8 agosto 2005

I surfisti di Dio.

La settimana scorsa il quotidiano israeliano Ha'aretz ha riportato la notizia secondo cui - tra le varie manifestazioni di protesta organizzate dai coloni contro il ritiro israeliano da Gaza - vi sarebbe anche quella di alcuni giovani provenienti dal blocco del Gush Katif, che avrebbero annunciato la loro intenzione di suicidarsi per protesta contro il "disengagement plan" proprio nel giorno previsto per l'evacuazione, allontanandosi nel Mediterraneo con i loro surf e lasciandosi annegare.
Un gesto degno di un film come "Un mercoledì da leoni" o, ancora meglio, come "Point break", ma forse si tratta solo di una leggenda metropolitana.
Certo è che dalle mie parti il surf, come ogni sport, significa affratellamento, amicizia, sana e onesta competizione.
Qui, invece, anche lo sport viene piegato alle visioni messianiche e pseudo religiose (e razziste) di chi ancora sogna il "Grande Israele", e non è disposto a restituire ai legittimi proprietari (cioè ai Palestinesi) neanche un maledetto cmq. di terra insanguinata.
Vorrei qui ricordare che nella Striscia di Gaza poco più di 8.000 coloni israeliani occupano (illegalmente, ma è un dettaglio...) circa 54 kmq. di terra, costringendo 1.130.000 palestinesi a vivere (un po' strettini...) nei restanti 310.
Vorrei ricordare che, per il "doloroso sacrificio" del ritiro da Gaza, ciascuna famiglia di coloni riceverà da 200.000 a 400.000 dollari, a seconda del numero dei componenti e degli anni trascorsi nella Striscia, oltre a sgravi fiscali e contributi per gli affitti.
Più che essere un "doloroso sacrificio", il ritiro di Israele da Gaza rappresenta, piuttosto, un primo, piccolo atto di giustizia nei confronti del popolo palestinese, a cui è auspicabile ne seguano altri con riferimento alle questioni delle colonie del West Bank, di Gerusalemme, dei diritti dei profughi.
Questo sempre che i surfisti di Dio (o magari Bibi Netanyahu...) non riescano ad impedire persino il miniritiro da Gaza del prossimo 17 agosto.

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