Essere giustiziati per aver aperto un cancello
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Un piccolo spazio di informazione e riflessione per rimediare al colpevole silenzio dei media sulla tragedia del popolo palestinese.
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Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…
Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.
Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.
Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.
Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.
RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012
Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.
Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.
In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.
Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.
Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.
Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?
Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)
Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre
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Su un totale di circa 500.000 coloni israeliani che vivono nei Territori palestinesi occupati, oltre 311.000 (dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano al 31.12.2010) vivono in Cisgiordania, all’interno di 124 colonie autorizzate e di oltre un centinaio di “avamposti” illegali, dove illegali sta per sorti in contrasto con la stessa legge israeliana.
In realtà, infatti, tutti gli insediamenti colonici sono contrari al diritto internazionale, alla luce di quanto previsto dall’art.49.6 della IV Convenzione di Ginevra, secondo cui “La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato”. Va aggiunto, peraltro, che lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale qualifica tale trasferimento, diretto o indiretto, come un crimine di guerra.
Eppure la comunità internazionale non solo tollera tranquillamente tale crimine – che porta come conseguenza la deprivazione del popolo palestinese delle sue risorse naturali, la sottrazione delle terre, gli infiniti disagi e ostacoli alla circolazione e allo sviluppo economico derivanti dal sistema dei checkpoint – ma consente peraltro che questa vera e propria teppaglia compia vessazioni e atti di violenza quotidiani ai danni della popolazione indigena, al riparo della totale impunità garantita dalle autorità israeliane.
Solo per restare agli ultimi giorni, la scorsa settimana alcuni coloni israeliani a bordo di un auto hanno investito e ucciso a Salfit un contadino palestinese 46enne, ‘Abdel Mutaleb Mohammed Hakim, altri a Betlemme hanno aggredito una famiglia palestinese costringendo un bambino di dieci anni al ricovero in ospedale, altri ancora hanno incendiato tre auto a Beit Ummar, il tutto in una sola giornata!
Alla fine di ottobre di quest’anno, lo United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (UN-OCHA) ha fatto il punto della situazione con una scheda informativa che segnala il progressivo e preoccupante aumento della violenza dei coloni israeliani.
Almeno nessuno potrà dire di ignorare la questione.
La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania.
OCHA _ Novembre 2011
In breve
- La media settimanale degli attacchi da parte dei coloni aventi come conseguenza l’uccisione o il ferimento di Palestinesi e danni alle proprietà nel 2011 è aumentata del 40% rispetto al 2010 e di oltre il 165% rispetto al 2009.
- Nel 2011, tre Palestinesi sono stati uccisi e 167 sono stati feriti dai coloni israeliani. Inoltre, un Palestinese è stato ucciso, e altri 101 sono stati feriti, dai soldati israeliani nel corso di scontri tra coloni israeliani e Palestinesi.
- Otto coloni israeliani sono stati uccisi e altri 30 sono stati feriti dai Palestinesi nel corso del 2011, in confronto a cinque uccisi e 43 feriti durante lo stesso periodo del 2010.
- nel 2011, circa 10.000 alberi di proprietà di Palestinesi, essenzialmente alberi di ulivo, sono stati danneggiati o distrutti dai coloni israeliani, compromettendo in modo significativo i mezzi di sostentamento di centinaia di famiglie.
- Nel luglio del 2011, una comunità di 127 persone è stata fatta spostare in massa a causa dei ripetuti attacchi dei coloni, con alcune delle famiglie colpite trasferite nelle Aree A e B.
- Oltre il 90% delle denunce monitorate presentate dai Palestinesi alla polizia israeliana negli ultimi anni e riguardanti violenze da parte dei coloni si è chiuso senza alcuna incriminazione.
- L’OCHA ha individuato oltre 80 comunità con una popolazione complessiva di circa 250.000 Palestinesi esposti alla violenza dei coloni, compresi 76.000 che sono ad alto rischio.
1) La violenza da parte dei coloni israeliani compromette la sicurezza fisica e le fonti di sostentamento dei Palestinesi che vivono sotto la prolungata occupazione militare israeliana. Questa violenza include aggressioni fisiche, vessazioni, la presa del controllo e il danneggiamento di proprietà private, l’impedimento dell’accesso ai pascoli e ai terreni agricoli, e gli attacchi al bestiame e ai terreni agricoli, tra gli altri.
2) Negli ultimi anni, molti attacchi sono stati condotti da coloni che vivono negli “avamposti” colonici, piccoli insediamenti satellite costruiti senza autorizzazione ufficiale, molti su terreni di proprietà privata di Palestinesi. A partire dal 2008, i coloni hanno attaccato i Palestinesi e le loro proprietà come mezzo per scoraggiare le autorità israeliane dallo smantellare questi avamposti (la cd. strategia del “price tag”).
3) La causa principale del fenomeno della violenza dei coloni risiede nella decennale politica israeliana di facilitare illegalmente l’insediamento dei propri cittadini all’interno dei territori palestinesi occupati. Questa attività ha portato alla progressiva acquisizione della terra, delle risorse e delle vie di trasporto palestinesi ed ha creato due sistemi separati di diritti e prerogative, favorendo i cittadini israeliani a scapito degli oltre due milioni e mezzo di Palestinesi che risiedono in Cisgiordania. I recenti sforzi delle autorità per legalizzare retroattivamente l’acquisizione da parte dei coloni di terreni di proprietà privata di Palestinesi incoraggia fattivamente una cultura dell’impunità che contribuisce al perdurare della violenza.
4) Le autorità israeliane hanno ripetutamente mancato di far rispettare il principio di legalità in risposta agli atti di violenza contro i Palestinesi da parte dei coloni israeliani. Le forze israeliane spesso non fermano gli attacchi e le indagini successive sono inadeguate o mal condotte. Le misure previste dal sistema corrente, incluso il richiedere ai Palestinesi di presentare denuncia presso le stazioni di polizia situate all’interno degli insediamenti israeliani, lavorano fattivamente contro il principio di legalità, scoraggiando i Palestinesi dal presentare denuncia.
5) Il rischio del trasferimento dei gruppi familiari vulnerabili come conseguenza della violenza dei coloni è una questione che desta crescente preoccupazione. La violenza dei coloni crea pressione e costante disagio su alcune comunità palestinesi, in particolare se combinata con altre difficoltà, quali le restrizioni agli accessi e alla circolazione e la demolizione delle case. Diventare profughi ha gravi conseguenze fisiche, socio-economiche ed emotive sulle famiglie e sulle comunità palestinesi, immediate e a lungo termine.
6) Secondo il diritto umanitario internazionale e la legislazione internazionale sui diritti umani, Israele ha l’obbligo di impedire gli attacchi contro i civili o le loro proprietà e di assicurare che tutti gli episodi di violenza da parte dei coloni siano indagati in maniera approfondita, imparziale e indipendente.
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"Abbiamo pianto, abbiamo pianto tanto. Piangere è l’unica cosa che si riesce a fare davanti a questo nuovo video diffuso nella rete e ripreso da Press TV che rivela l’amara verità che è la vita delle famiglie palestinesi. I soldati dell’esercito israeliano fanno irruzione in una casa, vogliono portar via il padre della famiglia; la moglie e la figlioletta tentano di opporsi disperate ma vengono picchiate brutalmente…
Piangi mondo, piangi…perchè questo è quello a cui tu assisti in silenzio…".
Questo è il commento al video qui sopra postato dalla redazione di Irib, il sito web della radio iraniana in Italia. Non è necessario aggiungere altro.
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Distretto di Hebron, Cisgiordania. Khaled Jabari ha solo 5 anni, ma gli tocca di vivere un momento angosciante e drammatico, che probabilmente lo segnerà per la vita, quando i soldati israeliani arrestano il suo papà Fadel, colpevole di aver rubato dell'acqua.
A piedi nudi, in preda a una crisi di nervi, chiama a gran voce suo padre e cerca di aggrapparsi a lui per non farselo portare via, poi uno dei soldati lo allontana e Fadel viene fatto salire a bordo di una jeep che si allontana rapidamente.
Quale migliore scuola dell'odio esiste al mondo di quella gestita dalla canaglia di Tsahal?
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