La luce scomparsa
L’offensiva contro la Striscia di Gaza denominata “Piombo Fuso” –
scatenata da Israele a cavallo tra il 2008 e il 2009 – è stata senza alcun
dubbio la più violenta, brutale e sanguinosa operazione militare contro la
popolazione civile palestinese dall’inizio dell’occupazione ad oggi.
Con una serie di raid aerei e, successivamente, con operazioni di
terra, e a mezzo dell’utilizzo di ogni possibile armamento e mezzo di
distruzione – dalle bombe da una tonnellata al fosforo bianco, dai proiettili
DIME alle granate a flechettes – Israele ha massacrato ben 1.419 palestinesi, l’82,2%
dei quali civili non combattenti e, tra essi, 111 donne e 318 bambini.
Altissimo anche il numero dei feriti, oltre 5.300, tra cui circa 830
donne e 1.600 bambini; molti dei feriti, ancora oggi, risentono delle
conseguenze dei bombardamenti indiscriminati e dei crimini inusitati commessi
dall’esercito israeliano.
Questa è la storia di uno di essi.
La luce di Musleh si è spenta lentamente, e per
riaccenderla lui ha chiamato Nour (luce) la seconda figliola che non ha mai
visto. Musleh Abu Sweireh, 26 anni,
studente islamico, è una delle vittime silenti d’Israele. Del suo uso criminale della forza, delle
bombe al fosforo bianco sganciate sulla popolazione di Gaza dall’Israel Air
Force durante l’operazione “Piombo fuso”.
Cinque gennaio 2009: Israele sta bombardando la
Striscia da dieci giorni, Mushah è tappato in casa con la famiglia. Ricorda
“Sapevamo che erano già morte centinaia di persone, stavamo rinchiusi, sperando
e pregando di non essere colpiti. Vivevamo una condizione d’impotenza, un
sentimento di tristezza e rabbia”. “La tristezza dei miei concittadini sta
tuttora nell’impossibilità di una vita normale: poter coltivare la terra,
pescare, crescere i figli con le nostre risorse. Il sopruso che subiamo da
quell’occupazione subdola basata su isolamento ed embargo, sull’impossibilità
di muoverci, di usare il nostro mare, sul fatto di non avere più l’aeroporto,
di vedere bloccati alle frontiere per ordine di Israele gli aiuti
internazionali. Sentirsi in ogni momento un costante obiettivo è
insopportabile”. E’ la realtà che nessun rapporto Goldstone ha lenito.
L’ultima cosa che Musleh ha visto chiaramente è
stato il bagliore che seguiva la terribile esplosione d’un missile caduto a
pochi metri da casa. Lui e la
sorella Nahla erano vicino a una porta che saltò in aria,
furono investiti e feriti da schegge di tutto quello che si disintegrava.
Quindi dai micidiali fumi che non cessavano. Li respirarono per ore perché
l’abitazione non aveva più protezioni: vetri in frantumi, porte e finestre
divelte. La famiglia di Musleh era prigioniera in quella casa come centinaia di
migliaia di gazesi scampati alle bombe, non si poteva far altro che stare lì
perché gli F16 sfrecciavano e sganciavano.
Poi di notte, quando gli aerei non volavano,
fuggirono tutti a casa di uno zio. Gli occhi bruciavano e non si potevano
lavare, non c’era acqua perché l’aviazione aveva distrutto le grandi condutture
e bombardato molti pozzi. Nelle pupille di Musleh la nebbia cresceva, il calore
aumentava, le figure dei parenti diventavano sfocate e opache “Capivo che era
accaduto qualcosa di grave, ero stordito ma riuscivo appena ad appisolarmi. Gli
occhi erano un fuoco, però temevo potesse succedere di peggio. Temevo di
morire, come accadde il giorno dopo a chi stava nella scuola dell’Unrwa.
Quindi, credo fossero trascorsi otto o nove giorni dall’esplosione, scomparve
ogni cosa: laylah”.
“Chi ha spento la candela? Nessuno Musleh, mi
ripetevano, è mattino e c’è il sole anche se i caccia volano ancora”. Musleh non
vedeva, non vedeva più i parenti, il tavolo e ogni cosa attorno. Tutto
scomparso. Sentiva. Ancora stridore, gemiti, preghiere. E deflagrazioni. Il 18 gennaio cessarono gli spari. Lui ci
mise ancora qualche giorno prima di uscire di casa, bloccato dalla mestizia e
dalla cecità. Quando potè essere visitato dai medici della Mezzaluna Rossa le
condizioni apparvero in tutta la gravità, ma non dissimili da centinaia
di bambini e adulti che avevano respirato i fumi venefici. Era uno dei
cinquemilatrecento feriti di quella guerra combattuta a senso unico.
Quando,
già nelle settimane seguenti la fine dell’attacco, osservatori Onu poterono
entrare nella Striscia, su ordigni inesplosi, reperti di terra e macerie c’era
la prova di quello che Tel Aviv negava: l’uso del fosforo bianco nelle bombe
dei propri soldati. Intanto Musleh restava lì accecato. Come ogni abitante
di Gaza era impossibilitato a muoversi, anche per i feriti gravi c’era bisogno
d’un visto israeliano che non arrivava. Oltre
cento persone morirono per il ritardo delle cure, le vittime di Gaza nelle
settimane successive al 18 gennaio 2009 salirono fino a 1.450.
Musleh ha potuto avviare il suo protocollo di
cure nel giugno 2011. Intanto si era sposato con Amani e avevano avuto la prima
figlia Nahla, che oggi ha due anni. Ricorda ancora “Quando partii per Creta la
seconda bambina doveva ancora nascere. Ora ha otto mesi. Con mia moglie abbiamo
deciso di chiamarla Nour come buon auspicio per l’operazione che avrei dovuto
affrontare. I sanitari di Creta mi dissero che il mio caso era molto complesso
e mi consigliarono l’Italia”. “Sono stati i medici ellenici a indicarci la
struttura di Roma” afferma Mohammad Abu Omar, membro dell’Associazione benefica
di solidarietà col popolo palestinese che traduce in simultanea l’arabo di
Musleh e lo sostiene nel soggiorno dal settembre scorso. Gli altri organismi
sono la
Mezzaluna Rossa Italia coordinata da Yousef Salman e Patrizia
Cecconi, e per l’accoglienza la Casa del Sole, creata dai dottori Sergio Longo
e Bianca Maria Palleschi presso l’Ospedale San Camillo. “E’ grazie a questa
diffusa rete di solidarietà che Musleh ha potuto iniziare le cure – prosegue
Abu Omar – l’Ospedale Forlanini-San Camillo fornisce un’eccellente unità che ha
seguito il suo caso con competenza e dedizione. In autunno è stato sottoposto
alla prima operazione dal dottor Colliardo, per ogni occhio ne serviranno
quattro, l’intervento si chiama odontocheratoprotesi. La degenza sarà lunga,
abbiamo dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per altri sei mesi e
sicuramente non basterà”.
Pur accettando con pazienza e fede il crudele
destino Musleh non cessa di sperare. Per la sua gente che non tornino massacri
come quelli che ha conosciuto “Il pericolo è reale perché noi resistiamo, è
questo che non ci perdonano. Israele non comprende che finché occuperà la
nostra terra la pace resterà lontana”. Poi sorride e parla dei progetti
“Tornare agli studi islamici e vedere moglie e figlie. Se le operazioni
andranno per il meglio i dottori mi faranno questo grande regalo, potrò
scoprire i volti delle mie bambine e rivedere il mare davanti casa che da
quattro anni sto solo sognando”.
Enrico Campofreda, 28 aprile 2012
Etichette: crimini di guerra, gaza, piombo fuso
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