16 gennaio 2024

Essere giustiziati per aver aperto un cancello


In queste ultime settimane si parla quasi esclusivamente, e giustamente, del genocidio che israele sta compiendo a Gaza, ma lo stato ebraico compie quotidianamente crimini di guerra anche in Cisgiordania
E non è più tollerabile, non può più essere consentito, che un palestinese inerme ed innocente debba essere giustiziato dai tagliagole dell'idf soltanto per aver aperto un cancello. Per tornare a casa propria, sulla propria terra. Come è successo lo scorso 28 dicembre a Sayel Abu Nada, riposi in pace.
Tra il 7 ottobre 2023 e il 15 gennaio di quest'anno, lo stato ebraico ha ucciso in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, ben 344 palestinesi, tra i quali 88 bambini. Nel silenzio dei media...
https://x.com/UbaiAboudi/status/1746989634448449863?s=20

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20 agosto 2013

Il Muro israeliano e la finzione della sicurezza



Secondo la propaganda degli amici di Israele (che purtroppo sembrano aver infiltrato anche Wikipedia), il Muro di "sicurezza" israeliano avrebbe come unico scopo quello di impedire l'infiltrazione in Israele dei "terroristi" palestinesi, diminuendo così drasticamente la possibilità di nuovi attentati. 

Ma se gli attentati si sono, come è in effetti, azzerati, questo è stato dovuto al cambio di strategia delle organizzazioni palestinesi e alla collaborazione in tema di sicurezza tra Israele e l'ANP, non certo perchè il Muro sia invalicabile.

E questa circostanza la mostra di tutta evidenza il video qui sopra, in cui si vedono alcuni Palestinesi che entrano illegalmente in Israele semplicemente correndo e sfruttando un buco nella recinzione. Solo che vanno a cercare un lavoro, non a commettere attentati...
  
E anche laddove il Muro si presenta non come semplice recinzione, ma come manufatto in cemento armato, è persino possibile scavalcarlo, come mostrano le foto qui sotto.

Il che ci porta a capire che quella della "sicurezza" è una scusa quasi banale: del resto, se quello fosse stato davvero il suo scopo, Israele il Muro avrebbe potuto costruirlo lungo il confine pre-1967 (la cd. green line).

E invece il Muro, attualmente, corre per ben l'85% del suo tracciato all'interno della Cisgiordania, sottraendo alla popolazione palestinese un ulteriore 10% di territorio e mantenendo al sicuro dalla parte israeliana oltre l'85% dei coloni illegalmente stanziati in terra palestinese (cfr. OCHA - The humanitarian impact of the Barrier, luglio 2013).

Ed è questo, infatti, il suo scopo reale. 




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18 agosto 2013

Come animali in una gabbia

Sono le cinque del mattino a Betlemme, il sole sta sorgendo e centinaia di Palestinesi sono in piedi in una gabbia, in attesa, afferrando le sbarre di metallo come dei prigionieri.

Potrebbe sembrare un valico di frontiera, ma in realtà il checkpoint 300 si trova due chilometri a sud della green line, ben all'interno della Cisgiordania occupata. 

Tutti i giorni lavorativi, dalle 4 alle 7 della mattina, circa 4.000 Palestinesi sono costretti ad attraversare questo posto di blocco illegale per potersi recare al lavoro a Gerusalemme est o in Israele. E quelli in fila dentro una gabbia sono in realtà i più fortunati, perchè sono riusciti ad ottenere un permesso.   

Dice Adel, che attraversa il checkpoint 5 volte a settimana: "è disumano. Ci trattano come animali. Ogni mattina mi sento come un animale in una gabbia."

(Source: Ubuntifada










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14 marzo 2013

Le truppe israeliane uccidono un civile e feriscono altri 5 palestinesi nel campo profughi di al-Fawar: si tratta della sesta vittima del 2013 in Cisgiordania


Ancora una volta, un giovane palestinese – questa volta di soli 22 anni – muore a causa dell’uso eccessivo della forza e del totale dispregio di ogni norma di diritto internazionale posta a tutela della popolazione civile da parte delle truppe israeliane.

Il copione, con qualche variante, è sempre lo stesso: i soldati israeliani entrano in un campo profughi, in una cittadina, in un villaggio, a volte per operare un arresto, altre volte solo per far vedere che esistono e che comandano loro, qualche volta addirittura per “allenare” i soldati ad operazioni sotto copertura.

Capita che succeda un imprevisto, che si lancino pietre, che scoppino tumulti, che un uomo esca a controllare che intorno alla sua casa non gironzoli un ladro o un malintenzionato. Ed allora le ss israeliane non esitano un istante a sparare per uccidere, ma solo per “autodifesa” sia chiaro…

Mahmoud al-Titi è morto perché gli hanno sparato alla testa un proiettile esplosivo; si tratta della sesta vittima innocente in Cisgiordania dall’inizio dell’anno. E le canaglie che lo hanno assassinato, ancora una volta, la faranno franca, alimentando quel clima di impunità e rafforzando la convinzione, ben viva nei soldati di tsahal, di godere di una vera e propria licenza di uccidere.

La sera di martedì, 12 marzo 2013, in un incidente implicante l’uso eccessivo della forza, le truppe israeliane hanno ucciso un civile palestinese e ne hanno feriti altri cinque, inclusi tre ragazzi, nel campo profughi di al-Fawar, a sud di Hebron. Uno dei minori feriti nell’incidente era fratello della vittima. 

Secondo le indagini condotte dal Palestinian Centre for Human Rights (PCHR), intorno alle 22:20 di martedì, 12 marzo 2013, una jeep dell’esercito israeliano è entrata nel campo profughi di al-Fawar dall’ingresso a ovest. Mentre la jeep si avvicinava al centro del campo ha avuto un guasto. Decine di bambini e di giovani del campo si sono allora radunati intorno alla jeep e hanno iniziato a tirare pietre contro di essa. In risposta, i soldati israeliani sono usciti immediatamente dalla jeep ed hanno aperto il fuoco sulla folla. Come risultato, il 22enne Mahmoud ‘Aadel Fares al-Titi è rimasto gravemente ferito da un proiettile alla mascella. Un’ambulanza della Mezzaluna Rossa palestinese ha cercato subito di evacuarlo, ma è stata bloccata per 15 minuti dai soldati israeliani posizionati ad un checkpoint all’entrata del campo. L’ambulanza ha poi trasportato al-Titi all’ospedale Abu al-Hassan al-Qassem nel villaggio di Yatta, a sud di Hebron, ma il giovane è stato dichiarato morto prima dell’arrivo in ospedale. Secondo fonti mediche, il proiettile era apparentemente di tipo esplosivo, ed è esploso nella testa della vittima, causando una grave emorragia. Nell’incidente, inoltre, sono rimasti feriti cinque civili, tra i quali tre minori: Le loro generalità sono le seguenti:

1) Mahmoud Khalil al-Shalfan, 19 anni, ferito da un proiettile all’addome;
2) Fares Mahmoud al-Najjar, 16 anni, ferito da un proiettile alla mano destra;
3) Rami Mohammed al-Krunz, 35 anni, ferito da un proiettile al piede sinistro;
4) Suhaib Tariq al-Hlaiqawi, 16 anni, ferito da un proiettile alla coscia sinistra;
5) Fares ‘Aadel al-Titi, 13 anni, ferito da un proiettile alla mano destra.

Il PCHR è seriamente preoccupato per gli incidenti di questo tipo, che riflettono il continuato uso eccessivo della forza da parte delle truppe israeliane contro i civili palestinesi in spregio delle loro vite.

Il PCHR si appella alla comunità internazionale affinché adotti immediate ed efficaci misure per porre fine a tali incidenti e ribadisce la sua richiesta alle Alte Parti Contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 di adempiere ai loro obblighi ai sensi dall’articolo 1, vale a dire di rispettare e far rispettare la Convenzione in ogni circostanza, e all’obbligo di cui all’articolo 146 di perseguire i soggetti che si presume commettano le gravi violazioni elencate ai sensi della Convenzione. Tali gravi violazioni costituiscono crimini di guerra ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale.

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12 marzo 2013

Giovane palestinese travolto e ucciso da coloni a Salfit

Stamattina un giovane palestinese del villaggio di Qarawa Bani Hassan, a ovest di Salfit, è morto per le ferite riportate dopo essere stato investito sabato scorso dall'auto di un colono, nei pressi dell'insediamento di Burqan, nel nord della Cisgiordania.

Zaid Ali Rayan, questo era il nome dell'uomo, aveva 28 anni ed era padre di due figli.

(fonte: PNN)

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13 agosto 2012

Sei ebreo? No? Allora muori!


La scritta sul retro dell'indumento di questo qualificato esponente della canaglia ebraica che abita le colonie della West Bank sta a suggerire: Sei ebreo? Se la risposta è si, allora sei degno di vivere. Se la risposta è no, allora il tuo meritato destino è solo la morte.

La foto non necessita di alcun commento, salvo ricordare che - solo nella settimana compresa tra l'1 ed il 7 agosto - sono stati 9 i palestinesi feriti nel corso di attacchi da parte dei coloni israeliani, 89 in totale nel 2012 (dati OCHA).

E c'è ancora chi mette in discussione la necessità e persino la legittimità delle azioni di boicottaggio contro l'occupazione israeliana!


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22 maggio 2012

Dov'è la moralità di questi soldati?



Domenica scorsa un ragazzo palestinese di 18 anni, Salah Sghayyar, è stato ferito dai soldati israeliani nei pressi dell’insediamento colonico di Etzion, situato tra Betlemme ed Hebron. Secondo l’Idf, il giovane avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano e sarebbe rimasto ferito nella colluttazione ovvero, secondo altre fonti, sarebbe stato colpito al petto da colpi d’arma da fuoco, ma non è questo l’aspetto più tragico della vicenda.

No, l’aspetto più terribile e rivoltante dell’accaduto è che, mentre il ragazzo giaceva a terra sanguinante, incapace di muoversi, forse morente, i bravi soldati israeliani gli calpestavano le mani e si mettevano in posa per scattare qualche foto con il loro prezioso “trofeo” ormai abbattuto.

Davvero non ci sono parole per commentare questa foto, non si riesce a capire dove sia andato a finire quel briciolo di umanità che dovrebbe pur albergare in ogni uomo, anche in un soldato di un esercito di occupazione. Dov’è la moralità di questi soldati, dov’è la moralità di questo esercito in cui prestano servizio simili bestie spietate?

Definirle vili canaglie sembra persino riduttivo, e non rende bene la rabbia e l’indignazione che montano davanti a questo orrendo spettacolo.

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15 aprile 2012

Ufficiale israeliano colpisce al volto un'attivista con il suo M-16

                                                                               
I soliti valorosi pezzi di merda dell'Idf...

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16 febbraio 2012

Demolizioni record nel 2011 in Cisgiordania: il crimine impunito di Israele


Secondo una scheda informativa dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), pubblicata a gennaio di quest’anno, nel 2011 il numero dei palestinesi costretto a sfollare a causa della demolizione delle loro case da parte dell’esercito israeliano è aumentato dell’80% rispetto all’anno precedente. Il numero delle strutture demolite è aumentato del 42% rispetto al 2010, e le persone direttamente o indirettamente colpite da tali demolizioni sono oltre 5.300, buona parte delle quali bambini.

Sono dati ben noti e ampiamente divulgati, e tuttavia passati senza alcun particolare clamore o conseguenza, l’ennesimo dato statistico che certifica le sofferenze del popolo palestinese e i crimini perpetrati dalle autorità israeliane.

La demolizione delle case dei palestinesi residenti nella West Bank, nonché quella di strutture quali cisterne per l’acqua o ricoveri per animali, è anzitutto un crimine umanitario: il diritto internazionale, infatti, vieta il trasferimento forzato dei civili residenti nel territorio occupato, nonché la distruzione delle proprietà private a meno che non strettamente collegate e necessitate da un’operazione militare in corso.

Ma la politica delle demolizioni sistematiche è anche, e soprattutto, un’atrocità ed un abominio da un punto di vista morale, ovvero – per dirla nel linguaggio più diplomatico del Coordinatore umanitario dell’Onu per i Territori occupati Maxwell Gaylard, è totalmente contraria agli “ideali umanitari”.

Chi scrive, per il racconto di persone care che hanno vissuto la triste condizione del profugo, sa bene cosa significa perdere la propria casa - sovente per i palestinesi l’unica fonte di certezze fisiche ed economiche - i propri beni, dover abbandonare la propria terra ed essere costretto a vivere in campi profughi, con la totale incertezza del proprio futuro e di quello dei propri figli.

L’OCHA ci ricorda che l’impatto della demolizione delle case per le famiglie che lo subiscono è psicologicamente devastante: le mogli provano un accresciuto senso di insicurezza, i mariti stress ed ansia, i bambini sono costretti a interrompere gli studi e soffrono di depressione, ansia e sintomi da stress post-traumatico.

Di recente, a proposito del veto di Russia e Cina ad una risoluzione di condanna contro il regime siriano, molte sono state le reazioni irate dei governanti occidentali e dello stesso Segretario Onu Ban Ki-moon, si è parlato di “farsa” e di “scandalo, e si è affermato che, di tal guisa, l’Onu perderebbe ogni ragion d’essere.

Ma ciò è altrettanto vero se si guarda alla scandalosa inerzia dell’Onu e della comunità internazionale a fronte dei crimini israeliani e dell’occupazione illegale dei Territori palestinesi.

Appare incomprensibile come sia stata creata e tutt’ora esista un’apposita agenzia dell’Onu per l’assistenza ai profughi, e che nel contempo nulla si faccia contro quegli stati-canaglia che con il loro operato e le loro politiche di pulizia etnica contribuiscono ad accrescere senza posa il numero delle persone che sono costrette a vivere l’infelice esperienza del rifugiato.

Ma evidentemente anche questi sono gli ignobili dividendi assicurati ad Israele dall’industria dell’Olocausto.

OCHA  Gennaio 2012
FATTI SALIENTI
- Quasi 1.100 palestinesi, oltre la metà bambini, sono stati sfollati nel 2011 a causa della demolizione delle case da parte dell’esercito israeliano, oltre l’80% in più rispetto al 2010.
- Altre 4.200 persone sono state interessate dalla demolizione di strutture connesse al loro sostentamento.
- Le forze israeliane hanno demolito 622 strutture di proprietà di palestinesi, un incremento del 42% rispetto al 2010. Ciò ha incluso 222 case, 170 ricoveri per animali, due aule scolastiche e due moschee (una demolita due volte).  
- Il numero di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e di vasche distrutte nel 2011 (46) è stato più del doppio dell’anno precedente (21), con decine di altre strutture connesse esposte a future demolizioni.
- La maggior parte delle demolizioni (il 90%) e dei trasferimenti (il 92%)si sono verificati nelle già vulnerabili comunità agricole e della pastorizia nell’Area C; migliaia di altre rimangono a rischio di sfollamento a causa di ordini di demolizione non ancora eseguiti.
- A Gerusalemme est c’è stata una significativa diminuzione rispetto agli anni precedenti, con 42 strutture demolite. Tuttavia, almeno 93.100 residenti, che vivono in strutture costruite senza permesso, rimangono a rischio di sfollamento.
- Oltre il 60% delle strutture di proprietà di palestinesi demolite nel 2011 erano situate in aree destinate alle colonie.
- Il 70% dell’Area C è vietato all’attività edilizia dei palestinesi, ed è invece destinato alle colonie o all’esercito israeliano; un ulteriore 29% soffre di pesanti restrizioni.
- Solo il 13% del territorio di Gerusalemme est è lottizzato ad uso edificabile dei palestinesi, gran parte del quale risulta già costruito, rispetto al 35% che è stato espropriato e destinato ad uso degli insediamenti colonici israeliani.
Dieci sulle tredici comunità nell’Area C visitate dall’OCHA hanno riferito che delle famiglie vengono costrette a trasferirsi a causa delle politiche israeliane che rendono difficile soddisfare i loro bisogni primari. L’impossibilità di costruire è uno dei principali fattori scatenanti di questi trasferimenti forzati.
1. Il trasferimento forzato delle famiglie palestinesi e la distruzione di abitazioni civili e di altre proprietà da parte dell’esercito israeliano in Cisgiordania, ivi inclusa Gerusalemme est, hanno un grave impatto umanitario. Le demolizioni privano le persone delle loro abitazioni, che spesso costituiscono la loro principale fonte di sicurezza fisica ed economica. Esse inoltre creano gravi disagi, riducendo il loro tenore di vita e compromettendo le loro possibilità di accesso ai servizi di base quali l’acqua e l’igiene, l’istruzione e l’assistenza sanitaria.
2. L’impatto sul benessere psicosociale delle famiglie può essere devastante. Spesso le donne sentono di perdere il controllo sulle faccende domestiche e provano un accresciuto senso di insicurezza mentre gli uomini sperimentano maggiori stress ed ansia. Per molti bambini le demolizioni, unitamente all’interruzione della frequenza scolastica ed alle accresciute tensioni familiari, si traducono in depressione, ansia e sintomi di disturbi da stress post-traumatico.
3. Secondo le autorità israeliane, le demolizioni vengono effettuate a causa del fatto che le strutture sono prive dei necessari permessi di edificabilità. In realtà, per i palestinesi è quasi impossibile ottenere i permessi. La zonizzazione e il regime di pianificazione urbanistica applicati da Israele nell’Area C e a Gerusalemme est limita la crescita e lo sviluppo dei palestinesi, mentre assicura un trattamento preferenziale per le colonie israeliane illegali. Questo trattamento include l’approvazione di piani regolatori e la fornitura di infrastrutture essenziali, la partecipazione al processo di pianificazione urbanistica, e l’assegnazione di terreni e risorse idriche.  
4. Nell’Area C, una combinazione di linee di condotta e di pratiche israeliane, tra cui zonizzazioni e pianificazioni urbanistiche restrittive, l’espansione degli insediamenti colonici, le violenze dei coloni, e le restrizioni alla circolazione e agli accessi, hanno avuto come risultato la frammentazione del territorio e il restringimento dello spazio per i palestinesi, compromettendo la loro presenza. Le autorità israeliane hanno inoltre segnalato la loro intenzione di trasferire numerose comunità palestinesi al di fuori di settori strategici dell’Area C, sollevando ulteriori preoccupazioni di carattere umanitario e giuridico.
5. Israele, quale potenza occupante la Cisgiordania, ha l’obbligo di proteggere la popolazione civile palestinese e di amministrare il territorio a vantaggio di essa. Il diritto internazionale vieta lo spostamento forzato o il trasferimento dei civili, al pari della distruzione di proprietà private se non assolutamente necessarie ai fini di operazioni militari. Le demolizioni delle case e di altre strutture ad uso civile dovrebbero cessare immediatamente e i palestinesi dovrebbero ottenere imparziali ed effettive zonizzazioni e pianificazioni urbanistiche per le loro comunità.  

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1 febbraio 2012

Ad Anata va in scena la distruzione delle case e dei diritti umani dei palestinesi

Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…

Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.

Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.

Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per
Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.

Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.

RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012

Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.

Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.

In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.

Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.

Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.

Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?

Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)

Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre

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17 novembre 2011

Denuncia dell’Onu: preoccupante l’aumento della violenza dei coloni israeliani

Su un totale di circa 500.000 coloni israeliani che vivono nei Territori palestinesi occupati, oltre 311.000 (dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano al 31.12.2010) vivono in Cisgiordania, all’interno di 124 colonie autorizzate e di oltre un centinaio di “avamposti” illegali, dove illegali sta per sorti in contrasto con la stessa legge israeliana.

In realtà, infatti, tutti gli insediamenti colonici sono contrari al diritto internazionale, alla luce di quanto previsto dall’art.49.6 della IV Convenzione di Ginevra, secondo cui “La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”. Va aggiunto, peraltro, che lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale qualifica tale trasferimento, diretto o indiretto, come un crimine di guerra.

Eppure la comunità internazionale non solo tollera tranquillamente tale crimine – che porta come conseguenza la deprivazione del popolo palestinese delle sue risorse naturali, la sottrazione delle terre, gli infiniti disagi e ostacoli alla circolazione e allo sviluppo economico derivanti dal sistema dei checkpoint – ma consente peraltro che questa vera e propria teppaglia compia vessazioni e atti di violenza quotidiani ai danni della popolazione indigena, al riparo della totale impunità garantita dalle autorità israeliane.

Solo per restare agli ultimi giorni, la scorsa settimana alcuni coloni israeliani a bordo di un auto hanno
investito e ucciso a Salfit un contadino palestinese 46enne, ‘Abdel Mutaleb Mohammed Hakim, altri a Betlemme hanno aggredito una famiglia palestinese costringendo un bambino di dieci anni al ricovero in ospedale, altri ancora hanno incendiato tre auto a Beit Ummar, il tutto in una sola giornata!

Alla fine di ottobre di quest’anno, lo United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UN-OCHA) ha fatto il punto della situazione con una scheda informativa che segnala il progressivo e preoccupante aumento della violenza dei coloni israeliani.

Almeno nessuno potrà dire di ignorare la questione.

La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania.
OCHA _ Novembre 2011

In breve

- La media settimanale degli attacchi da parte dei coloni aventi come conseguenza l’uccisione o il ferimento di Palestinesi e danni alle proprietà nel 2011 è aumentata del 40% rispetto al 2010 e di oltre il 165% rispetto al 2009.

- Nel 2011, tre Palestinesi sono stati uccisi e 167 sono stati feriti dai coloni israeliani. Inoltre, un Palestinese è stato ucciso, e altri 101 sono stati feriti, dai soldati israeliani nel corso di scontri tra coloni israeliani e Palestinesi.

- Otto coloni israeliani sono stati uccisi e altri 30 sono stati feriti dai Palestinesi nel corso del 2011, in confronto a cinque uccisi e 43 feriti durante lo stesso periodo del 2010.

- nel 2011, circa 10.000 alberi di proprietà di Palestinesi, essenzialmente alberi di ulivo, sono stati danneggiati o distrutti dai coloni israeliani, compromettendo in modo significativo i mezzi di sostentamento di centinaia di famiglie.

- Nel luglio del 2011, una comunità di 127 persone è stata fatta spostare in massa a causa dei ripetuti attacchi dei coloni, con alcune delle famiglie colpite trasferite nelle Aree A e B.

- Oltre il 90% delle denunce monitorate presentate dai Palestinesi alla polizia israeliana negli ultimi anni e riguardanti violenze da parte dei coloni si è chiuso senza alcuna incriminazione.

- L’OCHA ha individuato oltre 80 comunità con una popolazione complessiva di circa 250.000 Palestinesi esposti alla violenza dei coloni, compresi 76.000 che sono ad alto rischio.

1) La violenza da parte dei coloni israeliani compromette la sicurezza fisica e le fonti di sostentamento dei Palestinesi che vivono sotto la prolungata occupazione militare israeliana. Questa violenza include aggressioni fisiche, vessazioni, la presa del controllo e il danneggiamento di proprietà private, l’impedimento dell’accesso ai pascoli e ai terreni agricoli, e gli attacchi al bestiame e ai terreni agricoli, tra gli altri.

2) Negli ultimi anni, molti attacchi sono stati condotti da coloni che vivono negli “avamposti” colonici, piccoli insediamenti satellite costruiti senza autorizzazione ufficiale, molti su terreni di proprietà privata di Palestinesi. A partire dal 2008, i coloni hanno attaccato i Palestinesi e le loro proprietà come mezzo per scoraggiare le autorità israeliane dallo smantellare questi avamposti (la cd. strategia del “price tag”).

3) La causa principale del fenomeno della violenza dei coloni risiede nella decennale politica israeliana di facilitare illegalmente l’insediamento dei propri cittadini all’interno dei territori palestinesi occupati. Questa attività ha portato alla progressiva acquisizione della terra, delle risorse e delle vie di trasporto palestinesi ed ha creato due sistemi separati di diritti e prerogative, favorendo i cittadini israeliani a scapito degli oltre due milioni e mezzo di Palestinesi che risiedono in Cisgiordania. I recenti sforzi delle autorità per legalizzare retroattivamente l’acquisizione da parte dei coloni di terreni di proprietà privata di Palestinesi incoraggia fattivamente una cultura dell’impunità che contribuisce al perdurare della violenza.

4) Le autorità israeliane hanno ripetutamente mancato di far rispettare il principio di legalità in risposta agli atti di violenza contro i Palestinesi da parte dei coloni israeliani. Le forze israeliane spesso non fermano gli attacchi e le indagini successive sono inadeguate o mal condotte. Le misure previste dal sistema corrente, incluso il richiedere ai Palestinesi di presentare denuncia presso le stazioni di polizia situate all’interno degli insediamenti israeliani, lavorano fattivamente contro il principio di legalità, scoraggiando i Palestinesi dal presentare denuncia.

5) Il rischio del trasferimento dei gruppi familiari vulnerabili come conseguenza della violenza dei coloni è una questione che desta crescente preoccupazione. La violenza dei coloni crea pressione e costante disagio su alcune comunità palestinesi, in particolare se combinata con altre difficoltà, quali le restrizioni agli accessi e alla circolazione e la demolizione delle case. Diventare profughi ha gravi conseguenze fisiche, socio-economiche ed emotive sulle famiglie e sulle comunità palestinesi, immediate e a lungo termine.

6) Secondo il diritto umanitario internazionale e la legislazione internazionale sui diritti umani, Israele ha l’obbligo di impedire gli attacchi contro i civili o le loro proprietà e di assicurare che tutti gli episodi di violenza da parte dei coloni siano indagati in maniera approfondita, imparziale e indipendente.

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9 ottobre 2011

I valorosi soldati di Tsahal effettuano un arresto




"Abbiamo pianto, abbiamo pianto tanto. Piangere è l’unica cosa che si riesce a fare davanti a questo nuovo video diffuso nella rete e ripreso da Press TV che rivela l’amara verità che è la vita delle famiglie palestinesi. I soldati dell’esercito israeliano fanno irruzione in una casa, vogliono portar via il padre della famiglia; la moglie e la figlioletta tentano di opporsi disperate ma vengono picchiate brutalmente…

Piangi mondo, piangi…perchè questo è quello a cui tu assisti in silenzio…".

Questo è il commento al video qui sopra postato dalla redazione di Irib, il sito web della radio iraniana in Italia. Non è necessario aggiungere altro.

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27 settembre 2011

Che bel regalo per Rosh Hashanah!

Il comitato regionale per la pianificazione e la costruzione oggi ha approvato un progetto di costruzione di 1.100 alloggi nel quartiere di Gilo a Gerusalemme.

Il progetto comprende la costruzione di piccole unità abitative, di una passerella, di edifici pubblici, di una scuola e di una zona industriale.

“E’ un bel regalo per Rosh Hashanah” (il Capodanno ebraico, che quest’anno cade il 28 settembre, n.d.r.), ha detto Yair Gabay, un membro del comitato distrettuale di Gerusalemme.

“Gerusalemme si sta espandendo verso sud, creando alloggi a prezzi accessibili. Dobbiamo chiarire al mondo che Gerusalemme non è in vendita.

Il progetto edilizio, naturalmente, ha attirato su di sé le aspre critiche delle organizzazioni umanitarie e quelle (ipocrite) di Washington, in quanto Gilo è un quartiere costruito su terra palestinese conquistata durante la Guerra dei sei giorni e, successivamente, annessa alla municipalità di Gerusalemme.

Naturalmente, questo non è che l’ultimo atto, in ordine di tempo, di una massiccia e ininterrotta opera di costruzione illegale di alloggi e di espansione delle colonie su terreni che, secondo diritto, dovrebbero appartenere al futuro stato palestinese.

Recentemente, il governo israeliano ha espropriato un’area di 81 ettari e mezzo, pari all’estensione della Città Vecchia di Gerusalemme, allo scopo di legalizzare l’avamposto illegale (!) di Haresha, la cui superficie complessiva è pari a soli 7 ettari. E lo ha fatto sulla base della propria personale interpretazione di una legge sulla terra del 1858 (!), risalente cioè ai tempi dell’Impero ottomano, in base alla quale il governo israeliano può dichiarare terreni di proprietà privata di Palestinesi, che non siano stati coltivati solo per pochi anni, come “terra di stato” e darla in uso ai coloni.

E ciò benché più volte i capi di governo di Israele, da ultimo lo stesso Netanyahu, avessero solennemente dichiarato: “non abbiamo alcuna intenzione di costruire nuove colonie o di espropriare ulteriori terreni per le colonie esistenti”. Come no…

Un rapporto di Peace Now dei primi di settembre ha mostrato come, nelle colonie, l’attività costruttiva per persona è pari quasi al doppio di quella riscontrata in Israele (rispettivamente, un’unità abitativa ogni 123 residenti nelle colonie, 1 ogni 235 residenti in Israele.

Secondo l’organizzazione, nel periodo ottobre 2010 – luglio 2011, 2.598 sono stati gli alloggi di cui è iniziata la costruzione, 2.149 le nuove costruzioni completate, almeno 3.700 quelle in corso di completamento. Degno di nota il fatto che un terzo delle costruzioni appena iniziate è situato a est del muro di separazione, in insediamenti isolati; un altro terzo si trova, invece, a est della porzione di muro completata, ma ad ovest del tracciato ancora da costruire, nelle cd. “dita” che si inoltrano all’interno della Cisgiordania.

Ora, non ci può essere persona in buona fede che non veda come il pressante invito ai Palestinesi di tornare al tavolo dei negoziati (ma da quanti anni si negozia inutilmente?) nasconda l’ennesima dilazione e l’ennesimo, volgare, trucco con cui Israele tenta di guadagnare tempo per poter continuare ad espandere le colonie e a consolidare la propria presa sulle terre del popolo palestinese.

L’Ufficio del Primo ministro palestinese, nel condannare l’approvazione del progetto edilizio di Gilo, ha dichiarato: “Netanyahu ha detto che non c’è spazio per passi unilaterali (ovvero la richiesta di ammissione della Palestina come stato membro dell’Onu, n.d.r.) – ma non c’è passo unilaterale più grande che ordinare di costruire in terra palestinese. Egli ha raccontato all’Onu di essere lì per dire la verità, ma questa decisione dice la verità al posto suo”

Ma gli amici di Israele continuano a far finta di niente…

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13 settembre 2011

Il terrorismo ebraico aumenta il "price tag": minacce di morte a un'attivista di Peace Now

Come pochissimi sanno (visto che molti giornali e tv mistificano la realtà parlando ancora, ad esempio, di “territori contesi”), alla luce del diritto internazionale umanitario le colonie ebraiche in Cisgiordania sono illegali e andrebbero smantellate. Ma esistono poi dei piccoli insediamenti abitativi, i cosiddetti avamposti, che sono illegali persino per la stessa legge israeliana, eppure continuano ad esistere e a prosperare.

Qualche tempo addietro, con una decisione davvero inusuale, la Suprema Corte israeliana ha ordinato lo smantellamento di uno di questi avamporti, quello di Migron, entro il marzo del prossimo anno. L’insediamento vanta una sessantina di strutture abitative e circa 250 abitanti.

Per saggiare il terreno le autorità israeliane, qualche giorno fa, hanno provveduto a demolire tre case dell’avamposto, scatenando l’ira dei coloni e la cosiddetta rappresaglia del “price tag”, che consiste nel “far pagare il prezzo” delle demolizioni alle popolazioni arabe native. Così auto sono state date alle fiamme, al pari di una moschea, alberi e vigneti sono stati distrutti o danneggiati, moschee sono state imbrattate con scritte offensive nei confronti di Maometto e della religione musulmana.

Ma, stavolta, l’attività di “price tag” dei coloni ha subito una pericolosa escalation, segnalata dalla pianificazione degli attacchi e dalla creazione di un database dei possibili obiettivi da colpire, con due recenti eventi da mettere in particolare evidenza.

Il primo riguarda l’attacco vandalico ad una
base militare dell’esercito in Cisgiordania. E, come è facile intuire, è praticamente impossibile penetrare all’interno di una base dell’Idf senza avere l’appoggio o addirittura la fattiva collaborazione di uno o più militari.

Dal che traspare di tutta evidenza come l’esercito israeliano, o almeno alcuni suoi elementi, sia vicino e condivida le ragioni dei coloni; non è un caso che, durante gli scontri con i palestinesi, esso tenda naturalmente a schierarsi con i primi, assistendo impassibile ai danneggiamenti e alle aggressioni ai danni dei palestinesi se non addirittura schierandosi apertamente a fianco dei coloni. E cosa accadrebbe se, per pura ipotesi, si dovesse procedere ad uno smantellamento su larga scala delle colonie nella West Bank?

L’altro, preoccupante, avvenimento è stata la scoperta di alcuni graffiti di minaccia sulla facciata dell’abitazione di un’attivista di Peace Now, uno dei quali addirittura ne invocava l’assassinio. E’ appena il caso di ricordare che Peace Now è una organizzazione che si occupa del monitoraggio delle attività e dell’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e, proprio a seguito di un esposto dell’organizzazione, la Corte Suprema aveva deciso lo smantellamento dell’avamposto di Migron.

Del resto, avevamo già segnalato il sensibile incremento degli attacchi dei coloni israeliani ai danni dei palestinesi e delle loro proprietà, che fa segnare fino ad ora un +20% rispetto allo stesso periodo del 2010.

Il guaio è che, come ci ricorda
Gideon Levy, i coloni non sono i soli piromani che stanno incendiando il medio oriente, essendo in buona compagnia di una banda di “politici irresponsabili” e di “pericolosi piromani” che conducono Israele verso il vicolo cieco del totale isolamento.

SHIN BET: GLI ESTREMISTI DI DESTRA ISRAELIANI SI STANNO ORGANIZZANDO IN GRUPPI TERRORISTICI.
Un’attivista di Peace Now bersaglio di graffiti di minaccia nell’ultimo attacco “price tag” da parte dei coloni.
di Chaim Levinson – 13.9.2011


Secondo nuove analisi del servizio segreto Shin Bet, gli attivisti ebrei di estrema destra in Cisgiordania sono passati dagli atti spontanei contro gli arabi – a seguito della demolizione di abitazioni ebraiche da parte delle autorità israeliane o di attacchi terroristici contro ebrei – alla pianificazione organizzata che include l’uso di un database di potenziali bersagli.

I piccoli gruppi di estremisti ebrei, difficili da infiltrare, sorvegliano i villaggi arabi e raccolgono informazioni sui punti di accesso e sulle via di fuga nei villaggi. Essi raccolgono informazioni anche sugli attivisti di sinistra israeliani.

Un'attivista di sinistra lunedì è stato apparentemente l’ultima vittima di un “price tag”, quando graffiti di minaccia contro una leader di Peace Now sono stati scoperti sulla facciata del suo appartamento a Gerusalemme e in una vicina tromba delle scale. L’incidente segue l’attacco vandalico della scorsa settimana contro una base dell’esercito israeliano in Cisgiordania, in apparente vendetta per la demolizione di costruzioni ebraiche abusive in alcuni avamposti colonici.

Fonti dello Shin Bet osservano che gli attacchi pianificati contro arabi e attivisti di sinistra israeliani costituiscono a tutti gli effetti attività terroristica.

L’attivista di Peace Now, che ha chiesto che non venga rivelata la sua identità, ha raccontato che i suoi vicini l’hanno svegliata lunedì mattina per informarla dei graffiti. “Peace Now, la fine è vicina” recitava uno slogan. “Migron per sempre”, recitava un altro, con riferimento all’avamposto non autorizzato della Cisgiordania dove la scorsa settimana è stata effettuata la demolizione delle case. Il contenuto più minaccioso, tuttavia, fa uno specifico appello per l’assassinio della attivista di Peace Now.

“Sappiamo che c’è qualcuno che cerca di spaventarci”, ha detto ieri l’attivista, aggiungendo che alti ufficiali dell’Idf hanno fatto esperienza di incidenti simili. La polizia sta affrontando la questione, ha detto, esprimendo fiducia che i responsabili verranno trovati. La polizia di Gerusalemme non ha ancora effettuato alcun arresto relativo al caso.
In risposta all’attacco dei graffiti, l’organizzazione Peace Now ha dichiarato: “Gli incidenti rendono necessario adottare misure forti contro contro ciò che appare un nuovo movimento clandestino ebraico”.

L’attivista di Peace Now il cui appartamento è stato vandalizzato è una ben nota personalità della sinistra strettamente identificata con la sua organizzazione e coinvolta nel monitoraggio da parte del gruppo delle attività di insediamento ebraico in Cisgiordania. Ha chiesto che il suo nome non venga pubblicizzato in connessione con l’incidente per paura di essere minacciata direttamente. Ciononostante, ieri ha lavorato come al solito, visitando alcuni villaggi palestinesi nella zona di Ramallah per scattare foto della cosiddetta attività di “far pagare il prezzo”.

Domenica sera, alcuni coloni di Migron le cui case erano state demolite la scorsa settimana da parte dell’Idf e della polizia hanno tenuto una manifestazione di fronte lla residenza del Primo Ministro. Altri che si sono uniti alla protesta recavano con sé pezzi delle case demolite.

“Un atto spregevole è stato compiuto in Israele la scorsa settimana”, ha affermato Itai Harel, uno dei fondatori di Migron. “Una forza numerosa è venuta nel cuore della notte e ha lasciato 12 bambini senza un tetto sopra la testa. I giochi sono finiti a Migron”, ha aggiunto. Diverse ore dopo la manifestazione, si è verificato l’incidente dei graffiti nell’appartamento, che si trova nei pressi della residenza del Primo Ministro.

A partire dalla demolizione di tre case a Migron il 5 settembre, vi è stato anche un notevole aumento degli atti di violenza contro moschee e proprietà palestinesi. Nella notte in cui le tre case sono state rase al suolo, si è verificato un tentativo di incendio doloso in una moschea nel villaggio cisgiordano di Kusra, vicino Nablus.

Mercoledì scorso, alcune jeep e altro equipaggiamento militare dell’esercito israeliano sono stati vandalizzati. Giovedì, nel villaggio di Qabalan in Cisgiordania alcune auto sono state incendiate e nel villaggio di Yatma dei graffiti sono stati dipinti con lo spray sulla facciata di una moschea. Il giorno seguente, la facciata di una moschea è stata imbrattata con dei graffiti nella città palestinese di Bir Zeit, e ieri delle viti appartenenti a palestinesi di Halhul sono state danneggiate non lontano dall’insediamento di Karmel Tsur. Delle auto sono state inoltre incendiate nei villaggi arabi vicino a Migron.

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11 settembre 2011

Coloni israeliani incendiano un'abitazione nel villaggio palestinese di Susiya

Durante la notte tra l'8 e il 9 settembre nel villaggio palestinese di Susiya i coloni del vicino insediamento di Suseya hanno dato fuoco a un'abitazione mentre due palestinesi dormivano al suo interno.

Intorno all'una di notte i coloni hanno divelto un copertone inserito in un muretto nelle vicinanze e dopo avergli dato fuoco lo hanno lanciato contro il muro esterno della casa; la tenda di plastica che funge da tetto ha preso immediatamente fuoco. All'interno della casa si trovava una bombola del gas che è stata tempestivamente trasportata fuori dal proprietario svegliato dal fumo; una volta uscito l'uomo ha notato alcune luci che si dirigevano verso l'insediamento.

All'arrivo della polizia e dell'esercito israeliani, chiamati dagli abitanti del villaggio, le luci erano ancora visibili ma ne' i poliziotti ne' i militari hanno inseguito o fermato le persone che le portavano.

L'incendio è stato spento con l'acqua di una cisterna di proprietà degli abitanti del villaggio che fortunatamente si trovava vicino alla casa. Il propretario della casa è stato trasportato in ospedale per problemi respiratori causati dal fumo.

Gli abitanti del villaggio hanno raccontato che i militari israeliani hanno impedito ai mezzi di spegnimento palestinesi, provenienti dalla vicina città di Yatta, di avvicinarsi al luogo dell'incendio, minacciando di aprire il fuoco su di loro. “Loro (gli israeliani, ndr) non danno aiuto ai palestinesi” dice l'uomo che si trovava nella casa “In ogni caso qui c'erano degli esseri umani, qualcuno doveva fermare il fuoco, qualcuno doveva aiutarci. Ma questa è l'occupazione.”

Situato nelle colline a sud di Hebron, il villaggio di Susiya si trova esattamente tra il sito archeologico dell'antica Suseya e l'avamposto dell'insediamento israeliano di Suseya. Questo è l'ennesimo atto di violenza perpetrato dai coloni israeliani dell'area ai danni del villaggio. Il 28 dicembre 2010 è avvenuto un incidente simile: un'altra tenda usata come abitazione è stata incendiata durante la notte. L'obiettivo dei coloni è quello scacciare i palestinesi dalle loro terre per permettere l'espansione dell' insediamento.

Questo ennesimo “incidente” mostra l’escalation della violenza e la pericolosità dei coloni israeliani, che recentemente hanno dato fuoco ad una moschea nel villaggio di Qusra: al 6 settembre, gli incidenti ad opera dei coloni che hanno determinato il ferimento di palestinesi o il danneggiamento delle loro proprietà sono stati 253, a fronte dei 207 dello stesso periodo del 2010; i palestinesi feriti dai coloni israeliani sono stati ben 123 (71 nel 2010).

Come dimostra anche l’attentato di Susiya, il fenomeno della violenza dei coloni è favorito dalla totale assenza di misure di prevenzione da parte delle autorità israeliane, e dal totale disinteresse dell’esercito israeliano nel proteggere i palestinesi e nell’arrestare i colpevoli di questi atti vili e criminali.

Al contrario, spesso i soldati israeliani prendono le difese dei coloni quando costoro compiono le loro razzie e si scontrano con i residenti della West Bank, come è accaduto ancora a Qusra il 26 agosto, quando un 23enne palestinese è stato ferito dal fuoco delle truppe di Tsahal mentre cercava di impedire che alcuni coloni danneggiassero gli alberi del villaggio.

E’ appena il caso di ricordare che secondo la IV Convenzione di Ginevra, la II Convenzione dell'Aja, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni ONU, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la legge israeliana.

(fonte: sito web Operazione Colomba e OCHA)







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29 agosto 2011

Palestinese di Nablus ferisce otto israeliani a Tel Aviv

Nelle prime ore di oggi otto israeliani sono rimasti feriti a Tel Aviv, quando un palestinese proveniente da Nablus ha investito dei poliziotti con un taxi rubato ed è uscito poi dal veicolo per accoltellare altre persone.

L'attacco è avvenuto poco dopo l'una e mezza della mattina all'esterno del club Haoman 17 all'incrocio delle vie Salameh e Abarbanel, nella parte sud di Tel Aviv. Al momento dell'attacco, oltre 2.000 giovani affollavano il locale per una festa, e dunque la polizia presidiava in forze la zona.

Degli otto feriti, uno è in condizioni critiche, due hanno riportato ferite definite "moderate"; leggermente ferito anche l'attentatore nelle concitate fasi dell'arresto.

Secondo quanto appurato dalle indagini, il sospettato è salito su un taxi a Yaffo e ha chiesto di essere portato alla vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv; all'arrivo, ha ferito il tassista ad una mano e si è impadronito del veicolo, dirigendosi verso il locale.

Giunto in zona, si è lanciato con l'auto contro uno dei posti di blocchi istituiti dalla polizia come parte della routine di sicurezza per vigilare sull'evento organizzato all'Haoman 17; sulle prime, i poliziotti hanno pensato ad un ubriaco al volante, e sono rimasti inizialmente colti di sorpresa quando l'uomo - un giovane sulla ventina - ha iniziato a mulinare il coltello ferendo alcuni di loro.

Secondo la polizia, le indagini - tutt'ora in corso - avrebbero appurato che l'attacco era stato progettato in anticipo.

L'attentato di Tel Aviv arriva dopo un fine settimana che ha visto l'esercito israeliano reprimere varie manifestazioni pacifiche di protesta ad Al Ma'sara, Kafr Qaddoum, Nil'in e Bil'in, con decine di palestinesi rimasti feriti, e a breve distanza da una serie di attacchi aerei contro la Striscia di Gaza, che tra il 18 e il 24 agosto hanno provocato 17 morti e 14 feriti.

(Fonte: Ha'aretz, Imemc e agenzie)

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15 luglio 2011

Su YouTube, le eccezionali immagini di un colono-zombie!




Su YouTube da qualche giorno circola il raro filmato di uno dei cosiddetti "coloni-zombie", creature note per il loro vagare per le strade della Cisgiordania alla ricerca di Palestinesi o di attivisti per la pace da attaccare.

Fino ad oggi, i "coloni-zombie" erano considerati una sorta di leggenda urbana, figure create dalla fantasia popolare, al pari del mostro di Loch Ness o del Big Foot. Secondo molti testimoni, essi sarebbero dotati di un potente urlo stridulo ed avrebbero la tendenza a stancarsi facilmente, probabilmente a causa di una dieta sbagliata e della mancanza di esercizio fisico.

E in realtà la creatura del video qui sopra, filmata mentre attacca un attivista allo svincolo di Susiya, in Cisgiordania, sembra corrispondere perfettamente alla descrizione.

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4 agosto 2010

Per favore, non portate via il mio papà!

Distretto di Hebron, Cisgiordania. Khaled Jabari ha solo 5 anni, ma gli tocca di vivere un momento angosciante e drammatico, che probabilmente lo segnerà per la vita, quando i soldati israeliani arrestano il suo papà Fadel, colpevole di aver rubato dell'acqua.

A piedi nudi, in preda a una crisi di nervi, chiama a gran voce suo padre e cerca di aggrapparsi a lui per non farselo portare via, poi uno dei soldati lo allontana e Fadel viene fatto salire a bordo di una jeep che si allontana rapidamente.

Quale migliore scuola dell'odio esiste al mondo di quella gestita dalla canaglia di Tsahal?

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23 luglio 2010

Le guerre contro il popolo palestinese.

Un interessante articolo scritto il 14 luglio da Abdul Sattar Kassem per il sito web di al-Jazeera, proposto nella traduzione offerta da Medarabnews.

Solitamente si ritiene che il popolo palestinese debba far fronte a un’unica guerra, legata all’occupazione della Cisgiordania ed all’assedio della Striscia di Gaza – se non legata solamente a quest’ultimo, considerato che la Cisgiordania è oggetto di negoziati e che al suo interno esiste una forma di autogoverno palestinese sotto la bandiera israeliana.

L’informazione gioca un ruolo essenziale nel produrre questa convinzione, poiché si concentra sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza ed ignora le altre componenti del popolo palestinese in tutti gli altri luoghi in cui esse si trovano. I palestinesi stessi – o almeno alcuni di loro – giocano un ruolo importante a questo riguardo, poiché hanno accettato di circoscrivere il dibattito internazionale e mediatico relativo alla questione palestinese al problema dell’occupazione del 1967, ed hanno cominciato a ripetere l’espressione “territori palestinesi” per riferirsi alla Cisgiordania ed alla Striscia di Gaza, o a parte di esse, dimenticando in questo modo il resto della Palestina mandataria e le altre componenti del popolo palestinese, ad eccezione delle chiacchiere politiche che a volte sorgono riguardo al diritto al ritorno.

Tuttavia il popolo palestinese non è vittima di un’unica guerra, ma di numerose guerre in tutti i luoghi in cui ha una presenza consistente. Tali guerre sono finalizzate ad un suo indebolimento complessivo. Coloro che si accaniscono contro il popolo palestinese vogliono fiaccarlo nel suo insieme, e non solo parzialmente, affinché non rimanga più nessuno a difendere la questione palestinese e ad ostinarsi a vedere riconosciuti i diritti palestinesi. Essi puntano a dissolvere la questione palestinese (e non a risolverla) dissolvendo il popolo palestinese in un insieme di individui isolati che cercano semplicemente di perseguire i propri interessi e di garantirsi qualcosa per vivere. Ciò è possibile solo se la guerra viene combattuta su più fronti e a diversi livelli, a seconda dei luoghi dove si concentra la presenza palestinese. Costoro non prevedono di fiaccare una parte del popolo palestinese per poi passare alla parte successiva, ma puntano a indebolirlo nel suo insieme in un colpo solo, affinché nessuna delle sue componenti possa rappresentare un fattore in grado di alimentare il resto. Elenchiamo di seguito le forme principali di questa guerra molteplice.

La guerra degli stipendi e delle cariche

Questa guerra viene combattuta in Cisgiordania per far concentrare la gente sul proprio impiego, il cui stipendio dipende dai paesi donatori ed il cui pagamento dipende in fin dei conti da Israele e dagli Stati Uniti. Si tratta di una guerra di adescamento per trasformare la Palestina in un luogo di apparente benessere e prosperità, trasformando i difensori della questione palestinese in guardie del regno di Israele. Questa guerra si distingue per le seguenti caratteristiche:

1) Aumentare il numero di funzionari dell’Autorità Palestinese, perché ciò significa che un numero maggiore di famiglie palestinesi finisce per dipendere economicamente dai salari erogati dall’ANP, frenando in questo modo il desiderio palestinese di resistere all’occupazione. L’impiegato palestinese e coloro che dipendono da lui sono costretti a pensarci due volte prima di esprimere o adottare una posizione che non piace a Israele ed a coloro che le sono fedeli, poiché ciò comporta il rischio di essere licenziati. I paesi donatori sono chiari a questo proposito, così come lo sono Israele e gli Stati Uniti. Essi non sono disposti a pagare i salari a coloro che potrebbero non condividere gli accordi firmati dall’ANP con Israele.

2) Colpire la produzione palestinese affinché i palestinesi non si rafforzino facendo affidamento economicamente su se stessi, neanche in misura parziale. A partire dagli accordi di Oslo, molti settori della produzione palestinese sono stati sabotati, a cominciare dall’agricoltura. L’agricoltura palestinese, che è strettamente legata a molti valori nazionali palestinesi, è stata colpita duramente in modo da costringere migliaia di palestinesi a cercare altri modi per far fronte al crescente costo della vita, in primo luogo entrando a far parte dei servizi di sicurezza palestinesi, che operano in stretto coordinamento con Israele. Sono state boicottate le sartorie a Tulkarem, le fabbriche e i laboratori artigiani di Nablus e Hebron, ed in particolare le fabbriche di scarpe, che producevano i migliori prodotti del mondo. Quest’anno ho cercato le coltivazioni di angurie a Marj Ibn Amir, ma non ne ho trovate perché le angurie israeliane riempiono i mercati. Ho cercato le sartorie, ma ne ho trovate pochissime perché le importazioni hanno preso il posto della produzione locale. Questa tragedia ha anche danneggiato artigiani come i fabbri e i falegnami.

3) Corrompere i funzionari di alto livello dell’Autorità Palestinese offrendo loro benessere e comodità, come automobili di lusso, facilitazioni di viaggio e di spostamento, garantendo loro le spese quotidiane come la benzina, le carte prepagate per i cellulari, le carte da VIP. Molti uomini dell’ANP, ed in particolare quelli dei servizi di sicurezza, sono sommersi da una serie di facilitazioni e comodità affinché sorveglino il resto del popolo palestinese nell’ambito degli accordi presi. Per alcuni la Palestina è diventata un paradiso personale.

4) Far perdere alla gente la speranza in un futuro di indipendenza, attraverso il dispiegamento dei servizi di sicurezza palestinesi e l’applicazione dei loro controlli continui, e punendo chi esprime il proprio dissenso nei confronti di Israele o dell’ANP. La faccenda giunge al punto di far perdere il lavoro a chi è sospettato di opporsi all’ANP o di appartenere a fazioni dell’opposizione.

Attaccare la coscienza nazionale palestinese distraendo la popolazione con questioni secondarie come feste e intrattenimenti, feste dello shopping, manifestazioni da guinness dei primati, e peggiorando il livello dell’istruzione nelle scuole e nelle università. E’ in atto un processo di disintegrazione della coscienza nazionale palestinese attraverso il tentativo di trasformare la gente in semplici consumatori preoccupati unicamente del soddisfacimento dei propri istinti.

La guerra di israelizzazione

Questa guerra è stata scatenata da Israele contro i palestinesi all’interno delle terre occupate nel 1948, con l’obiettivo di trasformarli in israeliani al servizio dei sionisti che abusano di loro, confiscano le loro terre, e li privano dei loro diritti umani e nazionali. L’espressione “arabo israeliano” è una delle principali espressioni attualmente utilizzate a livello popolare e nei mezzi di informazione che incarna la questione della israelizzazione. Tale espressione nega l’autenticità del popolo palestinese e svende la sua esistenza a vantaggio di quella di Israele. Bisogna anche osservare che gli arabi non riescono ad ottenere seggi nella Knesset in misura proporzionata ai loro voti reali perché molti di essi votano per i partiti sionisti.

Malgrado il successo parziale di Israele nel processo di israelizzazione, la fermezza resta l’atteggiamento predominante presso molti palestinesi in Israele, che sembrano in grado di preservare l’identità araba ed islamica palestinese. Non possiamo che lodare le battaglie mediatiche, politiche e religiose nelle quali essi si impegnano in difesa della loro identità, dei loro diritti e dei luoghi santi.

La guerra di assedio

La Striscia di Gaza ha subito la stessa guerra che ha colpito la Cisgiordania fino al giugno 2007 (data in cui vi è stata la secessione di fatto tra la Cisgiordania controllata dall’ANP e la Striscia di Gaza controllata da Hamas (N.d.T.) ). Contro la Striscia è stato imposto il più duro ed esteso assedio ai danni di un popolo che la storia abbia conosciuto. Si sono riunite le nazioni dall’Oriente e dall’Occidente, dall’Europa al mondo arabo, per assediare Gaza economicamente, finanziariamente, e militarmente, da terra, dal mare e dal cielo, al fine di riportarla sotto il controllo dell’ANP; e questo assedio è ancora in atto, con un’ampia partecipazione a livello mondiale. L’assedio ebbe inizio con alcune interruzioni nell’approvvigionamento di generi alimentari e nella fornitura di energia elettrica, insieme ad alcuni attacchi aerei israeliani, senza tuttavia riuscire a piegare la volontà della gente. Poi si trasformò in un assedio pienamente applicato, ma il risultato fu che la gente protestò al confine palestinese-egiziano. Poi Israele scatenò una guerra contro Gaza che si protrasse per 23 giorni. Malgrado i massacri e la distruzione, tale guerra si rivelò anch’essa un fallimento.

La fermezza di Gaza ha portato a due conseguenze: l’aguzzarsi dell’inventiva della gente della Striscia per organizzare la propria vita quotidiana , e l’aumento della solidarietà popolare ed ufficiale a livello internazionale nei confronti degli abitanti di Gaza. Gaza è riuscita a contrabbandare generi alimentari, denaro ed armi. Le campagne di solidarietà hanno portato alla mobilitazione dei mezzi di informazione internazionali per spiegare la situazione nella Striscia. Gaza ha certamente sofferto moltissimo a causa dell’assedio, ma è riuscita in buona misura ad assediare l’assediante. La gente di Gaza ha mantenuto un atteggiamento di fermezza, rifiutando tutti gli adescamenti ed i tentativi di dissolvere la questione palestinese.

La guerra di persecuzione e di umiliazione

Questa guerra è stata scatenata dai regimi arabi contro il popolo palestinese, essendo i palestinesi considerati dei colpevoli che devono dimostrare la propria innocenza. Essi sono accusati di cercare dei mezzi che li aiutino a liberare la propria patria ed a ristabilire i propri diritti; ma siccome ciò significa organizzare azioni di resistenza contro Israele, i regimi arabi si considerano responsabili agli occhi di Israele e dell’America. I servizi di sicurezza arabi si impegnano molto a perseguitare i palestinesi, a pedinarli, a gettarli in prigione, ed a umiliarli, affinché accettino le “soluzioni” che vengono loro prospettate. I palestinesi non possono adoperare tranquillamente gli aeroporti arabi perché vengono continuamente ostacolati e fermati dai servizi segreti, che rivolgono loro accuse sebbene siano consapevoli che essi non costituiscono una minaccia per la sicurezza dei paesi arabi. Dopo gli accordi di Oslo, i palestinesi stessi si sono aggiunti alla lista dei regimi arabi che perseguitano i palestinesi.

La maggior parte dei regimi arabi sono alleati con gli Stati Uniti, e sono alleati direttamente o indirettamente con Israele; essi temono il pesante bastone di Israele qualora dovessero lasciare che i palestinesi cerchino il modo di liberare la loro terra. Dal canto suo, Israele ha un ruolo importante nel preservare alcuni regimi, rivelando tentativi di golpe e di ribellione, o utilizzando le forze di sicurezza israeliane per contrastare i movimenti di ribellione arabi.

La guerra dell’emigrazione

Le restrizioni di cui soffrono i palestinesi in Palestina e nei paesi arabi li spingono a pensare di lasciare il mondo arabo, mentre il nemico israeliano pensa a come facilitare questa emigrazione. Vi sono paesi come la Norvegia, la Svezia, il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti che aprono le loro porte all’immigrazione dei palestinesi e facilitano loro le pratiche procedurali. Una volta erano richieste buone competenze professionali per accettare la domanda di immigrazione, ma ora viene accolta anche la manodopera non qualificata, naturalmente dopo un “esame di sicurezza” per assicurarsi che la persona in questione intende abbandonare la questione palestinese, e non solo la patria palestinese.

Guerre fallite

Queste guerre per la maggior parte non sono nuove; sono vecchie quanto la questione palestinese. Tuttavia, gran parte di esse non sono riuscite a realizzare il loro obiettivo, ovvero quello di disperdere il popolo palestinese e di dissolvere i suoi diritti. Da anni gli Stati Uniti si sono impegnati a reinsediare i palestinesi, aiutati in ciò dalle Nazioni Unite, nella convinzione che i palestinesi avrebbero dimenticato la loro patria dopo trent’anni dalla loro emigrazione. I regimi arabi, dal canto loro, non hanno mai tollerato i palestinesi,e hanno fatto di tutto per mettere loro la museruola. In alcuni casi vi sono riusciti, in altri no.

I popoli arabi non sono più del tutto inconsapevoli come in passato. Essi hanno acquisito sufficiente consapevolezza per dare il loro sostegno ai palestinesi o per giustificare le loro azioni di resistenza contro Israele. Le forze islamiche e nazionaliste hanno ora una presenza che aiuta i palestinesi a superare alcune delle loro crisi. Ad esempio, in Libano sono emerse delle forze cristiane e musulmane che credono nell’identità araba del Libano e della questione palestinese. Le forze islamiche e nazionaliste in Giordania stanno acquisendo forza e sono in grado di sfidare alcune politiche governative.

Sembra che il problema maggiore che devono fronteggiare i palestinesi in tutte queste guerre si trovi in Cisgiordania, in cui si assiste ad un considerevole successo del processo di addomesticamento dei palestinesi. La Cisgiordania attraversa una miserevole situazione dal punto di vista nazionale, al punto che persone che erano state accusate di collaborare con Israele occupano attualmente posti di primo piano, coordinandosi con Israele in vari settori. Non credo che questa situazione si protrarrà in eterno, ma certamente la sua fine non è vicina.

La guerra di reazione

I palestinesi, in tutti i luoghi in cui risiedono, possiedono oggi una profonda consapevolezza della loro questione e della situazione in cui si trovano. Essi sono al corrente dell’andamento della situazione internazionale, delle posizioni dei paesi arabi, e dei piani sionisti. Essi si stanno armando di una crescente consapevolezza, di una volontà sempre più salda e pronta a lanciare campagne mediatiche, culturali e sociali in risposta agli attacchi che subiscono, al fine di mantenere il popolo unito all’interno dell’ambiente arabo ed islamico.

E’ vero che vi sono palestinesi che ancora ripongono le loro speranze in alcuni leader e in alcune politiche rivelatesi fallimentari, tuttavia l’unità del popolo palestinese a livello regionale e mondiale è attualmente buona ed in via di rafforzamento, e può contare su mezzi di informazione arabi come al-Jazeera, al-Manar, ed al-Rai. Se la spaccatura appare evidente fra la Cisgiordania e Gaza è perché il popolo palestinese non può unirsi sulla base del riconoscimento di Israele e del coordinamento di sicurezza con Tel Aviv. Ma alla fine le cose non potranno che aggiustarsi, e la Cisgiordania tornerà ad essere una parte attiva nella resistenza e nel cammino verso la liberazione.

Abdul Sattar Kassem è un politologo palestinese; insegna Scienze Politiche all’Università an-Najah di Nablus

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17 luglio 2010

In Cisgiordania c'è il denaro, ma non il futuro.


Mentre nella Striscia di Gaza si continua a soffrire per l’assedio israeliano, seppur mitigato in misura minima, nella West Bank le cose sembrano andare diversamente, sia dal punto di vista economico sia da quello sociale.

Ma in realtà, a parte qualche albergo e qualche nuovo locale, nulla è cambiato, e gli oltre 300.000 coloni israeliani continuano ad occupare, come abbiamo visto, il 42% della Cisgiordania, in attesa di iniziare un nuovo round di espansione delle colonie non appena scadrà il termine della moratoria propagandistica stabilita da Israele (non valida a Gerusalemme est).

Il vero è che la pace “economica” – la crescita e lo sviluppo che dovrebbero servire a raggiungere la pace e ad assicurare la nascita di uno stato palestinese indipendente – non è altro che un’illusione, se non un trucco menzognero per assicurare il perpetuarsi dell’occupazione israeliana.

Senza contare che investimenti e sviluppo restano concentrati soprattutto a Ramallah e in poche altre città, mentre in svariate zone che ricadono sotto il totale controllo israeliano (la cd. Area C) la situazione delle popolazioni indigene è realmente drammatica.

Soprattutto, molti cominciano a chiedersi se l’Anp e le sue forze di sicurezza non stiano in realtà lavorando per Israele, proteggendo lo stato ebraico dalla resistenza armata palestinese piuttosto che il viceversa, come proverebbe, da ultimo, la recente visita del capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, a Jenin e a Ramallah.

E’ questo l’argomento dell’articolo di Carol Malouf scritto l’1 luglio per Aljazeera.net e qui proposto nella traduzione di Medarabnews.


Un cartello con la scritta ‘prossima apertura’ è appeso in cima a un edificio da poco terminato nel centro di Ramallah. Appartiene ad una catena di alberghi internazionali, di proprietà della Kingdom Holding del principe saudita Walid bin Talal.

I caffè di Ramallah sono pieni di persone che fumano il narghilè e urlando davanti alle televisioni. Come milioni di tifosi in tutto il mondo stanno guardando i Mondiali di calcio e incitano le loro squadre preferite.

Nuovi locali alla moda si riempiono di giovani ragazze palestinesi che spettegolano bevendo tazze di caffèlatte. Hanno tutte acconciature, scarpe e abiti all’ultima moda.

Non si può evitare di ascoltarle parlare nel moderno linguaggio ibrido del Medio Oriente: inglese e arabo mischiati in un’unica frase che non ha il benché minimo senso alle orecchie di uno straniero, ma è perfettamente comprensibile a chi è stato in locali dello stesso tipo ad Amman, Beirut e il Cairo.

La Cisgiordania sembra essere economicamente e socialmente prospera. Almeno all’apparenza.

Progetti di sviluppo

Guidando attraverso la Cisgiordania, sono due le cose chiare ed evidenti: villaggi palestinesi con case appena costruite grazie al denaro inviato dai palestinesi espatriati, ed enormi blocchi di insediamenti israeliani illegali edificati in cima alle colline, affacciati su splendidi uliveti e antiche vigne.

Oltre a queste gigantesche colonie, ci sono aree con roulotte parcheggiate disseminate ovunque, con una massiccia protezione militare israeliana. Questi agglomerati di roulotte sono noti anche come “avamposti” – in altre parole, ben presto saranno trasformati in grandi insediamenti israeliani illegali sulle colline.

L’ulteriore appropriazione israeliana di territori della Cisgiordania lascia interdetti: come potrà mai esserci uno stato palestinese indipendente nella sua forma attuale? Al momento il territorio è dissezionato in piccole porzioni per via delle strade accessibili solo ai coloni israeliani e dei posti di blocco di cui è disseminato.

Oltre al denaro degli espatriati e ai blocchi di insediamenti, una nuova ondata di sviluppo è stata oggetto di discussione tra i palestinesi. Ma questo sviluppo è concentrato prevalentemente a Ramallah.

Muoversi in Cisgiordania può essere diventato più semplice – noi non abbiamo incontrato nessun posto di blocco israeliano sulla via per Jericho e Nablus, ma non abbiamo visto nemmeno segnali di sviluppo una volta usciti da Ramallah.

Sviluppo, investimenti e crescita sono diventati sinonimi della dottrina conosciuta come “Fayyadismo”, in riferimento a Salam Fayyad, il primo ministro palestinese. Per dirla in parole povere, Fayyad crede che la crescita economia sia la base per la nascita di uno stato palestinese indipendente.

La sua visione ha ottenuto consensi nei forum internazionali, in particolare negli Stati Uniti, nell’Unione Europea, e da parte dell’inviato del Quartetto per il Medio Oriente, Tony Blair. Ma cosa succederà quando Fayyad non sarà più il primo ministro?

Dopotutto, le economie costruite sulle singole persone non sopravvivono a lungo.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno aiutando la Cisgiordania a crescere, così che essa sia un esempio di prosperità e sviluppo per gli abitanti di Gaza, nella speranza che questi ultimi un giorno vorranno raggiungere le stesse condizioni e alla fine rovesceranno Hamas.

Ma un giornalista straniero che è appena tornato da Gaza mi ha detto: “Oggigiorno c’è più stabilità e sicurezza a Gaza sotto il governo di Hamas che non in Cisgiordania sotto quello dell’Autorità Nazionale Palestinese”.

Identità smarrite

C’è chi discute sul fatto che non ci può essere sviluppo economico senza sicurezza e stabilità.

Fin dal 1994, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è assunta il compito di garantire la sicurezza in Cisgiordania.

All’interno della Cisgiordania, i critici dell’ANP ritengono che i suoi apparati di sicurezza agiscano per conto di Israele, proteggendo lo stato ebraico dalla lotta armata palestinese e non viceversa.

Organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno accusato gli apparati di sicurezza dell’ANP di corruzione, tortura e violazioni dei diritti umani, sia a Gaza che in Cisgiordania.

Ahmad è un giovane insegnante di storia nonché ex membro di Hamas che vive in Cisgiordania. Ammette di aver imbracciato le armi e di aver combattuto insieme ai militanti di Fatah durante la seconda intifada. Egli ha poi trascorso due anni nelle carceri israeliane.

Ahmad dice che dopo, però, sono state le forze di sicurezza dell’ANP ad averlo arrestato, interrogato e torturato. E’ stato accusato di nascondere armi – qualcosa che egli nega categoricamente.

Ahmad, che sembra aver più paura delle forze di sicurezza dell’ANP che dell’esercito israeliano, dice di essere costantemente sorvegliato e sta pensando di fuggire dalla Cisgiordania, anche se ciò significherebbe abbandonare la sua famiglia.

I sentimenti di disperazione e di perdita di Ahmad sono condivisi da alcuni importanti membri del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP). Azzam Al-Ahmad, il capogruppo di Fatah nel CLP, dice: “Noi non siamo più un’organizzazione di liberazione, e non abbiamo raggiunto l’indipendenza per governare uno stato. Siamo semplicemente caduti nella trappola israeliana. E lo stesso ha fatto Hamas”.

“Sinceramente, non sappiamo più cosa siamo”.

Cosa compone uno stato?

Un albergo e una manciata di locali non sono gli elementi chiave della costruzione di una nazione. Se a prima vista le cose sembrano in fase di miglioramento, in realtà tutto tradisce l’amara realtà che la Cisgiordania è ancora un piccolo pezzo di terra in quel che resta della Palestina storica, sottoposto all’occupazione di Israele e alla mercé delle forze di sicurezza palestinesi. La popolazione si trova tra l’incudine e il martello.

Durante una cena a casa di un amico a Ramallah, ho chiesto ad Abdel Nasser, un ragazzo di 14 anni che trascorre gran parte del suo tempo a prendersi cura dei suoi 12 pappagalli, che cosa volesse fare da grande.

Non sapeva rispondere. Invece mi ha detto quanto è soddisfatto, perché ha tutto ciò che vuole.

Ciò di cui Abdel Nasser non si rende conto, è che gli manca una chiara visione del suo futuro e non ha un paese che possa dire suo. Proprio come la Cisgiordania.

Carol Malouf

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