17 gennaio 2008

La politicizzazione della sofferenza di Gaza.

La Striscia di Gaza e un milione e mezzo di Palestinesi che la abitano sono da mesi sottoposti ad un durissimo e inaudito assedio, privati di elettricità e di combustibile, in preda a una gravissima crisi alimentare, sanitaria e occupazionale.
A Gaza nessuno entra o esce, persino agli studenti è vietato di andare all’estero per seguire corsi universitari o master e, più di tutto, agli ammalati è vietato recarsi in Israele o all’estero per ricevere quelle cure a loro indispensabili ma che non sono disponibili nella Striscia: 70 sono i pazienti palestinesi di Gaza morti a causa del criminale assedio israeliano.
A Gaza, soprattutto, è in atto un massacro senza precedenti: 20 morti e 71 feriti nella settimana compresa tra il 3 e il 9 gennaio (tra essi 5 membri di una stessa famiglia uccisi da una cannonata), 22 morti in sole 24 ore tra il 15 e il 16 gennaio.
Tra questi ultimi, tre membri della famiglia al-Yazji (tra essi, un bambino di 5 anni), morti carbonizzati nella loro auto colpita per un “deplorevole errore” nel corso di una esecuzione “mirata” dei macellai israeliani della Iaf.
Eppure, di tutto questo, non v’è traccia nel dibattito politico, e i media soltanto distrattamente o in maniera distorta danno conto di quanto accade a Gaza e dei sanguinosi crimini di guerra commessi quotidianamente da Tsahal: la guerra ai “terroristi” di Hamas val bene la sofferenza di un milione e mezzo di innocenti il cui unico torto è stato quello di nascere e vivere nella Striscia di Gaza.
In questo quadro, vorrei riportare il bellissimo articolo del giornalista palestinese Ramzi Baroud, pubblicato l’8 gennaio di quest’anno sul Middle East Times, nella traduzione offerta dal sito
Arabnews.

La politicizzazione della sofferenza di Gaza.
L’intenso dibattito su Gaza si sta placando visto che lo status quo, prevedibilmente, verrà delineato dalla legge del più forte. Ma fino a che punto la sofferenza umana può essere politicizzata, e trasformata in una polemica puramente intellettuale insufficiente a determinare il più piccolo cambiamento nella vita della gente?

L’avvento politico di Hamas nel gennaio del 2006, in qualità di primo movimento di “opposizione” all’interno del mondo arabo ad ascendere al potere con mezzi pacifici e democratici, fu ostacolato con successo, grazie ad un colpo da maestro concordemente orchestrato dagli Stati Uniti, da Israele, e da “apostati” delle fazioni palestinesi. Successivamente, la storia – come al solito – fu riscritta dal vincitore. Dunque Hamas, un partito che rappresentava le istituzioni democratiche nei territori occupati, divenne il partito che “rovesciò” la democrazia “legittima” di Mahmoud Abbas. Pur trattandosi di un concetto assolutamente bizzarro – un governo che rovescia se stesso – esso entrò negli annali dei media occidentali come una incontestabile verità.

Ci si attendeva che tutte le parti, direttamente o indirettamente coinvolte, avrebbero determinato la propria posizione a partire da questa falsa affermazione, ed è ciò che esse effettivamente fecero al fine di salvaguardare i propri interessi. Alcuni non si fecero problemi a disconoscere del tutto la democrazia palestinese. Il governo americano, Israele, l’Unione Europea, e diversi governi arabi non democratici furono assai contenti del risultato dello scontro interno palestinese. Essi celebrarono Mahmoud Abbbas e la sua fazione come i reali e legittimi democratici, criticando aspramente coloro che dissentivano. Paesi come la Russia, il Sudafrica, ed alcuni paesi arabi del Golfo, si adeguarono, con qualche esitazione e con qualche malumore, espressi troppo debolmente per opporsi in maniera significativa allo status quo.

Sul fronte palestinese le scelte furono più difficili, nondimeno coloro che in precedenza non si erano schierati né con Fatah né con Hamas si misero rapidamente dalla parte che meglio serviva i loro interessi. Rinomati esponenti della sinistra, ad esempio, che normalmente si proponevano come rappresentanti della voce della ragione, in questo caso non potevano permettersi di perdere quelle poche ed inefficaci ONG che essi gestiscono secondo uno stile da “drogheria” (il nome che molti palestinesi utilizzano per prendersi gioco delle numerose ONG presenti in Palestina).

La paura di perdere la libertà di muoversi e di accedere alle istituzioni finanziarie europee ed americane spinse molti palestinesi a ripudiare Gaza completamente. La compassione che milioni di persone in tutto il mondo avevano dimostrato nei confronti delle continue sofferenze degli abitanti di Gaza si trasferì in gran parte nel regno dell’indefinibile. La debolezza prevalse e rapidamente si aggiunse al prevalente senso di impotenza e di incapacità da lungo tempo associati alla Palestina in generale ed a Gaza in particolare.

Per distogliere l’attenzione da questa questione, Mahmoud Abbas ed il primo ministro israeliano Ehud Olmert vennero in tutta fretta convocati ad Annapolis per mettere in piedi una messinscena mediatica di cui vi era urgente bisogno. Lodati dall’auto-proclamato campione della democrazia, il presidente americano George W. Bush, i due leader sono nuovamente alla ricerca della pace. Lo spettacolo di second’ordine organizzato dagli Stati Uniti ha raggiunto il suo scopo. Date come quella del gennaio 2006 sono ormai completamente dimenticate; nuovi appuntamenti, nuove manifestazioni di retorica e nuove promesse stanno prendendo il posto delle vecchie; tutti gli occhi sono ora puntati su Abbas e Olmert, su Ramallah e Tel Aviv, accompagnati dalla richiesta di future conferenze e di dolorosi compromessi. E Gaza sta diventando una dimenticata ed irrilevante nota a piè di pagina.

La Striscia di Gaza vive sotto un assedio senza precedenti, con la gente che muore per l’assenza di supporto medico. Israele ha tagliato le forniture di combustibile diesel a 60.000 litri, quando sarebbero necessari 350.000 litri al giorno. Come può funzionare un’economia già di per sé sottosviluppata con un così scarso rifornimento di energia, per non parlare degli ospedali e delle scuole? Anche l’elettricità è stata drasticamente tagliata, conformemente alle raccomandazioni della Corte Suprema di Israele, e la disoccupazione è ai massimi livelli di sempre (oltre il 75 %). Un milione e mezzo di abitanti è letteralmente intrappolato in uno spazio di appena 365 Km quadrati, senza neanche la possibilità per respirare, con poco cibo, con poca energia, e quel che è peggio è che, più o meno, viene detto loro che meritano il loro destino.

Se del tutto i media nominano Gaza, lo fanno in un contesto politicizzato. Ad esempio: “Tre militanti uccisi dai missili israeliani”; “L’esercito israeliano afferma che i militanti stavano per lanciare razzi contro Israele”; “I leader di Hamas perseverano nel loro atteggiamento di sfida”, e così via. Gran parte della copertura mediatica è concentrata esclusivamente ad ingigantire i peccati di Hamas, per cui ogni singolo comportamento, buono o cattivo, viene riportato in maniera del tutto deformata. L’assunto fondamentale è che qualsiasi sofferenza gli abitanti di Gaza siano costretti a sopportare, essa è causata dalla minaccia di Hamas e delle sue “forze oscure”. Il fatto che in molti casi le violazioni dei diritti umani da parte di Hamas possano essere legate allo stato di assedio, di morte, e di caos creato dalle molte circostanze che lo hanno preceduto, rimane una questione del tutto irrilevante. Gaza è diventato il principio guida di cui c’era bisogno per ricordare ai palestinesi, e ad altri, ciò che non debbono avere l’ardire di compiere se vogliono che venga loro risparmiato lo stesso destino. Ai palestinesi della Cisgiordania viene richiesto di offrire, in contrasto con le immagini dei barbuti ed arrabbiati poliziotti di Hamas che se la prendono con i manifestanti, quella del rispettabile e benvestito Abbas che presenzia conferenze internazionali brulicanti di facce nutrite e ben pasciute.

Le vere ragioni che stanno dietro le sofferenze di Gaza sono completamente omesse, con l’eccezione di pochi giornali arabi progressisti come questo. Attualmente il dibattito viene allontanato dall’attenzione immediata dei media per rimanere circoscritto alle conferenze accademiche, ai libri, ed alle opere di saggistica.

Con ciò non si vuole negare il riconoscimento a coloro che hanno avuto il coraggio di adottare la giusta posizione nei confronti dei drammatici eventi che si stanno succedendo a Gaza. Molti dispongono di sufficiente umanità per distinguere le politiche che hanno portato al completo isolamento di Gaza dal fatto che la gente comune, con i suoi sentimenti, le sue speranze, e le sue aspirazioni, sta sopportando privazioni, soffrendo, e morendo inutilmente sotto i nostri occhi. Il campo israeliano è implacabile nel giustificare la brutalità inflitta da Israele ai palestinesi usando i soliti triti argomenti, come la sicurezza di Israele ed il suo diritto ad esistere, ed accusando i suoi detrattori di antisemitismo ad ogni piè sospinto. Ma quale giustificazione ci può essere per coloro che sono turbati dalla sofferenza umana, e tuttavia perdono di vista la miseria in cui versa Gaza? Io non riesco a trovare alcuna giustificazione per l’apatia di fronte ad un bambino che muore, sia esso bianco, nero, arabo, ebreo, o qualsiasi altra cosa.

Non lasciamo che la disumanità divenga la norma accettata. Se permettiamo che trionfi a Gaza, allora lasceremo che possa ripetersi ovunque.

Ramzy Baroud è un giornalista arabo-americano; è caporedattore del Palestine Chronicle, ed è autore del libro: “The Second Palestinian Intifada: A Chronicle of a People’s Struggle (Pluto Press, Londra)
Titolo originale:
Politicizing Gaza misery (Middle East Times, 8.1.2008)

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