Un'odiosa discriminazione.
Il 4 agosto di quest’anno, nella cittadina israeliana di Shfaram, un giovane estremista della destra religiosa, il diciannovenne Eden Natan-Zada, saliva su un autobus ed apriva il fuoco contro i passeggeri, uccidendo quattro arabi israeliani e ferendone altri 12 (vedi ”La via di Israele verso la pace”).
Natan-Zada proveniva dall’insediamento di Tapuah, uno dei più estremisti del West Bank, e aveva studiato nella locale yeshiva, una di quelle scuole talmudiche, cioè, che quanto a fanatismo talvolta nulla hanno da invidiare alle tanto vituperate madrasse islamiche.
Ora, sebbene sin da subito persino il Primo Ministro Ariel Sharon avesse parlato dell’atto sconsiderato di un terrorista, in questi giorni l’apposito comitato interministeriale ha negato alle vittime di questo vile eccidio lo status di vittime del terrorismo, sulla base di una interpretazione letterale della cd. “Victims of Enemy Action Law”.
Questa legge, infatti, attribuisce lo status di vittime del terrorismo, ai fini dell’erogazione dei previsti risarcimenti, soltanto ai cittadini israeliani uccisi o feriti da “membri di una organizzazione ostile ad Israele” e, più specificatamente, di una organizzazione che sia “ostile alla esistenza dello Stato”.
Si tratta di una distinzione non di poco conto, in quanto alle vittime di attacchi terroristici in Israele normalmente sono garantiti dei vitalizi che, per vedove e orfani, possono arrivare a 9.700 sheckels al mese, mentre alle sfortunate vittime della follia messianica di Natan-Zada toccherà soltanto un risarcimento una tantum.
Ma si tratta soprattutto di una questione di principio, in quanto è fuori dalla realtà - o in mala fede - chi non riconosca come atti di terrorismo quelli posti in essere dai coloni israeliani e dagli attivisti dell’estrema destra religiosa, e ne sono esempi non solo le recenti stragi di Shfaram o di Shiloh, ma anche, ad esempio, l’eccidio della Grotta dei Patriarchi perpetrato da Baruch Goldstein o l’assassinio di Rabin, tutti atti mirati a seminare il terrore, a fomentare l’odio, a sabotare ogni minimo passo che, oggi come ieri, stato mosso sulla via della pace.
Si perpetua, così , un’altra odiosa discriminazione tra le vittime del terrorismo arabo e le vittime di atti del terrorismo ebraico, siano essi posti in essere da membri di organizzazioni terroristiche (il Kach nel caso di Natan-Zada) o da singoli ebrei accecati da moventi pseudo-religiosi (come nel caso della strage di Shiloh).
Vale la pena, a questo proposito, riportare le parole di Nazia Hayek, fratello di una delle povere vittime di Shfaram, il 55enne Nader Hayek: “…questa decisione ci dice che, secondo la legge, quello che è accaduto a Shfaram non è né terrorismo né un atto di ostilità, ma un semplice incidente in cui ci sono stati morti e feriti… Ma che tipo di messaggio così si manda all’opinione pubblica, specialmente a quelli che la pensano come Natan-Zada? Che è permesso uccidere gli Arabi e non è terrorismo?”.
Parole come pietre, dunque, che mostrano tutta la rabbia di colui al quale viene ucciso uno stretto congiunto senza che gli vengano attribuiti gli stessi diritti che spettano agli ebrei israeliani.
Parole piene di rabbia e di amarezza, pronunciate da chi vede ucciso un proprio caro e viene preso in giro da chi considera questa morte assurda ad opera di un terrorista fanatico alla stessa stregua di un normale incidente sul lavoro.
Il Parlamento israeliano, in realtà, avrebbe già da tempo potuto porre rimedio a questa ennesima discriminazione a danno degli arabi israeliani, sollecitato più volte in tal senso, a partire dal 1994, dai parlamentari dei partiti arabi in seno alla Knesset, al fine di modificare la legge sulle vittime del terrorismo riconoscendo come tali le persone rimaste vittime della violenza di ispirazione politica e/o nazionalista in genere, ma la Knesset non ha mai ritenuto fino ad ora di dover intervenire.
Nella riunione di gabinetto di ieri, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha in realtà incaricato il proprio Ministro della Giustizia di preparare un emendamento alla legge, mirante a riconoscere alle vittime di Shfaram gli stessi risarcimenti previsti per le vittime di atti del terrorismo, ma è lecito dubitare della sua rapida approvazione da parte del Parlamento israeliano.
Di recente, infatti, proprio la Knesset ha approvato un emendamento alla “Civil Wrongs (Liability of the State) Law”, che impedisce pressocché completamente ai Palestinesi di presentare azioni legali di risarcimento per danni causati dall’esercito israeliano.
Il nuovo emendamento, infatti, approvato nel luglio di quest’anno, secondo la denuncia di nove organizzazioni per la tutela dei diritti umani (tra cui Rabbis for Human Rights e B’tselem) non attribuisce ai Palestinesi il diritto ad alcun indennizzo nemmeno nel caso di sparatorie illegali, abusi e trattamenti degradanti ai check points, violenza fisica.
Si tratta, anche qui, di una clamorosa discriminazione, in quanto si attribuisce il diritto o meno a richiedere un risarcimento sulla base dell’identità della vittima anziché sulla sostanza del reclamo.
E ciò assume una valenza ancora maggiore laddove si consideri che, secondo B’tselem, nel periodo 29.9.2000 – 30.6.2005, su di un totale di 3.185 Palestinesi uccisi nei Territori Occupati, almeno 1.722 (il 54%!) erano civili disarmati e che non partecipavano in alcun modo a scontri armati; a fronte di ciò, soltanto in 6 casi (sei!) le investigazioni condotte dall’Idf hanno condotto alla condanna di soldati dell’esercito israeliano (vedi “Assassini puniti? No, promossi!”).
Rovesciando le affermazioni di Nazia Hayek potremmo allora domandarci: che tipo di messaggio si manda in questo modo ai Palestinesi, che possono essere maltrattati, vessati, uccisi pressoché impunemente dai soldati israeliani senza che nessuno abbia niente da ridire e senza nemmeno il diritto di vedere il colpevole punito e di ottenere un risarcimento?
E in queste condizioni, l’obiettivo della pace si avvicina davvero, nonostante l’esodo “epocale” dei coloni israeliani da Gaza?
Spesso c’è chi parla di Israele come di un “faro” di democrazia nel Medio Oriente; a costoro si vorrebbe ricordare che democrazia non significa soltanto libere elezioni, ma in una nazione democratica (e civile) a tale connotato dovrebbe necessariamente aggiungersi quello del rispetto dell’uguaglianza tra diverse razze e religioni, il rispetto dei diritti umani, l’osservanza del diritto internazionale.
E tutto questo, oggi, non sempre sembra presente in Israele.
Natan-Zada proveniva dall’insediamento di Tapuah, uno dei più estremisti del West Bank, e aveva studiato nella locale yeshiva, una di quelle scuole talmudiche, cioè, che quanto a fanatismo talvolta nulla hanno da invidiare alle tanto vituperate madrasse islamiche.
Ora, sebbene sin da subito persino il Primo Ministro Ariel Sharon avesse parlato dell’atto sconsiderato di un terrorista, in questi giorni l’apposito comitato interministeriale ha negato alle vittime di questo vile eccidio lo status di vittime del terrorismo, sulla base di una interpretazione letterale della cd. “Victims of Enemy Action Law”.
Questa legge, infatti, attribuisce lo status di vittime del terrorismo, ai fini dell’erogazione dei previsti risarcimenti, soltanto ai cittadini israeliani uccisi o feriti da “membri di una organizzazione ostile ad Israele” e, più specificatamente, di una organizzazione che sia “ostile alla esistenza dello Stato”.
Si tratta di una distinzione non di poco conto, in quanto alle vittime di attacchi terroristici in Israele normalmente sono garantiti dei vitalizi che, per vedove e orfani, possono arrivare a 9.700 sheckels al mese, mentre alle sfortunate vittime della follia messianica di Natan-Zada toccherà soltanto un risarcimento una tantum.
Ma si tratta soprattutto di una questione di principio, in quanto è fuori dalla realtà - o in mala fede - chi non riconosca come atti di terrorismo quelli posti in essere dai coloni israeliani e dagli attivisti dell’estrema destra religiosa, e ne sono esempi non solo le recenti stragi di Shfaram o di Shiloh, ma anche, ad esempio, l’eccidio della Grotta dei Patriarchi perpetrato da Baruch Goldstein o l’assassinio di Rabin, tutti atti mirati a seminare il terrore, a fomentare l’odio, a sabotare ogni minimo passo che, oggi come ieri, stato mosso sulla via della pace.
Si perpetua, così , un’altra odiosa discriminazione tra le vittime del terrorismo arabo e le vittime di atti del terrorismo ebraico, siano essi posti in essere da membri di organizzazioni terroristiche (il Kach nel caso di Natan-Zada) o da singoli ebrei accecati da moventi pseudo-religiosi (come nel caso della strage di Shiloh).
Vale la pena, a questo proposito, riportare le parole di Nazia Hayek, fratello di una delle povere vittime di Shfaram, il 55enne Nader Hayek: “…questa decisione ci dice che, secondo la legge, quello che è accaduto a Shfaram non è né terrorismo né un atto di ostilità, ma un semplice incidente in cui ci sono stati morti e feriti… Ma che tipo di messaggio così si manda all’opinione pubblica, specialmente a quelli che la pensano come Natan-Zada? Che è permesso uccidere gli Arabi e non è terrorismo?”.
Parole come pietre, dunque, che mostrano tutta la rabbia di colui al quale viene ucciso uno stretto congiunto senza che gli vengano attribuiti gli stessi diritti che spettano agli ebrei israeliani.
Parole piene di rabbia e di amarezza, pronunciate da chi vede ucciso un proprio caro e viene preso in giro da chi considera questa morte assurda ad opera di un terrorista fanatico alla stessa stregua di un normale incidente sul lavoro.
Il Parlamento israeliano, in realtà, avrebbe già da tempo potuto porre rimedio a questa ennesima discriminazione a danno degli arabi israeliani, sollecitato più volte in tal senso, a partire dal 1994, dai parlamentari dei partiti arabi in seno alla Knesset, al fine di modificare la legge sulle vittime del terrorismo riconoscendo come tali le persone rimaste vittime della violenza di ispirazione politica e/o nazionalista in genere, ma la Knesset non ha mai ritenuto fino ad ora di dover intervenire.
Nella riunione di gabinetto di ieri, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha in realtà incaricato il proprio Ministro della Giustizia di preparare un emendamento alla legge, mirante a riconoscere alle vittime di Shfaram gli stessi risarcimenti previsti per le vittime di atti del terrorismo, ma è lecito dubitare della sua rapida approvazione da parte del Parlamento israeliano.
Di recente, infatti, proprio la Knesset ha approvato un emendamento alla “Civil Wrongs (Liability of the State) Law”, che impedisce pressocché completamente ai Palestinesi di presentare azioni legali di risarcimento per danni causati dall’esercito israeliano.
Il nuovo emendamento, infatti, approvato nel luglio di quest’anno, secondo la denuncia di nove organizzazioni per la tutela dei diritti umani (tra cui Rabbis for Human Rights e B’tselem) non attribuisce ai Palestinesi il diritto ad alcun indennizzo nemmeno nel caso di sparatorie illegali, abusi e trattamenti degradanti ai check points, violenza fisica.
Si tratta, anche qui, di una clamorosa discriminazione, in quanto si attribuisce il diritto o meno a richiedere un risarcimento sulla base dell’identità della vittima anziché sulla sostanza del reclamo.
E ciò assume una valenza ancora maggiore laddove si consideri che, secondo B’tselem, nel periodo 29.9.2000 – 30.6.2005, su di un totale di 3.185 Palestinesi uccisi nei Territori Occupati, almeno 1.722 (il 54%!) erano civili disarmati e che non partecipavano in alcun modo a scontri armati; a fronte di ciò, soltanto in 6 casi (sei!) le investigazioni condotte dall’Idf hanno condotto alla condanna di soldati dell’esercito israeliano (vedi “Assassini puniti? No, promossi!”).
Rovesciando le affermazioni di Nazia Hayek potremmo allora domandarci: che tipo di messaggio si manda in questo modo ai Palestinesi, che possono essere maltrattati, vessati, uccisi pressoché impunemente dai soldati israeliani senza che nessuno abbia niente da ridire e senza nemmeno il diritto di vedere il colpevole punito e di ottenere un risarcimento?
E in queste condizioni, l’obiettivo della pace si avvicina davvero, nonostante l’esodo “epocale” dei coloni israeliani da Gaza?
Spesso c’è chi parla di Israele come di un “faro” di democrazia nel Medio Oriente; a costoro si vorrebbe ricordare che democrazia non significa soltanto libere elezioni, ma in una nazione democratica (e civile) a tale connotato dovrebbe necessariamente aggiungersi quello del rispetto dell’uguaglianza tra diverse razze e religioni, il rispetto dei diritti umani, l’osservanza del diritto internazionale.
E tutto questo, oggi, non sempre sembra presente in Israele.
1 Commenti:
sn una ragazza di 14 anni che deve dare l' esame di licenza media e mi è stato assegnato come argomento la questione palestinese...sono stata sfortunata perchè è difficilissimo poter esporre un prblema così grosso...sono in seria difficoltà, ho capito pochissimo a proposito di queste antiche guerre...e dopodomani ho l' orale...
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