3 novembre 2010

Apartheid in Israele.

Ogni qual volta personalità eminenti si azzardano a paragonare il regime israeliano all’apartheid del Sudafrica ante 1990 si levano alte le proteste di quanti giudicano, al minimo, tale parallelo esagerato.

Eppure altro termine di paragone non si riesce a trovare, non solo rispetto all’occupazione dei Territori palestinesi, ma anche alla legislazione e alla pratica amministrativa vigenti in Israele, che vedono la popolazione araba pesantemente discriminata.

E tale stato di cose viene ora ad essere sancito sul piano giuridico dal disegno di legge di cui si parla nell’articolo che segue, proposto nella traduzione di Medarabnews.

Scrive Amnon Be’eri-Sulitzeanu: “Nel 2010 la segregazione tra ebrei e arabi in Israele è quasi assoluta. Quelli di noi che vivono qui lo danno per scontato. Ma i visitatori stranieri non possono credere ai loro occhi”.

E a chi non si reca in Israele questa realtà vergognosa, purtroppo, non la racconta nessuno.

Nel 2010 la segregazione tra Ebrei ed Arabi in Israele è quasi assoluta.
di Amnon Be’eri-Sulitzeanu – 29.10.2010

Sotto il nome ingannevolmente ordinario di “Emendamento al disegno di legge sulle Associazioni Cooperative”, la Commissione per la Costituzione, la Legge e la Giustizia della Knesset la scorsa settimana ha messo a punto un progetto di legge destinato a scavalcare le precedenti sentenze della Corte di Giustizia. Se davvero questa legislazione sarà approvata dalla Knesset, non potremmo che descriverla come una legge di apartheid.

Dieci anni fa, la Corte Suprema ordinò alla città di Katzir di accettare la famiglia di Adel e Iman Kaadan, cittadini arabi di Israele, in quanto membri della comunità. Sette anni più tardi, il giudice emise una sentenza simile contro il paese di Rakefet in Galilea, il quale, come Katzir, è un villaggio ebraico. Ora, però, l’assemblea legislativa ha elaborato una vera e propria risposta “sionista” per i giudici: se essa diventerà legge, l’emendamento darà a dei comitati di accettazione all’interno dei comuni il potere di limitare esclusivamente a cittadini ebrei la possibilità di risiedere nelle loro città.

Usando un linguaggio neutro ed asettico, il disegno di legge consentirebbe a tali comitati nei piccoli borghi rurali di respingere le domande provenienti da famiglie che “sono incompatibili con il tessuto socio-culturale della comunità, e dove ci sono dei motivi per supporre che esse possano distruggere questo tessuto”.

In altre parole, se i comitati di ammissione in precedenza erano costretti ad usare un po’ di creatività per nascondere le motivazioni etnico-nazionali dietro al rifiuto nei confronti degli arabi, ora, come ha affermato Rabbi Akiva, “è tutto previsto, e la libertà di scelta è concessa” ( Pirkei Avot 3). Gli arabi? Non qui. Siamo spiacenti, la legge è dalla nostra parte in questo caso.

Coloro che fingono innocenza, tra cui alcuni esponenti del centro del nostro panorama politico, diranno: “Il disegno di legge non è inteso per escludere gli arabi. Cosa c’è di sbagliato nel sostenere il diritto delle comunità a proteggere il loro stile di vita unico?”.

In effetti, cosa c’è di sbagliato in questo? Non c’è dubbio che i vegetariani di Moshav Amirim, in Galilea, hanno diritto a difendersi da un’invasione di carnivori, così come i praticanti della meditazione trascendentale a Hararit, nella regione di Misgav, devono poter meditare senza interruzioni, ma il carattere di queste comunità è assolutamente unico. Non è così per le decine di kehilati’im yeshuvim (letteralmente, “insediamenti comunitari”) in Israele, la cui principale caratteristica culturale è il fatto che i loro abitanti sono ebrei e sionisti – non proprio una popolazione sotto minaccia imminente, e il cui stile vita unico andrebbe protetto.

Già diversi mesi fa abbiamo potuto constatare quanto rapidamente questa nuova legge verrà messa in atto, quando alcuni paesi, anticipando l’azione della Knesset, in tutta fretta approvarono delle leggi che di fatto impedivano la presenza degli arabi. Nelle comunità di Yuvalim e Manof, nella zona di Misgav, coloro che fanno domanda di residenza sono ora tenuti a giurare fedeltà alla visione sionista, mentre in Mitzpe Aviv, un po’ più a sud, devono dichiarare di identificarsi con i valori del sionismo e con la definizione di Israele come stato ebraico e democratico.

Non è che le famiglie arabe facciano la fila per trasferirsi in queste comunità chiuse, le quali sono state istituite principalmente negli anni ‘70 e ‘80 da organizzazioni sioniste come l’Agenzia Ebraica ed il Fondo Nazionale Ebraico al fine di “giudaizzare” aree come il Negev e la Galilea. Nessuno si aspetta da queste cittadine che forniscano la risposta all’orrenda carenza di alloggi con cui la popolazione araba di Israele deve fare i conti. Nemmeno una sola nuova città è stata costruita per loro dal 1948, con l’eccezione di alcuni poveri insediamenti beduini del Negev. Allo stesso modo, il governo centrale non ha ritenuto opportuno aiutare o dare l’approvazione ai comuni arabi già esistenti per elaborare dei piani generali che permetterebbero loro di attuare un programma di crescita e sviluppo per soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita e migliorare la loro modesta qualità della vita.

Non citiamo nemmeno cittadine come Nazareth Illit, Safed e Carmiel, dove sono stati emessi una serie di comunicati ufficiali – a volte da parte di alti funzionari comunali – con lo scopo di espellere gli arabi o impedirne l’integrazione al loro interno.

Nel 2010 la segregazione tra ebrei e arabi in Israele è quasi assoluta. Quelli di noi che vivono qui lo danno per scontato. Ma i visitatori stranieri non possono credere ai loro occhi: istruzione segregata, attività commerciali divise, luoghi di intrattenimento separati, lingue diverse, partiti politici diversi … e, naturalmente, alloggi separati. Per molti aspetti, questo è ciò che i membri di entrambi i gruppi vogliono, ma tale separazione contribuisce solo a una crescente reciproca alienazione tra ebrei e arabi.

Diversi tentativi coraggiosi – in particolare in città e regioni miste – sono stati intrapresi per cambiare la situazione, per ricucire le spaccature e promuovere l’integrazione. Essi vanno da sforzi per sviluppare contesti educativi misti, a iniziative imprenditoriali congiunte e ad altri interventi destinati a promuovere buone relazioni di vicinato sulla base delle pari opportunità. Fino ad ora, questi tentativi intervenivano su una situazione di segregazione de facto. Da oggi, però, la segregazione sarà de jure, per la vergogna di Israele.

Amnon Be’eri Sulitzeanu è co-direttore esecutivo dell’Abraham Fund Initiatives, un’organizzazione che promuove la coesistenza e l’uguaglianza fra i cittadini ebrei ed arabi di Israele.

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21 maggio 2009

Il falso allarme della bomba demografica.

L’argomento della “bomba demografica” – e cioè il differenziale esistente nel tasso di natalità tra la popolazione palestinese e quella ebraica - è stato usato per decenni al fine di giustificare le politiche israeliane riguardanti i territori e, soprattutto, la definizione dei confini dello Stato israeliano.

Non è un mistero che il governo di Israele, e segnatamente il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, voglia arrivare ad una ridefinizione dei confini dello Stato in modo tale da includere all’interno di esso il maggior numero possibile di ebrei e di escluderne le zone a più alto tasso di insediamento di comunità arabe.

Lo studioso Paul Morland, in un articolo scritto su Ha’aretz lo scorso 8 maggio (qui proposto nella traduzione offerta dal sito Medarabnews), ci dimostra come queste paure siano assolutamente infondate, in quanto i tassi di natalità arabo ed ebraico stanno, in realtà, convergendo, e che anche nei Territori occupati si registra un deciso calo del tasso di natalità.

Il vero problema, si segnala giustamente, non sono le dimensioni della minoranza araba, ma la scelta delle politiche adatte a determinarne un maggior grado di integrazione sociale ed economica all’interno dello Stato israeliano.

Oggi all’opposto assistiamo, nei Territori occupati, ad un utilizzo di pratiche scriteriatamente intrise di razzismo e di apartheid, mentre, all’interno di Israele, permangono sostanziali discriminazioni razziali ai danni della minoranza araba, in campo legislativo, amministrativo, nella sanità, nel welfare, nel lavoro, nella distribuzione delle terre.

Eppure, una politica lungimirante dovrebbe facilmente comprendere come la minoranza araba in Israele potrebbe costituire un potenziale ponte verso la regione, ed una sua maggiore integrazione rappresenterebbe un esempio del carattere inclusivo e tollerante della società israeliana.

Ma così non è, e purtroppo i politici lungimiranti sembra che in questa regione scarseggino.

DISINNESCARE LA BOMBA DEMOGRAFICA
8.5.2009

La demografia è stata utilizzata per decenni in Israele, sia dalla destra che dalla sinistra, per promuovere e giustificare determinate politiche nei Territori e in materia di confini. Coloro che per primi hanno sostenuto il ritiro da Gaza e dalla Cisgiordania, ad esempio, citavano, oltre ad argomentazioni di ordine morale, il timore che nel territorio sotto il controllo israeliano gli arabi avrebbero finito per superare numericamente gli ebrei. Nel frattempo, il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha chiesto che i confini dello stato vengano ridefiniti in modo da escludere il maggior numero possibile di cittadini arabi, al fine di ridurre ciò che egli percepisce come una minaccia demografica per lo stato ebraico.

A prescindere dal fatto che queste proposte siano giuste o sbagliate, esse dovrebbero essere discusse in base al merito e non sulla base di falsi presupposti e paure. Pertanto, è importante che l’opinione pubblica abbia almeno una qualche idea di quella che è in realtà la situazione demografica. Ci possono essere delle controversie riguardo ai dati statistici nei Territori, ma all’interno di Israele i fatti parlano chiaro, e meritano di essere più ampiamente conosciuti.

Nei primi tempi dalla fondazione dello stato, la minoranza araba ha attraversato una “transizione demografica”, cosa che si verifica spesso quando le società tradizionali si trovano ad affrontare la modernità. L’assistenza sanitaria e il tenore di vita sono migliorati rapidamente, la speranza di vita è aumentata e la mortalità infantile è diminuita, ma, inizialmente, la dimensione delle famiglie è rimasta elevata. Come risultato, la popolazione araba di Israele è aumentata velocemente, e ha mantenuto, o addirittura aumentato, la sua quota percentuale all’interno della popolazione nel suo complesso, nonostante la massiccia immigrazione ebraica verso lo stato di Israele. Negli anni ‘60, le donne israeliane musulmane avevano ancora, in media, nove figli.

Tuttavia, alla prima fase della transizione demografica – un calo della mortalità, tassi di natalità persistentemente elevati, e quindi una rapida crescita della popolazione – segue sempre una seconda fase, in cui i tassi di natalità calano. Questo è ciò che già da qualche tempo sta avvenendo all’interno della società araba israeliana. Una donna araba israeliana oggi ha in media meno della metà dei figli che aveva negli anni ‘60, mentre il tasso di natalità ebraico si è recentemente stabilizzato o è addirittura aumentato. Questo si può verificare nel numero di bambini effettivamente nati ogni anno. Nel 2001, in Israele ci sono state circa 95.000 nascite ebraiche e 41.000 nascite arabe. Solo sette anni più tardi, nel 2008, le nascite ebraiche sono aumentate fino ad oltre 117.000, mentre le nascite arabe sono diminuite fino a meno di 40.000. In un periodo che corrisponde ad appena un quarto di generazione, le nascite arabe sono scese da circa il 30% del totale a circa il 25%. Questa è stata fino ad ora una tendenza costante. Se questa tendenza dovesse continuare, presto le nascite ebraiche e arabe, anno dopo anno, cominceranno a riflettere in linea di massima l’equilibrio generale di ebrei e arabi nella popolazione nel suo complesso - che è di 4:1 , ovvero rispettivamente l’80% e il 20%.

Ciò non dovrebbe essere una sorpresa poiché, sebbene il tasso di natalità ebraico relativamente elevato in Israele sia in controtendenza rispetto alle altre società progredite, il calo del tasso di natalità arabo in Israele coincide con le recenti tendenze nel mondo islamico. Oggi le donne israeliane nel loro insieme hanno più figli (2,77) rispetto alle donne in Iran (1,71), in Bahrain (2,53), in Algeria (1,82), in Marocco (2,57), in Indonesia (2,34) o in Turchia (1,87). Gli ultimi dati indicano che le donne israeliane hanno ora più figli rispetto alle donne in Egitto (2,72), in Giordania (2,47) o in Libano (1,87). Solo nel 2003, le donne siriane avevano un tasso di fertilità due volte superiore rispetto a quello delle donne israeliane. Nel 2008, lo scarto è stato solo del 16%.

Nulla di quanto detto fin qui tiene conto della popolazione araba al di là della linea verde. Qui i dati sono meno affidabili, ma due cose sembrano chiare: i tassi di natalità restano elevati, ma sono in rapida diminuzione. Il numero delle nascite in Cisgiordania nel 2003 ha rivelato che le donne palestinesi hanno, in media, cinque figli. Lo scorso anno, il numero medio di figli non era molto superiore a tre bambini, una trasformazione stupefacente per un periodo di tempo così breve.

Qualunque sia la situazione nei Territori, all’interno dello stato di Israele il messaggio è abbastanza semplice: i due tassi di natalità ebraico e arabo stanno convergendo. Ciò di cui i politici e l’opinione pubblica dovrebbero preoccuparsi non è tanto la dimensione della minoranza araba – sulla base delle recenti tendenze e proiezioni, è improbabile che essa possa crescere molto al di là del suo attuale 20% – ma piuttosto di che tipo di minoranza si tratterà. Sarà parte integrante della società? Aspirerà a migliorare la propria posizione, sia socialmente che economicamente? Potrà dare il proprio contributo, e godere dei frutti della società israeliana? Potrà rappresentare un potenziale ponte verso la regione, ed un esempio del carattere inclusivo e tollerante della società israeliana?

Oppure sarà emarginata, sempre più alienata ed ostile? Questo dipende molto dagli atteggiamenti della maggioranza ebraica e dalle politiche del governo. Dipende anche dalla presenza di una leadership araba pragmatica e realistica che cerchi di soddisfare gli interessi del proprio elettorato e che basi la propria strategia su una seria comprensione delle proprie prospettive demografiche.

Per ottenere un risultato favorevole, sarebbe prudente concentrarsi non su come disinnescare la “bomba demografica”, ma piuttosto su come disinnescare la bomba dei male informati e fuorvianti allarmismi demografici.

Paul Morland sta preparando una tesi di dottorato su demografia e conflitti etnici al Birkbeck College dell’Università di Londra

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