirà di salpare e non cancellerà la flottiglia, potrebbe soltanto farci ritardare di alcuni giorni. Non abbiamo nessuna fretta e partiremo non appena saremo pronti”.

Gli organizzatori hanno evitato di accusare specificamente un Paese o un’organizzazione per i danneggiamenti, ma hanno osservato che tutte le prove portano ad un coinvolgimento israeliano, dato che Israele ha un chiaro interesse a danneggiare la flottiglia, e che le sue unità di commando in passato sono state accusate di aver sabotato alcune navi.

Il capo della Campagna europea End the Siege on Gaza, Dr. Arafat Madi, ha chiesto ieri alle autorità greche di indagare sugli atti di sabotaggio. “Il sabotaggio è pericoloso”, ha detto. “Può provocare un’esplosione e uccidere numerosi attivisti”.

L’esercito israeliano ieri ha rifiutato di commentare le accuse secondo cui Israele sarebbe dietro gli atti di sabotaggio, mentre funzionari del Ministero degli Esteri le hanno respinte senza esitazione, definendole “piagnucolose” e “prive di fondamento”.

Madi ha affermato a sua volta che, a questo punto, la vera sfida non è più tanto quella di arrivare a Gaza, ma di ottenere tutte le autorizzazioni necessarie e di riuscire a lasciare il porto. E’ noto a tutti, infatti, che Israele sta esercitando enormi pressioni sulle autorità greche per impedire la partenza della flottiglia, e gli attivisti in questi giorni stanno sperimentando una serie di imprevisti intoppi burocratici.

E, difatti, fonti del Ministero degli Esteri in Israele hanno espresso grande soddisfazione per i ritardi che la Freedom Flotilla sta accumulando. “Molti dei partecipanti attendono in Grecia da una settimana senza alcuna possibilità di partire per la Striscia di Gaza”, ha affermato un funzionario.

Mentre scrivo, giunge notizia di un terzo sabotaggio alle navi della flottiglia, questa volta in acque turche.

Ma nessun sabotaggio, nessun miserabile trucchetto, nessuna propaganda di questi vili criminali riuscirà a impedire la partenza della Freedom Flotilla 2 alla volta di Gaza.

(Fonte: Ha’aretz)

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La sfida della Freedom Flotilla 2: riaffermare la supremazia del diritto internazionale

Quando si ha a che fare con Israele, le comuni regole del diritto, della morale e del semplice buonsenso vengono travolte e sovvertite, lo sappiamo.

Solo per restare alle ultime settimane,
l’assassinio a sangue freddo di decine di civili inermi che ha macchiato le giornate di commemorazione della Nakba e della Naksa il 15 maggio e il 5 giugno è stato fatto passare da Israele come un atto di “autodifesa” contro l’immotivata “aggressione” da parte di chi, invece, tentava soltanto di manifestare pacificamente per il diritto al ritorno. Senza che alcuno abbia avuto niente da ridire.

Analogamente, ora, Israele dipinge i partecipanti alla Freedom Flotilla 2 come un’accolita di terroristi e di antisemiti, e minaccia di usare la forza per bloccare l’arrivo delle navi a Gaza. E, anche in questo caso, non solo i governi delle nazioni i cui cittadini saranno a bordo delle navi della flottiglia – tra cui purtroppo anche l’Italia – evitano accuratamente di ammonire Israele a garantirne l’incolumità, ma addirittura alcuni di essi preferiscono piuttosto ammonire i propri cittadini a non partecipare alla spedizione della Freedom Flotilla!

Eppure la sfida che gli eroi della Freedom Flotilla 2 si apprestano ad affrontare è di importanza fondamentale, ed attiene non già al solo obiettivo umanitario, ma anche e soprattutto alla questione più fondamentale, se debba cioè prevalere la forza del diritto o il diritto del più forte.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto da Richard Irvine per il sito web del Palestine Chronicle e qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

La sfida della Flottiglia di Gaza: un’agenda politica radicale
di Richard Irvine – 24.6.2011

Recentemente ho spesso pensato di essere entrato in un universo parallelo. Un universo in cui ciò che sarebbe illegale è legale; in cui la vittima è il criminale; in cui Golia deve difendersi da Davide.

I palestinesi hanno certamente subito quest’esperienza negli ultimi 100 anni, ma nelle ultime settimane le denunce di Israele contro la prossima flottiglia di Gaza, giunte sulla scia della condanna israeliana dei profughi morti sulle alture del Golan, hanno spinto l’incredulità al punto di rottura.

Quando Israele ha ucciso 14 profughi disarmati nella giornata della Nakba, e poi ha superato se stessa in una replica della propria performance tre settimane più tardi, mi aspettavo che la comunità internazionale avrebbe parlato; che avrebbe espresso la propria condanna, e avrebbe riaffermato la promessa della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, secondo cui ognuno ha il diritto di lasciare il proprio paese e di farvi ritorno. Ma ho atteso invano.

Al di là dei borbottii del Quartetto, e del patetico appello di Ban Ki-moon alla “moderazione”, la voce più stridente certamente è stata quella di Israele. Indignata per il fatto di dover uccidere civili disarmati, ha trasformato il “tiro al piccione” contro i profughi in una difesa della sovranità israeliana, e i profughi in aggressori – colpevoli della “provocazione” di tentare di esercitare i loro diritti umani.

Oggi, mentre la flottiglia di Gaza si avvicina, la stessa trasformazione di attivisti inermi in pericolosi ed irresponsabili estremisti è già in atto da tempo. Mentre Israele si esercita nelle sue operazioni navali, intensifica anche la sua offensiva diplomatica e mediatica. L’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, Ron Prosor, ripete minacciosamente il linguaggio usato prima della strage dello scorso anno, definendo la flottiglia “una provocazione” e invitando la comunità internazionale a fare tutto ciò che è in suo potere per fermarla.

Ovviamente omessa in questo discorso, è la dichiarazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa che il blocco di Gaza è illegale; o quella dell’ex capo dell’UNRWA a Gaza, John Ging, che l’anno scorso ha invitato gli attivisti a rompere il blocco. In effetti, già dimenticato è anche il fatto che la precedente aggressione di Israele alla Mavi Marmara era sia illegale, sia – secondo la relazione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – omicida.

In altre parole, tutto il contesto giuridico oggettivo necessario perché l’opinione pubblica e la comunità internazionale possano giudicare le azioni degli attivisti e di Israele è assente. Invece quella che viene presentata è la storia di un’Israele sotto attacco – o addirittura di un’Israele sotto assedio. Come dice Prosor: “L’obiettivo della flottiglia non è quello di consegnare aiuti umanitari, ma di stimolare e sostenere un’agenda politica radicale”.

Tale agenda politica radicale è l’applicazione delle convenzioni internazionali e dei diritti umani.
E, naturalmente, Israele ha avuto i suoi successi. L’organizzazione umanitaria turca IHH si è tirata fuori dalla flottiglia, molto probabilmente per le pressioni del governo turco che, alla luce della rivolta siriana, sembra desideroso di sanare i rapporti con Israele. Ancor più preoccupante, però, è stato il vile appello rivolto da Ban Ki-moon ai paesi mediorientali affinché facessero tutto il possibile per fermare la flottiglia (28/05/2011).

Allo stesso modo, i protettori di Israele nei media non hanno tardato a strombazzare le dichiarazioni dei politici israeliani e a diffamare gli attivisti della flottiglia come “esponenti dell’estrema sinistra”, “antisemiti” o “terroristi”. L’ammiraglio israeliano Eliezer Marom l’ha definita “una flottiglia dell’odio i cui unici obiettivi sono di scontrarsi con i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, di creare provocazioni sui media, e di delegittimare lo Stato di Israele” ( Ha’aretz, 19/06/2011).

Purtroppo, in tutta questa tempesta mediatica, ciò che viene delegittimato non è Israele, ma il diritto internazionale. Per quanto ne so, nessun paese ha rilasciato una dichiarazione che ammonisse Israele a non attaccare i propri cittadini, ma diversi paesi hanno ammonito i propri cittadini a non prendere parte alla flottiglia e ad evitare qualsiasi viaggio in direzione di Gaza. Questo atteggiamento invia un messaggio inquietante. Nel caso di un attacco israeliano, questo approccio attribuisce la colpa di eventuali vittime tra gli attivisti agli attivisti stessi. In effetti si tratta di governi che si lavano diplomaticamente le mani di fronte a ciò che potrà accadere, dando allo stesso tempo ad Israele un alibi bell’e pronto che le consente di ricorrere alla violenza nella misura in cui le fa più comodo. Un fenomeno, che nel contesto di Gaza, è tutt’altro che insolito.

Eppure il diritto umanitario internazionale richiede che tutti gli Stati “rispettino e assicurino il rispetto” delle leggi di guerra; la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo richiede che tutti gli Stati promuovano “il rispetto e l’osservanza universali dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Perciò, quando i governi si lavano le mani di fronte a Gaza e agli attivisti che cercano di aiutare la sua gente, essi si lavano le mani anche di fronte a questi impegni.

Quindi cerchiamo di considerare la sfida della flottiglia di Gaza per quello che realmente è: essa non riguarda la possibilità che alcune navi raggiungano Gaza con successo, o che vengano consegnate alcune tonnellate di aiuti; né riguarda la delegittimazione di Israele. In effetti tale sfida riguarda la questione più fondamentale di tutte: se debba prevalere lo stato di diritto o la legge del più forte. In fin dei conti, non è solo l’assedio a Gaza che gli attivisti della flottiglia stanno sfidando, ma l’assedio al diritto internazionale. Dunque, sì, sono d’accordo con Ron Prosor: quella della flottiglia è “un’agenda politica radicale”.

Richard Irvine è un autore irlandese; è titolare di un corso alla Queen’s University di Belfast intitolato “The Battle for Palestine”, che esplora l’intera storia del conflitto; ha lavorato come volontario nei campi profughi palestinesi in Libano e in Cisgiordania

(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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28 giugno 2011

Appello per la protezione della Freedom Flotilla 2

I tentativi organizzati da Israele e l’impressionante apparato propagandistico volto a ostacolare la partenza della Freedom Flotilla 2 alla volta di Gaza non lasciano nulla di intentato, dagli atti di sabotaggio alle pressioni politiche sui governi, dalle azioni legali ai video fake immessi su YouTube.

E’ dunque più che mai importante fornire alla flottiglia in partenza il sostegno popolare più ampio possibile, anche e soprattutto perché siano garantiti i diritti umani e l’incolumità dei partecipanti.

La petizione on line rivolta al Presidente Napolitano affinchè le istituzioni italiane “facciano pressione politica su Israele per assicurare che i passeggeri a bordo della Freedom Flotilla per Gaza non siano attaccati violentemente dai militari israeliani” ha superato le 5.400 firme. La petizione chiede al Presidente della Repubblica di intervenire per garantire la sicurezza degli attivisti ed il loro diritto di arrivare a Gaza, in conformità alle leggi internazionali.

Un’altra iniziativa a sostegno della Freedom Flotilla è stata lanciata dalla famiglia di Vittorio Arrigoni, il volontario italiano assassinato a Gaza lo scorso aprile, insieme al Premio Nobel Dario Fo, a Franca Rame, Moni Ovadia, i sindaci di Napoli e Genova Luigi de Magistris e Marta Vincenzi, Vincenzo Vita ed altri senatori del PD e del Gruppo Misto, Padre Alex Zanotelli, il portavoce dell’Italia dei Valori Leoluca Orlando, i musicisti Fiorella Mannoia e Toni Esposito, Don Nandino Capovilla di Pax Christi, Alessandra Mecozzi e Giorgio Cremaschi della Fiom – Cgil, che hanno sottoscritto l’appello che segue.

CON LA FREEDOM FLOTILLA STAY HUMAN

Dal 2006 la popolazione della Striscia di Gaza vive sotto assedio. Questo assedio, illegale secondo il diritto internazionale, è una punizione collettiva di tutta la popolazione, privata dei suoi diritti fondamentali: libertà di movimento, diritto alla salute, diritto all’educazione ed al lavoro. La situazione è stata resa ancora più insostenibile dall’attacco israeliano «Piombo fuso» che, due anni fa, ha fatto di Gaza un grande campo di rovine, con più di 1.400 morti e migliaia di feriti.

Nel maggio 2010, con un’iniziativa non violenta ed umanitaria, la Freedom Flotilla ha cercato di rompere l’assedio, ma l’esercito israeliano ha attaccato i battelli in acque internazionali, uccidendo 9 passeggeri e ferendone molti altri.

Questa «violazione grave dei diritti dell’uomo» secondo il Consiglio dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, ha provocato le proteste dei governi e dei popoli del mondo. Sotto la pressione internazionale, il governo israeliano ha finto di alleggerire il blocco di Gaza, ma sia l’ONU che le agenzie umanitarie confermano che la situazione è sempre gravissima.

Proseguendo nell’impegno di far cessare l’assedio di Gaza, migliaia di associazioni della società civile internazionale si sono unite per allestire una nuova Freedom Flotilla, che partirà alla fine di questo mese verso Gaza. Dalla nuova Freedom Flotilla, che ha assunto il nome Stay Human in omaggio alla memoria di Vittorio Arrigoni, farà parte una nave italiana, la «Stefano Chiarini». La coalizione italiana che sostiene la «Stefano Chiarini» è formata da quasi duecento fra associazioni, comitati di solidarietà, forze politiche e sindacali.

Noi, rappresentanti dei cittadini, personalità politiche ed intellettuali, denunciamo la situazione umanitaria ed umana drammatica imposta ai Palestinesi di Gaza non a causa di una catastrofe naturale ma da una politica illegale di imprigionamento e di azioni militari. Questa politica non sarebbe stata possibile senza la passività della comunità internazionale e dei governi dell’Unione Europea, che hanno condannato l’assedio di Gaza soltanto a parole, senza fare nulla per farlo cessare. Oggi è urgente agire per la fine di questo assedio.

Nella nostra diversità di approcci, risolutamente attaccati al diritto internazionale ed alla sua applicazione piena ed intera così come prevista dalla Carta delle Nazioni Unite, facciamo appello a sostenere l’iniziativa non violenta dei passeggeri che prenderanno il mare fra poche settimane e chiediamo alle autorità italiane di garantire la vita, l’incolumità e la sicurezza dei nostri connazionali impegnati in una missione umanitaria e non violenta.

Chiediamo alle cittadine ed ai cittadini italiani di mobilitarsi in solidarietà con i volontari della Freedom Flotilla Stay Human, per la fine dell’assedio di Gaza e per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, attraverso il riconoscimento del diritto del popolo palestinese alla vita, alla terra ed alla libertà.

Invito tutti i lettori del blog ad aderire all’appello, inviando una email al seguente indirizzo: appelloff2@libero.it

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24 giugno 2011

Lavorare al nucleare iraniano nuoce gravemente alla salute!

Giovedì scorso, fonti della sicurezza russe hanno dichiarato che i cinque scienziati nucleari morti in un incidente aereo nel nord della Russia, all'inizio di questa settimana, avevano collaborato alla progettazione di un impianto atomico iraniano.

I cinque esperti russi erano tra i 44 passeggeri morti nello schianto e nel successivo incendio all'atterraggio di un Tupolev-134, avvenuto lunedì scorso nei dintorni della città settentrionale di Petrozavodsk.

Gli esperti - tra i quali i progettisti Sergei Rizhov, Gennadi Benyok, Nicolai Tronov e Andrei Tropinov, il massimo esperto russo di tecnologia nucleare - avevano lavorato a Bushehr dopo che il contratto per la costruzione dell'impianto era passato dalla tedesca Siemens in mani russe. I cinque erano dipendenti della Hydropress, un membro della corporazione statale russa per l'energia nucleare e una delle principali aziende impegnate nell'appalto per la costruzione della centrale di Bushehr.

Le fonti affermano che la morte degli scienziati costituisce un duro colpo per l'industria nucleare russa.

Gli esperti avevano il compito di completare la costruzione dell'impianto e di assicurare che esso sarebbe stato in grado di resistere ad un terremoto.

Secondo le fonti, sebbene alcuni scienziati nucleari iraniani in passato siano rimasti coinvolti in inspiegabili incidenti e in disastri aerei, non vi è alcun sospetto ufficiale che si sia trattato di un atto criminale. Gli investigatori stanno indagando su un possibile errore umano o su un guasto tecnico come cause dello schianto. Ufficialmente.

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Ripulire la città di Milano

Dalla newsletter di Ism-Italia.

Finisce giovedì 23 giugno “l'occupazione israeliana” di piazza del Duomo di Milano. Diamo loro il tempo di sgomberare, dopo il flop dell'iniziativa, e da sabato 25 giugno occupiamo noi piazza del Duomo.

Che sia stato un flop non ci sono dubbi. Dopo aver scritto, il pier luigi battista e altri, che noi antagonisti avremmo messo a ferro e fuoco la città, dopo aver costruito intorno ai box di israele che non ti aspetti un muro di transenne, di poliziotti, di agenti in borghese e di agenti del mossad, dopo aver riempito i tetti di cecchini israeliani, pochi, pochissimi milanesi, salvo gli addetti ai lavori, hanno osato sfidare israele che molti/e si aspettano.

Non prendiamo in alcuna considerazione le promesse del Pisapia di finanziare a settembre una iniziativa a favore della Palestina. Con gli “equidistanti”, gli “equivicini” e i sostenitori della soluzione ipersionista dei “due popoli – due stati” non vogliamo avere nulla a che fare. Con chi ha stretto la mano dei criminali di guerra israeliani, nessun compromesso, nessuna petizione, nessuna lettera, nessun inutile incontro.

Occupiamo piazza del Duomo a Milano da sabato 25 giugno in poi.

Per uno Stato unico, laico e democratico, nella Palestina storica.

Sabato con una mostra dei mostri.

Sabato con la performance: Ripulire la città di Milano.

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Servizi di escort in Israele


Il web nasconde dei misteri che, da profano, mi affascinano e mi incuriosiscono.Non riesco a capire, ad esempio, per quale misterioso meccanismo ad un mio articolo del 2006 (!) ieri sia stato aggiunto un commento pubblicitario relativo ad una agenzia di escort operante in Israele.

Non so se qualcuno vorrà aiutarmi a capire, in ogni caso giro la segnalazione ai pochi affezionati lettori di questo blog che risiedono laggiù e a quanti hanno intenzione di recarvisi in vacanza e trascorrere qualche momento di relax.

E poi mi accusano di nutrire pregiudizi anti-israeliani, ma se faccio pure pubblicità (gratis) alle loro aziende!




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21 giugno 2011

Freedom Flotilla 2: Gaza Island




Sulla Freedom Flotilla 2 sono state spese molte parole e probabilmente sono stati realizzati numerosi video, questo, a mio giudizio, è il più divertente.

Nell'attesa della partenza, il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) fa l'elenco dei vari cantanti che questa estate hanno in programma dei concerti in Israele - da Bob Dylan a Paul Simon, da Laurie Anderson a Kiri Te Kanawa, da Moby ai Duran Duran, tutti affettuosamente etichettati come "vecchi coglioni" - e li invita a cancellarli, seguendo l'esempio di altri illustri colleghi, e a imbarcarsi sulle navi della Freedom Flotilla.

L'effetto della parodia è sicuramente divertente, anche se alla fine - ricordando il massacro di Piombo Fuso - resta sempre un po' l'amaro in bocca.



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Freedom Flotilla 2: Message in a Bottle




A fine giugno la Freedom Flotilla 2 - Stay Human partirà alla volta di Gaza, con 22 italiani a bordo della Stefano Chiarini a rappresentare i Palestinesi che vivono in Italia e tutti gli Italiani che non riescono a restare indifferenti di fronte ai crimini dell'occupazione israeliana e all'infame assedio di un milione e mezzo di persone che vivono nella Striscia.

A loro è dedicato questo video, realizzato in parte con le immagini del film di animazione "Closed Zone", sulle note della celebre canzone dei Police.

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16 giugno 2011

Israele, al pari della Siria, non si fa scrupolo a uccidere civili inermi

Mentre la comunità internazionale, giustamente, mette sotto accusa il regime di Bashar Assad per la violenta repressione delle proteste popolari in corso in Siria, che si stima sia costata la vita ad almeno 1.100 persone, pressoché sotto silenzio è passata l’uccisione di decine di manifestanti al confine tra la Siria e le Alture del Golan da parte dell’esercito israeliano.

Il 15 maggio, durante le manifestazioni per commemorare la Nakba (la pulizia etnica che ha accompagnato la nascita dello Stato di Israele), le truppe israeliane hanno ucciso almeno dieci manifestanti al confine tra Libano e Israele, nei pressi della cittadina di Maroun al-Ras, mentre altri quattro civili sono stati uccisi al confine tra la Siria e le Alture del Golan occupate da Israele.

Il 5 giugno, lungo lo stesso confine e, in particolare, nei pressi delle località di Quneitra e di Majdal Shams, l’esercito israeliano ha massacrato almeno venti civili che manifestavano per ricordare la Naksa (la sconfitta araba nella guerra del 1967). Elevatissimo anche il numero dei feriti, ben 325.

Eppure si trattava di civili disarmati, che non ponevano alcuna minaccia immediata alle truppe israeliane, posto che persino l’esercito israeliano si è astenuto dal sostenere che i manifestanti recassero con loro alcun tipo di arma.

Nelle parole di Sarah Leah Whitson, responsabile di
Human Rights Watch per il Medio Oriente, “usare una forza letale contro manifestanti che non pongono alcuna minaccia imminente per la vita (dei soldati) è semplicemente illegale”. Eppure nessuno protesta, nessuna commissione d’indagine viene richiesta, e in Israele accade persino che ci si compiaccia della “moderazione” (!) usata da parte dell’esercito israeliano (che, non lo dimentichiamo, è il più “morale” al mondo).

Mentre invece, nella realtà, il regime siriano e la democrazia israeliana sono assolutamente simili nell’uso di proiettili veri contro manifestanti inermi, e nel più totale disprezzo per il valore della vita umana.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto dal noto giornalista di Ha’aretz Gideon Levy e tradotto da
Medarabnews.

IL MASSACRO SIRIANO E LA MODERAZIONE ISRAELIANA.
Vediamo il regime di Bashar Assad massacrare ogni giorno decine di dimostranti siriani disarmati, e diciamo che “sta massacrando il suo stesso popolo”. Ma quando l’esercito israeliano ha ucciso 23 manifestanti siriani disarmati in una sola giornata, ci siamo vantati del fatto che l’Idf “ha agito con moderazione”.

di Gideon Levy – 9.6.2011

Il regime del presidente siriano Bashar Assad sta massacrando decine di inermi manifestanti siriani ogni giorno. In Israele siamo soliti schioccare la lingua in stato di shock e dire che Assad “sta trucidando il suo stesso popolo”, ma quando le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno ucciso 23 manifestanti siriani disarmati in un giorno, ci siamo vantati del fatto che l’esercito israeliano “ha agito con moderazione”.

I dimostranti nella città siriana di Hama e i manifestanti al confine del Golan si assomigliano non solo nel loro ricorso a mezzi non letali, ma anche nei loro obiettivi. Sia gli uni che gli altri stanno cercando di cambiare l’ordine costituito. E la risposta delle autorità in entrambi i casi – l’uso di proiettili veri contro i manifestanti – è sorprendentemente simile.

In Israele la gente subito spiegherà che l’esercito israeliano compie ogni sforzo per non uccidere i manifestanti, e in effetti il numero di vittime in Siria è molto più elevato, ma i mezzi sono simili – l’uso di proiettili veri contro manifestanti disarmati. E il conteggio delle vittime potrebbe perfino risultare comparabile se, Dio non voglia, i manifestanti del Golan insisteranno nella loro ribellione – e l’opinione pubblica israeliana non avrebbe alcun problema rispetto a questo, naturalmente. Anche se assomigliamo alla Siria, non appariamo così ai nostri occhi.

Lungo la recinzione di confine sulle alture del Golan, Israele ha eretto un’ulteriore barriera di sicurezza ancora più robusta per proteggersi, ed in particolare per offuscare la sua stessa consapevolezza della presenza dei manifestanti sul confine. Con questa barriera, abbiamo creato il nostro mondo, il mondo dei nostri sogni, l’illusoria bugia “contrapposta” che ci raccontiamo.

A Hama sono combattenti per la libertà. Al confine con le alture del Golan sono dimostranti prezzolati, folle aizzate e terroristi. Attraversare il confine con le alture del Golan comporta una minaccia alla sovranità di Israele, anche se non un solo paese al mondo riconosce la sovranità israeliana sul Golan. I manifestanti al confine del Golan sono giovani privi di ogni coscienza politica che sono stati spronati a farlo, mentre i loro omologhi che manifestano contro il regime siriano sono giovani istruiti con il senso della democrazia, gente dell’illuminata rivoluzione di Facebook e Twitter.

Sulle alture del Golan, Assad li porta in autobus verso la morte, e la colpa è tutta loro. Le IDF hanno trovato un modo per dimostrare che la maggior parte delle vittime sono state responsabili della loro morte o delle loro lesioni. Il pensiero che quei giovani determinati sul Golan stanno rischiando la vita proprio a causa della stessa coscienza politica e democratica, identica a quella che sta motivando i loro colleghi nelle città siriane che si stanno ribellando contro il regime di Assad, semplicemente non ci viene in mente.

Sul nostro confine sono dei rivoltosi. Nelle città siriane sono manifestanti. Laggiù vi è un’ammirevole protesta nonviolenta, mentre quella stessa battaglia quando viene combattuta sul nostro confine è considerata violenta, e i suoi protagonisti vanno incontro alla morte.

Abbiamo inventato un mondo tutto per noi: Assad ha mobilitato questi giovani palestinesi per distrarre l’attenzione. Ma a dir la verità, noi veniamo distratti in misura non certo minore, distolti dagli obiettivi di questi giovani che non siamo nemmeno disposti ad ascoltare.

Qualcuno qui ha forse pensato al viaggio “della memoria” compiuto da un giovane palestinese siriano che ha attraversato il confine ed è riuscito ad arrivare a Jaffa per visitare la casa ancestrale della sua famiglia? Magari possiamo provare a ricordare al lettore israeliano che questi sono figli di rifugiati, alcuni dei cui antenati sono fuggiti o sono stati espulsi da Israele nel 1948 e non è stato permesso loro di tornare. E altri sono stati espulsi o sono fuggiti dalle alture del Golan nel 1967, e sono stati privati anch’essi del loro diritto di tornare.

Forse è possibile ricordare che Israele in larga misura conquistò il Golan nel 1967 come risultato di un’iniziativa israeliana. Forse è possibile ricordare che da tre generazioni queste famiglie di rifugiati vivono in condizioni disumane nei loro campi profughi. E’ vero che ciò è colpa del regime siriano, ma anche Israele ha una responsabilità per il loro destino. Forse è perfino possibile dire che vi è un grado di legittimità nella loro lotta, proprio come la lotta dei loro colleghi contro il regime siriano è legittima. Sia gli uni che gli altri vogliono una vita di libertà e dignità. Nessuno di essi ne può disporre.

Nel nuovo mondo arabo che sta prendendo forma davanti ai nostri occhi, a un certo punto questi giovani sia in Siria che al confine del Golan dovranno essere ascoltati, e alcune delle loro richieste dovranno ricevere una risposta, soprattutto se essi persevereranno nella loro lotta disarmata.

Ma noi ci siamo messi tutto dietro le spalle. Nasconderemo la testa sotto la sabbia. Costruiremo un’altra recinzione di confine, e un’altra ancora. Chiameremo “notte” il giorno e “giorno” la notte, continuando a ripeterci che stiamo agendo con moderazione – uccidendo con proiettili veri 23 giovani che non hanno sparato un solo colpo. Accuseremo loro e i loro leader della responsabilità della loro morte. La cosa importante è che le nostre mani siano pulite, le nostre orecchie siano tappate e i nostri occhi siano chiusi.

Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982

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15 giugno 2011

L'Israele che (non) ti aspetti, dove si arrestano e si torturano i ragazzini

In questi giorni, durante la sua visita in Italia, il premier israeliano Netanyahu ha avuto modo di partecipare – ospite del sindaco di Roma Alemanno – ad una cerimonia tenutasi al Campidoglio in onore del caporale Gilad Shalit, il soldato israeliano catturato da Hamas il 25 giugno di cinque anni fa.

Nella conferenza stampa congiunta al termine del successivo incontro con Berlusconi, Netanyahu anche per questo ha pronunciato parole di elogio per l’Italia, affermando che se molti altri Paesi seguissero l’esempio italiano, Hamas sarebbe costretta dalle pressioni internazionali a liberare il soldato.

Il meritorio sforzo dell’Italia per la liberazione di Shalit – un soldato delle truppe di occupazione israeliane catturato durante un’operazione militare – appare tuttavia sospetto ed unilaterale laddove si consideri che non altrettanto impegno viene profuso per chiedere a Israele la liberazione degli oltre 5.380 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (di cui ben 219 in regime di detenzione amministrativa).

Nè risulta che Berlusconi o il ridanciano ministro Frattini o alcun altro politico italiano abbia chiesto a Israele la liberazione dei 220 ragazzini palestinesi incarcerati in Israele, 37 dei quali di età compresa tra i 12 e i 15 anni.

Eppure, altrove, politici di ogni schieramento – indignati e preoccupati - non esitano a denunciare con forza il disumano trattamento riservato dalle autorità israeliane ai minori palestinesi arrestati nei Territori occupati.

Il 4 maggio di quest’anno, il parlamentare inglese del Labour Party Alf Dubs – a seguito di una visita in Cisgiordania nel mese di aprile - ha sollevato davanti alla Camera dei Lord il problema dei minori palestinesi detenuti: Nell’ambito della visita sono andato a vedere i tribunali militari israeliani a Ofer … Abbiamo visto un (ragazzino) di 14 anni e uno di 15, uno di essi in lacrime, entrambi assolutamente disorientati. Quello che più di tutto mi ha scioccato è stato vedere che questi giovani – dei ragazzini – avevano catene o manette alle caviglie mentre erano seduti in tribunale. Quando sono stati condotti davanti alla corte erano anche ammanettati …

Proseguendo poi: Non credo che questo processo di umiliazione rappresenti giustizia. Credo che il modo in cui questi giovani vengono trattati sia di per sé un ostacolo al raggiungimento da parte di Israele di una relazione pacifica con il popolo palestinese. Penso che gli Israeliani dovrebbero applicare standard adeguati di diritti umani al modo in cui li trattano.

La lettera che segue, invece, è stata indirizzata all’Alto rappresentante della Ue per gli affari esteri Catherine Ashton dall’eurodeputato inglese dei Verdi Keith Taylor, e rappresenta un vibrante e sdegnato atto d’accusa contro le inaudite violazioni dei diritti umani poste in essere da Israele.

Gentile Commissario Ashton, Le scrivo per esprimere la mia grave preoccupazione per la detenzione di bambini palestinesi da parte delle autorità israeliane. Mi compiaccio del fatto che attualmente non vi siano bambini in detenzione amministrativa. Tuttavia, un recente rapporto di Defence for Children International, una organizzazione non-governativa indipendente che opera per promuovere e tutelare i diritti dei bambini, ha rivelato l’inaccettabile situazione secondo cui attualmente 220 bambini palestinesi vengono mantenuti in detenzione ordinaria dal sistema giudiziario militare israeliano.

Il rapporto, basato su 40 dichiarazioni giurate ottenute da bambini palestinesi incarcerati dal sistema giudiziario militare tra il luglio e il dicembre 2010, è stato presentato alle Nazioni Unite a gennaio ed è stato aggiornato di recente. Esso conclude che i maltrattamenti, al pari delle torture, ai danni dei bambini palestinesi sono molto diffusi, sistematici e istituzionalizzati.

Le principali risultanze del rapporto includono:
- il 27% dei bambini detenuti è costretto a firmare confessioni scritte in ebraico;
- il 58% dei bambini detenuti viene trasferito in carceri situate all’interno di Israele, in violazione dell’art.76 della IV Convenzione di Ginevra;
- il 43% dei bambini detenuti non viene adeguatamente separato dai detenuti adulti;
- il 55% dei bambini detenuti lamenta l’inadeguatezza del cibo, dell’acqua e/o della struttura.

Un nuovo rapporto del Britain Palestine All Party Parliamentary Group (BPAPPG) ha anch’esso evidenziato la diffusa detenzione di bambini palestinesi da parte dello Stato israeliano.

La esorto a richiedere una azione immediata da parte di Israele per porre rimedio a questa situazione. Come misura minima di salvaguardia, ogni interrogatorio di un minore dovrebbe essere registrato in audio e video e dovrebbe essere permesso ai genitori di accompagnare i propri figli durante l’interrogatorio, trattandosi di un diritto riconosciuto nella maggior parte dei casi ai minori israeliani. Israele deve anche assicurare che a tutti i bambini, una volta in arresto, venga fornito l’accesso immediato ad un avvocato o a un membro della famiglia. La invito inoltre a sostenere la creazione di una commissione di inchiesta indipendente per indagare sul trattamento dei bambini nel sistema giudiziario militare israeliano. Come sarà d’accordo, sussistono serie preoccupazioni di carattere legale riguardanti i processi nei confronti di civili (particolarmente di bambini) all’interno dei tribunali militari, a cui Israele si è dedicato per oltre 43 anni.

La esorto anche a ricordare a Israele i suoi obblighi internazionali e, in particolare, quello al pieno rispetto della Convenzione ONU contro la Tortura e Altri Trattamenti Crudeli, Disumani o Degradanti e della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo (1989) (CRC), ratificata da Israele nel 1991, che riconosce espressamente la particolare vulnerabilità dei bambini, prevedendo che la detenzione debba costituire una misura di ultima istanza (articolo 37, lett. c) Gli Stati dovrebbero anche adottare misure in ogni momento appropriate per evitare ai bambini i procedimenti giudiziari (articolo 40, 3) Tali argomenti sono tanto più convincenti in relazione a procedimenti davanti a un tribunale militare, dove esistono minori garanzie di un giusto processo, e dove gli standard di giustizia minorile appaiono quasi inesistenti.

In conclusione, Israele deve classificare tutti i minori di 18 anni come fanciulli, e deve porre fine al duplice sistema giudiziario che discrimina apertamente i minori palestinesi. Questa situazione è semplicemente inaccettabile e insostenibile.

Attendo con ansia di ascoltarla al più presto su questa terribile situazione.

E' vero, gli standard di giustizia applicati ai minori palestinesi sono pressocché inesistenti, ed è insostenibile e immorale che 220 ragazzini siano detenuti nelle carceri di Israele in condizioni penose.

E noi, che facciamo? Ci apprestiamo a ospitare con tutti gli onori una rassegna dedicata a questo Stato-canaglia barbaro e disumano, e a firmare con esso nuovi accordi di collaborazione scientifica ed economica. Davvero, è una vergogna.

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13 giugno 2011

Netanyahu persona non gradita in Italia!



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12 giugno 2011

Un milione di firme per la Palestina



Parte in questi giorni la Campagna Freedom for Palestine, per sostenere la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui confini del 1967.

La Campagna mira a raccogliere un milione di firme per chiedere alle istituzioni dell'Unione europea di farsi promotrici del riconoscimento dello Stato di Palestina, sfruttando il diritto di iniziativa popolare introdotto dal Trattato di Lisbona.

Un milione di cittadini provenienti da un numero significativo di Stati membri può infatti rivolgersi direttamente alla Commissione europea per chiederle di presentare una proposta di loro interesse in un settore di competenza della UE.

Le firme possono essere apposte direttamente sul sito web della Campagna, dove sono presenti i link per firmare la petizione nelle diverse lingue europee. Facciamo sentire la nostra voce, schieramoci perchè si realizzi il diritto dei Palestinesi ad avere, anche loro finalmente, una patria ed uno Stato indipendente e sovrano.

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10 giugno 2011

Anche la Fiom si schiera contro "Israele che non ti aspetti"

Anche la Fiom/Cgil prende ufficialmente posizione contro "Israele che non ti aspetti", la kermesse dedicata allo stato ebraico che avrò luogo a Milano tra il 12 e il 23 giugno prossimi.

Sulla base dell'assunto, del tutto condivisibile, che non esistono diversi Israele, bensì uno soltanto, la cui prosperità e la cui fortuna si basano in buona parte sullo sfruttamento e la spoliazione delle risorse del popolo palestinese.

Scienza e ricerca, si legge, non sono neutre, ma sono strettamente connesse all'occupazione e al regime di apartheid con cui Israele mantiene la sua ferrea stretta sui territori occupati. Le risorse idriche vengono sfruttate dallo stato ebraico a danno delle popolazioni native, cui viene destinata una quantità assolutamente minima delle stesse. Persino il turismo, ad esempio nella zona del Mar Morto, si basa sull'esclusione e sulla privazione degli accessi al popolo palestinese.

Tenere una imponente manifestazione come quella di Milano non significa altro che fornire ulteriore legittimazione ad uno Stato che fa della violazione del diritto internazionale e dei diritti umani la sua pratica quotidiana.

E - a giudizio di chi scrive - non è possibile "fare affari" con chi ha le mani sporche del sangue di civili inermi ed innocenti. Ma qualcuno, anche a sinistra, talvolta lo dimentica...

KERMESSE DI MILANO -ISRAELE, OVVERO L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA
Commento di Alessandra Mecozzi*, Roberto Giudici**

«Israele che non ti aspetti» è il titolo scelto per una kermesse (dal 12 al 23 giugno) di eventi espositivi, promossi dall'Ambasciata di Israele con la Regione Lombardia e l'ex giunta Moratti.

Per alcuni giorni il centro di Milano verrà «occupato» dall'esibizione di tecnologie sofisticate nei settori della sicurezza e degli armamenti, del trattamento delle acque, della sanità e dell'informatica. Nella stessa occasione un vertice di uomini d'affari italiani e israeliani discuterà di cooperazione economica tra i due paesi.

«Fare affari», è l'invito dell'ambasciata di Israele, accolto dalla partecipazione imprenditoriale e istituzionale italiana. Il titolo indica la consapevolezza che a Israele si pensa come ad a un paese super militarizzato, in guerra - che è un dato di fatto - cercando di attrarre l'attenzione su un'altra faccia.

Ma queste presunte due facce, sono in realtà una sola: quella dell'insostenibile politica israeliana coloniale e di occupazione. Una politica che andrebbe sanzionata, non alimentata!

Scienza e ricerca non sono mai neutre. La ricerca scientifica è strettamente legata a quella militare e della sicurezza. Viene quotidianamente «testata» dal governo di Israele su migliaia di palestinesi, la cui vita è resa impossibile dal sistema dell'occupazione militare ed economica. Centinaia di check points tecnologico/militari impediscono il movimento della popolazione, come lo sviluppo economico; l'impenetrabile «barriera di difesa» o «muro dell'apartheid» protetto da un sistema sofisticatissimo di sensori e comandi hi- tech, ha confiscato terre e pozzi, demolito case, distrutto terreni agricoli, posti di lavoro, separato famiglie e comunità; ha «spostato» confini internazionalmente riconosciuti. Il muro è una «violazione del diritto internazionale», ha avvisato la Corte di giustizia dell'Aja (9 luglio 2004).

Gran parte dell'acqua virtuosamente trattata dall'ingegneria israeliana proviene da espropriazioni e spoliazione dei territori, a danno di villaggi, di città e dell'economia palestinesi. Viene esaltato un sistema sanitario all'avanguardia nella cura dei propri cittadini, mentre a Gaza si negano cure basilari ad una cittadinanza sotto un assedio di anni, condannato dalle agenzie sanitarie mondiali.

Persino le immagini simbolo del turismo sul mar Morto e la città entro le mura di Gerusalemme, parlano di territori occupati secondo le Risoluzioni Onu. Sostenere economicamente la politica del Governo israeliano, significa sostenere la sua illegale e crudele occupazione e colonizzazione dei territori palestinesi, la sua violenza contro chi rivendica i propri diritti, legalmente sanciti.

La kermesse a Milano è una scelta di parte, di pieno appoggio alla politica del governo di Israele. Ed è un grave errore, che pregiudica la possibilità che il nostro paese giochi un ruolo attivo per la risoluzione del conflitto, tanto più necessaria quando dal mondo arabo arrivano segnali per un avanzamento democratico di tutta la regione.

La Fiom, impegnata con le società civili palestinese e israeliana per una pace giusta e durevole in Medio Oriente, ritiene che neppure il business e la cooperazione possano prescindere dalla difesa del diritto internazionale, dell'autodeterminazione e della sicurezza per le popolazioni. Respingiamo le tristi e ormai patetiche accuse di antisemitismo contro ogni voce critica che condanni l'occupazione di territori e popolazioni. Chi rivendica rapporti privilegiati di Israele con l'Europa, non può sorprendersi per l'attenzione ad una politica che, sempre più diffusamente a livello internazionale, viene chiesto di sanzionare.

*responsabile internazionale Fiom-Cgil

**responsabile org. Fiom-Cgil Milano

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9 giugno 2011

11 giugno: corteo contro "l'occupazione" israeliana di Milano.



La Piazza del Duomo a Milano evidentemente risente già degli effetti della "occupazione" israeliana, dato che tutte le manifestazioni precedentemente autorizzate in partenza o in arrivo verso la piazza dovranno cambiare percorso.

Il corteo promosso dall'ISM-Italia per il prossimo 11 giugno alle ore 17:30, dunque, partirà da Largo Cairoli e avrà come destinazione finale le Colonne di San Lorenzo, tuttavia il percorso deve ancora essere definito. Al termine è previsto un presidio con microfono aperto e un concerto di rap palestinese.

Per info chiamare il 328-9556787.

Occupiamo Milano contro "l'occupazione" israeliana. Contestiamo i complici!

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L'Israele che (non) ti aspetti: rabbini ordinano la lapidazione di un cane!

La notizia è stata pubblicata dal sito B’hadrei Haredim – che a sua volta cita come fonte l’edizione cartacea dello Yedioth Ahronoth – ed è stata riportata in Italia, tra gli altri, dal sito web del Corriere della sera: nel quartiere ultra-ortodosso di Mea Shearim, a Gerusalemme, i giudici di una corte rabbinica hanno ordinato ad alcuni bambini del quartiere di lapidare a morte un cane!

E’ successo che il povero ma incauto animale ha fatto irruzione all’interno dell’aula della Corte rabbinica per gli affari finanziari, ringhiando, spaventando i presenti e rifiutando di allontanarsi. E, soprattutto, è successo che qualcuno si sia reso conto che, in realtà, il cane non era altro che la reincarnazione di un avvocato che, molti anni prima, aveva osato offendere la corte piazzandosi all’interno di quella stessa aula per contestare una decisione dei giudici, e rifiutandosi di abbandonarla per diversi giorni.

Realizzato ciò, i rabbini avrebbero allora ordinato ai bambini di Mea Shearim di uccidere il cane a mezzo della lapidazione, come una sorta di tikkun, o riparazione, per l’anima dell’avvocato.

Il blog Life in Israel, in uno dei commenti all’articolo che tratta la vicenda, racconta che il rabbino capo della beis (o beit) din, Rav Levin, ha sostenuto che nessuno ha mai ordinato ai ragazzi di prendere il povero cane a pietrate.

E così siamo di fronte a una scelta: o credere che i bambini haredi sono crudeli, e hanno lapidato il cane senza alcuna istigazione e per puro divertimento, oppure ritenere che il rabbino ha mentito, che in effetti venne ordinato ai ragazzi di lapidare il cane, che lui e i suoi colleghi sono fanatici crudeli che credono in una teologia primitiva e crudele.

Magari anche questo episodio illuminante potrebbe servire ad illustrare quel volto di Israele “che non ti aspetti” che tra qualche giorno verrà proposto ai cittadini di Milano…

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8 giugno 2011

Firma contro "l'Israele che non esiste"

Alla fine pare che “Israele che non ti aspetti” – la rassegna dedicata allo stato ebraico in programma a Milano dal 13 al 20 giugno – avrà luogo comunque a Piazza Duomo, nonostante le terribili “minacce” piovute dagli ambienti dell’attivismo filo palestinese.

E meno male, perché sarebbe stato davvero ridicolo e pretestuoso spacciare per “pesanti minacce” (come ha fatto il presidente della comunità ebraica milanese, Roberto Jarach) la semplice mobilitazione politica e la pubblicazione di una petizione on line volte a boicottare la manifestazione e a denunciarne il carattere propagandistico, che mira a presentare un “Israele che non esiste” celando quello vero, che ha i caratteri tristemente noti dell’oppressione, del razzismo, della violenza, dell’assassinio.

Ancora una volta si cerca di spacciare la semplice denuncia e la contestazione pacifica con l’antisemitismo violento e gratuito, e non è un caso che sia stato per primo l’israeliano Yedioth Ahronoth, nella sua edizione on line, a denunciare il pericoloso atteggiamento assunto da non meglio identificati gruppi filo palestinesi e i loro bellicosi propositi di “incendiare la città”.

“Israele che non ti aspetti” è una kermesse sulla tecnologia e sul turismo israeliani volta a “promuovere scambi scientifici e culturali tra Tel Aviv e Milano”, per raccontare che esiste anche “un Israele diverso da quello di stato interessato ad un conflitto”. Fra gli eventi programmati il solito incontro con il pacifinto scrittore David Grossman e il solito concerto della pacifinta cantante Noa, quella per intenderci che scriveva ai Palestinesi di Gaza di pazientare e di soffrire un pochettino, giusto il tempo che l’esercito israeliano estirpasse il “cancro” di Hamas (e, con esso, centinaia di vite civili inermi e innocenti…).

Ora, a parte il fatto che i rapporti tra Italia e Israele si intrecciano soprattutto intorno al business delle armi e della sicurezza, non esiste un Israele della tecnologia e della “cultura” disgiunto da quello che purtroppo conosciamo dalle cronache quotidiane della Palestina, come se si trattasse di due paesi diversi. E l’Israele che ci raccontano queste cronache è quello che ha trucidato oltre un migliaio di civili inermi e innocenti durante “Piombo Fuso”, quello che ha ucciso 23 manifestanti palestinesi sulle alture del Golan (tra i quali una donna e un bambino), quello che si prepara ad approvare proprio in questi giorni 4.100 nuovi appartamenti nella Gerusalemme est occupata, quello che minaccia di usare la forza contro la Freedom Flotilla 2 in procinto di partire per Gaza, prefigurando lo scenario di un nuovo massacro di attivisti come quello perpetrato a bordo della Mavi Marmara.

Per questo non è accettabile che Milano diventi la passerella di un’operazione di cosmesi e di propaganda, e non è tollerabile che l’Italia legittimi e si renda complice di uno stato razzista e colonialista che viola ogni sorta di norme e convenzioni di diritto internazionale e depriva i Palestinesi dei loro diritti umani fondamentali.

Per questo è importante la massiccia partecipazione alle iniziative messe in campo dal Forum Palestina, dall’ISM e dalle altre organizzazioni, che culmineranno nella manifestazione nazionale del prossimo 18 giugno, con partenza da Largo Cairoli alle ore 15:00 (vi sono anche dei pullman che partono da Roma per partecipare all’evento).
Così come è importante firmare la petizione on line contro l’occupazione israeliana di Milano (il titolo è naturalmente ironico, forse qualcuno non l’ha colto…). Petizione che qui di seguito riporto e in cui chi, come me, è dalla parte del popolo palestinese, non può non riconoscersi.

PETIZIONE CONTRO LA KERMESSE DI ISRAELE A MILANO

A: La Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano

Siamo dalla parte dei palestinesi.

A chi rifiuta la guerra, sempre e comunque. A chi non accetta che nel 2011 ancora sopravvivano regimi di apartheid. A chi pensa che ogni persona ed ogni popolo abbia il diritto di autodeterminarsi, senza dover sottostare alla volontà e ai permessi (cinicamente poi sempre negati) di un altro governo. A chi rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione. A chi non può accettare che ancora vengano costruiti muri per separare, ghettizzare e umiliare altri esseri umani. A chi pensa che la terra sia di chi la abita, e che tutte/i abbiano il diritto di determinare e scegliere sui propri territori. A chi pensa che a nessuno possa essere negato il diritto di muoversi, di spostarsi ma anche, poi, di tornare a casa. A tutte e tutti voi, chiediamo di aderire a questo appello, di condividerlo con altre/i.

Dal 12 al 23 giugno a Milano, in piazza Duomo, si terrà “Israele che non ti aspetti”, una kermesse sulla tecnologia e sul turismo israeliani promossa dalle stesse autorità di Tel Aviv in collaborazione con gli enti locali lombardi, per raccontare “un Israele diverso da quello di Stato interessato da un conflitto”. Un tendone di 900 metri quadri, per un costo annunciato che si aggira intorno ai 2,5 milioni di euro (non è chiaro chi paghi), che vorrebbe cancellare la memoria della pulizia etnica che ha dato origine alla nascita dello stato di Israele e che perdura tuttora: la cacciata violenta degli abitanti della Palestina nel 1948-49, l’espropriazione della loro terra, la soppressione dei loro diritti civili e dei più fondamentali diritti umani, la negazione del diritto dei profughi palestinesi al ritorno nella propria terra.

Uno Stato che legittima l’apartheid come prassi quotidiana, nascondendola sotto la parola “sicurezza” (tanto cara anche ai nostri governi), che costruisce un muro alto più di otto metri che impedisce ai palestinesi di accedere ai propri campi, alle scuole e agli ospedali, espropriando altra terra, case, fonti di vita. Un muro che - in aperta violazione di sentenze e accordi internazionali - annette, sempre in nome del Santo Diritto alla Difesa, insediamenti illegali, che neanche dovrebbero esistere.

Uno Stato che dalle alture siriane del Golan - occupate illegalmente dal 1967 - si appropria di 450 milioni di metri cubi di acqua all’anno, lasciandone solo 22 ai palestinesi, quando invece le risorse andrebbero divise equamente: ecco svelata la grande tecnologia idrica israeliana.

Uno Stato che nega al popolo palestinese la possibilità di muoversi (costruendo check point lungo il suo perimetro e dentro il territorio altrui) ed il diritto al ritorno per tutti coloro che sono stati costretti a lasciare le loro terre durante le guerre e l’occupazione.

Uno Stato che viene definito “unico stato democratico del Medio Oriente”, ma che nei suoi 63 anni di storia ha continuamente alternato guerra ad alta e a bassa intensità, senza costruire mai, realmente, un'ipotesi di pace e non riconoscendo uguali diritti ai suoi cittadini.

Uno Stato che tra il 27 dicembre del 2008 e il 18 gennaio 2009 ha bombardato la Striscia di Gaza portando in soli 24 giorni alla morte di oltre 1.500 persone, utilizzando armi illegali secondo la Convenzione di Ginevra, come le cluster bombs ed il fosforo bianco.

Uno Stato che dal 2006 condanna gli abitanti della Striscia di Gaza ad un assedio e ad un embargo totali e permanenti, impedendo l’ingresso di materiali da costruzione come di altri moltissimi beni, anche di prima necessità.

Uno Stato che, attraverso una campagna mediatica scaltra e feroce, vorrebbe farsi scudo di uno dei maggiori scempi compiuti dall’umanità, l’olocausto nazifascista, per continuare impunemente a non rispondere dei suoi sistematici attacchi alla vita quotidiana del popolo palestinese e dei suoi progettati e sistematici atti di guerra e di distruzione della storia del popolo palestinese.

Per questo non tolleriamo che Milano diventi la passerella per un’operazione di propaganda tanto vergognosa quanto ipocrita!

Più di 70 risoluzioni delle Nazioni Unite in difesa dei Palestinesi, di condanna delle politiche di Israele sono state ignorate: Israele le ha tutte disattese, con l’appoggio determinante degli USA, l’inettitudine colpevole dell’Unione Europea e di tutti gli stati europei. In particolare l’Italia si è resa complice sottoscrivendo numerosi accordi di cooperazione economica, militare e scientifica con Israele.

Noi italiani ci vergogniamo del marcato servilismo dei nostri governi nei riguardi di Israele e chiediamo a chi governa la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano di cancellare un evento che lede l’immagine di una Milano medaglia d’oro alla Resistenza, che rifiuta ogni tipo di razzismo e discriminazione.

E invitiamo tutte e tutti a partecipare alle iniziative che metteremo in campo durante quei dieci giorni, per dire NO alla guerra e a ogni regime oppressivo in qualsiasi forma si manifestino - che siano ad opera di “governi amici” o “pericolosi dittatori”- e ad ogni forma di razzismo o violazione dei diritti umani.

Comitato “No all’occupazione israeliana di Milano”

“RESTIAMO UMANI”

I firmatari

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7 giugno 2011

Restiamo Umani - Meeting & Art Festival 2011



RESTIAMO UMANI

MEETING & ART FESTIVAL 2011

"Attivismo e arte: come esprimere il dissenso"
10 Giugno 2011 - ore 15:30

Aula Magna - Accademia di Belle Arti di Brera -Milano


Il gruppo Azione Sperimentale, attivo nell’arte e nella cultura, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera ed il Dipartimento di Arti Visive, promuove - nell’ambito del progetto Restiamo Umani - Meeting & Art festival 2011 - un incontro tra attivisti e artisti che indichi nell’arte la principale via di espressione del dissenso verso tutti i conflitti e le guerre.

Nel corso del dibattito, le storie vissute e le testimonianze di chi - con progetti in difesa dei diritti umani - ha teso le mani agli indifesi e agli innocenti, si intrecceranno e dialogheranno con studiosi ed artisti che con le loro operevisualizzano questa tragedia, ne denunciano il crimine o ne indicano una possibile soluzione.

Partecipano alla discussione:
Fabio Rodriguez Amaya - Pittore, studioso di letterature ispano-americane. Direttore del Dipartimento di Scienze dei linguaggi, della comunicazione e degli studi culturali dell’Universitá di Bergamo
Massimo Arrigoni - Attore e autore
Rolando Bellini - Docente di Storia dell’Arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Brera
Giovanni Bottiroli - Filosofo e Teorico della Letteratura, Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Universitá di Bergamo
Maria Elena Delia - Coordinatrice di ISM Italia e Freedom Flotilla Italia
Diego Esposito - Docente di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera
Dario Fo - Attore, autore e Premio Nobel per la Letteratura 1997
Francesco Giordano - Coordinatore di Freedom Flotilla Italia
Luca Incorvaia - Documentarista, autore e vicepresidente di Azione Sperimentale
Massimo Pellegrinetti - Scultore e Direttore della Scuola di Scultura, Dipartimento di Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti di Brera

Tre sono i temi principali che ci proponiamo di discutere:

1) Analisi storico-sociale del ruolo delle organizzazioni di attivismo sui territori devastati dalle guerre;
2) Excursus sulla funzione e la forza eversiva del linguaggio artistico nell’ambito di situazioni sociali debilitate e umanamente debilitanti;

3) Individuazione di nuove modalità per esprimere il dissenso verso tutti i conflitti, tramite l’unione delle esperienze tra attivismo e arte.

Il dibattito sarà coordinato da Giovanni Bottiroli.

L’intero incontro sarà tradotto in simultanea in lingua inglese e reso fruibile in diretta online sul sito internet http://www.restiamoumani.com/ e sui siti delle organizzazioni che supportano il progetto.




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5 giugno 2011

5 giugno: sosteniamo il diritto al ritorno dei profughi palestinesi

Il diritto al ritorno è un obiettivo centrale della lotta di liberazione palestinese. Sin dal 1947-1948, quando oltre 750.000 palestinesi furono espulsi con la forza dalle loro case - e più di 700.000 hanno subito la totale pulizia etnica dal loro paese - essi e i loro discendenti si sono organizzati per chiedere la correzione di questa ingiustizia storica. I profughi della Guerra dei Sei Giorni nel 1967 (a seguito della quale le forze armate israeliane hanno cacciato 300.000 Palestinesi dai territori occupati della Striscia di Gaza e della Cisgiordania), l'amministrazione israeliana dei territori occupati nel periodo 1967-1994 (durante il quale Israele ha privato 140.000 Palestinesi dei loro diritti di residenza), la colonizzazione della Palestina in atto e la deportazione dei suoi abitanti indigeni, hanno aggiunto le loro voci al crescente movimento mondiale a favore del ritorno.

Negli ultimi anni, il diritto al ritorno è emerso anche come richiesta chiave degli attivisti dei movimenti di solidarietà internazionale che sostengono le aspirazioni alla libertà dei Palestinesi. Il 9 luglio 2005, per esempio, l'Appello della Società Civile Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) - il documento fondante di un movimento mondiale guidato dai Palestinesi per la giustizia in Palestina - ha affermato che "le misure punitive non-violente devono essere mantenute fino a quando Israele non rispetterà l'obbligo di riconoscere il diritto inalienabile del popolo palestinese all'autodeterminazione e non si conformerà pienamente ai principi di diritto internazionale ... di rispettare, proteggere e promuovere i diritti dei profughi palestinesi a tornare alle loro case e proprietà".

Oggi i sette milioni di profughi palestinesi costituiscono il più grande gruppo di rifugiati al mondo, costituendo un terzo del totale dei rifugiati. Il loro diritto a ritornare nelle proprie case, e quello di ricevere un indennizzo per i danni subiti, sono sanciti dal diritto internazionale. La risoluzione 194, che è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’11 dicembre 1948 e che Israele ha acconsentito ad applicare come condizione per la sua successiva ammissione alle Nazioni Unite,

stabilisce che i rifugiati che desiderano ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile, e che dovrebbe essere pagato un risarcimento per le proprietà di coloro che scelgono di non ritornare e per la perdita o il danneggiamento di proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o secondo equità, dovrà essere risarcito dai Governi o dalle autorità responsabili.

Inoltre, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall'Assemblea Generale il 10 dicembre 1948, afferma che "ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese." E la risoluzione 3236, che l'Assemblea Generale ha adottato il 22 novembre 1974, “ribadisce … il diritto inalienabile dei Palestinesi a tornare alle case e alle proprietà da cui sono stati evacuati e sradicati, e chiede il loro ritorno".

Nonostante i suoi precisi obblighi secondo il diritto internazionale, Israele continua a opporsi alle richieste dei profughi palestinesi di poter ritornare nelle loro case. Più recentemente, domenica 15 maggio, la 63° commemorazione della Nakba, o "catastrofe", la pulizia etnica della Palestina nel 1947-1948, le truppe israeliane hanno risposto alle manifestazioni di rifugiati inermi in marcia verso le loro case con l’uso di forza letale.

Le forze armate israeliane hanno ucciso almeno 15 dimostranti lungo tre confini (con Gaza occupata, il Libano e tra la Siria e le Alture occupate del Golan), hanno ferito centinaia di persone con armi da fuoco, proiettili di artiglieria e gas lacrimogeni, e scatenato una ondata di arresti e repressione nella Cisgiordania occupata. Questa massiccia violenza può essere stata pianificata solamente come una dimostrazione di forza bruta, finalizzata, assieme alle ripetute affermazioni di Benjamin Netanyahu secondo cui "non accadrà", per dissuadere i profughi palestinesi dal far valere i loro diritti storici e il consenso mondiale per il diritto al ritorno.

Ma la storia che più a lungo resterà nel ricordo tra quelle del 15 maggio potrebbe essere quella di Hassan Hijazi. Profugo palestinese di 28 anni residente in Siria, ha sfidato il fuoco che ha ucciso altre quattro persone lungo il confine con la Alture occupate del Golan, poi ha fatto autostop, e infine ha preso un autobus, fino a casa della sua famiglia a Jaffa. Prima di andare a consegnarsi lui stesso alla polizia di Tel Aviv, ha detto ai giornalisti israeliani, "non ho avuto paura e non ho paura. Sull’autobus per Jaffa, mi sono seduto accanto a soldati israeliani. Mi sono reso conto che loro avevano più paura di me”.

Altri milioni di persone hanno deciso di seguire la strada di Hijazi. Domenica 5 giugno, la 44esima commemorazione della Naksa, o rovescio, l'espulsione di 300.000 palestinesi da parte di Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni, i rifugiati palestinesi torneranno in massa alle frontiere. Annunciando la mobilitazione il 18 maggio, la Third Intifada Youth Coalition ha affermato, "Gli ultimi giorni hanno dimostrato che la liberazione della Palestina è possibile e concretamente ottenibile anche con una massiccia marcia disarmata se la nazione decide che è pronta a pagare tutto in una volta per la liberazione della Palestina".

La Commissione Preparatoria per il Diritto al Ritorno, un organismo di coordinamento non di parte, ha chiesto anche ai sostenitori della lotta di liberazione palestinese di attivarsi per il 5 giugno, organizzando manifestazioni, marce e proteste in tutto il mondo per chiedere il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Luoghi adatti potrebbero includere le ambasciate, i consolati, e le missioni israeliane, gli obiettivi della campagna BDS, e i governi stranieri e le organizzazioni internazionali che permettono i crimini israeliani.

"Le marce del 15 maggio non sono state un evento isolato, ma sono state piuttosto la dichiarazione costitutiva di una nuova fase di lotta nella storia della causa palestinese, dal titolo: 'il diritto dei profughi a ritornare nelle loro case '", ha affermato un comunicato della Commissione..

Per la prima volta, i palestinesi sono passati dal commemorare la loro deportazione con dichiarazioni, festival e discorsi, a tentativi reali di tornare alle loro case.

L'immagine di profughi che marciano da tutte le direzioni verso la loro terra di Palestina ha inviato il forte messaggio al mondo intero che i rifugiati sono determinati a ritornare alle loro case per quanto lungo sia il tempo che ci vorrà; e che 63 anni non sono stati abbastanza per uccidere il loro sogno del ritorno; e che le nuove generazioni nate in esilio forzato, che non hanno mai visto la loro terra d'origine, non sono meno unite ad essa dei loro nonni e padri che hanno assistito alla Nakba.

Quello che è successo il 15 maggio era solo un piccolo esempio di una marcia più grande che avrà luogo presto, una marcia dei profughi palestinesi e di coloro che li sostengono. Essi passeranno il filo spinato e torneranno ai loro villaggi e alle città occupate.

Le folle da ogni luogo in cui vi sono profughi palestinesi si dirigeranno verso la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, e verso i confini della Palestina occupata con la Giordania, la Siria e il Libano, in marce pacifiche innalzando la bandiera palestinese e i nomi dei loro villaggi e delle loro città, le chiavi delle loro case, e i documenti di proprietà.

I “venti del cambiamento” della primavera araba soffiano attraverso i campi profughi, non meno che nelle capitali arabe, verso la Palestina. E non mostrano segni di volersi fermare.

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3 giugno 2011

Obama ha deluso il mondo arabo

Torniamo un attimo al discorso tenuto da Obama il 19 maggio (e a quello pronunciato tre giorni dopo alla convention dell’AIPAC) per sottolineare nuovamente la profonda delusione, ed anzi la decisa irritazione, del mondo arabo per quanto riguarda la posizione degli Usa sulla questione palestinese, e il clamoroso doppio standard ancora una volta utilizzato in favore di Israele.

Obama ha iniziato il suo discorso sul Medio Oriente parlando di democrazia, di eguaglianza e di libertà, lodando le rivoluzioni arabe, e ha concluso parlando del “carattere ebraico di Israele”, che di fatto nega la pienezza dei diritti di cittadinanza al 20% della popolazione araba e, soprattutto, il diritto al ritorno di 6 milioni di rifugiati palestinesi.

E affermando, in aggiunta, che “le Nazioni Unite non fondano Stati”, cercando così di delegittimare il tentativo palestinese di ottenere il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre. Il che è profondamente iniquo e, tra l’altro, costituisce una palese menzogna se poniamo a mente proprio la nascita dello stato israeliano.

Il vero è che, parlando di Israele e delle questioni che stanno a cuore ad Israele, gli Usa proprio non riescono a fare a meno di usare un clamoroso doppio standard di giudizio a favore dello Stato ebraico. Per dirla come
Gideon Levy, “quando ha citato l’ambulante tunisino che fu umiliato da una poliziotta che aveva rovesciato la sua bancarella – quel venditore che più tardi si diede fuoco appiccando la rivoluzione – Obama ha pensato anche alle centinaia di ambulanti palestinesi che hanno subito la stessa identica sorte per mano di soldati e poliziotti israeliani?” Se ci ha pensato, deve aver fatto finta di niente…

Obama, in realtà, cerca di conciliare ciò che è inconciliabile, e cioè l’elogio della democrazia con la difesa e l’aperto supporto all’oppressione e all’occupazione militare israeliana. E ciò è inutile, controproducente e soprattutto immorale.

Di questo tratta l’editoriale di
Medarabnews che segue, da cui sono state estrapolate le parti più strettamente legate alla questione palestinese.

OBAMA E IL MEDIO ORIENTE: L’INANITA’ DELLA SPERANZA
25 maggio 2011


“L’Audacia della Speranza”. Così era intitolato il libro che avrebbe lanciato la vittoriosa campagna presidenziale di Obama nel 2007. Sono trascorsi più di quattro anni da allora, e quasi due anni e mezzo dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca, che tante aspettative aveva suscitato anche in Medio Oriente. Ma di quel vento di speranza che soffiava dall’America non vi è più traccia nella regione.

Oggi il vento della speranza in Medio Oriente soffia dalle piazze di città come Tunisi, il Cairo, Sana’a, e dai cortei di dimostranti che chiedono libertà e democrazia dal Marocco all’Oman, nonostante le situazioni drammatiche con cui in alcuni casi hanno dovuto confrontarsi: la guerra in Libia, la brutale repressione in Siria e nel Bahrein, le uccisioni e le intimidazioni dei manifestanti nello Yemen.

Ma si tratta di una speranza araba, autoctona, sorta dal basso, dai giovani, dalle classi lavoratrici, dai disoccupati. I popoli arabi hanno deciso di prendere in mano il proprio destino e (quantomeno di tentare) di rovesciare le dittature corrotte e repressive che li governano – quelle stesse dittature che, nonostante tutta la sua retorica sulla democrazia, e nonostante le promesse pronunciate da Obama nel 2009 a proposito di un nuovo inizio con i popoli arabi, Washington ha sostenuto fino ad oggi.

La delusione suscitata da quelle promesse non mantenute, dopo che erano state solennemente articolate da Obama nel famoso discorso del Cairo di due anni fa, è stata cocente nel mondo arabo: da allora nulla è realmente cambiato nelle politiche americane nei confronti della regione. Ma l’insuccesso più grave per Obama è stato il suo fallito tentativo di riavviare il processo di pace al fine di giungere a quella soluzione del problema palestinese che egli aveva solennemente promesso fin dal suo insediamento alla Casa Bianca.

Quanto sia tuttora centrale questo problema nel mondo arabo lo ha confermato il mare di bandiere palestinesi che nemmeno due settimane fa ha invaso Piazza Tahrir al Cairo, mischiandosi con le bandiere del movimento democratico egiziano per commemorare la “Nakba”, la catastrofe palestinese del 1948.

OBAMA HA DELUSO IL MONDO ARABO

Ancora una volta, la scorsa settimana, Obama ha preso la parola per mostrare agli arabi il volto benigno dell’America, per convincerli che gli Stati Uniti appoggiano le trasformazioni democratiche nella regione, e per promettere loro un rinnovato impegno a favore del processo di pace israelo-palestinese.

Ma il discorso di giovedì 19 maggio (di cui le parole pronunciate dal presidente americano tre giorni dopo di fronte all’AIPAC, la potente lobby filo-israeliana negli USA, rappresentano solo un corollario), anche questa volta non ha centrato il bersaglio.

Sebbene tale discorso sia stato accolto con favore da buona parte della stampa europea, ben diversa è stata la reazione dei mezzi di informazione arabi, che lo hanno definito inutile, noioso, e per molti versi un vero e proprio “fiasco”.

Secondo la maggior parte dei commentatori arabi, Obama non ha offerto nulla di nuovo, facendo ampio ricorso alla sua ormai nota arte retorica (che fino a questo momento non è mai stata sostanziata dai fatti), ed in molti casi dimostrando un’assoluta mancanza di familiarità con la cultura politica araba …

IL NODO PALESTINESE

… Il passaggio del suo discorso che più di ogni altro ha attirato le critiche unanimi degli arabi è stato quello dedicato alla questione palestinese.

Ampiamente criticata è stata l’insistenza di Obama affinché gli arabi riconoscano Israele come “Stato ebraico”, in pratica legittimando il diritto di Israele a discriminare i suoi cittadini non ebrei su base etnica e religiosa.

Molti hanno fatto dell’amara ironia sulla seguente affermazione pronunciata da Obama in riferimento ad Hamas: “come si può negoziare con una controparte che ha mostrato la propria indisponibilità a riconoscere il tuo diritto ad esistere”. Dopotutto – hanno ironizzato alcuni – i palestinesi hanno negoziato per vent’anni con Israele, che si ostina a non riconoscere il diritto dei palestinesi ad esistere all’interno di un proprio Stato.

Ugualmente criticata è stata l’affermazione di Obama secondo cui gli Stati Uniti hanno perseguito per decenni una politica di non-proliferazione nucleare in Medio Oriente, visto che l’unico paese che possiede armi nucleari nella regione è Israele, il più stretto alleato degli USA, che si è sempre rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione.

Ma a deludere è stato soprattutto il fatto che Obama ha praticamente condannato ogni iniziativa palestinese volta a ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese all’ONU, ha bocciato l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas (il che significa di fatto pretendere che i palestinesi continuino a fare la guerra fra di loro pur di fare la pace con Israele), ed ha affermato che ogni Stato ha il diritto all’autodifesa traducendo poi quest’affermazione nel fatto che Israele ha diritto alla propria sicurezza mentre lo Stato palestinese dovrà essere smilitarizzato.

A fronte di queste prese di posizione, egli non ha esercitato nessuna pressione reale nei confronti del governo Netanyahu. Né ha accennato al carattere “non democratico” dell’occupazione israeliana, o alle umiliazioni subite dai palestinesi per mano dei soldati israeliani.

Ma la posizione di Obama è apparsa ancora più sbilanciata domenica, quando di fronte alla platea dell’AIPAC egli ha ribadito in maniera ancora più netta queste posizioni, ed in particolare ha chiarito che, quando nel suo precedente discorso aveva parlato di una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967 con mutui scambi di territori, intendeva dire che le controparti avrebbero negoziato un confine “che è differente da quello che esisteva il 4 giugno 1967”.

Questo nuovo confine, secondo Obama, terrà conto “dei cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi 44 anni, incluse le nuove realtà demografiche sul terreno”. Un’affermazione di questo genere da parte del presidente degli Stati Uniti – soprattutto se fatta prima di qualsiasi trattativa, e non come risultato di un negoziato fra le parti – agli occhi degli arabi significa ratificare la “politica del fatto compiuto” portata avanti dai governi israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est negli ultimi trent’anni.

Rifiutandosi di condannare esplicitamente gli insediamenti nei Territori occupati e di ostacolarne l’espansione – o addirittura ponendo il veto a una risoluzione di condanna dell’ONU, come è avvenuto nel febbraio di quest’anno – gli Stati Uniti di fatto permettono a Israele di modificare a proprio favore la realtà sul terreno.

Con la progressiva espansione degli insediamenti e della rete di strade e di infrastrutture ad essi connesse, le prospettive di una soluzione a due Stati che permetta la creazione di uno Stato palestinese territorialmente contiguo e in grado di sopravvivere sono diventate praticamente trascurabili.

LA POLITICA MEDIORIENTALE DI OBAMA, STRETTA FRA TEL AVIV E RIYADH

Ma, al di là dei singoli contenuti dei due discorsi pronunciati da Obama la scorsa settimana, il dato complessivo che traspare è la debolezza del presidente americano e della sua amministrazione. Sebbene il suo discorso di giovedì fosse tutt’altro che favorevole ai palestinesi, egli si è visto costretto a spostare ulteriormente le proprie posizioni a favore del governo israeliano in occasione del suo discorso di domenica di fronte all’AIPAC.

E malgrado ciò, le sue posizioni continuano ad essere guardate con sospetto non solo dal governo Netanyahu, ma anche da gran parte del Congresso americano e da alcuni elementi della sua stessa amministrazione.

Due episodi, in particolare, sono emblematici della bancarotta delle politiche di Obama relative alla questione palestinese. Alla vigilia del suo discorso di giovedì, il suo inviato speciale per il Medio Oriente George Mitchell rassegnava mestamente le dimissioni, in quella che è stata una palese ammissione di fallimento. E proprio giovedì, mentre Obama si apprestava a rivolgersi al mondo arabo, la Commissione per la pianificazione edilizia del municipio di Gerusalemme programmava la costruzione di altre 1.500 unità abitative a Gerusalemme Est.

Mentre Obama si separava dall’uomo simbolo delle sue politiche mediorientali nei primi due anni del suo mandato, egli doveva subire l’ennesimo affronto da parte del municipio di Gerusalemme e del governo israeliano.

Tutto ciò che il presidente americano ha potuto fare nel suo discorso di domenica all’AIPAC è stato “mettere in guardia”. Mettere in guardia sul fatto che la situazione internazionale sta rapidamente cambiando a svantaggio di Israele; che, sebbene gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare Israele fino alla fine, l’influenza internazionale degli USA sta declinando.

“Così come il contesto è cambiato in Medio Oriente, negli ultimi anni esso sta cambiando anche nella comunità internazionale”, ha detto Obama. “C’è una ragione se i palestinesi stanno perseguendo i loro interessi alle Nazioni Unite. Essi si rendono conto che vi è un’impazienza in merito al processo di pace – o alla sua assenza – non solo nel mondo arabo, ma in America Latina, in Asia, in Europa. E questa impazienza sta crescendo, e si sta già manifestando nelle capitali di tutto il mondo. E questi sono fatti”.

Ma, tenuto conto della debolezza dell’America, e del potere del Congresso e della lobby filo-israeliana negli USA, Netanyahu può permettersi di non dar retta a simili ammonimenti, e di continuare a fare il male di Israele ignorando qualsiasi ragionevole processo di pace con i palestinesi.

Obama non ha alcuna possibilità di esercitare pressioni nei suoi confronti. E’ debole nei confronti di Israele, così come è debole in Medio Oriente in generale. Un esempio su tutti: mentre gli USA hanno promesso di sostenere le nascenti democrazie in Egitto e Tunisia, ed in particolare di aiutare l’Egitto cancellando un miliardo del suo debito ed offrendo al paese un altro miliardo sotto forma di prestiti, l’Arabia Saudita ha silenziosamente stanziato quattro miliardi di dollari per sostenere l’economia egiziana.

Gli Stati Uniti, afflitti dalla crisi economica e da seri problemi di bilancio, non sono in grado – o comunque non sono disposti – di fornire gli aiuti economici che invece i sauditi possono elargire senza grossi affanni contando sulle loro enormi riserve di denaro liquido derivanti dagli introiti petroliferi. Ed è noto che gli aiuti economici si traducono in potere contrattuale, in influenza politica.

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), di cui l’Arabia Saudita è di gran lunga il membro più influente, inorridito dalla (seppur riluttante) decisione americana di assecondare il cambiamento in paesi come l’Egitto, ha deciso di uscire dall’ombra americana adottando un’aggressiva politica di aiuti (miliardi di dollari a Bahrein, Oman ed Egitto), di repressione delle proteste in Bahrein attraverso un intervento militare diretto, di forte mediazione nello Yemen per assicurare un cambio di regime favorevole al GCC; così come ha deciso di invitare le monarchie di Giordania e Marocco ad entrare a far parte dell’organizzazione – per formare quello che alcuni hanno definito il fronte delle monarchie arabe ostili al cambiamento.

L’attivismo saudita sta mettendo a dura prova il legame con Washington. I rapporti strategici fra i paesi del GCC e gli Stati Uniti continuano a essere saldi semplicemente perché gli interessi in gioco sono troppo alti per entrambe le parti, ma i paesi del Golfo non hanno esitato negli ultimi mesi a mostrare un approccio politico che molto spesso diverge da quello americano. Essi hanno deciso di intervenire in Bahrein nonostante le velate critiche di Washington, di usare con l’Iran un linguaggio ben più duro di quello americano, fomentando le tensioni settarie nel Golfo, di adottare un atteggiamento molto più aggressivo nei confronti del regime siriano di Bashar al-Assad, alleato di Teheran e accusato di reprimere brutalmente una ribellione “sunnita” (da notare come a prevalere in tutti questi approcci sia la logica settaria, non certo la logica democratica).

Come ha sottolineato in un suo articolo Riad Kahwaji – esperto di sicurezza dell’Institute for Near East and Gulf Military Analysis (INEGMA) con sede a Dubai – presso i leader del GCC vi è la crescente convinzione che gli Stati Uniti siano una potenza in declino, e che nuove potenze emergeranno in Oriente nel prossimo decennio, le quali necessiteranno delle risorse di gas e petrolio dei paesi del Golfo in misura anche maggiore dell’Occidente, e quindi saranno pronte a correre in aiuto del GCC se esso dovesse essere minacciato dall’Iran o da altre potenze.

Ma per il momento – prosegue Kahwaji – gli Stati Uniti hanno una capacità unica di proiettare la loro potenza bellica in tempi rapidi laddove occorra. Questo fa sì che i rapporti fra i paesi del Golfo e Washington resteranno saldi a breve termine, soprattutto per ragioni militari.

Dal canto suo, Washington trova vantaggioso il rapporto con l’Arabia Saudita e i paesi del GCC per ragioni militari, energetiche ed economiche. Riyadh è il terzo fornitore di petrolio degli USA, e i paesi del Golfo ospitano importantissime basi militari americane e sono fra i principali clienti della potente industria bellica USA (la quale ha bisogno di “nuovi mercati” visto che il Pentagono è costretto a stringere la cinghia del bilancio).

Di fronte a questi interessi, ancora una volta le parole e i discorsi di Obama sembrano avere ben poca influenza. Stretto fra il potere del Congresso e quello della lobby ebraica per quanto riguarda Israele, e fra gli interessi petroliferi e militari delle industrie americane e quelli del Pentagono per quanto riguarda i paesi del Golfo, è improbabile che il debole Obama riesca a modellare la politica USA in Medio Oriente in base a quel pugno di principi ideali che egli pronuncia in maniera sempre meno convincente nei suoi discorsi.

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