23 ottobre 2008

Uno stato binazionale: una soluzione realistica del conflitto israelo-palestinese?



Contraltare della cd. “opzione giordana” - segretamente accarezzata da Israele e da alcuni governi occidentali – è, in campo avverso, la soluzione del conflitto israelo-palestinese che prevede la convivenza di entrambi i popoli all’interno di uno stato unitario laico e democratico, previa annessione dei territori occupati ad Israele e attribuzione ai suoi abitanti di eguali diritti civili e politici.

Come nota il professor Sari Nusseibeh in un articolo pubblicato il 20 settembre scorso su Newsweek, qui di seguito proposto nella traduzione offerta dal sito web Arabnews, una tale soluzione – a dire il vero poco realistica – viene avanzata da alcuni in maniera del tutto strumentale, al fine cioè di mettere in guardia Israele dai pericoli insiti nella sua politica volta all’espansione delle colonie ed alla “giudaizzazione” di Gerusalemme est.

Per altri, invece, la preferenza per una soluzione che veda un unico stato binazionale come patria in cui convivano insieme Israeliani e Palestinesi nasce e si consolida a fronte dell’acclarato fallimento delle trattative di pace e del progetto di creare uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme est come capitale; anche perché, in tal modo, verrebbe a crearsi un governo che alla fine potrebbe essere controllato dai Palestinesi in virtù della loro prevalenza demografica.

Una tale soluzione peraltro, secondo alcuni osservatori, potrebbe determinarsi sul campo al di là delle reali intenzioni delle due parti in causa.

Se da un lato, infatti, vi è l’impossibilità a trovare una soluzione condivisa per le due questioni principali che attengono allo status di Gerusalemme e al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, dall’altro anche l’abbandono, in tutto o in parte, degli insediamenti colonici da parte di Israele e la restituzione della West Bank ai Palestinesi, pur se in linea di principio appare un obiettivo più facilmente realizzabile, in realtà incontra difficoltà pratiche pressoché insormontabili.

Come può rilevarsi dal rapporto di
Peace Now dell’agosto di quest’anno – dal significativo titolo “Eliminating the Green Line” – nonostante il rinnovato impegno al meeting di Annapolis a congelare ogni attività di espansione delle colonie, l’attività costruttiva israeliana all’interno degli insediamenti non solo non si è arrestata ma risulta quasi raddoppiata in tutte le colonie e negli avamposti, sia al di qua sia al di là del muro di “sicurezza”; nessuno degli avamposti illegali individuati dalla road map è stato smantellato ma, all’opposto, molti di questi hanno fatto registrare una sensibile espansione, al pari degli insediamenti abitativi ebraici a Gerusalemme est.


Da una parte, dunque, Israele finge di negoziare un accordo di pace definitivo con i Palestinesi e, dall’altra, continua a costruire all’interno della West Bank, creando “fatti sul terreno” che allontanano sempre di più la possibilità di giungere alla creazione di uno Stato palestinese che non sia altro che un aggregato di bantustan, privo di risorse e di continuità territoriale.

E ciò e proprio quello che fa dire a Zeev Sternhell, in suo recente articolo su
Ha’aretz, “se la società israeliana non riuscirà a trovare il coraggio necessario per porre fine agli insediamenti, gli insediamenti porranno fine allo stato degli Ebrei e lo trasformeranno in uno stato binazionale”.

Ma anche questa previsione rischia di rivelarsi fallace, in quanto lo scenario che si verrebbe a prefigurare potrebbe essere un altro ancora, e cioè quello consistente in uno stato ebraico e “democratico” ad ovest (le virgolette sono d’obbligo, in quanto un Paese che presenta così forti tratti di discriminazione razziale in campo legislativo, amministrativo e sociale non può che essere tale solo da un punto di vista meramente formale), e un dominio ebraico brutale ed oppressivo (ossia uno stato dell’apartheid) a est della Green Line.

Dopo tutto, l’occupazione della West Bank dura ormai da più di quarant’anni e nulla vieta che perduri nei secoli a venire; almeno fino a che la comunità internazionale non si decida a riempire di contenuti fattuali le “pressioni” su Israele affinché si ripristini la legalità internazionale e si dia attuazione alle risoluzioni Onu a partire dalla n.242 del 1967.

E almeno fino a che i contribuenti europei non si stancheranno di contribuire al mantenimento dell’occupazione della West Bank pagando gli stipendi ai dipendenti dell’Anp e finanziando fantomatici progetti di sviluppo, nonché al mantenimento del vergognoso e inaudito assedio alla Striscia di Gaza pagando gli aiuti umanitari a un milione e mezzo di disperati.


LA SOLUZIONE DELLO STATO UNITARIO
20/9/2008

In un recente rapporto, Peace Now (una ONG israeliana) ha rivelato che, dopo le trattative di pace condotte ad Annapolis dal presidente George W. Bush, il numero di appalti concessi per costruire a Gerusalemme Est è aumentato di 38 volte rispetto all’anno precedente.

Dal 1967, quando lo stato ebraico ha occupato la Cisgiordania e Gaza, e soprattutto dai negoziati di pace di Madrid del 1993, Israele ha costruito circa 13 nuovi quartieri a Gerusalemme Est, che è oggi dimora di oltre 250.000 israeliani – quasi quanti sono i palestinesi a cui è consentito risiedere nella città. Se si ricorda che la quasi totalità dei piani che prevedono una soluzione a due stati per porre fine alla questione palestinese indicano Gerusalemme Est come capitale del futuro stato palestinese (accanto alla capitale israeliana a Gerusalemme Ovest), è facile capire perché molti palestinesi stiano perdendo fiducia in questo progetto.

C’è un’altra ragione per cui la soluzione dei due stati sta perdendo consensi: l’atteggiamento di Washington. E’ stato riferito che, durante una recente visita a Ramallah, il segretario di stato americano Condoleezza Rice, davanti a chi le ricordava che i palestinesi hanno già dimostrato la disponibilità a concedere ad Israele il 78% di quello che considerano il loro territorio, avrebbe replicato: “Dimenticate il 78%. Quello su cui si sta negoziando adesso è il restante 22%”. Il messaggio era chiaro: i palestinesi devono essere pronti a rinunciare ad altri territori.

Gli israeliani hanno a lungo descritto i loro insediamenti in Cisgiordania – ampie strisce di territorio che si estendono lungo l’asse nord-sud ed est-ovest, servite da superstrade, dalla rete elettrica, ecc. – come estensioni organiche della comunità israeliana. Ma l’edilizia israeliana (sempre secondo Peace Now) ha registrato un aumento del 550% nell’ultimo anno. Questo ritmo di costruzione, unitamente a quello del muro (o barriera di separazione), ed alle notizie sul desiderio di Israele di mantenere un controllo di sicurezza lungo l’estremità orientale della valle del Giordano, inviano un ulteriore messaggio: Israele progetta di mantenere il dominio su questo territorio per sempre. Se a tutto ciò si aggiunge l’ancora irrisolto problema dei profughi, non è così difficile capire perché numerosi sostenitori della soluzione a due stati stiano perdendo le speranze.

È importante ricordare che il movimento nazionale palestinese ha iniziato ad avallare l’idea di una soluzione a due stati, intesa come un compromesso pratico, solo 20 o 30 anni fa. Avendo compreso che Israele non sarebbe svanito, i moderati decisero che la loro maggiore speranza di ottenere uno stato era crearne uno accanto ad Israele, non uno che lo sostituisse. Eppure, i 15 anni di negoziati che sono seguiti hanno prodotto ben pochi risultati; e così non è una sorpresa che la fiducia in questa soluzione “pragmatica” sia in declino. L’assenza di progresso, insieme all’inequivocabile realtà espansionistica sul terreno ed alla crescente popolarità di Hamas, ha lasciato ben poco spazio a chiunque aspiri ad un futuro positivo per la Palestina. A meno che non si voglia riesumare la vecchia idea di uno stato binazionale, laico e democratico, in cui ebrei ed arabi possano vivere fianco a fianco in uguaglianza.

Per alcuni, come gli intellettuali e gli attivisti che compongono il “Palestine Strategy Group” (che ha recentemente sollevato questo caso sui giornali arabi), parlare dello scenario ad un solo stato ha lo scopo di mettere in guardia Israele sui pericoli posti dalle sue politiche espansionistiche. Questo gruppo preferirebbe ancora che emergesse una soluzione a due stati. Altri, ad ogni modo, stanno tornando alla visione dello stato unitario, adottata inizialmente da Fatah (il principale movimento nazionalista palestinese) verso la fine degli anni ’60. Il primo gruppo crede che parlare di uno stato unitario potrebbe inculcare un po’ di buon senso nelle teste dei leader israeliani. Il secondo invece preferisce questa soluzione perché creerebbe un governo che essi potrebbero alla fine controllare in quanto maggioranza demografica. Sebbene anche il primo ministro Ehud Olmert abbia recentemente riconosciuto il pericolo verso cui sta andando incontro Israele, non è chiara la posizione degli altri leader israeliani. Essi potrebbero tentare di rinviare il problema attraverso tattiche diversive, come quella di lasciare il controllo dei centri abitati della West Bank alla Giordania mantenendo però una supervisione militare. Tale soluzione era stata inizialmente suggerita da Israele negli anni ‘70. In base a questo scenario, anche Gaza sarebbe lasciata all’Egitto.

Ma, anche se la Giordania e l’Egitto dovessero farsi convincere ad accettare un simile fardello – e non lo faranno – nessuna di queste tattiche porterebbe una stabilità duratura nella regione. Coloro che propongono seriamente la soluzione dello stato unitario non sembrano rendersi conto di quanta sofferenza umana essa richiederà per essere realizzata. E anche suonare campanelli d’allarme, poteva aver senso 25 anni fa, quando la costruzione di insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania stava appena avendo inizio. Oggi, con più di mezzo milione di ebrei che vivono oltre la linea dell’ armistizio del 1949, è quasi troppo tardi per fare marcia indietro. E’ dunque tempo di agire, non di produrre altre parole.

In pratica, questo significa spingere nei prossimi mesi per un accordo che risulti accettabile per entrambe le parti. E ciò significa un accordo a due stati; gli israeliani non accetteranno nessun’altra soluzione. Molti palestinesi pensano che un singolo stato potrebbe essere l’ideale – in quanto significherebbe la sconfitta del progetto sionista e la sua sostituzione con uno stato binazionale che potrebbe eventualmente essere governato dalla maggioranza araba. Ma già molte navi sono naufragate su questi scogli. E lo stato unitario che emergerebbe da un conflitto disastroso sarebbe tutto meno che ideale.

Sari Nusseibeh è dal 1995 presidente dell’Università ‘Al-Quds’, che ha sede a Gerusalemme; scrive sulle questioni legate alla situazione arabo-israeliana da circa trent’anni

Titolo originale: The one-state solution

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