3 giugno 2011

Obama ha deluso il mondo arabo

Torniamo un attimo al discorso tenuto da Obama il 19 maggio (e a quello pronunciato tre giorni dopo alla convention dell’AIPAC) per sottolineare nuovamente la profonda delusione, ed anzi la decisa irritazione, del mondo arabo per quanto riguarda la posizione degli Usa sulla questione palestinese, e il clamoroso doppio standard ancora una volta utilizzato in favore di Israele.

Obama ha iniziato il suo discorso sul Medio Oriente parlando di democrazia, di eguaglianza e di libertà, lodando le rivoluzioni arabe, e ha concluso parlando del “carattere ebraico di Israele”, che di fatto nega la pienezza dei diritti di cittadinanza al 20% della popolazione araba e, soprattutto, il diritto al ritorno di 6 milioni di rifugiati palestinesi.

E affermando, in aggiunta, che “le Nazioni Unite non fondano Stati”, cercando così di delegittimare il tentativo palestinese di ottenere il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre. Il che è profondamente iniquo e, tra l’altro, costituisce una palese menzogna se poniamo a mente proprio la nascita dello stato israeliano.

Il vero è che, parlando di Israele e delle questioni che stanno a cuore ad Israele, gli Usa proprio non riescono a fare a meno di usare un clamoroso doppio standard di giudizio a favore dello Stato ebraico. Per dirla come
Gideon Levy, “quando ha citato l’ambulante tunisino che fu umiliato da una poliziotta che aveva rovesciato la sua bancarella – quel venditore che più tardi si diede fuoco appiccando la rivoluzione – Obama ha pensato anche alle centinaia di ambulanti palestinesi che hanno subito la stessa identica sorte per mano di soldati e poliziotti israeliani?” Se ci ha pensato, deve aver fatto finta di niente…

Obama, in realtà, cerca di conciliare ciò che è inconciliabile, e cioè l’elogio della democrazia con la difesa e l’aperto supporto all’oppressione e all’occupazione militare israeliana. E ciò è inutile, controproducente e soprattutto immorale.

Di questo tratta l’editoriale di
Medarabnews che segue, da cui sono state estrapolate le parti più strettamente legate alla questione palestinese.

OBAMA E IL MEDIO ORIENTE: L’INANITA’ DELLA SPERANZA
25 maggio 2011


“L’Audacia della Speranza”. Così era intitolato il libro che avrebbe lanciato la vittoriosa campagna presidenziale di Obama nel 2007. Sono trascorsi più di quattro anni da allora, e quasi due anni e mezzo dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca, che tante aspettative aveva suscitato anche in Medio Oriente. Ma di quel vento di speranza che soffiava dall’America non vi è più traccia nella regione.

Oggi il vento della speranza in Medio Oriente soffia dalle piazze di città come Tunisi, il Cairo, Sana’a, e dai cortei di dimostranti che chiedono libertà e democrazia dal Marocco all’Oman, nonostante le situazioni drammatiche con cui in alcuni casi hanno dovuto confrontarsi: la guerra in Libia, la brutale repressione in Siria e nel Bahrein, le uccisioni e le intimidazioni dei manifestanti nello Yemen.

Ma si tratta di una speranza araba, autoctona, sorta dal basso, dai giovani, dalle classi lavoratrici, dai disoccupati. I popoli arabi hanno deciso di prendere in mano il proprio destino e (quantomeno di tentare) di rovesciare le dittature corrotte e repressive che li governano – quelle stesse dittature che, nonostante tutta la sua retorica sulla democrazia, e nonostante le promesse pronunciate da Obama nel 2009 a proposito di un nuovo inizio con i popoli arabi, Washington ha sostenuto fino ad oggi.

La delusione suscitata da quelle promesse non mantenute, dopo che erano state solennemente articolate da Obama nel famoso discorso del Cairo di due anni fa, è stata cocente nel mondo arabo: da allora nulla è realmente cambiato nelle politiche americane nei confronti della regione. Ma l’insuccesso più grave per Obama è stato il suo fallito tentativo di riavviare il processo di pace al fine di giungere a quella soluzione del problema palestinese che egli aveva solennemente promesso fin dal suo insediamento alla Casa Bianca.

Quanto sia tuttora centrale questo problema nel mondo arabo lo ha confermato il mare di bandiere palestinesi che nemmeno due settimane fa ha invaso Piazza Tahrir al Cairo, mischiandosi con le bandiere del movimento democratico egiziano per commemorare la “Nakba”, la catastrofe palestinese del 1948.

OBAMA HA DELUSO IL MONDO ARABO

Ancora una volta, la scorsa settimana, Obama ha preso la parola per mostrare agli arabi il volto benigno dell’America, per convincerli che gli Stati Uniti appoggiano le trasformazioni democratiche nella regione, e per promettere loro un rinnovato impegno a favore del processo di pace israelo-palestinese.

Ma il discorso di giovedì 19 maggio (di cui le parole pronunciate dal presidente americano tre giorni dopo di fronte all’AIPAC, la potente lobby filo-israeliana negli USA, rappresentano solo un corollario), anche questa volta non ha centrato il bersaglio.

Sebbene tale discorso sia stato accolto con favore da buona parte della stampa europea, ben diversa è stata la reazione dei mezzi di informazione arabi, che lo hanno definito inutile, noioso, e per molti versi un vero e proprio “fiasco”.

Secondo la maggior parte dei commentatori arabi, Obama non ha offerto nulla di nuovo, facendo ampio ricorso alla sua ormai nota arte retorica (che fino a questo momento non è mai stata sostanziata dai fatti), ed in molti casi dimostrando un’assoluta mancanza di familiarità con la cultura politica araba …

IL NODO PALESTINESE

… Il passaggio del suo discorso che più di ogni altro ha attirato le critiche unanimi degli arabi è stato quello dedicato alla questione palestinese.

Ampiamente criticata è stata l’insistenza di Obama affinché gli arabi riconoscano Israele come “Stato ebraico”, in pratica legittimando il diritto di Israele a discriminare i suoi cittadini non ebrei su base etnica e religiosa.

Molti hanno fatto dell’amara ironia sulla seguente affermazione pronunciata da Obama in riferimento ad Hamas: “come si può negoziare con una controparte che ha mostrato la propria indisponibilità a riconoscere il tuo diritto ad esistere”. Dopotutto – hanno ironizzato alcuni – i palestinesi hanno negoziato per vent’anni con Israele, che si ostina a non riconoscere il diritto dei palestinesi ad esistere all’interno di un proprio Stato.

Ugualmente criticata è stata l’affermazione di Obama secondo cui gli Stati Uniti hanno perseguito per decenni una politica di non-proliferazione nucleare in Medio Oriente, visto che l’unico paese che possiede armi nucleari nella regione è Israele, il più stretto alleato degli USA, che si è sempre rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione.

Ma a deludere è stato soprattutto il fatto che Obama ha praticamente condannato ogni iniziativa palestinese volta a ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese all’ONU, ha bocciato l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas (il che significa di fatto pretendere che i palestinesi continuino a fare la guerra fra di loro pur di fare la pace con Israele), ed ha affermato che ogni Stato ha il diritto all’autodifesa traducendo poi quest’affermazione nel fatto che Israele ha diritto alla propria sicurezza mentre lo Stato palestinese dovrà essere smilitarizzato.

A fronte di queste prese di posizione, egli non ha esercitato nessuna pressione reale nei confronti del governo Netanyahu. Né ha accennato al carattere “non democratico” dell’occupazione israeliana, o alle umiliazioni subite dai palestinesi per mano dei soldati israeliani.

Ma la posizione di Obama è apparsa ancora più sbilanciata domenica, quando di fronte alla platea dell’AIPAC egli ha ribadito in maniera ancora più netta queste posizioni, ed in particolare ha chiarito che, quando nel suo precedente discorso aveva parlato di una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967 con mutui scambi di territori, intendeva dire che le controparti avrebbero negoziato un confine “che è differente da quello che esisteva il 4 giugno 1967”.

Questo nuovo confine, secondo Obama, terrà conto “dei cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi 44 anni, incluse le nuove realtà demografiche sul terreno”. Un’affermazione di questo genere da parte del presidente degli Stati Uniti – soprattutto se fatta prima di qualsiasi trattativa, e non come risultato di un negoziato fra le parti – agli occhi degli arabi significa ratificare la “politica del fatto compiuto” portata avanti dai governi israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est negli ultimi trent’anni.

Rifiutandosi di condannare esplicitamente gli insediamenti nei Territori occupati e di ostacolarne l’espansione – o addirittura ponendo il veto a una risoluzione di condanna dell’ONU, come è avvenuto nel febbraio di quest’anno – gli Stati Uniti di fatto permettono a Israele di modificare a proprio favore la realtà sul terreno.

Con la progressiva espansione degli insediamenti e della rete di strade e di infrastrutture ad essi connesse, le prospettive di una soluzione a due Stati che permetta la creazione di uno Stato palestinese territorialmente contiguo e in grado di sopravvivere sono diventate praticamente trascurabili.

LA POLITICA MEDIORIENTALE DI OBAMA, STRETTA FRA TEL AVIV E RIYADH

Ma, al di là dei singoli contenuti dei due discorsi pronunciati da Obama la scorsa settimana, il dato complessivo che traspare è la debolezza del presidente americano e della sua amministrazione. Sebbene il suo discorso di giovedì fosse tutt’altro che favorevole ai palestinesi, egli si è visto costretto a spostare ulteriormente le proprie posizioni a favore del governo israeliano in occasione del suo discorso di domenica di fronte all’AIPAC.

E malgrado ciò, le sue posizioni continuano ad essere guardate con sospetto non solo dal governo Netanyahu, ma anche da gran parte del Congresso americano e da alcuni elementi della sua stessa amministrazione.

Due episodi, in particolare, sono emblematici della bancarotta delle politiche di Obama relative alla questione palestinese. Alla vigilia del suo discorso di giovedì, il suo inviato speciale per il Medio Oriente George Mitchell rassegnava mestamente le dimissioni, in quella che è stata una palese ammissione di fallimento. E proprio giovedì, mentre Obama si apprestava a rivolgersi al mondo arabo, la Commissione per la pianificazione edilizia del municipio di Gerusalemme programmava la costruzione di altre 1.500 unità abitative a Gerusalemme Est.

Mentre Obama si separava dall’uomo simbolo delle sue politiche mediorientali nei primi due anni del suo mandato, egli doveva subire l’ennesimo affronto da parte del municipio di Gerusalemme e del governo israeliano.

Tutto ciò che il presidente americano ha potuto fare nel suo discorso di domenica all’AIPAC è stato “mettere in guardia”. Mettere in guardia sul fatto che la situazione internazionale sta rapidamente cambiando a svantaggio di Israele; che, sebbene gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare Israele fino alla fine, l’influenza internazionale degli USA sta declinando.

“Così come il contesto è cambiato in Medio Oriente, negli ultimi anni esso sta cambiando anche nella comunità internazionale”, ha detto Obama. “C’è una ragione se i palestinesi stanno perseguendo i loro interessi alle Nazioni Unite. Essi si rendono conto che vi è un’impazienza in merito al processo di pace – o alla sua assenza – non solo nel mondo arabo, ma in America Latina, in Asia, in Europa. E questa impazienza sta crescendo, e si sta già manifestando nelle capitali di tutto il mondo. E questi sono fatti”.

Ma, tenuto conto della debolezza dell’America, e del potere del Congresso e della lobby filo-israeliana negli USA, Netanyahu può permettersi di non dar retta a simili ammonimenti, e di continuare a fare il male di Israele ignorando qualsiasi ragionevole processo di pace con i palestinesi.

Obama non ha alcuna possibilità di esercitare pressioni nei suoi confronti. E’ debole nei confronti di Israele, così come è debole in Medio Oriente in generale. Un esempio su tutti: mentre gli USA hanno promesso di sostenere le nascenti democrazie in Egitto e Tunisia, ed in particolare di aiutare l’Egitto cancellando un miliardo del suo debito ed offrendo al paese un altro miliardo sotto forma di prestiti, l’Arabia Saudita ha silenziosamente stanziato quattro miliardi di dollari per sostenere l’economia egiziana.

Gli Stati Uniti, afflitti dalla crisi economica e da seri problemi di bilancio, non sono in grado – o comunque non sono disposti – di fornire gli aiuti economici che invece i sauditi possono elargire senza grossi affanni contando sulle loro enormi riserve di denaro liquido derivanti dagli introiti petroliferi. Ed è noto che gli aiuti economici si traducono in potere contrattuale, in influenza politica.

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), di cui l’Arabia Saudita è di gran lunga il membro più influente, inorridito dalla (seppur riluttante) decisione americana di assecondare il cambiamento in paesi come l’Egitto, ha deciso di uscire dall’ombra americana adottando un’aggressiva politica di aiuti (miliardi di dollari a Bahrein, Oman ed Egitto), di repressione delle proteste in Bahrein attraverso un intervento militare diretto, di forte mediazione nello Yemen per assicurare un cambio di regime favorevole al GCC; così come ha deciso di invitare le monarchie di Giordania e Marocco ad entrare a far parte dell’organizzazione – per formare quello che alcuni hanno definito il fronte delle monarchie arabe ostili al cambiamento.

L’attivismo saudita sta mettendo a dura prova il legame con Washington. I rapporti strategici fra i paesi del GCC e gli Stati Uniti continuano a essere saldi semplicemente perché gli interessi in gioco sono troppo alti per entrambe le parti, ma i paesi del Golfo non hanno esitato negli ultimi mesi a mostrare un approccio politico che molto spesso diverge da quello americano. Essi hanno deciso di intervenire in Bahrein nonostante le velate critiche di Washington, di usare con l’Iran un linguaggio ben più duro di quello americano, fomentando le tensioni settarie nel Golfo, di adottare un atteggiamento molto più aggressivo nei confronti del regime siriano di Bashar al-Assad, alleato di Teheran e accusato di reprimere brutalmente una ribellione “sunnita” (da notare come a prevalere in tutti questi approcci sia la logica settaria, non certo la logica democratica).

Come ha sottolineato in un suo articolo Riad Kahwaji – esperto di sicurezza dell’Institute for Near East and Gulf Military Analysis (INEGMA) con sede a Dubai – presso i leader del GCC vi è la crescente convinzione che gli Stati Uniti siano una potenza in declino, e che nuove potenze emergeranno in Oriente nel prossimo decennio, le quali necessiteranno delle risorse di gas e petrolio dei paesi del Golfo in misura anche maggiore dell’Occidente, e quindi saranno pronte a correre in aiuto del GCC se esso dovesse essere minacciato dall’Iran o da altre potenze.

Ma per il momento – prosegue Kahwaji – gli Stati Uniti hanno una capacità unica di proiettare la loro potenza bellica in tempi rapidi laddove occorra. Questo fa sì che i rapporti fra i paesi del Golfo e Washington resteranno saldi a breve termine, soprattutto per ragioni militari.

Dal canto suo, Washington trova vantaggioso il rapporto con l’Arabia Saudita e i paesi del GCC per ragioni militari, energetiche ed economiche. Riyadh è il terzo fornitore di petrolio degli USA, e i paesi del Golfo ospitano importantissime basi militari americane e sono fra i principali clienti della potente industria bellica USA (la quale ha bisogno di “nuovi mercati” visto che il Pentagono è costretto a stringere la cinghia del bilancio).

Di fronte a questi interessi, ancora una volta le parole e i discorsi di Obama sembrano avere ben poca influenza. Stretto fra il potere del Congresso e quello della lobby ebraica per quanto riguarda Israele, e fra gli interessi petroliferi e militari delle industrie americane e quelli del Pentagono per quanto riguarda i paesi del Golfo, è improbabile che il debole Obama riesca a modellare la politica USA in Medio Oriente in base a quel pugno di principi ideali che egli pronuncia in maniera sempre meno convincente nei suoi discorsi.

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23 maggio 2011

Obama: sul processo di pace israelo-palestinese le solite, vuote parole

All’indomani del discorso con cui, giovedì, il Presidente Usa Barack Obama ha delineato le posizioni dell’amministrazione americana sul medio oriente, dando ampio spazio alle questioni legate al processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, i principali giornali e notiziari televisivi hanno profuso parole di meraviglia e di stupore per la “novità” della clamorosa affermazione secondo cui i confini tra Israele e il futuro Stato di Palestina dovranno seguire quelli del 1967 (la cd. green line).

Ma, in realtà, nulla di nuovo è stato detto, ed anzi il discorso di Obama è apparso ancora una volta nettamente e pericolosamente sbilanciato verso le esigenze e i desiderata di Israele.

Si, certo, i confini saranno quelli del 1967, ma già ieri mattina, parlando per 50 minuti alla
convention dell’Aipac a Washington, Barack Obama si è premurato di specificare che a questi confini si arriverà solo parzialmente e “tenendo conto delle nuove realtà demografiche sul terreno”, il che riecheggia perfettamente quanto affermato da Bush figlio nel famoso scambio di lettere con Sharon di qualche anno addietro: non si tornerà per niente ai confini della green line, ma Israele manterrà il possesso dei maggiori blocchi di insediamenti all’interno della West Bank.

Questo per tacere del fatto che, nel suo discorso, il Presidente Usa non ha minimamente fatto cenno al problema di Gerusalemme est (che pure è anch’essa all’interno delle frontiere del 1967!), né a quello dei rifugiati.

Di contro, Obama ha assicurato che lo Stato palestinese sarà demilitarizzato, ha ampiamente criticato l’accordo di unità nazionale tra Hamas e Fatah, ha bocciato senza appello (e non si capisce bene perché) l’intenzione dell’Anp di chiedere all’Assemblea dell’Onu, a settembre, il riconoscimento del nuovo stato palestinese.

Benché i media abbiano parlato di “raffreddamento” dei rapporti tra Usa e Israele, in realtà si potrebbe malignare sul fatto che Bibi e Barack abbiano dato luogo al solito gioco delle parti, in cui ognuno ha detto quello che doveva dire ma, alla fine, non è cambiato assolutamente nulla, e la politica Usa in medio oriente continua ad essere al servizio di Israele e dei suoi interessi.

Il vero è che, ancora una volta, risulta chiaro come lo strapotere della lobby ebraica negli Usa impedisca all’amministrazione Obama, così come alle precedenti, di assumere il ruolo di honest broker del conflitto israelo-palestinese, che imporrebbe anche un’attività di pressione sull’alleato volta a fermare la continua espansione delle colonie e a costringerlo a sedersi seriamente al tavolo delle trattative, discutendo di tutti gli argomenti sul tappeto sulla base di una precisa scaletta temporale.

Nulla di tutto questo avviene, purtroppo, e Obama non ha nulla di concreto da proporre. E, allora, Israele può tranquillamente annunciare la costruzione di
1.550 nuovi alloggi proprio a Gerusalemme est, in aperta violazione al diritto internazionale ed in piena contraddizione con l’asserita volontà di un accordo di pace con i Palestinesi…

Di questo tratta l’ottimo (come al solito) articolo di Gideon Levy su Ha’aretz, qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

OBAMA HA DISTRUTTO LE CHANCE DI UNO STATO PALESTINESE
Gli Usa appoggiano la richiesta israeliana di uno Stato palestinese demilitarizzato, appoggiano il rinvio dei negoziati sui rifugiati e su Gerusalemme, parlano della sicurezza di Israele e soltanto della sicurezza di Israele.
di Gideon Levy – 20.5.2011

Benjamin Netanyahu avrebbe anche potuto annullare il suo viaggio a Washington: Barack Obama ha fatto il lavoro al suo posto, almeno in gran parte. Ma il primo ministro israeliano è partito comunque, dunque avrebbe almeno potuto portare alla Casa Bianca un grande mazzo di fiori.

Netanyahu può mettersi a sedere e rilassarsi. Non è che Obama non abbia pronunciato parole chiare e ferme sul Medio Oriente; è solo che la maggior parte di tali parole, se non tutte, avrebbe potuto pronunciarle lo stesso Netanyahu, il quale avrebbe poi continuato a fare come gli pare.

I 1.500 nuovi appartamenti a Gerusalemme verranno costruiti comunque, discorso o non discorso. Il vero banco di prova per il discorso di Obama, come per quello di qualsiasi altro, è ciò che succederà dopo, e il sospetto è che non succederà proprio niente.

Obama non ha detto una parola su cosa accadrà se le parti disobbediranno alle sue condizioni. Questo è stato il discorso del re, ma il re appare già nudo. Considerando la debolezza dell’America, e il potere del Congresso e delle lobby ebraica e cristiana che lavorano a vantaggio del governo israeliano, la destra israeliana può rilassarsi e continuare a fare quello che già fa.

Giovedì il presidente degli Stati Uniti ha demolito l’unico successo raggiunto dai palestinesi fino a questo momento: l’ondata di sostegno internazionale a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese all’ONU in settembre. La speranza di settembre è morta la notte di giovedì. Dopo il pronunciamento dell’America, anche l’Europa probabilmente ritirerà il suo sostegno; sono finite le speranze in una dichiarazione storicamente significativa alle Nazioni Unite.

I palestinesi sono rimasti ancora una volta con il sostegno di Cuba e Brasile, mentre noi siamo riusciti a conservare il sostegno dell’America. Ecco un altro motivo per tirare un sospiro di sollievo a Gerusalemme: nessuno tsunami diplomatico incombe, gli Stati Uniti rimangono fermamente schierati con Israele.

Purtroppo, il presidente americano ha anche espresso riserve sul governo di unità nazionale palestinese. Gli Stati Uniti sostengono la richiesta israeliana di uno Stato palestinese che sia smilitarizzato, appoggiano il rinvio della discussione sui rifugiati e su Gerusalemme, parlano solo e soltanto della sicurezza di Israele, senza dire nulla sulla sicurezza dei palestinesi. Tutti questi sono impressionanti successi – anche se per il momento solo virtuali –raggiunti da Israele.

I palestinesi giovedì non sono stati annoverati fra i popoli arabi oppressi del Medio Oriente che hanno bisogno di essere liberati e aiutati sulla strada verso la democrazia. Obama ha parlato in maniera impressionante a proposito dei corrotti alleati dell’America in Medio Oriente, ed ha fornito ulteriore incoraggiamento ai popoli della regione.

Se il primo discorso del Cairo ha fornito l’ispirazione iniziale, “Cairo 2” ha fornito una spinta ancor più significativa. Obama e la sua determinazione a questo proposito dovrebbero essere lodati. Tuttavia le sue parole sono state ascoltate non solo a Damasco e Bengasi, ma anche a Jenin e Rafah. Voleva forse lodare anche quello che è accaduto a Majdal Shams (villaggio druso sulle alture del Golan, sotto il controllo israeliano dal 1967, dove il 15 maggio vi sono stati feriti e almeno un morto fra i dimostranti palestinesi che manifestavano contro l’occupazione israeliana in occasione della Giornata della Nakba (N.d.T.) )? Viva i dimostranti disarmati, sperando che Obama includa fra essi anche quelli palestinesi. Se è così, è un peccato che egli non lo abbia detto.

Quando ha citato l’ambulante tunisino che fu umiliato da una poliziotta che aveva rovesciato la sua bancarella – quel venditore che più tardi si diede fuoco appiccando la rivoluzione – Obama ha pensato anche alle centinaia di ambulanti palestinesi che hanno subito la stessa identica sorte per mano di soldati e poliziotti israeliani? Quando ha parlato nobilmente della dignità degli ambulanti oppressi, parlava anche dei loro fratelli palestinesi? Il suo discorso non lo ha fatto capire a sufficienza.

Il conflitto tra Israele e i palestinesi è stato relegato ai margini nel discorso di Obama, più di quanto meritasse. Questo conflitto suscita ancora grandi passioni nel mondo arabo, e con tutto il rispetto per il nuovo Piano Marshall per l’Egitto e la Tunisia, le masse arabe non vogliono vedere un’altra operazione “Piombo Fuso” né ulteriori posti di blocco sui loro schermi televisivi. Quando Obama ha parlato di noi, il tono è stato diverso.

E’ vero, ha usato parole severe a proposito di come uno stato ebraico e democratico non sia compatibile con un’occupazione. Ha citato anche un chiaro piano presidenziale – i confini del ‘67 con alcune correzioni, uno Stato palestinese e uno Stato ebraico, sicurezza per Israele e smilitarizzazione per la Palestina.

Ma cerchiamo di non emozionarci troppo. Si tratta di discorsi già sentiti, non solo da parte dei presidenti americani, ma degli stessi premier israeliani. E cosa abbiamo ottenuto? Ancora un altro quartiere ebraico a Gerusalemme Est.

Il cuore vuol credere che questa volta sia diverso, ma la testa – resa saggia dall’amara esperienza, dopo anni di piani di pace messi nel cassetto e di vacui discorsi – stenta a crederlo.

Gli ottimisti diranno che il discorso di giovedì ha segnato la fine dell’occupazione israeliana. I pessimisti – ed io, purtroppo, tra essi – diranno che si è trattato solo di un altro discorso. E non ha cambiato nulla, né in meglio né in peggio.

Gideon Levy è un giornalista israeliano; è membro del comitato di redazione del quotidiano “Haaretz”; è stato portavoce di Shimon Peres dal 1978 al 1982

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4 maggio 2011

La svolta storica della riconciliazione palestinese

La notizia è davvero di quelle destinate a lasciare il segno e a mutare profondamente lo scenario politico mediorientale: dopo quattro anni di aspre divisioni (ma anche scontri sanguinosi) Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi, hanno firmato ieri un protocollo d’intesa che sancisce la riconciliazione nazionale, facendo seguito all’accordo già raggiunto la scorsa settimana grazie alla mediazione egiziana.

L’accordo, sottoscritto anche dalle altre organizzazioni e partiti minori, prevede tra l’altro la formazione di un nuovo governo di unità nazionale formato da “tecnici”, la liberazione dei prigionieri politici detenuti a Gaza e in Cisgiordania, la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno.

L’articolo che segue, un editoriale della redazione di Medarabnews, sintetizza efficacemente i risvolti di questo accordo, le motivazioni che hanno spinto Abu Mazen e Hamas a sottoscriverlo, le reazioni internazionali, le novità che ne derivano per lo scacchiere mediorientale.

Qui vogliamo solo aggiungere che l’unità del popolo palestinese e dei suoi rappresentanti rappresenta una precondizione essenziale per la soluzione del conflitto israelo-palestinese cd. a due stati, che a parole tutti (o quasi tutti) vorrebbero raggiungere. La notizia dell’accordo tra Fatah e Hamas, dunque, dovrebbe essere salutata unanimemente come un importante passo verso la pace nella regione.

Così, ad esempio, Robert Serry, il Coordinatore Speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio Oriente, in un comunicato ufficiale ha dichiarato: “La riunificazione è essenziale per il raggiungimento di una soluzione a due stati che dovrebbe essere realizzata attraverso negoziati”. Così, ad esempio, Gush Shalom in un comunicato per la stampa ha accolto favorevolmente l’annuncio della riconciliazione tra Fatah e Hamas, aggiungendo, per bocca di Uri Avnery, che “l’unità dei Palestinesi … non è una minaccia per Israele, ma uno dei suoi massimi interessi”.

Usa e Israele, all’opposto, hanno accolto la notizia quasi come si fosse trattato dell’annuncio di una nuova e incombente minaccia per la pace e la sicurezza israeliana e del mondo. Israele, in particolare, ha parlato di un “errore fatale” (Peres dixit) e, per pronto accomodo, ha immediatamente deciso di sospendere il trasferimento delle entrate fiscali che lo stato israeliano raccoglie per conto dell’Autorità Palestinese, e che rappresentano il 37% circa del budget finanziario annuale dell’Anp.

Negli Usa, d’altra parte, con una indicazione felicemente bipartisan, sono numerosi i membri del Congresso che auspicano – come reazione all’accordo tra Fatah e Hamas – un deciso taglio agli aiuti finanziari fino ad ora garantiti all’Anp di Abu Mazen.

Nel mezzo, la solita posizione pavida e attendista dell’Unione europea che, per bocca di Catherine Ashton, rappresentante Ue per gli affari esteri, dichiara di dover ancora “studiare i dettagli di questo accordo”! Purtroppo, non è una novità…

Riconciliazione palestinese: una nuova variabile nel panorama dei cambiamenti mediorientali.
4.5.2011

La notizia, annunciata mercoledì scorso e sancita dalla cerimonia ufficiale di oggi, ha colto di sorpresa tutti: dopo quattro anni di aspre divisioni, Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi che controllano rispettivamente Gaza e la Cisgiordania, hanno sottoscritto un accordo di riconciliazione.

L’accordo, raggiunto grazie al contributo determinante della mediazione egiziana, prevede la costituzione di un governo ad interim di unità nazionale composto da figure di alto profilo non affiliate a nessuna delle due fazioni, la ripresa delle attività del Consiglio legislativo (il parlamento palestinese rimasto paralizzato a causa del dissidio tra i due partiti palestinesi), l’unificazione dei servizi di sicurezza, la liberazione dei prigionieri politici delle due fazioni detenuti nelle carceri di Gaza e della Cisgiordania, la ristrutturazione dell’OLP in modo da permettere l’ingresso di Hamas nell’organizzazione, l’avvio della ricostruzione di Gaza, e la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto a precisare che il nuovo governo non sarà incaricato dei negoziati con Israele, i quali rimarranno prerogativa esclusiva dell’OLP e sua personale. Questa precisazione, e l’accortezza di voler costituire un esecutivo composto da “figure indipendenti”, hanno l’obiettivo di scongiurare che Israele e la comunità internazionale mettano subito in scacco il nuovo governo di unità nazionale riesumando la sequela di richieste che il Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) aveva imposto al governo Hamas nel 2006 all’indomani della vittoria elettorale del movimento islamico palestinese: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza (cioè alla resistenza armata), e accettazione degli accordi precedentemente firmati dall’ANP con Israele.

Si tratta di condizioni che Hamas ha fermamente ribadito più volte di non voler accettare, in primo luogo perché neanche Israele ha riconosciuto uno Stato palestinese né ha accettato di definire i propri confini, in secondo luogo perché Hamas non vuole rinunciare a quello che dal suo punto di vista è un “legittimo strumento di resistenza”, come precondizione a qualsiasi negoziato e non come conseguenza di un processo negoziale e del raggiungimento di un accordo (e intende in ogni caso continuare a mantenere la tregua a Gaza che in questi anni ha dimostrato di saper rispettare), ed infine poiché ritiene che lo stesso Stato di Israele abbia più volte violato, e tuttora non rispetti, gli accordi firmati con l’ANP.

UN NUOVO BOICOTTAGGIO A DANNO DEI PALESTINESI?

Ribadire che i negoziati rimangono sotto la giurisdizione dell’OLP (di cui Hamas al momento non far parte), e che il governo ad interim di unità nazionale sarà composto da “tecnici indipendenti” rappresenta dunque una manovra da parte palestinese – e di Fatah in particolare – per evitare che il nuovo esecutivo venga sottoposto allo stesso assedio a cui fo sottoposto il governo Hamas.

Tale manovra tuttavia appare probabilmente vana – e Abbas deve essere stato consapevole dei rischi a cui andava incontro – poiché il governo Netanyahu ha subito dichiarato che l’ANP deve scegliere tra la pace con Israele e la pace con Hamas. Come ulteriore misura, Tel Aviv ha deciso di sospendere (per ora temporaneamente, ma la misura è candidata a diventare definitiva) il trasferimento di milioni di dollari in entrate fiscali palestinesi all’ANP – una misura che fu già adottata da Israele tra il 2000 e il 2002 in coincidenza con la seconda Intifada, e tra il 2006 e il 2007 quando Hamas era parte integrante del governo palestinese.

Nel frattempo, non solo esponenti dell’estrema destra israeliana, ma anche alcuni membri del governo Netanyahu hanno affermato che Israele dovrebbe minacciare l’annessione della Cisgiordania come rappresaglia contro l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Inoltre, alla sospensione del trasferimento delle entrate fiscali palestinesi – di fatto soldi palestinesi gestiti da Israele – potrebbe presto aggiungersi la sospensione dei finanziamenti americani all’ANP. Infatti, se alcuni membri dell’amministrazione USA hanno adottato un atteggiamento attendista e di cautela nei confronti del nuovo governo palestinese che potrebbe delinearsi, ben diversa è stata la reazione del Congresso. Negli Stati Uniti, Hamas è considerato un’organizzazione terroristica, ed è politicamente e giuridicamente molto difficile che dei soldi americani possano andare ad un governo che, malgrado le manovre palestinesi per renderlo “indipendente”, avrebbe di fatto il sostegno di una tale organizzazione.

Se si tiene conto che Obama si avvia alla sua corsa per la rielezione nel 2012, e che finora le pressioni della lobby israeliana a Washington sono sempre riuscite a piegare la volontà della Casa Bianca (di recente il caso più emblematico si è verificato quando gli USA hanno fatto ricorso al veto – per la prima volta sotto la presidenza Obama – per bloccare una risoluzione ONU di condanna degli insediamenti israeliani la quale ha avuto 14 voti favorevoli su 15, compresi quelli di Gran Bretagna, Francia e Germania), appare probabile che l’ANP dovrà confrontarsi con un nuovo boicottaggio americano qualora l’accordo di riconciliazione dovesse essere realmente implementato.

IL RICORSO ALL’ONU

Tale accordo, ed il conseguente braccio di ferro che già si prefigura tra l’ANP da un lato ed Israele – e probabilmente Washington – dall’altro, sono due fattori emersi all’improvviso mentre l’ANP era nel pieno della propria corsa per ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese in settembre da parte dell’ONU.

Sebbene un simile riconoscimento non si tradurrebbe certamente nella vera creazione di uno Stato, i vertici palestinesi ritengono che esso ridurrebbe lo spazio di manovra di Israele e renderebbe più difficile a Washington appoggiare incondizionatamente le politiche israeliane. In particolare, il presidente Abbas confida nell’appoggio dei paesi europei e delle potenze emergenti, in un contesto di crescente internazionalizzazione della questione palestinese che ha visto recentemente paesi come Brasile e Argentina riconoscere ufficialmente uno Stato palestinese indipendente entro i confini del 1967.

Tuttavia, se fino a questo momento a Tel Aviv e Washington i detrattori dell’iniziativa dell’ANP presso le Nazioni Unite affermavano che Abbas non poteva chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese in quanto egli non era rappresentativo del suo popolo, diviso in due entità separate guidate da due governi diversi a Gaza e a Ramallah, ora essi sosterranno che l’ONU non può riconoscere uno Stato governato da un’entità “terroristica”. La battaglia si preannuncia dunque aspra anche al “palazzo di vetro”.

Da quanto fin qui esposto emerge che le sfide che attendono il futuro governo palestinese di unità nazionale – se del tutto esso vedrà la luce – sono enormi. A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa ha spinto le due controparti a stipulare un accordo di riconciliazione, dopo che per anni ogni forma di negoziato tra esse era sembrata inesorabilmente destinata al fallimento, e soprattutto cosa ha convinto il presidente Mahmoud Abbas a scommettere su questo accordo, alla luce dei rischi di boicottaggio con cui l’ANP dovrà confrontarsi in conseguenza di esso.

FALLIMENTO DEL PROCESSO DI PACE E SOLLEVAZIONI POPOLARI

E’ opinione di diversi analisti che a spingere Abbas in questa direzione sia stato il fallimento di tutto ciò su cui egli aveva puntato nel corso dei suoi anni alla presidenza: la scelta del negoziato a oltranza e la cieca fiducia nella mediazione americana, mentre gli insediamenti israeliani continuavano a espandersi senza sosta.

Molti ritengono che Abbas abbia definitivamente perso la fiducia nell’amministrazione Obama, dopo che quest’ultima si è dimostrata incapace di imporre a Israele il congelamento degli insediamenti, e addirittura ha continuato ad appoggiare le posizioni israeliane in sede ONU.

Ma il fallimento dell’amministrazione Obama ha sancito anche il fallimento personale di Abbas e delle sue politiche, e dunque la sua completa delegittimazione agli occhi dei palestinesi – soprattutto se si tiene conto che il suo mandato è ormai scaduto da tempo.

La posizione di Abbas si è ulteriormente complicata a seguito delle rivolte della cosiddetta “primavera araba” che, partendo dalla Tunisia, si è propagata in tutta la regione. L’ANP, ostaggio dei finanziamenti americani ed occidentali, è vista da molti arabi come un esempio della corruzione e dell’inettitudine dei regimi arabi, e del loro asservimento a potenze straniere come gli Stati Uniti.

La caduta di Hosni Mubarak ha poi rappresentato per Abbas la scomparsa del suo più importante alleato in Medio Oriente. Il nuovo regime egiziano non sembra intenzionato a giocare il ruolo di difensore dello status quo, e di partner di Israele e degli USA nell’assedio di Gaza.

Tutti questi elementi hanno convinto il presidente palestinese a giocare il tutto per tutto, puntando quel poco di capitale politico rimastogli su un accordo di riconciliazione con Hamas.

Per altro verso, il tramonto politico di Hosni Mubarak ha rimosso l’ostacolo più ingombrante nei rapporti tra il Cairo ed il movimento islamico palestinese. Il nuovo regime egiziano, che sembra essere in buoni rapporti con i Fratelli Musulmani egiziani di cui Hamas rappresenta per certi versi una costola, sta cercando di recuperare un ruolo indipendente a livello regionale, anche perché tale ruolo rappresenterebbe un potente fattore di legittimazione agli occhi dell’ancora turbolento fronte egiziano interno.

Non considerando più Hamas come un nemico esistenziale dell’Egitto, il nuovo regime del Cairo è riuscito a sua volta a guadagnarsi la fiducia del movimento islamico palestinese il quale lo ha accettato come garante dell’accordo di riconciliazione – a differenza di quanto aveva fatto con Mubarak.

Anche la scelta di Hamas, del resto, proprio come quella di Mahmoud Abbas, è stata motivata in parte da ragioni di debolezza. Assediato ormai da quattro anni nell’impoverita enclave di Gaza, isolato a livello internazionale ed in crisi di consensi nella Striscia, il movimento ha visto nelle scorse settimane la sua unica retrovia araba – la Siria, che ospita il capo dell’ufficio politico del partito, Khaled Meshaal – travolta dalle proteste popolari e dalla brutale repressione del regime di Damasco.

Hamas, che come detto non è altro che la branca palestinese della Fratellanza Musulmana, è venuto a trovarsi in una posizione imbarazzante dal momento che è ospite di un regime che in questo momento, a causa della sua condotta repressiva, è duramente criticato dai Fratelli Musulmani siriani, da quelli giordani e dallo stesso Yusuf al-Qaradawi, influente leader spirituale sunnita noto per le sue abituali apparizioni sugli schermi di al-Jazeera.

Inoltre, alla luce della destabilizzazione interna della Siria, il futuro della presenza di Hamas nel paese è a rischio, al pari di quella delle altre fazioni palestinesi tradizionalmente ospitate dal regime siriano. Nei giorni scorsi, alcune voci poi smentite (almeno fino a questo momento) avevano addirittura indicato che la leadership di Hamas avrebbe abbandonato Damasco per il Qatar.

Tutto ciò ha avuto un ruolo determinante nel convincere il movimento palestinese ad uscire dal suo isolamento a livello arabo, allacciando contatti con nuovi partner – il nuovo Egitto, e lo stesso Qatar, che ha calorosamente appoggiato l’accordo di riconciliazione – e cercando di rompere l’assedio di Gaza attraverso un accordo con il Cairo e con l’ANP. Tale accordo, anche secondo quanto ribadito dal governo egiziano, dovrebbe spianare la strada all’apertura del valico di Rafah con l’Egitto.

INCOGNITE DELL’ACCORDO E VARIABILI REGIONALI

L’accordo raggiunto tra Fatah e Hamas è dunque il frutto dello stallo del processo di pace, del fallimento della mediazione americana, e delle trasformazioni regionali che hanno visto il divampare delle proteste popolari e delle rivendicazioni di giustizia e democrazia in tutto il Medio Oriente, seguite dall’emergere di un nuovo governo al Cairo e dal pauroso vacillare del regime di Damasco.

La riconciliazione è poi un accordo di necessità, motivato almeno in parte dalle difficoltà in cui versano sia Hamas che Fatah. Pertanto tale accordo – che è stato accolto con favore dalla popolazione palestinese, la quale da anni chiede di essere rappresentata da un unico governo e da istituzioni unitarie – è esposto a numerose incognite e interrogativi.

La vera sfida sarà l’effettiva implementazione dell’accordo, tenuto conto che:

- Esso ha una forma molto vaga e comporta il rischio che la Palestina rimanga di fatto divisa in due entità separate: Gaza e la Cisgiordania.

- Sarà estremamente difficile armonizzare i servizi di sicurezza affiliati a Hamas con quelli dell’ANP addestrati e finanziati dagli USA.

- Fatah e Hamas dovranno accordarsi su un programma politico nazionale comune, che al momento non esiste.
- L’ANP è un’istituzione debole che per funzionare dipende in ogni cosa dalla buona volontà della potenza occupante.

- Non è chiaro fino a che punto l’Egitto, che è il garante dell’accordo, riuscirà a portare avanti la sua nuova politica indipendente qualora dovesse emergere una forte opposizione da parte di Washington.

Al di là di questi interrogativi, vi sono però variabili a livello regionale che, alla luce della situazione estremamente fluida che caratterizza il Medio Oriente in questo momento, potrebbero giocare a favore dell’accordo. Ad esempio:

1) Pur essendo certo che il governo Netanyahu farà di tutto per far fallire la riconciliazione, non è chiaro fino a che punto gli Stati Uniti, pur volendolo, siano in grado di esercitare pressioni realmente efficaci sull’ANP, sul Cairo e in sede ONU, alla luce della loro debolezza interna e del numero e della complessità dei fronti sui cui essi sono già impegnati sia militarmente che diplomaticamente – talvolta per difendere vitali interessi nazionali.

2) Sebbene Tel Aviv e Washington possano certamente imporre un boicottaggio finanziario all’ANP, la determinazione con cui Abbas ha mostrato di voler difendere l’accordo ha spinto diversi osservatori a ipotizzare che alcuni paesi arabi potrebbero essere disposti a coprire almeno in parte le spese dell’ANP (a questo proposito molti guardano all’Arabia Saudita, i cui rapporti con Washington in questo momento non sono idilliaci).

3) La capacità del Cairo di portare avanti una politica estera più assertiva e indipendente, di difendere l’accordo e di porre realmente fine all’insostenibile assedio di Gaza aumenterà se il nuovo regime egiziano riuscirà a stabilizzare la situazione politica ed economica interna, ad assicurarsi una reale legittimazione democratica, ed a trovare finanziatori esteri che aiutino il paese ad uscire dalla crisi che sta attraversando, eventualmente rendendolo meno dipendente dagli aiuti americani (il viaggio del primo ministro egiziano Essam Sharaf in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, la scorsa settimana, aveva anche questo fra i suoi obiettivi).

Certo è che – come ha scritto recentemente il presidente turco Abdullah Gul dalle pagine del New York Times – un accordo di pace israelo-palestinese rappresenterebbe un contributo essenziale a far sì che le rivoluzioni attualmente in corso in Medio Oriente portino a una nuova era di democrazia e di concordia nella regione. Ma è altrettanto vero che – come ha scritto l’ex consigliere dell’ANP Khaled Elgindy – non è pensabile che la pace possa essere raggiunta solo con una parte dei palestinesi, a spese dell’altra; o che i palestinesi debbano essere costretti a scegliere tra l’eventualità di restare in guerra con se stessi e quella di restare in guerra con Israele.

E’ dunque evidente che un accordo di riconciliazione tra i palestinesi è un passo necessario e imprescindibile per il raggiungimento di una pace equa e duratura in Medio Oriente. Nell’interesse della sicurezza, della stabilità e della democrazia nella regione, dunque, questo accordo non dovrebbe essere ostacolato né da Israele né dagli Stati Uniti.

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1 febbraio 2011

Israele (a ragione) teme il boicottaggio.

La pratica del boicottaggio contro i prodotti israeliani è forse l’arma non violenta più temibile che la società civile può adoperare contro Israele, l’occupazione illegale dei Territori palestinesi, i crimini dell’esercito israeliano.

Non è un caso che, in un
documento riservato di cui recentemente ha dato notizia Ha’aretz, i pur cauti capi delle missioni diplomatiche Ue in Israele e a Ramallah abbiano mutuato questo tipo di “arma”, suggerendo ai paesi membri dell’Unione europea di utilizzarla contro i prodotti e le aziende israeliane operanti a Gerusalemme est.

Sull’argomento, segue una interessante e divertente analisi di Douglas Hamilton, pubblicata sul sito web della Reuters.

Israele vede una minaccia nei “delegittimatori”.
di Douglas Hamilton – 23.1.2011

Proteste, boicottaggi, embarghi e sanzioni all'estero, insieme alla resistenza interna, hanno contribuito a portare all'isolamento e, poi, alla fine dell'apartheid in Sud Africa negli anni’90.

Ora, gli israeliani temono che gli attivisti pro-palestinesi, o anti-israeliani, stiano utilizzando le stesse tattiche contro il proprio paese, con sempre maggiore efficacia.

Carlos Santana, Gil Scott Heron, Elvis Costello, Gorillaz Sound System, i Klaxons, i Pixies, Faithless, Leftfield, Tindersticks, Meg Ryan e il regista Mike Leigh hanno deciso di non andare in Israele negli ultimi mesi.

Alcuni artisti da molto tempo sulla scena e più noti – tra cui Paul McCartney, Elton John e Rod Stewart - hanno invece ignorato la pressione della campagna per il boicottaggio.

Il sito web boycottisrael.info ne tiene conto.

Gli analisti israeliani dicono che la pressione viene esercitata sugli artisti da una rete globale di "delegittimazione".

Implicazioni strategiche

Il Sud Africa bianco è stato ostracizzato in una campagna durata anni. Oggi, Facebook e Twitter possono inviare messaggi di protesta a livello mondiale in pochi secondi, esercitando una pressione sugli artisti per convincerli a stare lontano da Israele e attirando l'attenzione di milioni di fan.

Per Israele, non è solo una questione di sentirsi isolato e incompreso. Ci sono serie implicazioni strategiche.

Con i negoziati di pace portati avanti dagli Stati Uniti fermi da settembre, i Palestinesi si sentono come se fossero “al posto di guida”, secondo quanto affermato da Yuval Diskin, capo dell'agenzia di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, in una valutazione per il Parlamento.

"Questo processo si sta facendo strada," ha detto. "C'è una crescente tendenza verso il riconoscimento di uno stato palestinese, e una diminuzione della capacità di Israele di manovrare diplomaticamente".

Nessun paese ha riconosciuto l'annessione israeliana di Gerusalemme Est o i suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. È altrettanto improbabile che gli Stati Uniti e i suoi alleati riconoscerebbero una dichiarazione unilaterale di sovranità palestinese.

Le grandi potenze e le Nazioni Unite insistono che l'unica soluzione durevole al conflitto in Medio Oriente consiste in un accordo negoziale che porti alla creazione di uno stato palestinese. Sia Israele sia i Palestinesi sostengono di essere impegnati per questo obiettivo sfuggente.

Tuttavia, Israele è preoccupato che qualche mossa unilaterale - forse in occasione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre - possa cambiare tutto, segnando un trionfo diplomatico di cui gioirebbero coloro che si augurano la definitiva distruzione dello Stato ebraico.

Nessun recupero

Israele è stato colpito dalle critiche internazionali per il suo attacco di tre settimane a Gaza che ha ucciso 1.400 palestinesi nel 2008-2009, e di nuovo per l'uccisione di nove attivisti turchi lo scorso maggio in un raid contro una flottiglia che cercava di rompere l'assedio di Gaza.

Sotto pressione da parte degli alleati stranieri, Israele in giugno ha allentato il blocco a un milione e mezzo di Palestinesi. Ma non vi è stato un effettivo recupero dal danno alla sua immagine. Israele dice che gli attivisti cinicamente e ingiustamente ignorano il fatto che Hamas e altri gruppi armati islamici a Gaza sono votati alla sua distruzione.

Il think tank Reut Institute, che si concentra su questioni di sicurezza e socio-economiche, sostiene che i delegittimatori cercano di negare il diritto di Israele ad esistere, raffigurandolo "sistematicamente, volutamente e diffusamente” come “crudele e disumano”, negando in tal modo la legittimità morale della sua esistenza.".

Israele è "marchiato come il nuovo Sud Africa dell'apartheid" che, secondo i delegittimatori, può essere addomesticato soltanto con la forza.

Essi hanno deliberatamente confuso la linea di confine tra la critica genuina e la demonizzazione, quindi anche le critiche in buona fede alla politica israeliana potenzialmente fanno il gioco della loro campagna, afferma il think-tank.

Delegittimazione è una parola ora utilizzata frequentemente dal primo ministro Benjamin Netanyahu e da alcuni dei suoi ministri.

Quando i giovani Ebrei statunitensi hanno interrotto il suo discorso a New Orleans a novembre, li ha severamente criticati come delegittimatori inconsapevoli.

Il suo ministro degli esteri, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, sta creando una commissione parlamentare per indagare sui finanziamenti di gruppi israeliani e stranieri, come Human Rights Watch, che sospetta facciano parte della rete globale di delegittimazione.

I critici di Lieberman sostengono che è lui a distruggere la reputazione di Israele come democrazia, liquidando pubblicamente le possibilità di una pace in Medio Oriente.

Oltre l'80 per cento dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite riconoscono Israele. Con la recente aggiunta di otto Stati latino-americani, 108 paesi ora riconoscono lo Stato palestinese. Con una sufficiente pressione dell'opinione pubblica, i Palestinesi sperano che il numero si accresca.

L'impressione di alcuni israeliani che gran parte del mondo abbia dei pregiudizi nei loro confronti è stata di recente oggetto di satira con la parodia di una scuola materna in un popolare programma televisivo di satira israeliano dal titolo "Un paese meraviglioso".

Recitando la loro lezione, i bambini cantano: Israele non ha "nessuno con cui parlare" di pace. "La rimozione degli insediamenti non porterà la pace", cantano. "L'esercito di Israele è morale". "Dategli la Cisgiordania e loro vorranno Haifa".

Quando la maestra indica il "piccolo Israele" su un globo terrestre e chiede: come chiamiamo il resto del mondo?, i bambini rispondono in coro: "antisemita!".

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26 gennaio 2011

I negoziati farsa e il tradimento dell'Anp.

Dei cosiddetti “Palestine Papers” – i quasi 1.700 documenti segreti trafugati dai computer della Palestinian Negotiation Support Unit (NSU) e pubblicati in contemporanea dai siti web del Guardian e di al-Jazeera – molto si è parlato e si parlerà ancora.

Dalla lettura delle prime risultanze, due cose saltano subito agli occhi. La prima: come afferma Lucio Caracciolo su Limes, i negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi fino ad oggi non sono stati altro che una farsa, utile solo a perpetuare “il controllo israeliano sui Territori occupati, formalmente subappaltato al governo fantasma di Abu Mazen, a sua volta sovvenzionato dall’estero, in particolare da noi europei”.

La seconda: l’incredibile e vergognoso tradimento di una leadership palestinese corrotta e priva di legittimazione, pronta ad ogni compromesso persino sulle fondamentali questioni relative a Gerusalemme est e al diritto al ritorno dei profughi palestinesi pur di conservare il potere e, soprattutto, il generoso sostegno finanziario occidentale.

Resta da chiedersi che senso abbia tutto questo per noi occidentali, se davvero abbiamo a cuore la pace in quest’area tormentata. Perché nessuna pace duratura potrà mai essere raggiunta da una leadership debole e corrotta, nessun accordo di pace potrà mai essere approvato dal popolo palestinese ove non conduca alla creazione di uno stato sovrano nei confini pre-1967 con Gerusalemme est come capitale e non contempli il caposaldo di un soddisfacimento del diritto al ritorno dei profughi che non sia soltanto simbolico.

Sull’argomento, da diverse prospettive, gli interessanti articoli di Lucio Caracciolo e di Khalid Amayreh (tradotto a cura di Agenzia di stampa Infopal – www.infopal.it).

Se trattare è una finzione
di Lucio Caracciolo – 25.1.2011

Il negoziato israelo-palestinese è una tragicommedia.

Di fatto, non è nemmeno una trattativa.

È un teatro allestito per l'opinione pubblica internazionale che serve a perpetuare lo status quo. Ossia il controllo israeliano sui Territori occupati, formalmente subappaltato al governo fantasma di Abu Mazen, a sua volta sovvenzionato dall'estero, in particolare da noi europei.

Con gli americani vestiti da mediatori, preoccupati più di mantenere in vita questa triste recita che di risolvere una disputa irresolubile. O meglio risolta sul terreno in base agli attuali rapporti di forza, segnati dalle vittorie militari di Israele.

I Palestinian papers che Al Jazeera e Guardian stanno centellinando sul web – quasi 1.700 documenti segreti sui rapporti fra israeliani, palestinesi e americani, relativi al periodo 1999-2010 – disegnano un quadro disperante.

Con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) disposta a tutto pur di sopravvivere – e continuare a ricevere i finanziamenti internazionali che ne tengono in vita il pletorico apparato – mentre gli israeliani respingono ogni offerta e si esibiscono in studiate manifestazioni di arroganza.

Se il negoziato è mai esistito, è sempre stato degli israeliani con se stessi e con il presidente americano di turno.

Non che i files finora pubblicati segnalino straordinarie novità. Molte delle “offerte” di Saib Erekat e degli altri negoziatori palestinesi erano note.

Ma per l'opinione pubblica palestinese è umiliante leggere nero su bianco come gli uomini di Abu Mazen fossero pronti a concedere a Israele «la più grande Gerusalemme della sua storia» (Erekat), inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici illegali nella zona orientale della città, oltre alla disponibilità ad affidare a un comitato internazionale il controllo dello Haram al-Sharif (Monte del Tempio).

Gli uffici dell'Anp hanno smentito tutto e accusato Al Jazeera di aver manipolato la verità.

Alcune centinaia di militanti di al-Fatah hanno vendicato l'affronto attaccando gli uffici della tv qatarina a Ramallah al grido di «Al Jazeera uguale Israele».

Hamas ha colto l'occasione per accusare l'Anp e Israele di lavorare insieme alla liquidazione della questione palestinese, quasi non fosse già chiusa.

Fioccano le teorie del complotto. Il giornale israeliano Maariv indica in Mohammed Dahlan, boss palestinese da tempo sospettato di fare il doppio o triplo gioco, la possibile “gola profonda”.

Di certo la reputazione già assai pallida del vecchio Abu Mazen e del suo gruppo dirigente è definitivamente compromessa.

In attesa delle prossime rivelazioni e di analisi più approfondite dell'enorme massa di carte e mappe, ciò che resta del teatrino negoziale allestito da Obama con gran fanfara appare spazzato via.

Netanyahu non ha tempo da perdere con Abu Mazen. E quest'ultimo non è in grado di rappresentare un popolo oppresso e ingannato dai suoi stessi dirigenti.

In attesa che gli estremisti più radicali, che hanno trasformato la causa palestinese in uno scontro di religione in salsa jihadista, profittino dell'esasperazione delle frange più giovani e combattive di una popolazione che non crede più in un futuro migliore.

Resta da capire se per noi europei mantenere in vita questa finzione, pagando in cambio di nulla una pseudo-leadership debole e corrotta, abbia ancora un senso. Ammesso l'abbia mai avuto.


Se è tutto vero, è alto tradimento.
di Khalid Amayreh – 26.1.2011

Se le rivelazioni fatte domenica sera su Al Jazeera riguardo ai segreti di anni di trattative tra Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp) sono vere (e non ho il minimo dubbio che lo siano), allora non possiamo sfuggire alla conclusione che chiunque abbia accordato queste incredibili concessioni al regime sionista è un traditore.

Traditore della Palestina, traditore del suo popolo, traditore dei suoi martiri, e traditore delle moltitudini di politici e combattenti della resistenza che languono dietro le sbarre delle carceri israeliane.

Al Jazeera sostiene di aver rinvenuto ben 1.600 documenti, che sono in realtà minute d'incontri avvenuti tra i funzionari palestinesi, israeliani e statunitensi.

Secondo il materiale reso pubblico, i negoziatori palestinesi hanno effettivamente accettato di cedere a Israele il cuore di Gerusalemme, liquidare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e scambiare “terra occupata con altra terra occupata”.

L'Anp ha anche servito ed agito in qualità di subappaltatrice d'Israele ricercando, arrestando, tormentando e persino torturando i palestinesi sospettati di essere coinvolti nella resistenza anti-israeliana.

È inoltre previsto che Al Jazeera riveli ulteriori materiali incriminanti su altre questioni riguardanti le negoziazioni, inclusi i rifugiati e le collaborazioni a livello di sicurezza. Il risultato sarà quello di smascherare la stupidità, irresponsibilità e inferiorità dei negoziatori e funzionari dell'Anp.

Questi ultimi, profondamente imbarazzati e stupiti dalle sconvolgenti rivelazioni, si sono trovati particolarmente incapaci a spiegare quel che è successo veramente.

Sa'eb 'Ereqat, la cui firma è stata mostrata su molti dei fogli resi pubblici, ha cercato invano di eludere il problema reale, rimproverando ad Al Jazeera di aver scelto il momento sbagliato per diffondere questo genere d'informazioni.

Altri membri dell'Anp hanno negato l'autenticità dei documenti, affermando che alcuni di essi sarebbero in realtà fasulli: una possibilità piuttosto lontana, considerando le firme personali di personalità palestinesi, israeliane e statunitensi che li sanciscono.

Oltre ad esprimere la propria disponibilità ad accordare la maggior parte di Gerusalemme est occupata all'illegittimo regime sionista, i fogli mostrano anche come l'Anp fosse seriamente pronta ad approvare enormi concessioni sull'altro argomento di fondamentale importanza, ovvero i rifugiati.

Secondo le offerte fatte, l'Autorità di Ramallah avrebbe infatti accettato di far ritornare nella Palestina occupata dal 1948 solo 100mila degli abitanti che furono sradicati dalle loro case con la minaccia delle armi. Questo, inoltre, dovrebbe avvenire nell'arco di dieci anni, al ritmo di 10.000 profughi rimpatriati ogni anno.

Traditi alla luce del sole

Di sicuro, non ci siamo mai aspettati che l'Anp ripetesse l'esempio del Saladino: i suoi membri non hanno abbastanza dignità da guadagnarsi un simile onore.

In molti hanno occasionalmente cercato di assicurarci che costoro si sarebbero mantenuti fedeli alle costanti nazionali, che conoscono praticamente l'approvazione di tutte le fazioni della politica e della resistenza palestinesi, continuando a rappresentare il minimo che un palestinese potrebbe definire un consenso.

Adesso, persino questo consenso rattoppato viene infranto e abbandonato da persone che sostengono di essere i custodi del sogno palestinese di libertà e indipendenza. L'attuale leadership in Palestina non fa che mentire spudoratamente alla popolazione, e indulge in veri e propri atti di perfidia.

Siamo davanti a qualcosa di più di un semplice deviare da aspirazioni e obiettivi nazionali preziosi e portati avanti da lungo tempo: questo è alto tradimento, puro e semplice.

Dico tradimento, perché nessuno ha autorizzato Mahmud 'Abbas, Sa'eb 'Ereqat, Ahmad Qrei' e il resto della compagnia a compromettere o a svendere i diritti inalienabili del nostro popolo.

In fondo, Gerusalemme è patrimonio dell'intera 'Umma [la comunità islamica, ndr]. In ultima analisi, se 'Omar Ibn al-Khattab fece ingresso nella città sacra e il Saladino la liberò dalle mani dei Franchi, non fu certo per il bene del nazionalismo arabo.

Cedere ai sionisti la città, o ampi settori di questa, rappresenta quindi un tradimento scandaloso, non solo nei confronti di chi ha perso la vita per la causa fin dal 1948, ma anche di numerose generazioni di palestinesi, arabi e musulmani vissute fin dal 637 d. C., quando il califfo 'Omar il Giusto entrò nella città e diede ai suoi abitanti il suo famoso statuto, conosciuto come al-'Uhda al-'Omariyya.

Per concludere in bellezza, l'Anp e i suoi membri cercano di nascondere la vergogna insistendo nel dire che i documenti in questione sono sempre stati condivisi “con i nostri fratelli” in Egitto, Giordania, Arabia Saudita e altri paesi.

Ebbene, una simile scusa è peggiore di un peccato mortale: da quando l'alto tradimento può essere giustificato se scusato, avallato ed accettato da “altri tiranni arabi”, la cui priorità nella vita è restare al potere, preferibilmente con il beneplacito degli Stati Uniti?

Dopotutto, compiacere Israele vuol dire compiacere gli Usa, e niente compiacerebbe Israele – e quindi gli Usa – più della cessione di Gerusalemme, o di gran parte di essa. E poi, quando mai questi “Fratelli Arabi” si sono preoccupati davvero di Gerusalemme, o della Palestina in genere?

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19 gennaio 2011

Sono i bulldozer israeliani a condurre il dialogo.

I lavori di demolizione di un’ala dello storico Shepherd Hotel, nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, per farvi posto a 20 nuove unità abitative da destinare ai coloni israeliani, costituiscono solo uno degli ultimi atti con cui le autorità israeliane tentano di imporre la giudaizzazione di Gerusalemme est e la cancellazione di ogni simbolo della sua antica identità arabo-islamica.

In ciò Israele è favorito dall’incredibile acquiescenza e dalla passività dell’intera comunità internazionale, pur essendo chiaro che nessuna pace vi potrà mai essere tra Israeliani e Palestinesi se a questi ultimi non sarà consentito di creare uno stato indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme est.

Eppure, proprio negli stessi giorni, i capi delle missioni diplomatiche Ue nell’area hanno tracciato una possibile strada da seguire, arrivando addirittura a invocare il boicottaggio delle aziende e delle merci israeliane provenienti dalle zone occupate di Gerusalemme.

E’ dunque la politica che deve battere un colpo, e i governi occidentali, se davvero hanno a cuore la pace, devono far seguire atti concreti di sanzione contro Israele alle sterili condanne formali che lasciano il tempo che trovano.

Israeli bulldozers do the talking.
di Khaled Amayreh – 15 gennaio 2011

Israele la scorsa settimana ha dimostrato ancora una volta la sua determinazione a rifuggire da qualsiasi vera occasione di dialogo che potrebbe portare alla fondazione di uno Stato palestinese accettabile basato sui confini del 1967.

Ruspe israeliane ed enormi martelli pneumatici si sono abbattuti sul quartiere palestinese di Sheikh Jarrah per demolire lo Shepherd Hotel, un enorme complesso costruito negli anni ’30 (attualmente i lavori sono sospesi in pendenza di un ricorso del Palestinian Islamic Council, n.d.r.). Una parte della struttura era stata anche la casa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al Husseini. La struttura demolita aveva in effetti un grande valore storico legato alla lotta palestinese.

Questa demolizione è stata solo l’ultimo passo di Israele per consolidare l’egemonia ebraica su una città araba occupata e obliterare la sua antica identità arabo-islamica. La giudaizzazione forzata della città – sacra a musulmani, cristiani ed ebrei – viene febbrilmente eseguita tramite oscuri accordi e dubbie espropriazioni dove abbondano menzogne, inganni e truffe.

Inoltre i circoli sionisti, in cooperazione con il governo israeliano e con gli interessi dei coloni ebrei, hanno disposto centinaia di milioni di dollari per trasferire le proprietà arabe agli interessi ebraici in tutta Gerusalemme Est. La distruzione dello Shepherd Hotel è avvenuta nonostante le obiezioni dell’intera comunità internazionale.

In ogni caso, data l’inefficacia storica di questo genere di obiezioni, il governo israeliano si è abituato a non prenderle seriamente, pensando che esse siano solo fatte per motivi di facciata e che non costituiscano in alcun modo una contestazione credibile alla politica israeliana degli insediamenti.

Secondo fonti israeliani attendibili a Gerusalemme, le autorità municipali israeliane stanno aspettando il momento giusto per dare il via ad altre grandi demolizioni di case arabe nel quartiere di Silwan. “Se il governo dovesse scoprire che la reazione internazionale, soprattutto statunitense, sarà debole come al solito, allora andrà avanti con le demolizioni,” ha riferito la fonte, che non era stata autorizzata a parlare con i media.

“[il Consiglio Municipale pro-insediamenti della città] vuole desensibilizzare l’opinione pubblica internazionale per farle accettare la [sua] realtà e il fatto che Israele ha carta bianca a Gerusalemme.”

Le reazioni all’ultima provocazione israeliana sono state “normali”, che si tratti dell’Autorità Palestinese (ANP) – che si è spesso appellata alla “comunità internazionale” per fare pressione su Israele – dell’UE, dell’ONU o degli Stati arabi, che hanno soltanto più o meno ripetuto le solite formalità sull’illegalità della politica israeliana.

Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese, ha richiesto che i Paesi occidentali facciano seguito alle loro condanne nei confronti delle provocazioni israeliane. “L’ONU ed i governi di tutto il mondo, inclusi gli Stati Uniti ed il Regno Unito, hanno già condannato i piani di demolizione dell’hotel. Chiediamo a tutto il mondo di prendere una forte posizione in difesa delle proprie opinioni. Questo comportamento intransigente e illegale di Israele deve essere contrastato e controllato.”

Con toni disperati, Erekat avverte che il primo ministro israeliano Binyamin Netanhyahu sta minando e sminuendo gli sforzi internazionali per la creazione di uno Stato Palestinese. “Mentre Netanyahu continua la sua campagna propagandistica sul processo di pace, nella realtà si sta muovendo rapidamente per prevenire la fondazione di uno Stato Palestinese.”

“Israele continua a modificare il paesaggio di Gerusalemme cercando di cambiare il suo status e di trasformarla in una città esclusivamente ebraica. Questo processo di pulizia e colonizzazione deve essere fermato per poter cambiare la cupa realtà dell’occupazione israeliana e trasformarla in uno Stato palestinese libero e sovrano con Gerusalemme Est come capitale.”

Nel frattempo il governo israeliano sta cercando di dare l’impressione che i diplomatici siano al lavoro, probabilmente per controbilanciare l’espansione degli insediamenti e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e dalla West Bank.

Netanyahu si è incontrato col presidente Hosni Mubarak al Cairo la scorsa settimana. Ha anche richiesto un incontro col re Abdullah di Giordania, apparentemente per la stessa ragione. Mubarak ha spinto Netanyahu a cambiare la politica israeliana verso i palestinesi e verso il processo di pace. Netanyahu ha ascoltato la richiesta di Mubarak, tuttavia senza recepirla. Infatti non appena è rientrato in Israele, sono avvenute le demolizioni a Gerusalemme Est.

Nel frattempo Israele sta per mandare un inviato a Washington per rassicurare l’amministrazione Obama che il governo Netanyahu è ancora impegnato nel processo di pace. Tutto questo avviene dopo il fallimento dell’amministrazione Obama nel suo tentativo di convincere Israele a congelare l’espansione degli insediamenti nei territori occupati palestinesi, anche in cambio di grandi incentivi diplomatici e militari.

Alcuni analisti credono che l’ossequioso comportamento americano verso il governo Netanyahu, soprattutto l’eccessiva pazienza mostrata dal segretario di Stato Hillary Clinton, abbia ulteriormente incoraggiato Israele e la sua leadership a ignorare le pressioni statunitensi. “ Sono sicuro che la signora Clinton teme l’ira israeliana più di quanto gli israeliani temano l’ira americana”, ha detto un esperto giornalista europeo a Gerusalemme Est.

La reazione americana alla demolizione dello Shepherd Hotel insieme agli ultimi omicidi a sangue freddo di palestinesi innocenti nella West Bank e nella Striscia di Gaza, inclusi contadini che coltivavano la loro terra e anziani che dormivano nei loro letti, è stata caratteristicamente vuota e mascherata dal linguaggio diplomatico.

Nel frattempo, la Clinton ha rimesso nel cassetto il processo di pace durante il suo tour negli emirati del Golfo Persico, preferendo incitare gli arabi contro il programma nucleare iraniano. Prevedibilmente la Clinton sottintendeva che Israele non rappresenta alcuna minaccia per gli arabi e che il vero nemico comune di Israele e degli arabi è l’Iran. La Clinton è arrivata fino screditare le dichiarazioni del capo del Mossad, Meir Dagan, nelle quali egli aveva affermato che l’Iran non avrebbe avuto capacità belliche nucleari prima del 2015.

Qualche settimana fa, la Clinton ha respinto l’accusa che “azioni unilaterali israeliane” stiano facendo deragliare il processo di pace. “I negoziati bilaterali”, ha detto, “sono l’unico modo per raggiungere la pace fra Israele e i palestinesi”. Un ministro del governo dell’ANP ha commentato le dichiarazioni della Clinton, dicendo: “ Questo è come dire alla vittima e al suo stupratore di mettersi d’accordo fra di loro”.

Khaled Amayreh è un giornalista palestinese; è corrispondente di al-Ahram Weekly da Gerusalemme Est

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1 dicembre 2010

Processo di pace: Hamas è parte del problema o della soluzione?

A partire dall’ ”End of Mission Report” dell’inviato Onu per il Medio Oriente Alvaro De Soto, numerose sono state in questi ultimi anni le voci influenti di critica alla posizione internazionale di boicottaggio e di esclusione di Hamas dal processo di pace con Israele.

Eppure non da ora il movimento islamico ha mostrato atteggiamenti pragmatici e ha dato più volte prova della volontà di pervenire ad una soluzione politica del conflitto israelo-palestinese. E, d’altra parte, non si riesce bene a capire come si possa davvero giungere ad un definitivo accordo di pace senza il coinvolgimento di Hamas.

Su questo verte l’articolo che segue, scritto il 10 novembre scorso da Mahmoud Jaraba per il sito web Carnegie Endowment e qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

Hamas e il processo di pace: parte del problema o parte della soluzione?

Il 14 ottobre Khaled Meshaal, capo dell’ala politica di Hamas, ha riferito al settimanale Newsweek che “c’è una posizione ed un programma che tutte le parti palestinesi condividono. Uno stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme come capitale. Il diritto al ritorno. Uno stato sovrano sul suo territorio e lungo i suoi confini. E senza insediamenti”. Meshaal ha osservato che Hamas accetterà qualsiasi accordo con Israele che sia condiviso dalla maggioranza dei palestinesi, aggiungendo che “l’amministrazione americana dovrebbe sentire queste cose direttamente da noi”.

Le posizioni di Meshaal non sono una novità per Hamas, il quale ha assunto posizioni piuttosto pragmatiche su tali questioni da quando nel gennaio del 2006 ottenne la maggioranza (74 seggi su 132) nel parlamento palestinese e formò il decimo governo palestinese. Da allora, Hamas ha cercato di mostrare il suo lato più pragmatico, in particolare accettando una soluzione politica al problema palestinese. La soluzione implica la formazione di uno stato palestinese che si estenda dai confini del 1967 al fiume Giordano. Questa opinione è stata presentata nel documento di riconciliazione palestinese (anche chiamato “Documento dei Prigionieri”, un accordo tra alcuni attivisti detenuti appartenenti ad Hamas e ad altre fazioni palestinesi, il quale è stato modificato nel giugno del 2006). Il movimento ha anche annunciato in varie occasioni la sua volontà di sospendere la resistenza armata e di avviare una tregua di 10 anni in cambio di uno Stato palestinese sui territori del 1967.

Le dichiarazioni di Meshaal coincidono con la fase di stallo dei negoziati israelo-palestinesi e con la ripresa dei colloqui di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Tali dichiarazioni contengono due importanti messaggi, uno per l’opinione pubblica nazionale, l’altro per l’arena internazionale. Il messaggio per quest’ultima è stato abbastanza chiaro: Hamas è un partner vitale e il suo coinvolgimento non significherebbe la fine dei negoziati – tale messaggio era diretto in particolare all’Europa, dove molti governi sono sempre più inclini a parlare direttamente con Hamas.

Il messaggio interno: pragmatismo di Hamas e timori di Fatah

Le dichiarazioni di Meshaal avevano anche lo scopo di mostrare ai palestinesi che Hamas è pragmatico e sicuro di sé, mentre l’Autorità Palestinese (ANP) e Fatah sono sulla difensiva. Le risposte contraddittorie dell’ANP e di Fatah alle sue dichiarazioni riflettono la situazione disperata in cui versa Ramallah: i negoziati con Israele sono in una fase di stallo, e Fatah è debole come sempre. Adnan al-Damiri, portavoce ufficiale dei servizi di sicurezza palestinesi, ha accusato Hamas di cercare di “essere una controfigura della leadership palestinese”. Dal canto suo, Osama al-Kawasimi, portavoce di Fatah, ha invece ben accolto le affermazioni Meshaal, affermando che esse dimostrano “una completa compatibilità con le posizioni politiche adottate dalla leadership palestinese nel 1988″, e che tali affermazioni avrebbero reso “la partnership palestinese più realistica”.

I tentativi di Hamas di dimostrare pragmatismo e apertura perlomeno verso alcuni degli attori internazionali sono una fonte costante di irritazione per l’ANP. Nel corso degli ultimi anni, Hamas ha dimostrato più perseveranza e manovrabilità politica di quanto molti non si aspettassero. Recentemente, il movimento ha iniziato a rompere l’embargo politico che lo ha isolato a livello internazionale, dimostrando la sua capacità di controllare lo stato della sicurezza a Gaza e di gestire accordi di sicurezza con Israele, tra cui una tregua raggiunta attraverso la mediazione egiziana.

Da parte sua, Fatah teme di perdere la sua posizione di preminenza se gli attori internazionali dovessero aprirsi ad Hamas. La strategia del defunto Yasser Arafat e di Fatah, a partire dai negoziati di Oslo del 1993, si è sempre basata sull’opporre la propria moderazione alle posizioni intransigenti di Hamas e alla sua tendenza all’uso della violenza. Il presidente Mahmoud Abbas ha seguito la stessa strategia fin dal 2005, in particolare dopo la frattura inter-palestinese, verificatasi a metà del 2007.

Mentre il controllo di Hamas su Gaza e il fallimento delle trattative per ottenere concessioni da parte israeliana hanno indebolito la posizione di Abu Mazen, la riconciliazione tra Fatah e Hamas potrebbe rafforzare il suo ruolo in patria e all’estero, e al tempo stesso sostenere i membri moderati all’interno di Hamas. Dopotutto, nell’Accordo Nazionale, Hamas decise di non opporsi alla gestione di negoziati diretti con Israele da parte del presidente palestinese, e Hamas potrebbe ribadire questo punto in un accordo futuro.

Le posizioni dei sostenitori di Hamas

I sostenitori di Hamas hanno anche un atteggiamento più pragmatico nei confronti della pace di quanto molti non si aspetterebbero.

Dai sondaggi condotti dal Palestinian Center for Policy and Survey Research con sede a Ramallah negli anni prima e dopo la spaccatura del 2007, emerge che i seguaci di Hamas non erano inesorabilmente a favore della violenza, a differenza di ciò che si ritiene comunemente.

La maggioranza dei sostenitori di Hamas si sono definiti come ampiamente a favore del processo di pace (il 55%, in media, nei sondaggi condotti da marzo 2006 a dicembre 2008, contro l’86% tra i sostenitori di Fatah). Inoltre, secondo un’indagine condotta nel marzo del 2006 in Cisgiordania e a Gaza, il 70% dei sostenitori di Hamas e l’84% dei sostenitori di Fatah sostenevano la piena riconciliazione fra palestinesi e israeliani, qualora venisse fondato uno stato palestinese e tale stato fosse riconosciuto da Israele. Paradossalmente, secondo un sondaggio dell’ottobre del 2010, una percentuale maggiore di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza si descrive come a favore del processo di pace (il 69%), rispetto a solo il 58% dei palestinesi in Cisgiordania.

Prendendo in considerazione le opzioni che i sostenitori di Hamas e Fatah potrebbero accettare come punto di partenza per un progetto nazionale palestinese unitario, i sondaggi mostrano che la maggioranza in entrambi i campi sostiene una soluzione politica basata sulla formazione di uno stato nei territori occupati nel giugno del 1967. Il 76% dei sostenitori di Hamas e praticamente tutti i sostenitori di Fatah (il 96%) concordano sul fatto che l’obiettivo del popolo palestinese è quello di creare uno stato palestinese indipendente su tutti i territori occupati nel 1967 con Gerusalemme come sua capitale. I sostenitori di Fatah e Hamas concordano anche sul diritto al ritorno dei profughi e sulla liberazione di tutti i prigionieri, come garantito dalle Nazioni Unite, secondo un sondaggio del giugno del 2006. Lo stesso sondaggio rivela che un’esigua maggioranza di sostenitori di Hamas (il 56%) e la stragrande maggioranza dei sostenitori di Fatah (l’86%) è a favore della costruzione di un consenso nazionale sulla base delle risoluzioni internazionali e arabe, come stabilito nel Documento dei Prigionieri.

Questi dati dimostrano che la base di Hamas ha spostato le proprie convinzioni in favore della volontà di raggiungere una pace che garantisca i più elementari diritti dei palestinesi, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, almeno fino alla spaccatura del 2007 e alla guerra di Israele a Gaza. Hamas ha ripetutamente detto che rispetterà le posizioni dei suoi sostenitori, e quelle dell’opinione pubblica palestinese in generale, in qualsiasi accordo futuro. Forse i sostenitori di Hamas ora sono più disillusi, dopo molti anni di cattivi rapporti con Fatah, di isolamento a Gaza, e di repressione in Cisgiordania. Ma le dichiarazioni di Meshaal rivelano che i leader di Hamas sono ancora disposti a mostrare un lato pragmatico, e ciò fa sperare sull’evoluzione di nuovi punti di vista all’interno del gruppo.

Mahmoud Jaraba è autore di “Hamas: Tentative March toward Peace” (Ramallah: Palestinian Center for Policy and Survey Research, 2010)

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10 novembre 2010

Gli Usa riarmano Israele: è questa la strada verso la pace?

L’aviazione israeliana di recente ha notevolmente aumentato la propria capacità di effettuare bombardamenti di precisione grazie alla fornitura del primo lotto di GBU-39 Small Diameter Bombs (bombe di piccolo diametro – SDB) provenienti dagli Stati Uniti.

La GBU-39 è una bomba di 250 libbre (113,6 kg.) sviluppata dalla Boeing Company come arma a basso costo che consente attacchi di alta precisione e con un basso livello di danni collaterali. Il Congresso Usa, alla fine del 2008, aveva autorizzato Israele ad acquistare mille unità di questo tipo di bomba, ed è interessante osservare come sia stato Israele, ancora una volta, il primo paese al di fuori degli Stati Uniti a ricevere la nuova arma.

La GBU-39, a guida GPS, è ritenuta una delle bombe di maggior precisione al mondo. Ha la stessa capacità di penetrazione di una normale bomba di 900 kg. (i test condotti dimostrano che può penetrare almeno 90 cm. di cemento armato), sebbene porti con sé solo 22,7 kg. di esplosivo: le sue piccole dimensioni (1,75 m. di lunghezza) aumentano inoltre il numero di bombe che ciascun aereo può trasportare e, conseguentemente, il numero di obiettivi attaccabili in un solo raid.

I primi aerei dell’aviazione israeliana a ricevere la nuova arma saranno gli F-15 che, potendo trasportare fino a 20 bombe sulle ali e sulla fusoliera, diventeranno quella che viene già definita come una “macchina per uccidere”.

L’amministrazione Obama, fin dall’inizio e ancora adesso, si è proposta come mediatrice per raggiungere finalmente un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, eppure ancora una volta non si può che rilevare una profonda discrepanza tra le intenzioni e le belle parole, da una parte, e i fatti concreti dall’altra.

A fronte dell’annunciato, ennesimo piano israeliano per costruire 1.300 nuove abitazioni a Gerusalemme est, Obama non ha saputo far altro che dichiarare che questo nuovo impulso alla colonizzazione “non aiuta” gli sforzi di pace: un po’ poco per la verità.

Di contro, il governo americano non esita a fornire ad Israele nuove armi di precisione che non servono certo alla difesa del territorio israeliano, perché nessuno ha l’intenzione e/o la capacità di attaccare Israele, ma che vanno a incrementare il poderoso arsenale di cui Israele ha già dato prova di saper fare buon uso per massacrare civili inermi ed innocenti in Libano e, più di recente, nella Striscia di Gaza.

Il Presidente Obama avrà ora ancor più difficoltà ad accreditare il suo paese nel mondo arabo come “honest broker” di un accordo di pace tra Israeliani e Palestinesi, ma dovrebbe anche spiegare a tutti noi se davvero è questa la strada verso la pace in medio oriente, e nel mondo intero.

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27 ottobre 2010

Guerra eterna.

Abbiamo visto come l’irrompere della questione della “ebraicità” di Israele da un lato serva a procrastinare sine die il processo di pace – data la irricevibilità da parte dell’Anp di un simile riconoscimento – ma, dall’altro, rifletta l’intima convinzione propria di gran parte degli Ebrei israeliani di godere di un vero e proprio “diritto divino” sull’intero territorio della Palestina storica.

Nell’articolo che segue (proposto nella traduzione di Medarabnews), Zeev Sternhell – dalle colonne di Ha’aretz – ci invita a inquadrare la questione sotto un aspetto più ampio, la necessità dello stato ebraico, ai fini della sua stessa esistenza, di una condizione di guerra perenne, all’esterno ma anche al suo interno.

All’esterno, perché i negoziati, e la necessità di una spartizione della terra con i Palestinesi per poter arrivare ad un accordo di pace, implicano il riconoscimento di eguali diritti in capo al popolo palestinese (ed anche per poter lucrare la solidarietà dell’Occidente nei confronti di uno stato “assediato” e “aggredito”).

All’interno, perché – come è stato autorevolmente affermato persino in Israele – uno stato può essere “ebraico” o “democratico”, ma non le due cose insieme.

Occorre ammettere la verità: i leader dei partiti di destra hanno una visione strategica e la capacità di guardare a lungo termine, e sanno anche come scegliere gli strumenti adatti per portare avanti la propria missione.

La proposta di emendamento alla legge sulla cittadinanza, il cui scopo è fomentare uno stato di ostilità costante tra gli ebrei e tutti gli altri, è solo un aspetto del più vasto piano di cui il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman è portavoce ufficiale. L’altro aspetto è la promessa fatta dal Ministro degli Esteri alle nazioni del mondo che la nostra guerra con i Palestinesi è una guerra eterna. Israele ha bisogno sia di un nemico interno che di un nemico esterno, di un constante senso dell’emergenza, perché la pace – non importa che sia con i Palestinesi nei Territori o in Israele – probabilmente lo indebolirebbe fino al punto di mettere in pericolo la sua esistenza.

E in effetti la destra, la quale include la maggior parte dei leader del Likud, è pienamente consapevole che la società israeliana vive sotto la minaccia di un crollo dall’interno. Infatti il virus democratico ed egualitario sta consumando la nazione dall’interno. Questo virus si basa sul principio universale dei diritti umani, e genera un denominatore comune fra tutti gli esseri umani semplicemente perché sono tali. E cosa hanno in comune di più gli esseri umani se non il diritto di essere padroni del proprio destino e uguali fra di loro?

Secondo la destra, il problema è proprio questo: i negoziati sulla divisione della terra sono un pericolo esistenziale perché riconoscono gli uguali diritti dei Palestinesi, e perciò compromettono lo status unico degli Ebrei nella Terra di Israele. Di conseguenza, per preparare i cuori e le menti al controllo esclusivo degli ebrei sulla popolazione di tutto il territorio, è necessario attenersi al principio secondo cui ciò che conta veramente nella vita degli esseri umani non è ciò che li unisce, ma ciò che li divide. E cosa divide le persone più della storia e della religione?

Al di là di ciò, vi è una chiara gerarchia di valori. Siamo prima di tutto Ebrei, e solo se riceviamo assicurazioni che non vi sarà alcun conflitto tra la nostra identità tribale-religiosa e i bisogni del dominio ebraico, da una parte, e i valori della democrazia, dall’altra, Israele può anche essere democratico. Ma ad ogni modo, la sua natura ebraica riceverà sempre chiara preferenza. Questo fatto comporta una lotta senza fine, perché gli Arabi si rifiuteranno di accettare la sentenza di inferiorità che lo Stato di Lieberman e del Ministro della Giustizia Yaakov Neeman hanno preparato per loro.

È per questo motivo che questi due ministri, con il tacito sostegno del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, hanno rifiutato la proposta che il giuramento di fedeltà fosse “nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza”. Secondo loro, la Dichiarazione di Indipendenza, la quale promette uguaglianza per tutti a prescindere dalla religione e dall’appartenenza etnica, è un documento distruttivo il cui scopo reale all’epoca era di placare i non-Ebrei e guadagnarsi il loro appoggio nella Guerra di Indipendenza. Oggi, in un Israele armato fino ai denti, solo dei nemici del popolo potrebbero desiderare che venisse conferito valore giuridico ad una dichiarazione che in ogni caso quasi nessuno aveva mai preso sul serio.

È qui che la dimensione religiosa naturalmente acquisisce rilevanza. Come per i conservatori rivoluzionari dei primi anni del XX secolo e i nazionalisti neoconservatori dei nostri giorni, la religione gioca un ruolo decisivo nel consolidamento della solidarietà nazionale e nel preservare la forza della società.

La religione viene percepita, naturalmente, come sistema di controllo sociale senza contenuto metafisico. Di conseguenza, le persone che odiano la religione e il suo contenuto morale possono benissimo stare accanto a personaggi come Neeman, il quale spera che un giorno potrà imporre la legge rabbinica in Israele. Dalla loro prospettiva, il ruolo della religione è quello di consacrare l’unicità ebraica e di spingere i principi universali oltre i limiti dell’esistenza nazionale.

In questo modo, la discriminazione e la disuguaglianza etnica e religiosa sono diventate la norma in questo paese, e il processo di delegittimizzazione di Israele ha raggiunto un nuovo livello. E tutto ciò è conseguenza dell’operato di mani ebree.

Zeev Sternhell è uno storico israeliano di origine polacca; scrive abitualmente sul quotidiano Haaretz

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