5 settembre 2006

Una roadmap a senso unico.

Anche se a molti, evidentemente, fa comodo dimenticarlo, la roadmap – il piano di pace elaborato a partire dal 2002 dal cd. “Quartetto” (Usa, Ue, Onu e Russia) con l’obiettivo finale di una pacifica coabitazione tra lo Stato di Israele ed il costituendo (?) Stato di Palestina – prevede precisi e puntuali obblighi anche a carico del Governo israeliano, obblighi che ad oggi, tuttavia, sono stati e continuano ad essere costantemente disattesi.
Uno di tali obblighi – contenuto nell’apposito paragrafo “insediamenti” della Fase I – prevede che “il Governo israeliano smantellerà immediatamente gli insediamenti costruiti dopo il marzo 2001” e che “…congelerà ogni attività di crescita degli insediamenti (compresi quelli a sviluppo naturale)”.
Ora si da il caso che giusto ieri, secondo il quotidiano israeliano Ha'aretz, il Ministro dell’Edilizia abbia bandito le gare d’appalto per la costruzione di 690 nuove unità abitative nei Territori occupati, in particolare 342 nell’insediamento ultra-ortodosso di Betar Ilit e 348 in quello di Ma’aleh Adumim; queste nuove costruzioni andranno ad aggiungersi alle altre 98 la cui costruzione nel West Bank è già stata autorizzata nel corso di quest’anno.
Ma vi è di più.
Il Governo israeliano, infatti, progetta di unire l’insediamento di Ma’aleh Adumim (uno dei più grossi con i suoi 35.000 residenti) a Gerusalemme, costruendo nella cd. zona E1, e l’appalto in questione fa parte di un più vasto piano che prevede la costruzione di circa 4.000 unità abitative, piano che, tra l’altro, dividerebbe praticamente il West Bank in due tronconi.
E ancora.
Nel marzo 2005, il cd. rapporto Sasson (dal nome dell’autrice) aveva individuato una lista di 105 “avamposti” illegali che avrebbero dovuto essere smantellati, lista peraltro incompleta a causa della resistenza delle amministrazioni interessate a fornire adeguate informazioni sull’argomento.
Recentemente, invece, un rapporto di Ha’aretz ha svelato l’esistenza di un documento interno del Ministero della Giustizia israeliano in base al quale gli avamposti non solo non verrebbero evacuati e distrutti, ma diventerebbero addirittura destinatari di ulteriori finanziamenti governativi, ribaltando completamente le conclusioni a cui era giunta Talia Sasson nel suo rapporto.
Naturalmente, in Israele, nessuna voce si è levata contro questo ennesimo torto al popolo palestinese, contro questa ennesima violazione degli obblighi imposti ad Israele dalla roadmap, salvo quella di Peace Now e del suo direttore Yariv Oppenheimer.
Ciò che colpisce maggiormente, tuttavia, è l’assoluta inerzia della comunità internazionale a fronte di questa nuova e clamorosamente arbitraria decisione assunta da Israele.
Non è che il problema non sia noto.
Nella riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 22 agosto scorso, il Sottosegretario Generale per gli affari politici Ibrahim Gambari, nella sua relazione introduttiva, tra le altre cose faceva rilevare:
“le attività degli insediamenti continuano, con circa 3.000 unità riportate in costruzione all’interno degli insediamenti esistenti. E, a dispetto di numerose dichiarazioni di intenti riportate al Consiglio di Sicurezza, gli avamposti illegali non sono stati smantellati.
La barriera, larga parte della quale giace su territorio palestinese occupato, è ora completa per il 51%, nonostante il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2004 (
che ne chiedeva lo smantellamento, n.d.r.). Una volta terminata, oltre ai 180.000 Palestinesi a Gerusalemme Est, circa 60.500 Palestinesi del West Bank risiederanno in aree comprese tra la barriera e la Green Line, con un accesso limitato ai servizi medici, scolastici e di impiego…
A Gerusalemme Est, la combinazione dell’attività di insediamento, inclusa quella nella zona E1, della costruzione della barriera e di altre attività amministrative punta a circondare la città che è destinata un giorno a servire da capitale per due Stati, mentre effettivamente divide il West Bank in due separate aree geografiche”.
Parole chiare ed in equivoche, dunque, alle quali non seguono però i fatti conseguenti.
Ai Palestinesi – dopo le ultime elezioni legislative che hanno visto il successo di Hamas – si è chiesto ripetutamente di cessare ogni violenza, di riconoscere Israele e di conformarsi agli obblighi della roadmap e, nell’attesa, li si è sottoposti ad un embargo durissimo e al blocco di ogni aiuto finanziario che ha portato al collasso l’Anp e ha oltremodo peggiorato, qualora fosse possibile, le già miserevoli condizioni di vita del popolo palestinese.
Agli Israeliani, al contrario, nulla è richiesto, possono tranquillamente costruire le loro casette in terra palestinese, possono tranquillamente trucidare la popolazione civile (251 Palestinesi uccisi tra luglio e agosto, circa la metà dei quali civili, secondo Danny Rubinstein di Ha’aretz), possono fingere di riconoscere un futuro Stato palestinese pensando, semmai, di consentire la creazione di una serie di bantustan privi di quegli elementi territoriali e di risorse che dovrebbero caratterizzare uno Stato vero e proprio.
Tutto ciò è assolutamente intollerabile.
La roadmap non è e non deve essere una strada a senso unico, gli obblighi da essa previsti vanno fatti rispettare da entrambe le parti in causa, e le eventuali violazioni delle prescrizioni in essa contenute vanno sanzionate in egual maniera.
La comunità internazionale, e specialmente la Ue, se vuole mantenere un minimo di credibilità, deve abbandonare il doppio standard di comportamento usualmente adottato in Medio Oriente, e prevedere le opportune sanzioni politiche e commerciali a carico di Israele, qualora questo Paese rifiuti di conformarsi al diritto internazionale e alla roadmap.
Qualche segnale incoraggiante in verità si scorge, con la rinuncia di El Salvador a Gerusalemme non vi sono più sedi di ambasciate, numerosi Paesi europei (inclusa la Gran Bretagna) cominciano a rifiutare il permesso di atterraggio agli aerei della El Al che trasportano equipaggiamento ed armamenti destinati all’esercito israeliano.
Ma è davvero ancora troppo poco.

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