28 dicembre 2011

Chi ha rubato il Natale ai cristiani di Gaza?

I resoconti delle celebrazioni del Natale nei territori occupati in qualche caso hanno dato conto del fatto che Israele ha concesso un certo numero di permessi (500) ai cristiani di Gaza per recarsi nei luoghi santi e partecipare alle celebrazioni religiose.

Nessuno, come era lecito aspettarsi, ha fatto notare che il “gesto di buona volontà” natalizio concesso dai bravi Israeliani ha consentito di viaggiare ad un numero di cristiani di Gaza inferiore al 2010, avendo le autorità governative diminuito il numero dei permessi da 600 a 500 ed avendo limitato l’età dei fortunati alle persone di età inferiore a 16 e superiore a 46 anni (l’anno scorso il limite di età partiva dai 35 anni).

Il risultato è che due terzi dei cristiani di Gaza non hanno ricevuto i permessi per celebrare il Natale nei luoghi santi della Cisgiordania, e che alcuni che questa possibilità l’avevano hanno dovuto rinunciare perché solo alcuni membri della famiglia riscontravano i criteri stabiliti dal COGAT e, di conseguenza, sono rimasti nella Striscia per celebrare il Natale insieme al resto della famiglia.

Anche questo è il segno dell’attenzione che i “fratelli maggiori” ebrei riservano ai cristiani di Terra Santa, privati in un colpo solo di diritti fondamentali quali quello alla libertà di circolazione e alla libertà di culto, nel contesto di una punizione collettiva quale è l’assedio alla Striscia di Gaza che ogni giorno diventa sempre più intollerabile.

Chi ha rubato il Natale?

La gioia del Natale è arrivata un po’ in anticipo per i Palestinesi residenti in Cisgiordania e a Gaza, con l’annuncio del Coordinatore delle attività governative nei Territori (COGAT) di gesti di buona volontà per i cristiani durante le festività natalizie. Sembrerebbe che Babbo Natale abbia deciso che 500 cristiani palestinesi di Gaza di età inferiore ai 16 anni e superiore ai 46 sono stati buoni quest’anno e quindi meritano la possibilità di visitare la famiglia in Israele e in Cisgiordania e di partecipare alle festività religiose nei luoghi santi al di fuori della Striscia.

Si tratta di un gesto ben accetto ed è certamente importante che i principi della liberta di circolazione e della libertà di culto religioso, anche come gesti di buona volontà, trovino estrinsecazione nei provvedimenti del COGAT.

Ma uno sguardo più attento al gesto di buona volontà suggerisce che il Grinch – e non solo Babbo Natale – è stato al lavoro. Nella calza di quest’anno per i cristiani di Gaza c’è una riduzione della loro capacità di accedere ai luoghi santi durante le festività, in rapporto agli anni passati: Israele ha innalzato l’età di coloro ai quali è vietato viaggiare a 46 anni, invece di 35 anni, ed ha fissato una quota di appena 500 persone a cui è consentito di muoversi, nonostante l’anno scorso lo abbiano fatto circa 600 cristiani.

Che siano stati cattivi o buoni, almeno i due terzi dei circa 1.500 cristiani di Gaza, inclusi tutti quelli di età compresa tra i 16 e i 46 anni che sono esclusi dal gesto, non potranno celebrare le festività insieme ai membri della loro famiglia che soddisfano i criteri e riescono ad entrare nella quota. Ciò significa che una famiglia di sei persone, con la mamma e il papà di età superiore a 46 anni ma con figli di età pari a 20, 16, 14 e 7 anni dovranno perdere o la possibilità di viaggiare o l’alternativa di trascorrere il Natale insieme.

Lo scorso anno a Natale, ed anche la scorsa Pasqua, i criteri stabilivano che le persone di età superiore a 35 anni potevano ricevere i permessi. Non è chiaro perché questo Natale solo gli over 46 possano viaggiare. La politica israeliana è ancor più restrittiva per i musulmani di Gaza: nessun musulmano, qualunque sia la sua età, può recarsi nei luoghi santi, una politica approvata in tribunale all’inizio di quest’anno, quindi suppongo che dobbiamo esser grati per i piccoli miracoli. In ogni caso, buon Natale e felice anno nuovo a tutti!

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21 dicembre 2011

E' primavera anche per la destra israeliana

Le paure suscitate ad arte in Israele, che si sente minacciato dalla primavera araba e dai fondamentalisti alle porte, hanno consentito al premier Netanyahu di tacitare le proteste di piazza e di rafforzare la sua ideologia e il suo governo.

Purtroppo questo comporta l’incremento dell’attività di espansione delle colonie, delle demolizioni e degli espropri, anche e soprattutto a Gerusalemme est: in una parola, insomma, la fine di ogni realistica possibilità di componimento pacifico del conflitto israelo-palestinese.

E’ questo il tema dell’articolo che segue, scritto per Ha’aretz dal giornalista Aluf Benn e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.

Springtime for the Israeli right as well
di Aluf Benn – 16.12.2011

La reazione di Israele agli sconvolgimenti della primavera araba è stata un attacco di panico i cui sintomi si sono progressivamente aggravati via via che le manifestazioni di Facebook e Twitter negli Stati arabi si sono trasformate in violente guerre civili e hanno rafforzato i movimenti islamisti. La paura lungamente repressa di Israele che la caduta di Hosni Mubarak avrebbe fatto emergere i Fratelli Musulmani al suo posto e che l’Egitto sarebbe diventato un nuovo Iran – o, nel migliore dei casi, una Turchia in stile Erdogan – si sta realizzando, e la preoccupazione sta crescendo.

L’apprensione di Israele non riflette soltanto un’istintiva repulsione per l’Islam politico: essa riguarda anche gli equilibri di potere regionali. La situazione strategica di Israele è peggiorata nell’ultimo anno. Le alleanze regionali con la Turchia e l’Egitto sono crollate. Inoltre, non è chiaro per quanto tempo ancora esisterà quella con il regno hascemita di Giordania; nel frattempo, anche quest’ultimo sta tenendo a distanza Israele. Gli Stati Uniti, indeboliti sotto la traballante leadership di Barack Obama, non comandano più in Medio Oriente. La Grecia, nuovo alleato di Israele, sta cadendo a pezzi a causa della crisi economica. L’Iran ignora le minacce e le sanzioni, e prosegue la sua corsa al nucleare. L’Autorità Palestinese si sta avvicinando sempre più ad Hamas.

Questo fosco scenario è punteggiato da qualche sprazzo di luce. Il regime di Assad in Siria si è avvitato in una crisi senza uscita, a seguito della quale anche Hezbollah si è indebolito. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas voleva che le Nazioni Unite riconoscessero la Palestina, ma Israele ha fatto naufragare la sua iniziativa. L’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo, che, come Israele, sono affezionati al vecchio ordine regionale e temono i cambi di regime e la crescente potenza dell’Iran, stanno tacitamente collaborando con Israele su questioni di interesse comune.

Ma tutto questo è magra consolazione. A fronte di un crescente isolamento, Israele ha reagito come il bullo della classe quando viene spaventato, scoprendo i denti e minacciando guerra. Ha compiuto un test di missili balistici ed esercitazioni di attacco a lungo raggio, creando l’impressione che fosse sul punto di colpire gli impianti nucleari iraniani. Il messaggio rivolto ai vicini e alla comunità internazionale è: “Israele è ancora importante, e può combinare guai”.

Gli sconvolgimenti regionali di quest’anno hanno preoccupato la maggior parte degli israeliani, ma fra essi ve n’è uno che ha trasformato la paura in un’opportunità politica senza precedenti. Fin dall’avvento della primavera araba, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha compreso che la caduta di Mubarak poneva fine alla dottrina “terra in cambio di pace”. Dal punto di vista di Netanyahu e dei suoi colleghi di destra, era stato ormai dimostrato oltre ogni dubbio che non vi è nessuno con cui dialogare e niente di cui parlare, e che qualunque territorio evacuato da Israele alla fine diventerà una base per attacchi terroristici contro lo Stato ebraico – come sta accadendo ora nel Sinai. Da un giorno all’altro, la sinistra israeliana ha perso l’ideologia alla base della sua proposta per risolvere il conflitto con gli arabi, che aveva predicato per anni. Una merce che non ha più acquirenti ora.

In una dichiarazione davanti alla Knesset il 23 novembre, Netanyahu si è vantato dicendo che era stata confermata la sua valutazione secondo cui, invece che dalla democrazia liberale, gli Stati arabi sarebbero stati sommersi da un’ “ondata islamista”. Avevo ragione – ha dichiarato compiacendosi – quando ho chiesto di essere cauti nei colloqui con i palestinesi e di non affrettarsi a fare concessioni.

Né egli si è limitato ai semplici commenti. Incoraggiato dall’indebolimento del suo rivale Barack Obama, Netanyahu ha accelerato l’attività edilizia negli insediamenti e intensificato gli espropri intorno a Gerusalemme.

Un altro piccolo sforzo, altri due o tre anni al potere, e il sogno della destra si realizzerà: ebrei in numero sufficiente saranno insediati lungo il crinale della Cisgiordania per tagliare la strada una volta per tutte all’idea di due Stati per due popoli.

Partendo dalla Cisgiordania, negli ultimi mesi Netanyahu ha spostato la sua attenzione all’interno di Israele, lanciando una campagna per sopprimere i propri rivali nei settori della politica, della magistratura e dell’informazione. Egli ha liberato Gilad Shalit raggiungendo un accordo con Hamas, cosa che gli ha fatto recuperare il sostegno del centro, e si è posizionato come un leader popolare senza veri concorrenti. Incoraggiato dalla sua ascesa nei sondaggi, il premier ha compiuto passi volti ad anticipare le prossime elezioni generali, in modo da ottenere un altro mandato prima che la recessione si aggravi e che i suoi rivali abbiano la possibilità di riorganizzarsi, e in modo da prevenire possibili ingerenze americane in occasione delle elezioni israeliane qualora Obama dovesse sorprendere le aspettative vincendo un secondo mandato.

Le paure scatenate dalla primavera araba hanno portato Netanyahu più vicino che mai all’obiettivo di perpetuare il suo dominio e di schiacciare le “vecchie élite” di Israele. Negli Stati arabi, i fiori della primavera sono appassiti rapidamente. Invece nell’ufficio del primo ministro a Gerusalemme, e nelle sale riunioni delle fazioni della destra nella Knesset, i suoi alleati stanno fiorendo in vivaci espressioni di auto-compiacimento, nell’attesa di una schiacciante vittoria ideologica e politica sulla sinistra.

Aluf Benn è un giornalista israeliano; è corrispondente diplomatico del quotidiano israeliano ‘Haaretz’; segue la politica estera israeliana ed il processo di pace israelo-palestinese dal 1993

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Vivere nel sovraffollamento


Il 10 dicembre scorso ricorreva il 63° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (UDHR), il cui articolo 13 prevede che “ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato” e il “diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”. Ma questa celebrazione ha scarso o nullo valore per i profughi palestinesi, soprattutto per quelli di Gaza che, oltre a vedersi negato questo diritto fondamentale, sono costretti a vivere, anzi a sopravvivere, in condizioni disumane.

L’attuale situazione nei Territori occupati mostra come Israele continui a violare impunemente il diritto internazionale e i diritti umani dei Palestinesi, particolarmente proprio quelli scolpiti nella Dichiarazione. Israele prosegue la sua occupazione illegale, compie assassinii e atti di violenza e di tortura a danno dei prigionieri palestinesi, infligge enormi danni a persone e proprietà, impone restrizioni punitive del movimento di beni e merci da e per Gaza e con l’estero. Centinaia di pazienti non possono essere curati all’estero o ricevere le medicine indispensabili a causa di una delle più infami punizioni collettive che si siano viste al mondo. Tutto questo costituisce una palese e vergognosa violazione della UDHR.

Dal 10 dicembre dello scorso anno, solo nella Striscia di Gaza, Israele ha ucciso circa 130 persone, tra cui due donne e 16 bambini, ha arrestato 68 persone, inclusi nove bambini, ha danneggiato 150 case, di cui dieci totalmente distrutte, ha raso al suolo e livellato 9.200 metri quadri di campi coltivati, ha danneggiato 50 strutture pubbliche, di cui 4 completamente distrutte; 21 di queste erano strutture scolastiche. In aggiunta, l’esercito israeliano ha danneggiato 20 negozi e 22 fabbriche, sei delle quali interamente distrutte, e 17 veicoli.

E, soprattutto, i rifugiati palestinesi della Striscia di Gaza, devono affrontare una realtà quotidiana veramente drammatica, senza mezzi di sussistenza e con condizioni abitative assolutamente disastrose. E’ il caso della famiglia di Muhammed Salman Abu Rashad, che qui di seguito viene raccontato.

Overcrowded living

Muhammed Salman Abu Rashad, 45 anni, Amna Abu Rashad, 31 anni, e i loro nove figli vivono nel campo profughi di Jabalia , una delle zone più densamente popolate della terra. I componenti di questa famiglia rappresentano soltanto 11 degli 1,1 milioni di rifugiati che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione di Gaza, pari approssimativamente a 1,7 milioni di persone.

Secondo la United Nations Relief and Works Agency (UNRWA), Jabalia è il più grande degli otto campi profughi di Gaza e ospita circa 110.000 rifugiati registrati in un’area di soli 1,4 chilometri quadrati; ovviamente, il campo è tristemente noto per il suo sovraffollamento. La politica israeliana illegale di blocco, utilizzata per la prima volta per isolare la Striscia di Gaza nel 1991, è stata particolarmente devastante per i residenti del campo di Jabalia che, come Muhammed Abu Rashad, in precedenza facevano affidamento sui lavori all’interno di Israele per mantenere le loro famiglie. Dall’inizio del blocco totale di Gaza nel 2007, gli ormai disoccupati residenti sono stati costretti a fare affidamento per sopravvivere sugli aiuti dell’UNRWA.

La struttura della casa di Abu Rashad, in gran parte costituita da una stanza di 3 metri per 3, è tipica di molte case del campo di Jabalia. Una singola stanza funge da camera da letto, soggiorno, studio e zona pranzo per tutti gli undici membri della famiglia. Con l’inverno alle porte, è ovvio che la casa, che mostra lunghe crepe serpeggianti sui muri ed un vano d’ingresso aperto dove ci dovrebbe essere una porta funzionante, è del tutto inadeguata per la coppia ed i loro nove figli, con un decimo in arrivo. Quando arriva la pioggia, scorre dentro la casa e sulle loro coperte, e nonostante fuori sia una giornata fresca ed asciutta, l’umidità nella stanza è particolarmente avvertibile. Muhammed è pronto a far notare che le condizioni in carcere sarebbero migliori: “non è una casa, ma un cimitero”.

Vivere ammassati incide su tutti gli aspetti della vita familiare, ma per i 9 figli della coppia l’effetto è paralizzante. La maggioranza dei bambini della famiglia studia durante il turno serale nella locale scuola dell’UNRWA, che è costretta a tenere doppi turni per agevolare tutti gli studenti del campo. Quando i bambini ritornano a casa è buio e, date le costanti interruzioni di corrente, la mancanza di spazio, ed il forte rumore dei generatori elettrici, i bambini non riescono a studiare. Come risultato, due dei figli di Abu Rashad sono stati bocciati un anno a scuola e sono rimasti indietro.

Con la mancanza di spazio per giocare – sia in casa sia all’esterno negli stretti vicoli disseminati di rifiuti – i bambini hanno poco spazio fisico o emotivo e tendono come risultato a scagliarsi l’uno contro l’altro. I ragazzi ricorrono alla violenza contro i loro fratelli più piccoli e Muhammed mi racconta che le sue due figlie sono incapaci “di comportarsi come giovani ragazze”, imitando invece la violenza dei loro fratelli nel tentativo di “tenergli testa”. Muhammed stesso si rammarica di scagliarsi contro i suoi figli quando si comportano male, dicendo che lo stress di vivere in ambienti così opprimenti lo rende ansioso e incline a scoppi d’ira.

Vivere ammassati ha ripercussioni non solo sulla salute mentale dei componenti della famiglia ma anche sulla loro salute fisica. Colpendo i bambini è ovvio che tutti soffrono di raffreddori ed influenza. Muhammed dice che “quando un bambino contrae una malattia, senza lo spazio per tenerlo isolato e per curarlo, gli altri bambini vengono tutti rapidamente infettati”. Data l’umidità ed il freddo costanti, far stare di nuovo bene i bambini una volta che si sono ammalati non è un compito facile.

Mentre l’affollamento ha lasciato la famiglia ad un punto di crisi, la situazione è solo in via di peggioramento. I figli attualmente sono piccoli, il maggiore ha 15 anni, ma via via che crescono la piccola stanza progressivamente diventerà più angusta. La figlia più grande Sundus, di 10 anni, presto sarà troppo grande per dormire accanto ai suoi fratelli. Muhammed ci dice che con la sopraelevazione delle case attuali dei vicini nel tentativo di alleviare i loro problemi di affollamento, presto il sole sarà completamente oscurato dalla casa della famiglia, già umida. Il risultato, secondo Muhammed, sarà “la distruzione della famiglia”.

La crisi dei rifugiati palestinesi è uno dei problemi più grandi e di più lunga durata al mondo riguardanti i rifugiati; oggi all’incirca uno su quattro dei rifugiati di tutto il mondo è un Palestinese. I diritti dei profughi palestinesi, e in particolare il “diritto al ritorno”, sono protetti da numerose Risoluzioni Onu, inclusa la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu 194. Tuttavia, fintanto che la comunità internazionale rifiuterà di far rispettare il diritto internazionale, queste risoluzioni continueranno ad avere una scarsa rilevanza per i rifugiati della Striscia di Gaza, i cui diritti umani fondamentali continuano ad essere sistematicamente negati.

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15 dicembre 2011

Che fine hanno fatto le manifestazioni di piazza in Israele?

Perché le manifestazioni di piazza degli “indignados” israeliani non hanno più avuto seguito, nonostante la Commissione Trajtenberg non abbia avviato grandi cambiamenti nel Paese?

Una delle risposte che si da Claudia De Martino nell’articolo che segue, tratto da Medarabnews, è che, ancora una volta, la politica estera e le minacce - vere o presunte o appositamente create - per la “sicurezza” di Israele valgono a spegnere ogni dibattito e ogni proposta di riforma sociale ed economica.

Tant’è che è difficile ipotizzare che i tagli alla spesa militare – pure ipotizzati dalla Commissione presieduta dall’economista israeliano – troveranno mai una effettiva attuazione.

Israele: il “time-out” delle rivolte sociali e l’autunno arabo
di Claudia De Martino – 15.12.2011

A qualche mese dalle rivolte arabe, scoppiava anche la “primavera israeliana” con le prime rivolte di piazza a Tel Aviv sul boulevard Rotschild. Si trattava delle prime grandi manifestazioni in Israele che non avevano come scopo la fine di una guerra o la protesta contro crimini di massa perpetrati dal proprio esercito o ancora una risposta unitaria a episodi di terrorismo, ma piuttosto la rivolta delle classi medie contro il caro-vita e l’inflazione e lo smantellamento del welfare state nel Paese.

Non che il crollo dei sussidi e dei servizi sociali in Israele risalga all’estate del 2011, ma durante quell’estate finalmente gli israeliani – meno ossessionati dai problemi impellenti della sicurezza nazionale o dal pericolo di razzi Katiusha (dal Sud del Libano) e Qassam (dalla Striscia di Gaza) – recuperavano un po’ di autocritica e riprendevano il filo di una riflessione sociale interrotta dallo scoppio dell’Intifada al-Aqsa (2000), per guardarsi dentro e affrontare le anomalie strutturali della crescita del proprio Paese, riununciando alla perenne ricerca di un nemico esterno.

Così Israele scopriva molte cose, e anche il mondo esterno apprendeva istantaneamente su Israele che nel Paese non era la guerra l’unico problema, ma anche la giustizia sociale. Per un Paese che cresceva al ritmo medio del 4% (tra il 3.6% del 2008 e il 4.7% del 2010) annuo e che aveva appena varcato la soglia del club dell’OECD, la crisi economica sembrava uno spettro lontano, e le prospettive future le più rosee di tutta l’area mediterranea. Gli analisti finanziari continuavano a gridare al “miracolo economico”, e in realtà affibbiavano la stessa etichetta anche all’economia della smembrata Autorità Nazionale Palestinese, con una crescita annua pari al 7%(fino al 2009). Secondo questa lettura macroeconomica, la crescita nei due Paesi – con un’economia giovane e, nel caso di Israele, anche fortemente ancorata all’innovazione tecnologica nelle biotecnologie e nell’informatica – avrebbe dovuto continuare a espandersi e conquistare nuove quote di mercato al’infinito (esattamente come si prospettava per l’Europa).

La brusca interruzione di questo andamento virtuoso è intervenuta, dunque, come una doccia fredda inspiegabile. E’ vero che vi era stata la rivoluzione tunisina e poi anche le manifestazioni di massa a piazza Tahrir, ma quegli eventi riguardavano il mondo arabo piagato dalle dittature e dalla povertà endemica, e non avevano niente a che spartire con il ricco e moderno Israele. Ancora, vi era stata anche la crisi economica mondiale che aveva colpito con particolare virulenza l’Europa, causando una crisi del debito in tutti i Paesi europei del Mediterraneo e provocando le manifestazioni di massa di milioni di giovani disoccupati – gli Indignados – per protestare contro la disoccupazione giovanile, ma quelli erano fatti relativi alla “Vecchia Europa”, un continente che non cresceva più economicamente da anni e che non si era accorto del proprio ritardo. Nessuna delle due crisi, alla fine, sembrava toccare da vicino Israele, che tradizionalmente si ritiene un Paese che “dwells alone”, che “fa (e sta) da solo”.

Quando dunque comparvero le prime tende dei giovani di Tel Aviv che si accamparono nel boulevard Rotschild, nessuno capì bene cosa stessero facendo e perché fossero lì. Era chiaro che si sarebbe trattato di una protesta sterile di alcuni giovani viziati: la “bella gioventù laica” di Israele che un tempo era stata il fiore di Tsahal (dell’esercito) e oggi, invece, spesso militava in movimenti antimilitaristi. Eccentrica e poco rappresentativa di un Paese che, invece, ha problemi molto seri e reali, normalmente associati alla guerra, ma in realtà costituiti da quel 23,3% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà (in Israele pari a 7 dollari e 30 centesimi al giorno) in una delle economie più avanzate del mondo. Tale soglia di povertà è più alta della vicina West Bank (dove si assesta al 18,3%, ed è inferiore a quella di Gaza, pari al 38%, che però viene universalmente riconosciuta come uno dei Paesi e delle economie più arretrate).

Invece i giovani di Tel Aviv, in maggioranza studenti, sono scesi in piazza anche loro in una protesta senza leaders –emulando piazza Tahrir – e Daphni Leef, una degli attivisti di maggior spicco, ha preso la parola per criticare il mercato degli alloggi, i costi degli affitti, l’inflazione che erode il potere d’acquisto della classe media, i monopoli nel settore alimentare e nella distribuzione dei prodotti (la rivolta scoppiò proprio a seguito del rialzo del prezzo di un popolare cottage cheese della Tnuva) e le concentrazioni che fan sì che la ricchissima economia israeliana sia in mano a poche famiglie (sempre le stesse), l’alto tasso di esternalizzazioni dei lavoratori nelle aziende (10% contro la media OECD del 5%), i tassi folli sui prestiti forniti dalle banche, i costi altissimi di servizi base come l’energia e l’acqua e di quelli bancari, ma anche sollevando questioni di equità di base tra cittadini, come il caso di un quartiere arabo di Lod (Samech Het) che fino al 2011 non aveva allaccio per l’acqua né fognature, ma si riforniva tramite un’unica pompa, come nel Medioevo.

Una volta data la scintilla, le persone si sono riversate nelle piazze per estendere la protesta anche ad altri settori che non erano mai stati oggetto di interventi statali: il monopolio delle frequenze televisive, i tassi ingiustificati imposti dalle compagnie di telefonia mobile, i tassi di interesse mostruosi sulle assicurazioni pensionistiche e i fondi pensione privati (perchè ormai le pensioni statali sono state completamente depauperate), il controllo verticistico nelle aziende, i sussidi alle yeshivot ultraortodosse ed agli uomini religiosi con grandi famiglie a carico che non lavorano tutta la vita, la mancanza di un tetto ragionevole per i salari ai dirigenti, il livello altissimo della tassazione (pari al 48%), le risorse e gli investimenti indirizzati esclusivamente al settore della difesa e non a quello dell’istruzione e dell’innovazione scientifica, che hanno fatto dire a Avi Hasson – direttore del dipartimento scienza e innovazioni del Ministero del’Industria, del Commercio e del Lavoro – che il budget e gli investimenti nel suo settore sono scesi in 10 anni del 36.3%, inducendo il Ministero a rifiutare la sovvenzione di molti progetti di interesse nazionale che avrebbero potuto produrre crescita e posti di lavoro.

Ad una piattaforma sociale di protesta così inclusiva e così mirata, improvvisamente, non partecipavano più solo gli studenti snob di Tel Aviv ma anche le classi medie di Haifa, gli ebrei orientali (mizrahi) di Beersheva e gruppi di persone comuni in altre 12 città del Paese che non si erano mai classificate come attivisti. Solo Gerusalemme rimaneva moderatamente toccata dalle manifestazioni.

Infine, una volta scoperchiato il vaso di Pandora, ecco che alcuni attivisti per i diritti sociali sono arrivati a chiedersi inevitabilmente se vi fosse un nesso tra guerra e situazione economica del Paese, o meglio redistribuzione interna del reddito, e se e quanto pesassero gli insediamenti su questo bilancio. Un’anima minoritaria del movimento si è allora interrogata su questo ulteriore punto critico, poco affrontato nel Paese da una prospettiva strettamente economica: il costo delle colonie. Spingere troppo, però, sull’approfondimento di questo tasto avrebbe comportato una divisione del movimento: una rottura con coloro che giustificano e sostengono la rivolta sociale ma non vogliono in nessun modo che essa venga – a parer loro – “strumentalizzata” per assumere una posizione anche nel conflitto israelo-palestinese. Il movimento racchiude molte anime, con sensibilità diverse rispetto alle colonie.

Com’è finita dunque la protesta? E perché, sebbene la Commissione Trajtenberg – nominata per stilare una lista di priorità nazionali – non abbia avviato grandi cambiamenti nel Paese e la sua attività non abbia inciso sui settori più sensibili, oggi la protesta è finita?

La risposta è molto semplice e ha due motivazioni che convergono: la prima è antropologica, e tende a spiegare la fine delle proteste sociali con l’inizio delle vacanze e delle festività religiose in Israele alla metà di settembre – esattamente come in Italia l’arrivo del Natale stempera il carattere delle manifestazioni studentesche dell’”autunno caldo”; la seconda attiene, invece, alla politica estera: se niente è cambiato all’interno di Israele, né Nethanyau ha cambiato idea su welfare state e colonie, la regione circostante è diventata per Israele sempre più problematica.

La lontana Tunisia ha fatto le elezioni per veder vincere gli islamisti moderati di an-Nahda, ed è stata poi doppiata dal vicinissimo Egitto – un Paese chiave per la sicurezza di Israele – dove i Fratelli Musulmani usciti vincenti dalla prima tornata elettorale hanno già dichiarato che intendono rivedere le clausole del Trattato di Pace del ’79 in senso più favorevole all’Egitto. Intanto la repressione in Siria prosegue con quasi 5.000 morti, senza che la comunità internazionale intervenga, e con una leadership israeliana che mantiene un basso profilo sulla questione perché –al di là delle vane parole di Barak – Israele non sa se ciò che seguirà la caduta di Assad sarà meglio dei 40 anni che l’hanno preceduta.

In altri termini, ancora una volta le notizie che provengono dal resto della regione – senza dimenticare l’incubo incombente del nucleare iraniano – aiutano Nethanyau a mantenere gli israeliani tra l’”incudine e il martello”, senza permettere loro di rialzare la testa. A ciò si aggiunge il fatto che, anche nel dinamico Israele, le rivoluzioni sociali hanno perso il loro momentum – così come gli ideali socialisti e di giustizia sociale – e oggi un popolo giovane ma schiacciato dalla guerra riesce a sognare un futuro diverso solo in brevi momenti, quelle stagioni luminose come i primi anni ’90 in cui spiragli di dialogo sembrano improvvisamente spalancarsi con i palestinesi e lasciar intravedere la possibilità di una soluzione al conflitto che li lega.

Claudia De Martino

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11 dicembre 2011

No alle bollicine "illegali" di Sodastream



L'acqua è limpida… gli affari di Sodastream, NO!

Sodastream, ditta israeliana che produce gasatori per l'acqua di rubinetto, spacciati per prodotti "eco-chic", nasconde una brutta verità: il suo principale impianto di produzione si trova in un insediamento israeliano costruito illegalmente nei Territori palestinesi occupati.

Sodastream punta sul mercato italiano con campagne pubblicitarie milionarie.

Diciamo ai rivenditori e ai promotori dei prodotti Sodastream che non li vogliamo in Italia!

Firma la lettera, NO alle bollicine di Sodastream:

http://stopagrexcoitalia.org/iniziative/online/273-sodastream.html

Le organizzazioni, associazioni, comitati e collettivi possono inviare adesioni a: stopsodastream@gmail.com. La lettera/petizione può essere firmata sul sito di Stop Agrexco Italia oppure scaricata in formato PDF per portarla al rivenditore.

Testo della lettera:

Spett.le rivenditore,

Vi scriviamo per informarvi, in quanto rivenditori dei prodotti Sodastream, che questa ditta opera in palese violazione del diritto internazionale. Infatti, come si evince anche dal suo rapporto annuale, la principale fabbrica della Sodastream si trova a Mishor Adumim, zona industriale di Ma'aleh Adumim, un insediamento israeliano costruito illegalmente nei territori Palestinesi occupati.[1]

Per questo motivo, nel luglio del 2011 COOP Svezia, che detiene una quota di mercato pari al 21,5% dei supermercati svedesi, ha annunciato la sospensione della vendita dei prodotti Sodastream.[2]

Vi chiediamo, pertanto, di seguire l'esempio della COOP Svezia e di cessare la vendita dei prodotti Sodastream, motivando la nostra richiesta come segue:

a) Gli insediamenti israeliani nei territori Palestinesi occupati sono illegali secondo il Diritto Internazionale. I prodotti degli insediamenti sono pertanto il risultato di una violazione del diritto internazionale e di un abuso delle risorse naturali di un popolo sotto occupazione, anche questo un crimine secondo la IV Convenzione di Ginevra.[3]

b) A sancire l’illegalità degli insediamenti, una sentenza del 2010 della Corte di Giustizia della Comunità Europea ha dichiarato i prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani non ammissibili per le tariffe doganali preferenziali previste dall'accordo UE-Israele.[4] È stata proprio la Sodastream al centro di questa sentenza per aver omesso il luogo esatto di provenienza sui propri prodotti.

c) La Sodastream finanzia direttamente l’insediamento di Ma’aleh Adumim attraverso le tasse comunali che vengono utilizzate esclusivamente per sostenere la crescita e lo sviluppo dell’insediamento.[5]

d) Nonostante Sodastream pubblicizzi i suoi prodotti come “eco-ambientali”, le tasse comunali pagate a Ma'aleh Adumim finanziano la gestione della discarica israeliana di Abu Dis, anche essa costruita illegalmente in Cisgiordania, in cui vengono scaricate 1100 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti da Gerusalemme e dagli insediamenti israeliani circostanti.[6] Il Ministero dell’Ambiente israeliano ha affermato che la discarica, ubicata sopra la Mountain Aquifer, la principale fonte d’acqua in Cisgiordania, sta “inquinando corsi d’acqua e terre nelle vicinanze”.[7]

e) L'organizzazione israeliana per i diritti dei lavoratori Kav LaOved ha documentato casi in cui i lavoratori palestinesi della fabbrica Sodastream di Mishor Adumim, con poche alternative oltre a quella di lavorare negli insediamenti, erano pagati meno della metà del salario minimo, lavoravano in condizioni terribili e venivano licenziati se protestavano. Inoltre, i lavoratori palestinesi vivono sotto occupazione e quindi non godono dei diritti civili, e dipendono dai loro datori di lavoro per i permessi di lavoro.[8]

La Sodastream ha dimostrato di avere poco o nessun riguardo per il Diritto Internazionale e per i diritti umani, mentre fa di tutto per presentarsi come un'impresa socialmente responsabile che tutela l’ambiente. Invece si rende complice e trae profitti dalla sistematica violazione che il governo israeliano fa del Diritto Internazionale e dei diritti umani basilari del popolo palestinese: crimini quali la confisca illegale delle terre e delle risorse palestinesi e la costruzione del Muro di segregazione, condannata dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.[9]

Poiché pensiamo che la vendita dei prodotti Sodastream avvenga da parte vostra in buona fede, riteniamo che non vorrete in alcun modo facilitare la violazione dei diritti umani: pertanto con questa lettera, vi chiediamo di porre termine alla commercializzazione dei prodotti della Sodastream.

Attendiamo un vostro gentile riscontro.

[1] Sodastream International Ltd. Annual Report for the Fiscal Year Ended December 31, 2010

[2] Coop stops purchases of Soda Stream , 19.07.2011

[3] IV Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, Titolo III Statuto e trattamento delle persone protette, Sezione III Territori occupati, art. 49 , 12.08.1949

[4] Corte di giustizia dell'Unione europea, Comunicato stampa n. 14/10, Prodotti originari della Cisgiordania non possono beneficiare del Regime doganale preferenziale istituito dall'accordo CE-Israele , 25.02.2010

[5] SodaStream: A Case Study for Corporate Activity in Illegal Israeli Settlements , Coalition of Women for Peace – Israel, gennaio 2011

[6] Adumim Industrial Park

[7] Jerusalem refuses to stop using Abu Dis landfill , 14.06.2011

[8] Palestinian Workers at the SodaStream Factory , SodaStream: A Case Study for Corporate Activity in Illegal Israeli Settlements, Coalition of Women for Peace – Israel, gennaio 2011

[9] Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory; Advisory Opinion of the International court of Justice. 09.07.2004

Prime firme:

Stop Agrexco Roma

Amici della Mezzauna Rossa Palestinese

Un Ponte per...

Comitato per la Campagna di Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni contro Israele (Campania)

Women's International League for Peace and Freedom – Italia

Associazione per la Pace

Luisa Morgantini - già Vice Presidente del Parlamento Europeo

Lo Sguardo di Handala – Onlus

Statunitensi per la pace e la giustizia – Roma

Comitato varesino per la Palestina

UMVA : Unione dei musulmani varesini

Musvarè : Associazione dei musulmani italiani varesini

Omar al Faruk : Centro culturale islamico varesino

Comitato "Con la Palestina nel cuore" (Roma)

Forum Palestina

BDS Milano

Donne in Nero - Roma

Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese

BDS Pisa

Gruppo per la Palestina - Pisa

Pax Christi Italia

Istituto di Ricerca per la Pace (Italy) – Rete Corpi Civili di Pace

Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze

Associazione per la pace della provincia di Pordenone

Coordinamento Campagna BDS Bologna

Khalil Shaheen, Director of the Economic and Social Rights Unit, Palestinian Center for Human Rights – Gaza

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8 dicembre 2011

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