La fine del processo di pace e la dissoluzione dei regimi politici storici in Israele e Palestina.
Nell’interessante articolo che segue, pubblicato il 25 febbraio sul sito dell’Alternative Information Center (AIC) e qui proposto nella traduzione offerta da Arabnews, Sergio Yahni parte dalla considerazione che il processo di pace israelo-palestinese – lungi dall’attraversare una semplice fase di stallo – è in realtà da considerarsi già concluso fin dal 29 settembre del 2000.
Questo ha determinato, da una parte, il disfacimento dell’Autorità Palestinese, ormai pressoché ininfluente, e, dall’altro, ha portato all’emergere all’interno di Israele di due diverse forme di autoritarismo, una civile e una militare, che si stanno sviluppando nel Paese.
Rimandando alla lettura dell’articolo di Yahni, non si può non sottolineare, ancora una volta, come ogni possibilità di recupero del processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, ormai invero problematico, risieda esclusivamente nell’intervento della comunità internazionale. Comunità internazionale che, con urgenza, deve recuperare un effettivo ruolo di “honest broker” del conflitto, che riconosca eguale dignità alle parti in causa e, soprattutto, che le impegni egualmente al rispetto della roadmap e delle risoluzioni Onu in materia.
Soltanto un rigido vincolo proveniente dall’esterno, che preveda anche la possibilità di sanzioni e di boicottaggi per chi “sbaglia”, potrà costringere Israeliani e Palestinesi ad assumere quelle decisioni dolorose e quelle reciproche concessioni necessarie per raggiungere un accordo di pace equo e duraturo.
Ma, con specifico riguardo agli Usa, i primi passi mossi da Hillary Clinton nella regione cominciano a far temere che le tante speranze suscitate dall’elezione di Obama e l’auspicato nuovo corso dell’ amministrazione americana si dimostreranno poco più di un bluff.
La fine del “processo di pace” e la dissoluzione dei regimi politici storici in Israele e Palestina
25.2.2009
Sebbene si continui a parlare del “processo di pace” israelo-palestinese come di un processo ancora in corso, anche se al momento in una situazione di stallo, in realtà questo processo si è concluso già otto anni fa, precisamente il 29 settembre del 2000, quando, confermando il fallimento dei negoziati di Camp David, iniziò l’offensiva israeliana contro il popolo palestinese. Da allora, tutti i tentativi della comunità internazionale di riprendere il processo, compresa l’iniziativa araba, sono falliti.
La controffensiva delle “organizzazioni non governative armate” palestinesi, contraddistinta da attacchi suicidi, insieme all’invasione israeliana delle aree della Cisgiordania controllate dall’Autorità Palestinese (ANP) ed al conseguente screditamento della già limitata sovranità di quest’ultima, hanno portato al disfacimento di tutti gli elementi più significativi del sistema politico palestinese.
Le organizzazioni islamiche, invece, considerandosi organizzazioni di resistenza, e non parte del processo di costruzione del paese, erano meglio preparate ad affrontare la violenza della repressione israeliana. Sono quindi riuscite a sopravvivere all’offensiva israeliana ed a mantenere la loro struttura politica.
Anche il sistema politico israeliano ha attraversato un processo di disgregazione. Nonostante l’apparente stabilità, esso è infatti gradualmente crollato in pezzi, a causa di successivi governi di breve periodo, che non sono riusciti a trovare una soluzione alla questione della sovranità dei territori palestinesi occupati.
Di conseguenza, il popolo israeliano ha quasi completamente perso la fiducia nel sistema politico. Tutti i maggiori partiti hanno perso la loro storica rappresentanza parlamentare. Il popolo israeliano si è infatti orientato, in un primo momento, verso alternative non politiche, ed ultimamente verso partiti autoritari. Inoltre, sia in Palestina, sia in Israele, la burocrazia militare sta assumendo sempre di più le caratteristiche di un partito politico, o comunque di una lobby politica influente. Nel caso palestinese, questo processo è stato il risultato quasi intenzionale della riforma delle forze di sicurezza palestinesi, avvenuta sotto la direzione del Pentagono americano. In Israele, invece, questo processo si è evoluto in modo non intenzionale.
Senza gli elementi essenziali della sovranità, il futuro dell’ANP è probabilmente irrilevante per comprendere come si evolveranno le politiche regionali sul lungo periodo. L’offensiva israeliana l’ha infatti trasformata in un’istituzione che a stento riesce a gestire la vita della popolazione palestinese sotto l’occupazione israeliana. Stando così le cose, più che altro essa aiuta Israele a ridurre i costi dell’occupazione. E’ invece la relazione tra Israele e la resistenza palestinese quella che determinerà il futuro della regione. La resistenza palestinese non è stata infatti sconfitta dall’offensiva israeliana contro i palestinesi a Gaza, né è stata danneggiata in modo serio, nonostante la distruzione generale delle infrastrutture ed il gran numero di morti tra i civili che essa ha provocato. Al contrario, proprio grazie all’offensiva, la resistenza ha addirittura aumentato la propria capacità di dettare le condizioni a Israele e all’Egitto.
Israele potrebbe scegliere di ignorare queste condizioni, ma a quel punto sarebbe costretta a scontrarsi con la propria opinione pubblica, che insiste nel chiedere la liberazione del soldato israeliano ancora nelle mani della resistenza. Inoltre, ignorando le richieste della resistenza di aprire i valichi di confine, e quindi riconoscendo, di fatto, l’esistenza di un territorio sovrano liberatosi grazie alla lotta armata, creerebbe un clima permanente di scontento nella regione, che metterebbe in pericolo i suoi alleati: l’Egitto, la Giordania e l’Autorità Palestinese. D’altra parte, accettando invece le richieste della resistenza palestinese, Israele riconoscerebbe la lotta armata come la miglior via per assicurare la liberazione del popolo palestinese.
Due forme di autoritarismo si stanno sviluppando sulla scena politica israeliana: una militare ed una civile. L’obiettivo dell’autoritarismo militare è quello di mantenere le attuali deboli strutture governative di Israele, che gli assicurano un ampio raggio d’azione, senza però dover governare direttamente il paese. Questo esclude quindi l’eventualità di un colpo di stato. Invece la forma di autoritarismo civile aspira a cambiare l’attuale regime. I politici che lo sostengono, come Avigdor Lieberman il cui partito Yisrael Beiteinu ha ottenuto 15 seggi alle ultime elezioni nazionali, mirano a concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo e, di conseguenza, a ridurre le competenze del potere legislativo e di quello giudiziario. Mentre questi politici sostengono le loro riforme con discorsi populisti anti-arabi, il loro maggiore obiettivo è quello di rimuovere l’attuale legislazione anti-corruzione.
Il crollo della sinistra israeliana alle ultime elezioni segna la fine del sistema parlamentare che essa aveva creato, sebbene il sistema forse sopravviverà ancora qualche anno. Il movimento laburista è riuscito a creare uno stato, però la sua strategia del “Muro di Ferro” per legittimarlo con la forza è fallita. Né i palestinesi né paesi arabi erano infatti disposti ad accettare la continua espansione dello stato israeliano e la sua violenta politica di supremazia.
Le caratteristiche del regime che sta ora emergendo in Israele sembrano essere ancora più autoritarie; ad ogni modo sembra difficile che esso avrà il potere necessario per richiedere ai cittadini israeliani i sacrifici indispensabili per implementare le sue politiche. D’altra parte, in parallelo alle caratteristiche autoritarie del regime emergente, stiamo assistendo alla nascita di nuove “dissidenze”, spogliate della fedeltà al sionismo. E’ qui, all’interno di questi movimenti, che risiede ogni eventuale possibilità di un significativo cambiamento all’interno di Israele.
Sergio Yahni è direttore dei programmi dell’Alternative Information Center (AIC), con sede a Gerusalemme
Titolo originale:
The End of the “Peace Process,” and Dissolution of the Historical Political Regimes in Israel and Palestine
Etichette: anp, gaza, Israele, palestina, processo di pace
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