La guerra di Gaza non è finita.
Ad oggi non è ancora chiara la responsabilità dell’attentato avvenuto domenica sera nel suk di Khan el-Khalili in Egitto, che la provocato la morte di una studentessa francese di 17 anni e il ferimento di altre 25 persone.
I tre arrestati delle prime ore – un uomo e due donne – sono già stati rilasciati, mentre rimangono in stato di fermo altre 14 persone, tra le quali la tv araba “al-Arabiya” afferma esservi anche tre uomini di origine pachistana.
Con tutte le cautele del caso, il giornalista Guido Rampoldi, nell’articolo che segue, ritiene che l’attentato sia in qualche modo legato ai recenti accadimenti nella Striscia di Gaza e, in particolare, al difficile ruolo di mediazione di cui si è fatto carico l’Egitto. Rampoldi, con una chiara esposizione, mette in luce la reale posta in gioco tra Israele e il Cairo riguardo a Gaza, e mostra come il ruolo di mediatore, per forza di cose neutrale, abbia attirato su Mubarak le ire del mondo islamico.
Qui voglio solo aggiungere che tutte le risoluzioni e i documenti ufficiali che riguardano la questione palestinese hanno sempre perfettamente chiarito che la Striscia di Gaza rappresenta un tutt’uno con la Cisgiordania, e che il futuro stato palestinese dovrà ricomprendere entrambe le aree. L’ opzione “egiziana” per Gaza, dunque, al pari dell’opzione “giordana” per la West Bank, non ha nessun aggancio di legittimità che ne supporti l’implementazione e, del resto, entrambe sono fieramente avversate dagli stati interessati.
Sembra un secolo fa, ma il 15 novembre del 2005 Israeliani e Palestinesi firmavano un accordo che regolava l’accesso e il movimento da e per la Striscia di Gaza delle persone e delle merci (Agreement on Movement and Access), un accordo fortemente voluto e sponsorizzato da Condoleezza Rice e (quasi subito) sabotato da Israele, al pari degli innumerevoli accordi e intese di questi anni.
L’intenzione dell’AMA era quella di “facilitare il movimento di beni e persone all’interno dei Territori palestinesi, di aprire “…un valico internazionale sul confine tra Gaza e l’Egitto” che avrebbe permesso ai Palestinesi di controllare “l’entrata e l’uscita delle persone” e, in definitiva, “di promuovere un pacifico sviluppo economico e di migliorare la situazione umanitaria sul campo”; a tal fine, oltre a prevedere che i valichi tra Israele e la Striscia restassero aperti in via continuativa, l’accordo ipotizzava che Gaza e la West Bank fossero collegati a mezzo di convogli di autobus (per le persone) e di camion (per le merci), che la costruzione del porto a Gaza potesse iniziare da subito e che si cominciasse a discutere anche della costruzione di un aeroporto.
Come è andata a finire, è noto.
Ora è il momento di riprovare, tenendo presente tre fatti: a) che, come afferma Rampoldi, occorre trovare una soluzione per Gaza, e bisogna farlo in fretta; b) che la soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese è l’unica a poter essere accettata da tutte le parti in causa e ad essere concretamente attuabile; c) che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania devono costituire un tutt’uno inseparabile.
La causa palestinese, come è noto, costituisce un richiamo formidabile per ogni gruppo terroristico di matrice islamica, sia strutturato sia”amatoriale” come sembra essere quello entrato in azione in Egitto, e lo dimostrano anche i tragici fatti di Mumbai così come i recenti proclami di al-Zawahiri.
Trovare una soluzione per Gaza e, più in generale, una pacifica ed equa composizione del conflitto israelo-palestinese è dunque urgente ed indispensabile per assicurare la pace nella regione, ma non solo; e questa soluzione va trovata ed attuata anche ove non coincida perfettamente con le aspettative di Israele.
La bomba esplosa ieri in un caffè del Cairo prossimo al mercato più frequentato dai turisti, Khan el Khalili, sembra ricordarci che la guerra di Gaza non è definitivamente finita con il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia.
L`attentato ha ancora contorni confusi e converrà attendere di saperne di più, senza dimenticare quel che accadde a proposito delle stragi di turisti nel Sinai, che attribuite dalla polizia ad AlQaeda, si rivelarono la vendetta di tribù beduine contro il governo.
Ma premesso quest`obbligo alla cautela, è difficile sottrarsi al sospetto che questa riapparizione del terrorismo al Cairo sia connessa con quanto avvenuto nella Striscia, e con la parte complicata imposta dalle circostanze al regime di Mubarak, costretto a districarsi tra Hamas e Israele, mediatore e possibile vittima di una partita da cui ha molto da perdere.
Converrà ricordare che vista dal Cairo l`offensiva israeliana aveva obiettivi molteplici, tra elettorali e tattici, ma innanzitutto uno scopo strategico: scaricare Gaza e i suoi abitanti all`Egitto.
Non era tanto la seconda guerra di Ehud Olmert, quanto l`ultima di Ariel Sharon. Era stato infatti Sharon a varare nel 2006 quel Disengagement Plan, o Piano di disimpegno, che portò l`esercito israeliano a sgomberare con la forza tutti gli insediamenti colonici nella Striscia. Ma Israele si proponeva di liberarsi non soltanto del peso di quei villaggi, troppo costosi da difendere e ormai d`impaccio, ma anche delle responsabilità legali verso i palestinesi che derivavano ad Israele dal suo ruolo di potenza occupante (come afferma il Piano al capitolo 1, paragrafo 6, dove si legge: «The completion of the planwill serve to dispel the claims regarding Israel`s responsibility for the Palestinians in the Gaza Strip»). Allo stesso tempo il governo israeliano non voleva che Gaza diventasse Stato palestinese. O perlomeno non lo voleva dopo la vittoria di Hamas nella Striscia, giacché a quel punto avrebbe avuto un alleato di Teheran quasi in casa. L`unica soluzione che assecondasse i desideri israeliani era il ritorno di Gaza all`Egitto. Ma l`Egitto, che fino al 1967 aveva esercitato sulla Striscia un mandato fiduciario, non aveva alcuna intenzione di prendersi un milione e mezzo di palestinesi, per giunta affacciati sul Sinai.
Sarebbe stato come spingere un popolo senza terra verso una terra senza popolo, con tutto quel che ne poteva derivare. Per esempio, che la diaspora palestinese tentasse di ritagliarsi una patria nel Sinai, come già aveva fatto in Giordania e in Libano.
Secondo diplomatici egiziani, a più riprese gli israeliani tentarono di convincere Muharak che Gaza all`Egitto sarebbe stato un buon affare. Invano. Il Cairo non ne voleva sapere. E perché non si creassero equivoci, teneva chiuso il confine con la Striscia. La polizia chiudeva gli occhi, questo sì, sul via vai sotterraneo di merci che raggiungevano i palestinesi attraverso i tunnel di Rafah. Ma formalmente la frontiera era sigillata, proprio come lo era, anche nei fatti, la frontiera israeliana.
Vittime di quel braccio di ferro, i palestinesi restavano totalmente isolati. E Hamas minacciava di vendicarsi ricominciando a sparare razzi sulle città israeliane.
Tutto è precipitato poco prima che si insediasse Obama. Diviso e forse incapace di sottrarsi agli ordini di Teheran, Hamas non ha rinnovato la tregua, sapendo perfettamente cosa ne sarebbe seguito.
E Israele ha lanciato l`offensiva che preparava da mesi.
Che questo fosse o no da subito il principale obiettivo, l`aviazione ha raso al suolo tutti i palazzi che rappresentavano la statualità palestinese e bombardando depositi alimentari o mulini, ha costruito le premesse perché i palestinesi dipendessero dagli aiuti egiziani. Ma tutto questo, così come la morte di 1300 persone, è stato inutile. L`Egitto non ha ceduto e Mubarak ha messo in chiaro che non si sarebbe fatto imbrogliare dagli israeliani. Hamas conserva i suoi arsenali e non ha perso la presa su Gaza. Israele è più isolata, e le ultime elezioni non hanno certo contribuito alla sua immagine.
Ma la partita non è finita. Così come hanno voluto la guerra, paradossalmente Hamas e Israele vogliono anche che il conflitto si concluda, almeno sul momento, con la stessa soluzione tecnica: che l`Egitto apra il confine. Mubarak si rifiuta e la sua diplomazia continua a lavorare, per ora inutilmente, ad un compromesso che costringa Israele a riconoscere la propria responsabilità su Gaza, e Hamas a riconoscere un qualche ruolo istituzionale al presidente Abu Mazen, legittima Autorità palestinese. Ma questo ruolo di mediatore, per forza di cose neutrale, espone Mubarak all`ira di tutto l`estremismo islamico.
Lo si considera un complice di Israele, un traditore della causa araba e un nemico dei palestinesi, per aver tenuto chiuso il confine prima e durante l`offensiva israeliana. In Egitto i suoi accusatori più tenaci sono quelle frange dei Fratelli musulmani forse sfuggiti di mano al vertice dell`organizzazione fondamentalista, un consesso di vecchioni molto più inclini al compromesso della base giovanile.
E` quest`area fuori controllo, oppure il terrorismo palestinese, che potrebbero aver prodotto l`attentato di ieri. Che ci ricorda come lo status quo di Gaza non sia sostenibile a lungo. Occorre trovare una soluzione, e trovarla in fretta.
Etichette: egitto, el-khalili, gaza, Israele, palestina
2 Commenti:
Sono poeta, ebrea inglese e mi reco spesso in Israele. Profondamente turbata dalle notizie di deliberate stragi e distruzioni durante la campagna militare israeliana, ho ritenuto di dover andare a vedere di persona. Mercoledì 28 gennaio sono atterrata a Tel Aviv e poi, esibendo la mia tessera di giornalista al valico di Erez, ho attraversato il confine entrando nella striscia di Gaza dove ho incontrato la mia guida, un giornalista palestinese. Quando mi ha chiesto se volevo incontrare degli esponenti di Hamas, ho spiegato che ero venuta per portare testimonianza dei danni e delle sofferenze subite dai civili, non per parlare di politica.
Quello che ho visto è che ci sono stati precisi attacchi a tutte le strutture di Hamas. Il segretario generale dell’Onu intende condannare la distruzione mirata dei depositi di esplosivi nella moschea a Imad Akhel, del complesso delle Forze Nazionali, della stazione di polizia di Shi Jaya, del ministero dei prigionieri?
Gli abitanti di Gaza che ho incontrato non si affliggevano per lo stato di polizia. E non erano diventati più estremisti. Ho visto come i passanti ignoravano le camice nere di Hamas, minacciose agli angoli delle strade.
C’erano letti vuoti, all’ospedale Shifa,e un’atmosfera di intimidazione. Hamas è ridotta ad esercitare il suo incontrastabile potere da vasti rifugi antiaerei che, come l’ospedale, vennero costruiti trent’anni fa dagli israeliani. Intimoriti abitanti di Gaza mi parlavano a mezza bocca dicendomi che la gran parte dei 5.500 feriti sono curati in Egitto e in Giordania: volevano farmi capire che quella cifra è una menzogna, e mi mostravano come tutti quei feriti non si trovassero a Gaza. Ma non esiste alcuna dimostrazione della loro presenza in ospedali stranieri, né di come possano esservi arrivati.
Dalla villa della famiglia Abu Ayida, in Jebala Rayes, fino a Tallel Howa, il quartiere abitativo più densamente popolato della città di Gaza, gli abitanti smentivano l’accusa che Israele avesse intenzionalmente attaccato e ucciso i civili. Mi hanno detto e ripetuto che sia i civili che i combattenti di Hamas avevano abbandonato in salvo le aree delle attività di Hamas, in seguito alle telefonate fatte dalle forze israeliane, ai volantini e agli avvertimenti coi megafoni.
Davanti ad Al-Fakhora era impossibile capire come l’Onu e la stampa possano aver mai sostenuto che la scuola dell’Unrwa era stata centrata da colpi israeliani. La scuola, come la maggior parte delle scuole di Gaza, era evidentemente intatta. Mi hanno mostrato il punto ad essa vicino da dove Hamas faceva fuoco, e i segni del razzo israeliano sulla strada, al di fuori della scuola, erano inconfondibili. Quando ho incontrato Mona al-Ashkor, una delle quaranta persone ferite mentre correva verso Al-Fakhora – e non all’interno dell’edificio, come venne riportato dappertutto e con insistenza – mi è stato detto che Israele aveva avvertito la gente di non rifugiarsi in quella scuola perché Hamas operava nella zona, ma che alcune persone avevano ignorato l’avvertimento perché in precedenza l’Unrwa aveva garantito loro che la scuola sarebbe stata sicura. Completamente smentita la cifra di quaranta morti, riferita e ripetuta dai mass-media.
In Samouni Street mi sono state raccontate storie in contraddizione fra loro, con ciò che ho visto e più tardi con le notizie dei mass-media. Ad esempio, che sono morti 24, 31, 34 o una cifra ancora più alta di membri della famiglia Samouni. E che tutti morirono quando Israele bombardò un edificio sicuro in cui aveva detto a 160 famiglie di rifugiarsi: l’edificio sicuro mi è stato indicato, ma appare esternamente intatto con tanto di biancheria stesa al balcone. Oppure che alcuni lasciarono l’edifico sicuro e vennero uccisi in un’altra casa. Che uno venne ucciso all’esterno mentre raccoglieva legna da ardere. Che non c’era nessuna resistenza armata, ma la finestra in alto a destra dell’edificio sicuro (quella che si vede nel film della BBC Panorama “Out of the Ruins”, mandato in onda l’8 febbraio) ha un evidente segno nero: lo stesso segno che mi è stato mostrato in tutti i luoghi da cui sono stati lanciati razzi. Che i feriti vennero lasciati a sanguinare per due o tre giorni.
Ho visto larghi crateri ben ripuliti e un container deformato che sembrava danneggiato da un urto dall’interno (la superficie esterna non ha danni). Le notizie di stampa su Samouni Street non fanno alcun riferimento a questi indizi della possibile presenza di depositi di espulsivi (anche se il container si vede bene nei filmati). In un’intervista registrata, l’anziano della famiglia Samouni mi ha detto che aveva un video su CD delle uccisioni. Per quanto ne so, nessun video di questo genere è stato mai reso pubblico. Mi ha anche detto che vi sono membri della sua famiglia ancora dispersi. I mass-media hanno fabbricato ed investigato l’accusa a Israele d’aver commesso un crimine di guerra contro la famiglia Samouni senza menzionare che la famiglia è affiliata a Fatah e che alcuni dei suoi membri mancano ancora all’appello. Non hanno preso in considerazione che cosa si potrebbe dedurre da questi fatti: che Hamas possa aver avuto un ruolo attivo non solo nelle uccisioni dei Samouni, ma anche nell’aver indotto con la forza i Samouni ad accusare Israele.
La Gaza che ho visto era socialmente intatta. Non ho visto in giro persone senzatetto, ferite o mutilate, insufficientemente vestite o in preda alla fame. Le strade erano affollate, nei negozi erano appesi abiti ricamati e gigantesche pentole da cucina, i mercati pieni di carne fresca e bella merce, con rossi rapanelli grandi come pompelmi. Madri accompagnate da un ragazzino di 13 anni mi hanno detto d’essere stufe di uscire di casa per stare tutto il giorno sedute su mucchi di macerie a raccontare ai giornalisti di come sarebbero sopravvissute. Donne diplomate che ho incontrato a Shijaya mi hanno parlato della forza dell’istruzione mentre uomini anziani le tenevano d’occhio.
Nessuno ha parlato bene del governo, mentre mi mostravano i luoghi dei tunnel da dove i combattenti si erano dileguati. Nessuno ha parlato di una vittoria di Hamas nel aver costretto i civili ha formare la prima linea, mentre mi mostravano i resti delle trappole esplosive con cui erano state imbottite case e scuole.
Da ciò che ho visto e che mi è stato detto a Gaza, la controffensiva israeliana anti-Hamas ha preso di mira con precisione le basi di potere di un regime totalitario, neutralizzando in gran parte il piano di Hamas di usare Israele come strumento per il sacrificio dei civili.
Una conferma al mio resoconto si può trovare, ora, nella tardiva e sbocconcellata ritrattazione delle accuse sulla scuola dell’Unrwa ad Al-Fakhora; in un’isolata ammissione da parte del New York Times che Gaza è sostanzialmente intatta; nelle correzioni dei mass-media fatte in internet; e nella irrisolta discrepanza fra il numero dichiarato di feriti e il fatto che nessuno sa dire dove si troverebbero ora tutti quei feriti.
(Da: Jerusalem Post, 3.03.09)
Evidentemente questa poetessa citata dal Jerusalem Post appartiene a quella categoria di ebrei fintopacifisti (Yehoshua, Noa, Grossman, etc. etc.) così turbati dalle sofferenze del popolo palestinese ma sempre pronti a giustificare ogni crimine e ogni abominio dello Stato-canaglia israeliano.
Basterebbe la chiusura dell'articolo a rendere fede della sua attendibilità, laddove si afferma che "Gaza è sostanzialmente intatta": ci vuole davvero coraggio!
E allora che ci sono andati a fare tutti quei babbioni a Sharm el-Sheikh, raccogliendo 4,5 miliardi di dollari per Gaza e l'Anp?
E perchè ancora oggi l'accesso a Gaza - così generosamente consentito ai "giornalisti" amici - non è permesso agli attivisti per i diritti umani di varie ong internazionali, come recentemente denunciato in una petizione congiunta di B'tselem e di HaMoked?
Eppure, come scritto nella petizione, "le indagini e l'attività di documentazione portata avanti dalle organizzazioni per i diritti umani non solo sono importanti per proteggere i diritti umani dei residenti nei Territori occupati, ma esse assicurano anche il diritto dell'opinione pubblica - in Israele e nel mondo - di ricevere informazioni attendibili sulla realtà della Striscia di Gaza e sulla situazione dei diritti umani ivi esistente".
Se Israele non avesse niente da nascondere, consentirebbe indagini imparziali da parte di enti e organizzazioni terze, volte ad accertare se vi siano stati o no crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario.
E invece non lo fa, perchè è più comodo condurre una guerra di propaganda, data la formidabile disponibilità economica che è possibile stanziare a tal fine e, soprattutto, data la enorme quantità di gente che è ben felice di portare il proprio cervello all'ammasso delle farneticazioni di un sionismo sempre più crudele e spietato.
Ma le evidenze fotografiche, i report che continuano a essere pubblicati, le prove dell'utilizzo di armamenti proibiti come il fosforo bianco o le granate a flechettes, inchiodano ogni giorno di più Israele alle sue responsabilità per un crimine disumano che ha pochi riscontri nella storia contemporanea.
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