2 maggio 2012

La luce scomparsa


L’offensiva contro la Striscia di Gaza denominata “Piombo Fuso” – scatenata da Israele a cavallo tra il 2008 e il 2009 – è stata senza alcun dubbio la più violenta, brutale e sanguinosa operazione militare contro la popolazione civile palestinese dall’inizio dell’occupazione ad oggi.

Con una serie di raid aerei e, successivamente, con operazioni di terra, e a mezzo dell’utilizzo di ogni possibile armamento e mezzo di distruzione – dalle bombe da una tonnellata al fosforo bianco, dai proiettili DIME alle granate a flechettes – Israele ha massacrato ben 1.419 palestinesi, l’82,2% dei quali civili non combattenti e, tra essi, 111 donne e 318 bambini.

Altissimo anche il numero dei feriti, oltre 5.300, tra cui circa 830 donne e 1.600 bambini; molti dei feriti, ancora oggi, risentono delle conseguenze dei bombardamenti indiscriminati e dei crimini inusitati commessi dall’esercito israeliano.

Questa è la storia di uno di essi.

La luce di Musleh si è spenta lentamente, e per riaccenderla lui ha chiamato Nour (luce) la seconda figliola che non ha mai visto. Musleh Abu Sweireh, 26 anni, studente islamico, è una delle vittime silenti d’Israele. Del suo uso criminale della forza, delle bombe al fosforo bianco sganciate sulla popolazione di Gaza dall’Israel Air Force durante l’operazione “Piombo fuso”. 

Cinque gennaio 2009: Israele sta bombardando la Striscia da dieci giorni, Mushah è tappato in casa con la famiglia. Ricorda “Sapevamo che erano già morte centinaia di persone, stavamo rinchiusi, sperando e pregando di non essere colpiti. Vivevamo una condizione d’impotenza, un sentimento di tristezza e rabbia”. “La tristezza dei miei concittadini sta tuttora nell’impossibilità di una vita normale: poter coltivare la terra, pescare, crescere i figli con le nostre risorse. Il sopruso che subiamo da quell’occupazione subdola basata su isolamento ed embargo, sull’impossibilità di muoverci, di usare il nostro mare, sul fatto di non avere più l’aeroporto, di vedere bloccati alle frontiere per ordine di Israele gli aiuti internazionali. Sentirsi in ogni momento un costante obiettivo è insopportabile”. E’ la realtà che nessun rapporto Goldstone ha lenito.

L’ultima cosa che Musleh ha visto chiaramente è stato il bagliore che seguiva la terribile esplosione d’un missile caduto a pochi metri da casa. Lui e la sorella Nahla erano vicino a una porta che saltò in aria, furono investiti e feriti da schegge di tutto quello che si disintegrava. Quindi dai micidiali fumi che non cessavano. Li respirarono per ore perché l’abitazione non aveva più protezioni: vetri in frantumi, porte e finestre divelte. La famiglia di Musleh era prigioniera in quella casa come centinaia di migliaia di gazesi scampati alle bombe, non si poteva far altro che stare lì perché gli F16 sfrecciavano e sganciavano. 

Poi di notte, quando gli aerei non volavano, fuggirono tutti a casa di uno zio. Gli occhi bruciavano e non si potevano lavare, non c’era acqua perché l’aviazione aveva distrutto le grandi condutture e bombardato molti pozzi. Nelle pupille di Musleh la nebbia cresceva, il calore aumentava, le figure dei parenti diventavano sfocate e opache “Capivo che era accaduto qualcosa di grave, ero stordito ma riuscivo appena ad appisolarmi. Gli occhi erano un fuoco, però temevo potesse succedere di peggio. Temevo di morire, come accadde il giorno dopo a chi stava nella scuola dell’Unrwa. Quindi, credo fossero trascorsi otto o nove giorni dall’esplosione, scomparve ogni cosa: laylah”.

“Chi ha spento la candela? Nessuno Musleh, mi ripetevano, è mattino e c’è il sole anche se i caccia volano ancora”. Musleh non vedeva, non vedeva più i parenti, il tavolo e ogni cosa attorno. Tutto scomparso. Sentiva. Ancora stridore, gemiti, preghiere. E deflagrazioni. Il 18 gennaio cessarono gli spari. Lui ci mise ancora qualche giorno prima di uscire di casa, bloccato dalla mestizia e dalla cecità. Quando potè essere visitato dai medici della Mezzaluna Rossa le condizioni apparvero in tutta la  gravità, ma non dissimili da centinaia di bambini e adulti che avevano respirato i fumi venefici. Era uno dei cinquemilatrecento feriti di quella guerra combattuta a senso unico. 

Quando, già nelle settimane seguenti la fine dell’attacco, osservatori Onu poterono entrare nella Striscia, su ordigni inesplosi, reperti di terra e macerie c’era la prova di quello che Tel Aviv negava: l’uso del fosforo bianco nelle bombe dei propri soldati. Intanto Musleh restava lì accecato. Come ogni abitante di Gaza era impossibilitato a muoversi, anche per i feriti gravi c’era bisogno d’un visto israeliano che non arrivava. Oltre cento persone morirono per il ritardo delle cure, le vittime di Gaza nelle settimane successive al 18 gennaio 2009 salirono fino a 1.450.

Musleh ha potuto avviare il suo protocollo di cure nel giugno 2011. Intanto si era sposato con Amani e avevano avuto la prima figlia Nahla, che oggi ha due anni. Ricorda ancora “Quando partii per Creta la seconda bambina doveva ancora nascere. Ora ha otto mesi. Con mia moglie abbiamo deciso di chiamarla Nour come buon auspicio per l’operazione che avrei dovuto affrontare. I sanitari di Creta mi dissero che il mio caso era molto complesso e mi consigliarono l’Italia”. “Sono stati i medici ellenici a indicarci la struttura di Roma” afferma Mohammad Abu Omar, membro dell’Associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese che traduce in simultanea l’arabo di Musleh e lo sostiene nel soggiorno dal settembre scorso. Gli altri organismi sono la Mezzaluna Rossa Italia coordinata da Yousef Salman e Patrizia Cecconi, e per l’accoglienza la Casa del Sole, creata dai dottori Sergio Longo e Bianca Maria Palleschi presso l’Ospedale San Camillo. “E’ grazie a questa diffusa rete di solidarietà che Musleh ha potuto iniziare le cure – prosegue Abu Omar – l’Ospedale Forlanini-San Camillo fornisce un’eccellente unità che ha seguito il suo caso con competenza e dedizione. In autunno è stato sottoposto alla prima operazione dal dottor Colliardo, per ogni occhio ne serviranno quattro, l’intervento si chiama odontocheratoprotesi. La degenza sarà lunga, abbiamo dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per altri sei mesi e sicuramente non basterà”.

Pur accettando con pazienza e fede il crudele destino Musleh non cessa di sperare. Per la sua gente che non tornino massacri come quelli che ha conosciuto “Il pericolo è reale perché noi resistiamo, è questo che non ci perdonano. Israele non comprende che finché occuperà la nostra terra la pace resterà lontana”. Poi sorride e parla dei progetti “Tornare agli studi islamici e vedere moglie e figlie. Se le operazioni andranno per il meglio i dottori mi faranno questo grande regalo, potrò scoprire i volti delle mie bambine e rivedere il mare davanti casa che da quattro anni sto solo sognando”. 

Enrico Campofreda, 28 aprile 2012

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