28 agosto 2006

La guerra all'informazione.

In una domenica di “normale” attività degli assassini di Tsahal nella Striscia di Gaza, in cui quattro Palestinesi sono stati uccisi - e tra essi almeno un civile disarmato - ed un bambino di sei anni è rimasto gravemente ferito, spicca l'attacco dell’aviazione israeliana contro una Land Rover appartenente alla Reuters, che ha ferito i due occupanti del veicolo e tre passanti.
Domenica 27 agosto, alle prime ore della mattina, il cameraman 23enne Fadel Shama’a ed il giornalista 25enne Sabah Hamida, entrambi dell’agenzia giornalistica Reuters, si erano recati a bordo di una Land Rover bianca per filmare il raid israeliano nel quartiere di Shajaiyeh, a est di Gaza City, quando all’improvviso sono stati attaccati da un aereo dell’aviazione israeliana, che ha colpito la jeep su cui viaggiavano con due missili.
Secondo un portavoce dell’esercito israeliano, il veicolo era l’unico nella zona dei combattimenti e si era avvicinato in maniera sospetta alle truppe israeliane, e soprattutto esso non recava alcun chiaro contrassegno con la scritta TV: “o almeno non ne abbiano visto alcuno” alla fine ha precisato.
Ma si tratta della solita, spudorata menzogna di Tsahal.
La jeep dei due giornalisti, infatti, al momento dell’attacco si trovava a circa due chilometri dalla zona degli scontri, e soprattutto – come una volta tanto anche gli italiani hanno potuto vedere durante i telegiornali – oltre ad essere di colore bianco (e dunque chiaramente visibile), recava sul cofano la scritta “Reuters” in stampatello e a caratteri cubitali di colore nero.
E difatti, qualche ora dopo, la Foreign Press Association – un gruppo che rappresenta i giornalisti stranieri nell’area di Israele, Gaza e West Bank – ha duramente protestato contro l’Idf, affermando che il veicolo era “chiaramente contrassegnato” e chiedendo un’indagine sull’incidente (una vana speranza, naturalmente…).
Ora, il fatto che Israele dichiari di non aver “correttamente identificato” il veicolo dei giornalisti e di averlo, dunque, attaccato per errore, non muta per nulla il fatto che si tratti di un crimine di guerra.
Uno dei pilastri del diritto internazionale umanitario, infatti, è il principio di distinzione, in base al quale lo Stato di Israele ha l’obbligo, nel corso delle proprie azioni militari, di distinguere tra combattenti e civili, essendo vietati gli attacchi contro questi ultimi; in caso di dubbio deve presumersi, peraltro, che le persone in questione siano civili (ma le truppe di Tsahal usano la prassi esattamente opposta…).
Ma vi è di più.
Ancora una volta, le modalità dell’azione israeliana non danno adito a dubbi sull’intenzionalità dell’attacco; non si capisce, infatti, come una Land Rover dipinta di bianco possa essere scambiata per un veicolo di militanti, e come non siano state viste delle scritte nere e a caratteri cubitali con la dicitura “Reuters” e “Press” (sia in inglese che in arabo).
Il vero è che il raid di domenica rappresenta l’ennesimo episodio di violenza e di aggressione contro i giornalisti stranieri nei Territori occupati, la cui unica colpa è quella di voler testimoniare i crimini di guerra quotidianamente commessi dall’esercito israeliano ai danni del popolo palestinese.
Come non ricordare qui James Miller, il giornalista inglese ucciso il 2 maggio 2003 mentre girava un documentario a Rafah, ucciso da Tsahal mentre indossava un giubbotto con la scritta “Press” e mentre sventolava una bandiera bianca?
Come non ricordare Raffaele Ciriello, il fotografo italiano ucciso nel marzo del 2002 dai soldati israeliani che – secondo la testimonianza resa dal giornalista del tg1 Amedeo Ricucci – avevano sparato “senza motivo”?
Siamo dunque di fronte all’ennesimo capitolo della guerra crudele ed assassina condotta dall’esercito israeliano contro la libera e corretta informazione e contro i coraggiosi professionisti che cercano di garantirla.
Fuori dai Territori palestinesi, poi, ci pensano le varie lobby ebraiche a tacitare ed intimidire quanti si ostinano a voler testimoniare la verità sulle violazioni del diritto internazionale e sui crimini di guerra di Israele, e così può accadere che chi denunci la brutalità e la ferocia dell’occupazione israeliana e la mancanza di una informazione esaustiva e sincera su quanto accade in Libano e in Palestina si trovi ad essere accusato, niente meno, che di “istigazione all’odio razziale”!
Ma questa è un’altra storia…

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