26 ottobre 2004

La farsa del ritiro israeliano da Gaza.

Questa sera, intorno alle 20:00, dopo due giorni di acceso dibattito, andrà in votazione il piano di ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti della Cisgiordania, meglio noto come "disengagement plan".
Il piano è stato fortemente voluto da Sharon, a costo di spaccare letteralmente in due il suo partito, il Likud; quelli che si profilano, infatti, sono due schieramenti assolutamente inediti: da una parte, a favore del provvedimento, dovrebbero esserci 22 parlamentari del Likud, 19 del Labour di Peres, 14 dello Shinui, i sei dello Yahad, e vari altri di partiti minori e della Lista araba unita, dall'altra, tra i contrari, i restanti 18 deputati del Likud, 11 dello Shas, 6 rispettivamente del Partito nazionale religioso e dell'Unione nazionale, 2 della Lista araba unita e 3 del Balad.
Il difficile è capire cosa accadrà dopo questo voto, se si andrà ad un referendum, se si formerà un governo di unità nazionale che veda assieme Likud, Labour e Shinui, se la maggioranza riuscirà a ricompattarsi o se si andrà a elezioni anticipate (ma quest'ultima ipotesi ha scarse probabilità di realizzarsi).
Il momento, per certi aspetti, è storico: per la prima volta Israele si ritira da parte dei Territori occupati e li restituisce ai legittimi proprietari, i Palestinesi, per la prima volta viene messo in dubbio il rovinoso concetto della "sacralità" della terra, per la prima volta Sharon ha usato parole chiare contro i coloni, persone "meravigliose" ma afflitte da una sorta di "complesso messianico".
E, tuttavia, se da una parte Sharon cerca di rassicurare la comunità internazionale sostenendo che il disengagement plan "non viene al posto del negoziato" e che "non si tratta di congelare la situazione per sempre" ma, al contrario, il piano farà progredire Israele "nella strada della pace con i Palestinesi e con gli altri nostri vicini", resta il fatto che viene ancora una volta affermato con forza che il ritiro da Gaza "rafforzerà il controllo israeliano sulle terre essenziali alla nostra esistenza" e "romperà il boicottaggio di Israele".
Riaffiora, cioè, la sensazione che il ritiro da Gaza sia, in realtà, un espediente tattico volto a rompere l’isolamento diplomatico di Israele nel mondo e, soprattutto, a perpetuare il controllo israeliano su gran parte del West Bank, “sacrificando” circa 7.500 coloni (peraltro lautamente ricompensati, fino a 500.000 dollari per nucleo familiare) per “legalizzarne” circa 316.000 in Cisgiordania e a Gerusalemme est, ricompresi all’interno del tracciato del muro di “sicurezza”.
A quale Sharon bisogna credere, a quello presente ieri alla Knesset o a quello che, appena poco più di un mese fa, dichiarava allo Yediot Ahronot che Israele, con il suo ritiro unilaterale, “non sta seguendo la road map” e che considerava “molto probabile”, dopo l’evacuazione, “che ci sarà un lungo periodo in cui nient’altro accadrà”?
E a chi bisogna credere, allo Sharon odierno o al suo fido consigliere Dov Weisglass, secondo cui il piano di ritiro da Gaza altro non è che un espediente per congelare il processo di pace ed impedire la nascita di uno Stato palestinese, per chiudere ogni discorso su confini, rifugiati, Gerusalemme est, quello stesso Weisglass secondo cui – per quanto riguarda le colonie del West Bank – alcune non verranno assolutamente toccate, e per altre se ne potrà discutere “quando i Palestinesi saranno diventati Finlandesi”?
A questo proposito è interessante riportare alcuni passi di una relazione del 12 agosto 2004 redatta a cura del Relatore Speciale dell’Onu John Dugard, che dovrebbe essere sottoposta all’esame dell’Assemblea Generale entro il corrente mese di ottobre.
“Israele vede i vantaggi politici nel ritiro da Gaza. In particolare, esso sostiene che non potrebbe più essere considerato come Potenza occupante nel territorio, soggetta alla IV Convenzione di Ginevra. In realtà, tuttavia, Israele non progetta di abbandonare la sua presa sulla Striscia di Gaza. Si ripromette di mantenere la sua autorità controllando i confini di Gaza, le acque territoriali e lo spazio aereo … Questo disengagement plan stabilisce relativamente a Gaza, tra l’altro, che ‘Lo Stato di Israele vigilerà e manterrà sigillati i confini territoriali, avrà il controllo esclusivo dello spazio aereo di Gaza e continuerà ad effettuare attività militari nello spazio marittimo della Striscia di Gaza … Lo Stato di Israele continuerà a mantenere una presenza militare lungo la linea di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto (la cd. Philadelphi route)’ … Un altro mezzo di controllo contemplato è l’installazione di dispositivi di ascolto ad alta tecnologia nei maggiori edifici della Striscia di Gaza, al fine di consentire alle autorità israeliane di monitorare le comunicazioni. Tutto ciò significa che Israele rimarrà una Potenza occupante secondo il diritto internazionale” (pg.10, para. 14).
La Striscia di Gaza ha una estensione di circa 365 kmq., con un confine terrestre di 11 km. con l’Egitto e di 51 km. con Israele, ed un tratto costiero pari a circa 45 km., ed in essa vivono circa 1,3 milioni di Palestinesi.
Il confine con Israele è completamento circondato da un reticolato elettrificato, con una “buffer zone” di terra completamente spianata che corre tutt’intorno; neanche il confine con l’Egitto è libero in quanto, lungo tutta la sua lunghezza (la cd. Philadelphi route) è stata creata una sorta di zona di rispetto profonda fino a 200 metri (creata, manco a dirlo, con la distruzione di centinaia di case palestinesi), in cui è prevista una presenza militare israeliana ed in cui, al contrario, i Palestinesi non potranno accedere.
La decisione israeliana di impedire la riapertura dell’aeroporto internazionale di Gaza, il diniego alla ricostruzione del porto internazionale, le severe restrizioni alla libertà di movimento dei pescatori, il divieto di accesso per i Palestinesi alle risorse di gas naturale pur situate nelle loro acque territoriali completano il quadro di una completa privazione della libertà di movimento di beni e persone da e per la Striscia di Gaza, combinata ad un vero e proprio strangolamento economico.
Va ricordato, peraltro, che Israele progetta di trasferire l’unico punto di passaggio verso l’Egitto (il valico internazionale di Rafah) entro il proprio territorio, così da isolare totalmente la Striscia di Gaza dal resto del mondo.
I Palestinesi, infatti, per viaggiare o esportare merci dovrebbero usare il porto egiziano di Port Said o l’aeroporto del Cairo; Port Said, in particolare, dista da Rafah ben 275 km., e ciò significa che i viaggiatori e/o le merci devono prima recarsi da Gaza a Rafah, poi attendere pazientemente il permesso di passaggio, poi traversare il deserto per 275 km. e, infine, arrivare a Port Said!
Risulta chiaro come un simile pellegrinaggio risulti estremamente penoso per le persone e addirittura impossibile per le derrate agricole, generalmente deperibili, con il risultato che ogni esportazione di tale genere di beni da Gaza sarà destinata a cessare.
Di contro, nel West Bank, “ci sono aree che saranno parte dello Stato di Israele, inclusi città, paesi, villaggi, aree di sicurezza e installazioni, e altri siti di speciale interesse per Israele.
Secondo il deputato laburista Ephraim Sneh, attualmente sono in corso di costruzione in Cisgiordania circa 4.000 nuove unità abitative che, una volta popolate, faranno aumentare di circa il 10% il numero dei settlers israeliani; il tracciato del muro di “sicurezza”, una volta completato, farà sì che l’80% dei coloni si troverà dal lato israeliano del muro, “legalizzato” per volontà divina e grazie alla benevolenza dell’amministrazione Bush.
Quello che si prefigura, insomma, è un mini-ritiro, o meglio un ritiro farsa, mediante il quale Israele, con il minimo sacrificio, intende ottenere il massimo dei vantaggi politici e territoriali, lasciando Gaza in mano alle bande armate dei vari gruppi di militanti e i Palestinesi ad un futuro di miseria, appena alleviata dall’intervento delle organizzazioni umanitarie.
Nulla, dunque, è destinare a mutare in maniera sostanziale, dato che – tra l’altro – Israele si riserva di intervenire militarmente all’interno della Striscia di Gaza ogni qual volta la sua “sicurezza” lo imponga e giusto ieri, con l’operazione “Cortile del Re”, ne ha dato l’ennesima riprova.
Per rispondere ad alcuni colpi di mortaio sparati contro il territorio israeliano – che non hanno causato alcuna vittima o ferito – l’esercito israeliano ha scatenato l’ennesima mattanza, stavolta a Khan Yunis: risultato, in sole 30 ore di operazioni, 17 Palestinesi morti, di cui almeno 6 civili incluso un bambino di 11 anni, e 76 feriti (17 minorenni) di cui 12 gravi, con il contorno di 23 edifici distrutti.
Se il buongiorno si vede dal mattino…

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