Un venerdì a Bil'in.
Nel villaggio di Bil’in, in Cisgiordania, ormai da tempo si tengono settimanalmente manifestazioni di protesta contro il “muro di sicurezza” israeliano e le disastrose conseguenze che esso comporta per la vita e per l’economia della popolazione palestinese.
Non è che si tratti di una situazione insolita per le genti del West Bank, dato che il muro che dovrebbe garantire la sicurezza degli israeliani serve, in realtà, per sottrarre ulteriormente terreni ai legittimi proprietari palestinesi, considerato che il suo tracciato – già realizzato o in fase di costruzione – corre per l’80% del totale all’interno dei Territori occupati.
A Bil’in, tuttavia, la situazione è più grave che altrove, dato che il percorso del muro taglia fuori gli abitanti del villaggio da ben due terzi dei terreni coltivati, che rappresentano la principale fonte di sostentamento.
Così Bil’in, nel tempo, è divenuto un simbolo non solo della protesta non violenta contro l’ingiustizia dell’occupazione israeliana e l’illegalità del ”muro di sicurezza”, ma anche, contemporaneamente, della solidarietà tra Palestinesi e pacifisti israeliani, che non mancano mai di partecipare ai cortei di protesta.
A queste manifestazioni assolutamente pacifiche, l’esercito israeliano ha risposto in vari modi, tutti caratterizzati, tuttavia, da una violenza ed una brutalità ingiustificati.
Così i soldati di Tsahal regolarmente usano sparare gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili rivestiti di gomma, arrestano gli attivisti palestinesi e soprattutto israeliani (spesso dopo averli brutalmente picchiati), impongono coprifuoco e blocchi di vario genere per impedire agli stessi di raggiungere il villaggio.
Identico copione è stato messo in scena lo scorso 4 novembre, quando l’ennesima pacifica manifestazione di protesta contro il “muro di sicurezza” svoltasi, come ogni venerdì, nel villaggio ha innescato l’intervento delle unità anti-sommossa dell’esercito israeliano, che hanno anche picchiato duramente prima, e arrestato poi, un cameraman della tv del Qatar Al Jazeera, sequestrandogli la videocamera; oltre all’operatore tv, di nome Nabil Mazawi, nel corso dell’operazione di repressione della manifestazione di protesta, l’Idf ha arrestato anche quattro pacifisti israeliani, tra cui il portavoce di Gush Shalom, Adam Keller.
Tutto questo, naturalmente, per far sì che i pacifisti israeliani e stranieri e i giornalisti siano presenti in sempre minor numero alle manifestazioni, per impedire che possano testimoniare al mondo gli abusi e le violazioni dei diritti umani che quotidianamente devono soffrire i Palestinesi di Bil’in, al pari, del resto, di tutti i Palestinesi dei Territori occupati.
Uno dei principali nemici di Israele sembra essere rappresentato, infatti, dai mezzi di informazione (esclusi i media di regime, naturalmente), data la loro propensione e ostinazione, degna di miglior causa, a testimoniare e render noto all’opinione pubblica internazionale la realtà quotidiana della vita nei Territori palestinesi, la brutale occupazione militare israeliana, le violazioni del diritto internazionale, le punizioni collettive, gli assassinii di civili inermi,
Già abbiamo visto, del resto, come il Ministro della Difesa israeliano abbia vietato l’ingresso alla stampa e ai mezzi di informazione stranieri nella Striscia di Gaza, teatro da giorni di massicci attacchi di artiglieria e di lanci di missili, di punizioni collettive quali le “bombe sonore” che terrorizzano la popolazione, di esecuzioni extra-giudiziarie.
E, tuttavia, ritornando a Bil’in, bisogna osservare che questo piccolo villaggio è divenuto anche, suo malgrado, teatro di sperimentazione per l’esercito israeliano di nuove armi e nuove tecniche anti-sommossa.
Non è un caso, infatti, che a fronteggiare qualche sparuto gruppo di abitanti del luogo e di pacifisti (una quarantina, venerdì scorso) Israele abbia schierato una sua unità di élite, la Prison Service special unit “Masada”, composta da specialisti unanimemente riconosciuti come tra i migliori al mondo nella repressione di tumulti e sommosse, in special modo all’interno delle carceri.
Venerdì scorso questi “specialisti” hanno usato per la prima volta contro i manifestanti un nuovo tipo di proiettile, denominato “bean bag”; si tratta di piccoli contenitori che possono essere sparati con un fucile, allo stesso modo dei gas lacrimogeni, e che contengono una serie di piccole biglie di plastica dura, usualmente della dimensione di una moneta.
Questo tipo di proiettile rientra nella categoria degli armamenti cd. “non letali”, in quanto si limiterebbe a produrre contusioni e forti dolori: così, ad esempio, venerdì ad essere colpito è stato un Palestinese, Haysam Hatib, ricoverato all’ospedale di Ramallah con una seria contusione alla gamba.
E’ chiaro, tuttavia, che un proiettile di tal genere, qualora colpisca un uomo in punti particolarmente sensibili quali il collo o la testa, può provocare conseguenze molto più serie e, addirittura, la morte, come del resto succede per i proiettili rivestiti di gomma.
Non si riesce bene a capire perché Israele usi regolarmente una eccessiva durezza per reprimere manifestazioni che, giova ribadirlo, sono del tutto pacifiche.
Il 9 settembre, l’intervento dell’Idf ha causato il ferimento di 12 manifestanti e alcuni soldati hanno sparato munizioni vere, non proiettili di gomma.
Il 14 ottobre, alcuni membri della “Masada”, travestiti da Arabi, sono stati smascherati mentre cercavano di incitare i giovani palestinesi a tirare pietre contro le truppe israeliane.
E’ evidente che si cerca l’incidente serio, il pretesto per menare le mani o addirittura uccidere qualcuno, con il duplice scopo di scoraggiare i pacifisti dal prendere parte alle manifestazioni e di fornire la scusa ad Israele per una repressione più dura e per imporre ulteriori coprifuoco.
Si impongono a questo punto alcune considerazioni.
Spesso si indica ai Palestinesi la via della protesta non violenta come mezzo efficace per lottare contro l’occupazione israeliana.
A Bil’in, come altrove, questa via non sembra approdare ad alcun risultato degno di nota anzi, proprio in questo villaggio, la Corte di Giustizia (!) israeliana ha confermato il tracciato del muro, considerando prevalenti le ragioni della sicurezza dei coloni rispetto al diritto di proprietà dei Palestinesi e, addirittura, alle necessità del loro sostentamento quotidiano.
Qualcuno dovrebbe spiegarci come mai la Corte di Giustizia israeliana abbia mancato di considerare che coloni, e colonie, non dovrebbero esisterne nei Territori occupati, in quanto illegali ai sensi della Convenzione di Ginevra.
E per tale motivo, infatti, che la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja è giunta a conclusioni diametralmente opposte a quelle della Corte israeliana, qualificando il “muro di sicurezza” come illegale e chiedendo la demolizione della parte già costruita: decisione, questa, fatta propria – per quello che vale – dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Se Israele, dunque, non viene incontro alle legittime esigenze dei Palestinesi e continua a sabotare il ogni modo la road map, è allora dovere della comunità internazionale operare più forti pressioni su questo Paese perché rientri nell’alveo della legalità internazionale e permetta, finalmente, la nascita dello Stato Palestinese.
Lasciare senza risposta la protesta pacifica degli abitanti di Bil’in, rimanere inerti dinanzi alla oppressione, alla devastazione, all’assassinio di un intero popolo sarebbe il più forte incentivo ai metodi del terrorismo.
Non è che si tratti di una situazione insolita per le genti del West Bank, dato che il muro che dovrebbe garantire la sicurezza degli israeliani serve, in realtà, per sottrarre ulteriormente terreni ai legittimi proprietari palestinesi, considerato che il suo tracciato – già realizzato o in fase di costruzione – corre per l’80% del totale all’interno dei Territori occupati.
A Bil’in, tuttavia, la situazione è più grave che altrove, dato che il percorso del muro taglia fuori gli abitanti del villaggio da ben due terzi dei terreni coltivati, che rappresentano la principale fonte di sostentamento.
Così Bil’in, nel tempo, è divenuto un simbolo non solo della protesta non violenta contro l’ingiustizia dell’occupazione israeliana e l’illegalità del ”muro di sicurezza”, ma anche, contemporaneamente, della solidarietà tra Palestinesi e pacifisti israeliani, che non mancano mai di partecipare ai cortei di protesta.
A queste manifestazioni assolutamente pacifiche, l’esercito israeliano ha risposto in vari modi, tutti caratterizzati, tuttavia, da una violenza ed una brutalità ingiustificati.
Così i soldati di Tsahal regolarmente usano sparare gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili rivestiti di gomma, arrestano gli attivisti palestinesi e soprattutto israeliani (spesso dopo averli brutalmente picchiati), impongono coprifuoco e blocchi di vario genere per impedire agli stessi di raggiungere il villaggio.
Identico copione è stato messo in scena lo scorso 4 novembre, quando l’ennesima pacifica manifestazione di protesta contro il “muro di sicurezza” svoltasi, come ogni venerdì, nel villaggio ha innescato l’intervento delle unità anti-sommossa dell’esercito israeliano, che hanno anche picchiato duramente prima, e arrestato poi, un cameraman della tv del Qatar Al Jazeera, sequestrandogli la videocamera; oltre all’operatore tv, di nome Nabil Mazawi, nel corso dell’operazione di repressione della manifestazione di protesta, l’Idf ha arrestato anche quattro pacifisti israeliani, tra cui il portavoce di Gush Shalom, Adam Keller.
Tutto questo, naturalmente, per far sì che i pacifisti israeliani e stranieri e i giornalisti siano presenti in sempre minor numero alle manifestazioni, per impedire che possano testimoniare al mondo gli abusi e le violazioni dei diritti umani che quotidianamente devono soffrire i Palestinesi di Bil’in, al pari, del resto, di tutti i Palestinesi dei Territori occupati.
Uno dei principali nemici di Israele sembra essere rappresentato, infatti, dai mezzi di informazione (esclusi i media di regime, naturalmente), data la loro propensione e ostinazione, degna di miglior causa, a testimoniare e render noto all’opinione pubblica internazionale la realtà quotidiana della vita nei Territori palestinesi, la brutale occupazione militare israeliana, le violazioni del diritto internazionale, le punizioni collettive, gli assassinii di civili inermi,
Già abbiamo visto, del resto, come il Ministro della Difesa israeliano abbia vietato l’ingresso alla stampa e ai mezzi di informazione stranieri nella Striscia di Gaza, teatro da giorni di massicci attacchi di artiglieria e di lanci di missili, di punizioni collettive quali le “bombe sonore” che terrorizzano la popolazione, di esecuzioni extra-giudiziarie.
E, tuttavia, ritornando a Bil’in, bisogna osservare che questo piccolo villaggio è divenuto anche, suo malgrado, teatro di sperimentazione per l’esercito israeliano di nuove armi e nuove tecniche anti-sommossa.
Non è un caso, infatti, che a fronteggiare qualche sparuto gruppo di abitanti del luogo e di pacifisti (una quarantina, venerdì scorso) Israele abbia schierato una sua unità di élite, la Prison Service special unit “Masada”, composta da specialisti unanimemente riconosciuti come tra i migliori al mondo nella repressione di tumulti e sommosse, in special modo all’interno delle carceri.
Venerdì scorso questi “specialisti” hanno usato per la prima volta contro i manifestanti un nuovo tipo di proiettile, denominato “bean bag”; si tratta di piccoli contenitori che possono essere sparati con un fucile, allo stesso modo dei gas lacrimogeni, e che contengono una serie di piccole biglie di plastica dura, usualmente della dimensione di una moneta.
Questo tipo di proiettile rientra nella categoria degli armamenti cd. “non letali”, in quanto si limiterebbe a produrre contusioni e forti dolori: così, ad esempio, venerdì ad essere colpito è stato un Palestinese, Haysam Hatib, ricoverato all’ospedale di Ramallah con una seria contusione alla gamba.
E’ chiaro, tuttavia, che un proiettile di tal genere, qualora colpisca un uomo in punti particolarmente sensibili quali il collo o la testa, può provocare conseguenze molto più serie e, addirittura, la morte, come del resto succede per i proiettili rivestiti di gomma.
Non si riesce bene a capire perché Israele usi regolarmente una eccessiva durezza per reprimere manifestazioni che, giova ribadirlo, sono del tutto pacifiche.
Il 9 settembre, l’intervento dell’Idf ha causato il ferimento di 12 manifestanti e alcuni soldati hanno sparato munizioni vere, non proiettili di gomma.
Il 14 ottobre, alcuni membri della “Masada”, travestiti da Arabi, sono stati smascherati mentre cercavano di incitare i giovani palestinesi a tirare pietre contro le truppe israeliane.
E’ evidente che si cerca l’incidente serio, il pretesto per menare le mani o addirittura uccidere qualcuno, con il duplice scopo di scoraggiare i pacifisti dal prendere parte alle manifestazioni e di fornire la scusa ad Israele per una repressione più dura e per imporre ulteriori coprifuoco.
Si impongono a questo punto alcune considerazioni.
Spesso si indica ai Palestinesi la via della protesta non violenta come mezzo efficace per lottare contro l’occupazione israeliana.
A Bil’in, come altrove, questa via non sembra approdare ad alcun risultato degno di nota anzi, proprio in questo villaggio, la Corte di Giustizia (!) israeliana ha confermato il tracciato del muro, considerando prevalenti le ragioni della sicurezza dei coloni rispetto al diritto di proprietà dei Palestinesi e, addirittura, alle necessità del loro sostentamento quotidiano.
Qualcuno dovrebbe spiegarci come mai la Corte di Giustizia israeliana abbia mancato di considerare che coloni, e colonie, non dovrebbero esisterne nei Territori occupati, in quanto illegali ai sensi della Convenzione di Ginevra.
E per tale motivo, infatti, che la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja è giunta a conclusioni diametralmente opposte a quelle della Corte israeliana, qualificando il “muro di sicurezza” come illegale e chiedendo la demolizione della parte già costruita: decisione, questa, fatta propria – per quello che vale – dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Se Israele, dunque, non viene incontro alle legittime esigenze dei Palestinesi e continua a sabotare il ogni modo la road map, è allora dovere della comunità internazionale operare più forti pressioni su questo Paese perché rientri nell’alveo della legalità internazionale e permetta, finalmente, la nascita dello Stato Palestinese.
Lasciare senza risposta la protesta pacifica degli abitanti di Bil’in, rimanere inerti dinanzi alla oppressione, alla devastazione, all’assassinio di un intero popolo sarebbe il più forte incentivo ai metodi del terrorismo.
1 Commenti:
Ciao Vichi;
per impegni non ho avuto modo di seguire le ultime vicende. Solo letto i titoli dei giornali. Che sono sufficienti per desumere che la situazione si fa sempre più drammatica.
E' inutile farti i complimenti per i tuoi posts precisi, netti ed accurati nella forma come nella sostanza.
Che dire? Che lo schema è sempre quello.
In M.O. non c'è niente di definito o definitivo se non la continua, progressiva, metodica espansione israeliana.
Anzi, la condizione indispensabile perchè essa possa continuare è proprio il fatto che niente è certo o sicuro.
Stamani, leggevo della chiusura del valico di Erez che è un altro giro di vite per rendere insopportabili le condizioni di vita a Gaza e nei territori.
Il governo Sharon è andato in crisi; ci saranno, in primavera, le elezioni e, fino ad allora, non ci sarà nessuna autorità che possa prendere degli impegni. E' facile prevedere che l'azione repressiva di Tsahal si intensificherà e....
E quegli ipocriti della Comunità Internazionale continuano a cianciare di Road Map e di piani di pace.
Sono passato per un saluto. Spero, nei prossimi giorni, di avere più tempo e di passare a leggerti un pò più spesso.
Un caro saluto;
Cp
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