Il frutto amaro della politica dell'assassinio.
Benché ufficialmente il governo israeliano lo abbia negato, pochi nutrono dubbi sul fatto che vi siano i servizi segreti di Israele dietro l’assassinio, avvenuto il 12 febbraio scorso a Damasco, di Imad Mughniyeh, il responsabile militare di Hezbollah.
E’ infatti dai tempi dell’attentato all’ambasciata americana a Beirut nel 1983 e, soprattutto, dopo l’attentato del 1994 all’ambasciata israeliana in Argentina, che Imad Mughniyeh era divenuto il ricercato numero uno sia per i servizi segreti israeliani che per quelli americani.
Qualcuno sostiene, peraltro, come ad esempio il Sunday Times, che lo stesso giorno dell’uccisione del capo militare di Hezbollah, il primo ministro israeliano Olmert si sia incontrato privatamente con il direttore del Mossad Meir Dagan, congratulandosi per la perfetta riuscita dell’operazione.
In ogni caso, le reazioni della stampa e degli analisti israeliani di fronte all’assassinio di Mughniyeh sono state pressoché unanimemente positive, e la morte di quello che era considerato uno dei più pericolosi nemici di Israele viene considerata l’ennesimo avvertimento nei confronti della Siria e, probabilmente, l’inizio di una nuova escalation contro Hezbollah e Hamas; se possiamo colpire a Damasco, possiamo colpire ovunque: questo è il chiaro messaggio inviato a mezzo autobomba dai servizi segreti israeliani.
In controtendenza, come sempre, è il commento sull’accaduto del giornalista di Ha’aretz Gideon Levy, in un articolo apparso nell’edizione on-line in lingua inglese che vi propongo nell’ottima traduzione del sito arabnews: la morte di Mughniyeh è l’ennesimo episodio della politica dell’assassinio tanto amata (e praticata) dai governanti di Israele, una politica che si è sempre dimostrata fallimentare e il cui frutto amaro consiste nell’allontanare sempre più quella sicurezza che pure Israele – almeno a parole – bramerebbe raggiungere.
Liquidation sale (Ha’aretz, 17.2.2008)
E’ stata come una baldoria particolarmente sfrenata: prima la grande intossicazione dei sensi, poi l’amaro risveglio del giorno dopo. In poche ore, Israele è passato dalla celebrazione dell’assassinio di Imad Mughniyeh alla paura di ciò che sarebbe seguito. La “grande impresa dell’intelligence”, la “perfetta esecuzione”, l’ “umiliazione di Bashar al-Assad” sono state rimpiazzate in un batter d’occhio da un diluvio di terrorizzanti “consigli di viaggio” da parte dell’Ufficio dell’antiterrorismo – non viaggiare, non identificarsi, non riunirsi in gruppi, fare attenzione, prendere ogni precauzione – e da una serie di stati di allerta sul confine settentrionale, in tutte le ambasciate ed i consolati israeliani, e nei centri della comunità ebraica in tutto il mondo. Se questi sono i pericoli che ci attendono, c’è da chiedersi: avevamo bisogno di questo assassinio?
Chiunque abbia ucciso Mughniyeh ha giocato ancora una volta col fuoco più pericoloso di tutti: ha messo in pericolo la sicurezza d’Israele. Se è stato Israele, c’è da chiedersi se c’era un briciolo di senso in questa mossa. Se non è stato Israele, le nostre famose agenzie di intelligence farebbero bene a provarlo rapidamente, prima del prossimo disastro. La sicurezza dei cittadini d’Israele è stata forse rafforzata? E’ stato inferto un colpo definitivo al terrore? La storia, con la sua moltitudine di omicidi precedenti, insegna che la risposta è no. La serie di “condottieri del terrorismo” liquidati da Israele, da Ali Salameh ed Abu Jihad, passando per Abbas Mussawi e Yahya Ayyash, fino allo sheikh Ahmed Yassin e ad Abdel Aziz Rantisi – tutte “operazioni” che abbiamo celebrato con grande pompa per un dolce ed intossicante momento – ha finora portato soltanto duri e dolorosi attacchi di rappresaglia contro Israele e contro gli ebrei in tutto il mondo, e nuovi rimpiazzi non meno efficaci dei loro predecessori, ed a volte addirittura più “efficienti”. Di assassinio in assassinio, il terrore è soltanto cresciuto ed è diventato più sofisticato.
Non abbiamo mai realmente chiesto che i responsabili di queste “liquidazioni” rendessero conto delle loro azioni; siamo soltanto rimasti emozionati dalle loro “realizzazioni”. Come ci piace sguazzare in questi puerili racconti di eroismo! Yahya Ayyash è stato ucciso tramite il suo telefono cellulare? Questo va bene per un film d’azione, ma il nostro film si è concluso con un’ondata di attentati suicidi che hanno ucciso più di 100 israeliani. Qualcuno ha mai chiesto se ne valesse la pena? E chi è il colpevole?Ci siamo lasciati emozionare dal telefono cellulare che è esploso in faccia all’ “ingegnere” (il soprannome di Ayyash, il quale confezionava per Hamas gli ordigni esplosivi con cui venivano portati a termine gli attentati suicidi (N.d.T.) ), ma alla fine quel telefono è scoppiato in faccia a noi. Ora abbiamo Ehud Barak come ministro della difesa e Meir Dagan come direttore del Mossad, entrambi grandi fan degli assassini mirati e delle operazioni segrete alla James Bond. E così, ci sono buoni motivi per sospettare che anche questa volta Israele abbia fatto la sua parte in ciò che è accaduto.
In primo luogo, i festeggiamenti: è deprimente assistere alle celebrazioni di questa pseudo-vittoria. Per amor del cielo, cosa c’è da festeggiare, se non il più antico ed il più primitivo sentimento di tutti – la vendetta? La parata di generali e di esperti che sono stati intervistati in ogni programma immaginabile, esponendo insieme le proprie idee e dispensando sorrisi maliziosi, pieni della loro presunzione, insieme a generazioni di vittime del terrore che sono state invitate ad esprimere la gioia della loro personale vendetta, e l’interpretazione delle allusioni e degli indizi – Ehud Olmert che sorride nella Knesset e Ehud Barak con lo sguardo fiero ad Ankara – tutto questo ha dato un’immagine di ineguagliata disumanità. Anche i devoti fan del “genere” hanno bisogno di riflettere il giorno dopo. Anche per loro, la vendetta per amore della vendetta – occhio per occhio – nel miglior spirito dei nostri valori biblici, non può essere tutto. Oltretutto, una società che si rallegra e che va orgogliosa della propria vittoria mediatica dopo ogni uccisione è una società in cattive condizioni, mentre una guerra al terrore che incoraggia soltanto rappresaglie sempre più violente è una guerra persa.
Ma questa volta le celebrazioni sono state più brevi che mai. L’esecuzione è stata indubbiamente perfetta, ma gli interrogativi che dovevano essere posti prima dell’operazione sono sorti inaspettatamente subito dopo, in maniera spaventosamente tardiva. Ad esempio, la scelta del tempo e del luogo per portare a termine l’operazione: la scorsa estate, non molto tempo fa, ci hanno colmato di avvertimenti sull’esplosiva situazione esistente con la Siria. Poi, il 6 settembre, è giunto il misterioso bombardamento nel nord della Siria, ed ora l’assassinio, ancora una volta sul territorio di quello stesso pericoloso paese. Che interesse c’è nell’umiliare Bashar al-Assad? Per quanto ancora egli continuerà a reprimersi e ad incassare semplicemente queste umiliazioni? Tutto ciò lo porta più vicino a dei negoziati con noi – qualcosa che noi, ovviamente, abbiamo ostinatamente rifiutato – o non lo allontana, piuttosto, ancora di più da noi? E a proposito degli scopi dell’assassinio: esso impedirà nuovi attacchi terroristici, o invece li accrescerà? Mughniyeh era una di quelle rare persone che non possono essere rimpiazzate, oppure il suo sostituto sarà ancora più pericoloso di quanto non fosse lui?
Imad Mughniyeh è stato ucciso. Fantastico. Chiunque lo abbia liquidato ha fatto un “ottimo lavoro”, come dicono. Ma il giorno dopo, ulteriori pressanti interrogativi sorgono, al di là del modo in cui sono riusciti a mettersi sulle sue tracce e di come si sono fatti gioco di lui. “Il mondo è un posto migliore” ha declamato poeticamente un portavoce del Dipartimento di Stato americano dopo l’assassinio di Mughniyeh. Migliore? Possiamo dubitarne. Meno sicuro? Questo è certo.
Gideon Levy è un giornalista israeliano, membro del comitato di redazione del quotidiano “Ha’aretz”.
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