Riconsiderare il processo di pace.
Viste dall’ottica dei Palestinesi, le recenti elezioni israeliane non potranno che avere come risultato il congelamento del processo di pace con Israele o, al più, la ripresa di quei negoziati inconcludenti che, in questi anni, sono serviti soltanto a nascondere il massiccio processo di colonizzazione della Cisgiordania che sta rendendo di fatto impossibile la nascita di uno Stato palestinese degno di questo nome.
Abbiamo già sottolineato come in Israele non vi sia più alcuna differenza tra “falchi” e “colombe”, né esista più alcun fronte della pace, restando in piedi solo il fronte dell’estremismo e della guerra.
Come esattamente rilevato dal filosofo e psicanalista israeliano Carlo Strenger, “Israele si sta trasformando in un ghetto … con un atteggiamento paranoico e spesso disumanizzante nei confronti degli Arabi, ed insensibile ai valori del mondo occidentale al quale vuole appartenere. La cecità morale che ne deriva è stata messa in luce drammaticamente dal modo in cui è stata condotta l’operazione a Gaza”.
A fronte di ciò, i Palestinesi devono riconsiderare il processo di pace, tenendo conto degli insegnamenti del passato; continuare a mendicare la pace e a condurre estenuanti e inconcludenti trattative – in un momento in cui in Israele prevalgono gli appelli alla guerra, all’espansionismo, al razzismo – rappresenterebbe un gravissimo errore e un ulteriore incentivo per il futuro governo israeliano a continuare a impedire nei fatti la nascita di uno Stato palestinese e a mantenere la sua ferrea stretta sui Territori occupati.
Se negoziato vi deve essere, esso dovrà necessariamente partire da alcune condizioni non negoziabili: lo stop all’espansione delle colonie, la fine dell’assedio a Gaza e delle aggressioni militari, la riaffermazione della validità delle risoluzioni dell’Onu.
Ma è soprattutto indispensabile che gli Usa recuperino un ruolo di honest broker nel conflitto israelo-palestinese, spingendo con la dovuta energia le due parti ad un percorso di pace credibile e contrassegnato da una precisa tabella di marcia, che non sia una mera indicazione priva di sanzioni come è stato per la road map; il rischio che altrimenti si corre è di veder replicarsi, in un futuro non molto lontano, una tragedia uguale o persino peggiore a quella recente di Gaza.
E’ questo il tema dell’articolo che segue, pubblicato il 14 febbraio scorso dall’analista politico palestinese Hani al-Masri sulla testata araba AMIN, qui proposto nella traduzione offerta dal sito di Arabnews.
ISRAELE DOPO LE ELEZIONI: GOVERNO DI GUERRA E PARALISI DEL PROCESSO DI PACE.
14.2.2009
I risultati delle elezioni israeliane hanno confermato che Israele si sposta verso posizioni estremiste. Questa tendenza ha avuto inizio con le elezioni del 1996, che portarono al potere Benjamin Netanyahu, il leader del Likud.
Abbiamo già sottolineato come in Israele non vi sia più alcuna differenza tra “falchi” e “colombe”, né esista più alcun fronte della pace, restando in piedi solo il fronte dell’estremismo e della guerra.
Come esattamente rilevato dal filosofo e psicanalista israeliano Carlo Strenger, “Israele si sta trasformando in un ghetto … con un atteggiamento paranoico e spesso disumanizzante nei confronti degli Arabi, ed insensibile ai valori del mondo occidentale al quale vuole appartenere. La cecità morale che ne deriva è stata messa in luce drammaticamente dal modo in cui è stata condotta l’operazione a Gaza”.
A fronte di ciò, i Palestinesi devono riconsiderare il processo di pace, tenendo conto degli insegnamenti del passato; continuare a mendicare la pace e a condurre estenuanti e inconcludenti trattative – in un momento in cui in Israele prevalgono gli appelli alla guerra, all’espansionismo, al razzismo – rappresenterebbe un gravissimo errore e un ulteriore incentivo per il futuro governo israeliano a continuare a impedire nei fatti la nascita di uno Stato palestinese e a mantenere la sua ferrea stretta sui Territori occupati.
Se negoziato vi deve essere, esso dovrà necessariamente partire da alcune condizioni non negoziabili: lo stop all’espansione delle colonie, la fine dell’assedio a Gaza e delle aggressioni militari, la riaffermazione della validità delle risoluzioni dell’Onu.
Ma è soprattutto indispensabile che gli Usa recuperino un ruolo di honest broker nel conflitto israelo-palestinese, spingendo con la dovuta energia le due parti ad un percorso di pace credibile e contrassegnato da una precisa tabella di marcia, che non sia una mera indicazione priva di sanzioni come è stato per la road map; il rischio che altrimenti si corre è di veder replicarsi, in un futuro non molto lontano, una tragedia uguale o persino peggiore a quella recente di Gaza.
E’ questo il tema dell’articolo che segue, pubblicato il 14 febbraio scorso dall’analista politico palestinese Hani al-Masri sulla testata araba AMIN, qui proposto nella traduzione offerta dal sito di Arabnews.
ISRAELE DOPO LE ELEZIONI: GOVERNO DI GUERRA E PARALISI DEL PROCESSO DI PACE.
14.2.2009
I risultati delle elezioni israeliane hanno confermato che Israele si sposta verso posizioni estremiste. Questa tendenza ha avuto inizio con le elezioni del 1996, che portarono al potere Benjamin Netanyahu, il leader del Likud.
A partire da quella data non vi sono più “falchi e colombe” in Israele: il fronte della pace e della sinistra ha subito un crollo pressoché totale. In Israele non resta che un unico fronte, il fronte dell’estremismo e della guerra. La competizione alle ultime elezioni israeliane è stata principalmente una competizione fra la destra e la destra estrema.
Malgrado ciò, ritengo che Netanyahu non chiuderà completamente la porta ai negoziati, perfino se dovesse formare un governo esclusivamente di destra, poiché egli si rende conto che dei negoziati che non portano nulla ai palestinesi sono una “gallina dalle uova d’oro” per Israele. Perciò egli non si opporrà ad una ripresa delle trattative.
Si, non meravigliatevi di questo. Poiché il problema con la destra di Israele non sta nei negoziati in quanto tali, ma nelle “concessioni” che Israele potrà offrire, e nei benefici che potrà ricavare. Molto più importante è ciò che Israele fa sul terreno, all’ombra di tutti i governi israeliani, a prescindere dalla loro composizione – ovvero l’applicazione di quella politica che consiste nell’imposizione del fatto compiuto, e che rende la soluzione israeliana l’unica soluzione che di fatto rimane sul tappeto.
Naturalmente sarà difficile per Netanyahu costituire un governo esclusivamente di destra, poiché sarebbe difficile far accettare un simile governo all’America ed alla comunità internazionale, e la sua stessa composizione non sarebbe affatto facile alla luce delle notevoli divergenze esistenti fra i partiti di destra laici e quelli religiosi.
Anche per Tzipi Livni sarà difficile formare un governo, perché i partiti di destra preferiscono Netanyahu e il Likud, e lei sarebbe costretta a coinvolgere diversi partiti della destra per ottenere la fiducia alla Knesset. Ciò richiede che la Livni accetti condizioni politiche e finanziarie che condizionerebbero questo governo rendendolo non molto diverso da un governo di destra guidato da Netanyahu.
Gli scenari più probabili, per la formazione del futuro governo israeliano, sono quelli che prevedono un governo allargato, o un governo di unità nazionale, a cui prenderebbero parte quasi tutti – o tutti e quattro – i principali partiti israeliani. Se dovesse nascere un governo del genere, sarebbe un governo di guerra, soprattutto contro l’Iran, qualora l’amministrazione americana non dovesse riuscire a convincere Teheran a rinunciare al suo programma nucleare. Inoltre esso sarebbe un governo di paralisi rispetto al processo di pace, pur senza chiudere la porta alla ripresa dei negoziati. Anzi, un governo di unità nazionale sarà in grado, o cercherà, di “vendere” nuovamente l’illusione della pace, poiché esso potrà riprendere i negoziati senza nessun obbligo, da parte israeliana, che sia paragonabile ai pur vaghi obblighi che i governi israeliani precedenti avevano accettato.
Se la trattativa riprenderà, sarà una trattativa fine a se stessa, che si concentrerà su passi volti a costruire la fiducia, a migliorare l’economia, a rafforzare i servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, affinché siano in grado di combattere il “terrorismo”. Una trattativa del genere avrà come massimo obiettivo una forma di autogoverno per i palestinesi, e sarà priva di qualsiasi principio chiaro e vincolante. Io metto in guardia dal negoziare con un simile governo. Se infatti Israele, sotto la guida di Kadima e del Partito Laburista – due formazioni meno estremiste – non ha fatto un’offerta che il presidente Abu Mazen, pur con tutta la sua moderazione, potesse accettare, come potrà lo stato ebraico fare un’offerta migliore, o meno negativa, sotto la guida di un governo composto dal Likud e da Yisrael Beiteinu, due partiti ancora più estremisti?
Quanto detto fin qui significa che i risultati delle elezioni israeliane forniscono un’ulteriore base per una rinnovata unità palestinese. Infatti, una delle maggiori fonti di contrasto fra i palestinesi è proprio la questione dei negoziati e del cosiddetto processo di pace, una questione che – alla luce dei risultati attuali – potrebbe essere notevolmente ridimensionata, o addirittura scomparire. Quello che offrirà il prossimo governo israeliano sarà infatti al di sotto di quanto potranno accettare anche i palestinesi più moderati. La destra israeliana non fa differenza fra i palestinesi, non distingue tra Fatah e Hamas, tra “moderati” ed “estremisti”, e ritiene che un buon palestinese sia un palestinese morto, o un palestinese che lavora al suo servizio. Un palestinese moderato è invece una minaccia non minore – se non addirittura maggiore – di un palestinese estremista.
Fermare i negoziati e creare nuove basi
In questo contesto i palestinesi e gli arabi devono riconsiderare il processo di pace ed i negoziati, per trarne i dovuti insegnamenti. Proseguire con i negoziati, malgrado tutto ciò che è accaduto e che potrebbe accadere con la vittoria degli estremisti alla Knesset israeliana, non costituisce soltanto un errore, ma significa oltrepassare ogni residua linea rossa. All’interno di Israele prevalgono in questo momento gli appelli alla guerra, all’espansionismo, alla costruzione degli insediamenti, ed al razzismo. Se gli arabi continueranno a mendicare la pace, ciò non farà che aumentare le bramosie degli israeliani in questo senso. Ciò che Israele può offrire in questo momento agli arabi è “la pace in cambio della pace”, e non in cambio della terra e del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, della creazione di uno stato palestinese indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme, e di una giusta soluzione del problema dei profughi in accordo con la risoluzione 194 dell’ONU.
Qualcuno potrebbe dire – come sentiamo affermare in alcuni ambienti palestinesi e arabi, e nella maggior parte degli ambienti israeliani ed americani – che la destra israeliana è quella maggiormente in grado di realizzare la pace, poiché nel momento in cui essa prenderà una decisione del genere non potrà che avere il sostegno del centro e della sinistra israeliana, al contrario di quanto avviene se al governo si trova la sinistra, poiché quest’ultima incontra l’opposizione della destra che impedisce di realizzare la pace. Per dimostrare questa tesi, i suoi sostenitori citano il fatto che fu la destra israeliana guidata da Menachem Begin a firmare la pace con l’Egitto ed a ritirarsi dal Sinai; fu la destra guidata dallo stesso Netanyahu a decidere il “ritiro” da al-Khalil (Hebron per gli israeliani (N.d.T.) ), ed a firmare il Memorandum di Wye River; e fu la destra guidata da Ariel Sharon a “ritirarsi” da Gaza.
In risposta a queste affermazioni posso dire che per gli israeliani, ed in particolare per la destra israeliana, il processo di pace con i palestinesi differisce radicalmente dal processo di pace con gli altri paesi arabi. Fu la sinistra israeliana guidata dal Partito Laburista a firmare gli accordi di Oslo, e fu la destra che li distrusse, aiutata in questo dal Partito Laburista sotto la leadership di Ehud Barak, il quale si avvicinò alla destra contraddicendo gli orientamenti del partito ai tempi di Yitzhak Rabin.
Il ritiro dal Sinai avvenne in circostanze molto differenti sia a livello arabo che internazionale. A quell’epoca vi era una solidarietà araba, ed un blocco socialista guidato dall’Unione Sovietica, e vi era un presidente americano determinato ad ottenere un successo storico. Inoltre, in cambio del ritiro dal Sinai Israele riuscì a escludere l’Egitto – il paese guida del mondo arabo – dall’equazione del conflitto, e ad isolare gli altri arabi, ed in particolare i palestinesi. Dopo il trattato di pace israelo-egiziano, lo stato ebraico portò a termine piani di aggressione e di espansione coloniale e razzista senza precedenti, e scatenò una guerra totale contro il Libano nel 1982, il cui risultato fu, tra l’altro, l’espulsione della leadership dell’OLP e delle forze palestinesi dal Libano.
Quanto a Netanyahu, non fu lui il responsabile della decisione di colonizzare Jabal Abu Ghneim (l’attuale insediamento di Har Homa, a sudest di Gerusalemme (N.d.T.) ), portando alla “rivolta dei tunnel” del 1996 (rivolta che trae il suo nome dagli scavi compiuti dalle autorità israeliane sotto la spianata delle moschee (N.d.T.) )? Non fu Netanyahu, insieme ai neocon americani guidati da Richard Perle, a redigere il documento del 1995 che mirava a distruggere gli accordi di Oslo poiché essi erano una “catastrofe” – secondo loro – per Israele? La domanda è: dove sono gli accordi di Oslo? Risposta: sono stati superati dagli eventi, e sono stati consegnati alla storia.
Quanto all’accordo su al-Khalil, fu un accordo parziale che non prevedeva un ritiro da al-Khalil, ma un ridispiegamento, e fu accompagnato dalla spartizione di al-Khalil in due settori, H1 e H2, cosa che permise a centinaia di coloni israeliani di insediarsi nel centro della città, rendendo la vita dei suoi abitanti un inferno.
Quanto al Memorandum di Wye River, relativo al ridispiegamento delle forze israeliane (che comportava il parziale trasferimento della gestione della sicurezza dei territori palestinesi all’ANP, in applicazione del precedente accordo ad interim del settembre 1995, nella cornice degli accordi di Oslo (N.d.T.) ), rimase lettera morta poiché Netanyahu si pentì di averlo firmato e lo rese inapplicabile andando ad elezioni anticipate, le quali portarono alla vittoria di Ehud Barak, leader del Partito Laburista, che si rifiutò di ottemperare agli obblighi israeliani derivanti dagli accordi di Oslo, e di integrarli con il negoziato sullo “status finale”.
Allo stato attuale, il Likud è diventato ancora più estremista, al punto che due terzi dei suoi leader sono considerati più estremisti dello stesso Netanyahu. Quanto alla decisione di Sharon di rompere i legami con la Striscia di Gaza, ritengo che ciò che è accaduto dopo l’applicazione di quella decisione sia sufficiente a dimostrare che essa non rappresentava una passo verso la pace, ma un passo indietro a Gaza al fine di separare la Cisgiordania dalla Striscia e di far fare ad Israele dieci passi in avanti nel rafforzamento dell’occupazione in Cisgiordania, ed al fine di tagliare la strada alle iniziative arabe ed internazionali volte a risolvere il conflitto, facendo in modo che tutti gli sforzi ruotassero attorno all’iniziativa israeliana.
I palestinesi e gli arabi devono rendersi conto una volta per tutte che Israele non vuole la pace e non è pronta per la pace, e che ora è diventata più estremista poiché non è riuscita ad imporre la “pace israeliana” ai palestinesi né al vertice di Camp David del 2000 né tramite il processo di Annapolis nel corso del 2008. Perciò Israele intende giocare le sue ultime carte utilizzando la destra e la destra estrema, la quale sostiene di essere in grado di portare a termine le guerre in cui Israele si era impegnata senza vincerle, in particolare in Libano nel 2006 e a Gaza nel 2009, e pretende di apprestarsi a scatenare le guerre che Israele non aveva ancora scatenato, in particolare contro la Siria e l’Iran.
Una prova difficile per Obama
Vi è un solo fattore che è contrario a Israele in questo momento, ed è il fatto che alla Casa Bianca vi è un nuovo presidente americano che propone il cambiamento negli Stati Uniti ed in tutto il mondo. Egli è giunto dopo la partenza del presidente americano che più di ogni altro aveva sostenuto Israele, e la cui amministrazione aveva portato ad una serie di fallimenti, di guerre e di gravi crisi finanziarie. Ciò richiede ora la promozione di una politica del dialogo, degli incentivi, della cooperazione e delle soluzioni mediate. Tutto ciò spinge Israele a cambiare, almeno un po’.
Ma invece di far questo, Israele si è orientata ancor di più verso la destra e l’estremismo, al punto da rendere la missione del nuovo presidente americano molto più difficile. In questo contesto, Israele scommette sulla sua amicizia strategica con gli Stati Uniti, sulla lobby sionista e sui gruppi di pressione che sostengono lo stato ebraico, cosa che potrebbe spingere il presidente americano a pensarci bene prima di esercitare pressioni serie nei confronti di Tel Aviv. Perciò, egli probabilmente si accontenterà di gestire il conflitto, e non cercherà di risolverlo. Questa è la condotta americana che ci attendiamo, ed è quella che dà le migliori garanzie a Washington, poiché al massimo può portare ad alcune divergenze fra gli Stati Uniti ed Israele, ed a pressioni americane nei confronti dello stato ebraico su questioni secondarie. L’amministrazione americana ed il mondo non eserciteranno reali pressioni nei confronti del prossimo governo israeliano, a prescindere da quanto esso sarà aggressivo ed estremista. Le pressioni del mondo spettano solo ai palestinesi.
Quello che temo è che gli arabi ed i palestinesi dimenticheranno tutti i segnali ostili lanciati dal nuovo governo israeliano, qualunque esso sia, e continueranno ad aggrapparsi all’illusione che il presidente americano eserciterà pressioni su Israele. Il timore è che essi si affretteranno a dire: aspettiamo e vediamo, continuiamo a tendere la mano araba, attraverso l’iniziativa di pace, senza “armare” questa iniziativa di alcuna difesa, e senza aprire la strada a scelte alternative. Il timore è che gli arabi saranno disposti anche a riprendere i negoziati, mentre il requisito minimo per compiere un simile passo dovrebbe essere il soddisfacimento di alcune richieste essenziali: il congelamento degli insediamenti, dell’aggressione e dell’assedio, e l’accordo preliminare sul fatto che l’obiettivo dei negoziati deve essere l’applicazione della legalità internazionale e delle risoluzioni dell’ONU. Questi principi non sono negoziabili.
Perché tutto questo possa realizzarsi, è necessario che in qualunque futuro negoziato vi sia un ruolo internazionale effettivo e reale, vi siano garanzie internazionali, e venga stabilita una tabella di marcia che preveda tempi ristretti. Poiché nessun negoziato può durare in eterno.
Hani al-Masri è un noto analista politico palestinese; risiede in Cisgiordania
Etichette: Israele, palestina, processo di pace
5 Commenti:
A noi hanno tolto l´Istria e la Dalmazia, ai tedeschi hanno tolto la Slesia e la Prussia, fra tutti e due abbiamo accolto 11 milioni di connazionali vittime della pulizia etnica, ma non siamo andati a piangere da nessuno. Gli arabi di palestina la menano da 60 anni con guerre, attentati e porcherie di ogni genere, e si fanno mantenere dagli altri. Profughi da accogliere nell´estesissimo mondo arabo ? Notiamo la differenza di civilta´.
“Il mondo si è bevuto le false cifre di Hamas”
Quattro settimane dopo la conclusione della controffensiva israeliana anti-Hamas nella striscia di Gaza, domenica le Forze di Difesa israeliane hanno aperto il dossier delle vittime palestinese presentando al Jerusalem Post una panoramica decisamente contrastante con le cifre palestinesi che finora hanno costituito la base di ogni analisi del conflitto.
Mentre il Palestinian Center for Human Rights, le cui cifre sul numero di caduti sono state ampiamente citate in tutto il mondo, parla di 895 civili di Gaza uccisi nei combattimenti, pari a più di due terzi del totale dei morti palestinesi, le cifre mostrate dalle Forze di Difesa israeliane al Jerusalem Post pongono il numero di civili morti a meno di un terzo del totale.
Alla comunità internazionale è stata data un’impressione ampiamente distorta delle vittime a causa dei “falsi rapporti” di Hamas, spiega Moshe Levi, capo dell’Ufficio di collegamento e coordinamento delle Forze di Difesa israeliane, incaricato di compilare le cifre.
A titolo di esempio di tale distorsione, Levi cita l’incidente occorso alla scuola dell’Unrwa di Jabalya il 6 gennaio, nel quale gli iniziali rapporti di fonte palestinese sostenevano falsamente che bombe israeliane avessero colpito in pieno l’edificio uccidendo più di 40 persone, quasi tutti civili. Invece, dice Moshe Levi, in quell’incidete morirono 12 palestinesi: nove operativi di Hamas e tre non combattenti. Inoltre, come le stesse Nazioni Unite hanno successivamente ammesso, i militari israeliani non fecero altro che rispondere al fuoco, e nel farlo non colpirono affatto l’edificio della scuola.
“Sin dall’inizio Hamas ha sostenuto che fossero state uccise 42 persone, ma coi nostri sistemi di controllo noi potevamo vedere che venivano fatte arrivare solo poche lettighe per evacuare le persone” continua Levi, e aggiunge che l’Ufficio di collegamento ha contattato il Ministero della sanità dell’Autorità Palestinese per chiedere i nomi delle vittime: “Ci è stato risposto che Hamas nasconde il numero esatto dei morti”.
A causa di questa disinformazione, continua Levi, le Forze di Difesa israeliane stanno pensando di creare un “team di risposta” per gli eventuali prossimi conflitti, il cui compito sarebbe quello di raccogliere informazioni, analizzarle e diffondere il più rapidamente possibile dei rapporti che smontino le invenzioni di Hamas (anche se diffondere una menzogna è sempre più rapido e più semplice che diffondere una verità accertata e controllata, specie in tempo di guerra).
Basando il lavoro sulla cifra ufficiale palestinese di 1.338 morti, Levi spiega che l’Ufficio di collegamento ha finora identificato più di 1.200 caduti palestinesi, che nel suo rapporto di 200 pagine vengono elencati con il loro nome, il numero d’identità ufficiale dell’Autorità Palestinese, le circostanze della morte e, dove è il caso, il gruppo terrorista a cui erano affiliati.
L’Ufficio afferma che 580 di questi 1.200 sono stati senza alcun dubbio identificati come membri attivi di Hamas e di altri gruppi terroristi. Circa 300 –donne, bambini sotto i 15 anni e uomini sopra i 65 anni – sono stati classificati come non combattenti. Tra le donne, tuttavia, c’erano anche diverse terroriste, tra cui almeno due donne che hanno tentato di farsi esplodere vicino alle unità della Brigata Givati e della Brigata Paracadutisti. Classificati come non combattenti anche mogli e figli di Nizar Rayyan, un comandante militare di Hamas che rifiutò di lasciare che i suoi famigliari abbandonassero la sua abitazione anche dopo che era stato avvertito da Israele che l’edificio stava per essere bombardato.
I 320 non ancora identificati sono tutti giovani maschi adulti: casi per cui il processo di identificazione deve ancora essere completato, ma le Forze di Difesa stimano che per almeno due terzi si tratti di operativi di gruppi terroristici.
L’Ufficio di collegamento ha fornito al Jerusalem Post diversi nomi di caduti che le fonti palestinesi avevano classificato come “personale medico”, ma che secondo l’Ufficio erano invece combattenti di Hamas, come ad esempio Anas Naim, nipote del ministro della sanità di Hamas Bassem Naim, ucciso nel corso di scontri a fuoco con i soldati israeliani il 4 gennaio nel quartiere Sheikh Ajlin della città di Gaza. Dopo gli scontri, la stampa palestinese diede notizia dell’uccisione di Naim dicendo che era un medico della Mezzaluna Rossa palestinese. L’Ufficio di collegamento, invece, è in possesso di fotografie pubblicate sul sito web di Hamas in cui Naim è in posa con tanto di lanciarazzi e mitra Kalashnikov.
Levi sottolinea comunque che in nessuna occasione i civili sono mai stati presi deliberatamente di mira, e che anzi venne fatto tutto il possibile per cercare di ridurre al minino le vittime involontarie (autenticamente) civili.
Il lavoro sulle liste dei caduti, avviato già durante la controffensiva sotto la direzione di Levi, viene portato avanti da una squadra speciale sotto la guida dell’Ufficio di collegamento che coordina i suoi sforzi con i servizi di sicurezza, operando sulla base di informazioni e cifre diffuse dal ministero della sanità di Hamas, dai mass-media attivi a Gaza e da altre fonti palestinesi e dell’intelligence israeliana.
http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1753
http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1753
http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1753
http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1753
cosa rispondi? che è tutto opera dei sionisti?!?!
x crazy horse: questi paragoni storici non c'entrano nulla con questo caso.
Esistono infatti svariate risoluzioni Onu, in primis la 194 del 1948 e la 242 del 1967, che statuiscono il diritto al ritorno degli arabi nativi nelle loro case in (quello che ora è) Israele, la inammissibilità dell'acquisizione di terre per mezzo della guerra, il rientro di Israele ai confini precedenti il 1967 (la cd. green line).
Si tratta cioè, puramente e semplicemente, di una palese violazione della legalità internazionale, incredibilmente consentita ad un Paese razzista e colonialista che mantiene l'unica occupazione militare diretta di territori altrui oggi esistente al mondo.
x anonimo (2): Due cose che accomunano in maniera impressionante i cantori della propaganda sionista e i sostenitori della destra berlusconiana sono: a) evitare le questioni scomode passando tranquillamente ad altro argomento e b) pestare e ripestare su pochi, semplici concetti in modo da far passare come verità acclarate le proprie spudorate menzogne.
In questo caso, nel mio articolo si parlava delle elezioni israeliane, del sensibile spostamento a destra dell'elettorato israeliano, della necessità di riconsiderare il processo di pace israelo-palestinese, che fino ad oggi è stato del tutto inconcludente ed è servito soltanto come paravento per Israele, consentendogli di continuare la propria indefessa opera di colonizzazione della Cisgiordania.
Anonimo risponde su questo? Ma no, certo! Si limita a ribadire uno dei concetti cardine della propaganda israeliana di questi giorni (peraltro rilanciata dai media di regime italiani, tra gli altri Corsera e Panorama): Hamas ha "gonfiato" le cifre delle vittime dell'operazione "Piombo Fuso", vergogna!
Ora, sarà pur vero che - come afferma il Jerusalem Post (a proposito, hai dimenticato di citare la fonte oppure ti vergognavi a dire che hai fatto copiaeincolla da israelenet?) - "il mondo si è bevuto le false cifre di Hamas", ma non vi è ragione per cui noi dobbiamo berci le menzogne e la propaganda degli assassini di Tsahal!
Perchè è pur vero che, a volte, accade che gli assassini siano rei confessi, o che i serial killer amino vantarsi del numero delle loro vittime e dell'efferatezza dei loro atti, ma, nel caso di Israele, la propaganda impone che gli assassini tentino in ogni modo di occultare le cifre dei loro massacri e di negare ogni responsabilità riguardo a quelli che si appalesano, al contrario, come chiari crimini contro l'umanità.
Vediamole, le cifre contestate.
Secondo i Palestinesi (ma i dati forniti vengono sino ad ora confermati dall'Onu), le vittime di "Piombo Fuso" sono 1.440, tra cui 431 bambini e 114 donne; i feriti sono 5.380 tra cui 1872 bambini e 800 donne.
Dalla parte israeliana, i civili morti sono 3 (tre!) e 183 i feriti; nelle fila dell'Idf, inoltre, si contano 11 soldati uccisi e 340 feriti.
Se a questi numeri aggiungiamo 85 Palestinesi uccisi "over 50" e togliamo pure le due donne "terroriste" di cui parla l'articolo del Jpost, arriviamo alla ragguardevole cifra di 628 civili inermi e innocenti trucidati barbaramente dai lanzichenecchi di Tsahal: il che equivale, in ogni caso, ad un atroce ed inaudito bagno di sangue.
Questo senza considerare che svariate ong di tutela dei diritti umani, come ad esempio l'israeliana B'tselem, hanno ampiamente documentato numerosi casi in cui civili palestinesi maggiorenni, pur disarmati e non coinvolti nei combattimenti, sono stati uccisi dalle truppe israeliane.
Ma la panzana più colossale spacciata dal Jpost e dall'esercito israeliano, è quella relativa all'attacco alla scuola Unrwa di Jabaliya: non solo risultano confermate le 43 vittime innocenti, ma è stato recentemente lo stesso segretario dell'Onu Ban Ki-moon a ribadire di voler portare avanti l'inchiesta su tutti gli attacchi a strutture Onu, chiamando a risponderne i responsabili.
Come ammesso da ufficiali israeliani, in realtà il fuoco contro le truppe di Tsahal non proveniva dalla scuola Onu, ma da un edificio vicino; l'Idf ha risposto al fuoco con i mortai, ma la deviazione standard di queste armi è di alcune decine di metri e, dunque, si è trattato - secondo quanto ammesso dai militari - "di una scelta sbagliata nei mezzi di risposta" (cfr. Amos Harel, "Admission in the Idf: We erred in choosing the means of response to the terrorist gunfire", 11.1.09).
Tutto ciò premesso, Israele avrebbe un mezzo ben preciso per permettere l'accertamento della verità dei fatti e la responsabilità di eventuali crimini commessi: permettere lo svolgimento di indagini sul campo condotte da organismi terzi ed imparziali, cosa che, peraltro, in passato non è mai avvenuta.
Se viceversa Israele, ancora una volta, negherà la possibilità di investigazioni imparziali e si limiterà alle solite "inchieste interne" palesemente autoassolutorie, troverà certamente più facile continuare a propalare la sua becera propaganda, ma troverà sempre meno gente pronta ad ascoltarla e, ancor meno, a crederci.
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