28 ottobre 2008

Aguzzini di frontiera.

Quella narrata da Gideon Levy su Ha’aretz nell’articolo che segue è l’incredibile e vergognosa vicenda di un 35enne Palestinese, onesto lavoratore e padre di famiglia, finito tra le grinfie degli aguzzini in divisa della polizia di frontiera israeliana, sol perché aveva deciso di recarsi a pregare nella moschea di al-Aqsa a Gerusalemme e, soprattutto, perché aveva osato pretendere che lui e gli altri Palestinesi fermati dai soldati fossero trattati con il rispetto e la cura dovuti ad ogni essere umano.

Questa storia ci racconta molte cose, le difficoltà dei Palestinesi a professare in piena libertà la propria religione, le difficoltà a muoversi dentro i territori occupati, il sistema di occupazione e di apartheid costituito dalle aree chiuse, dalle strade ad uso esclusivo degli Ebrei, dai checkpoint militari, l’annosa questione di Gerusalemme.

Ma soprattutto questa storia attiene al fatto che decenni e decenni di occupazione hanno portato ad un profondo degrado del sistema di valori e della moralità della società israeliana, che non si preoccupa in alcun modo dei bisogni e delle necessità dei propri vicini, che non riconosce ai Palestinesi alcun rispetto né eguale dignità di esseri umani, titolari di diritti fondamentali quali quello alla libertà di movimento, alla libertà di esercitare liberamente il proprio culto, alla salute e alla integrità fisica.

Protagonisti di questo ennesimo atto di violenza barbarica sono, ancora una volta, gli agenti della polizia di frontiera israeliana, già protagonisti – insieme a funzionari dello Shin Bet – degli abusi e dei maltrattamenti subiti dal giornalista palestinese
Mohammed Omer al posto di frontiera con la Giordania.

Di recente, sull’argomento, Richard Falk, il Relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi ha avuto modo di scrivere un rapporto di una ventina di pagine, in cui rileva come l’episodio in questione non può essere sminuito come un incidente o un’anomalia che riguarda alcuni membri insubordinati della sicurezza israeliana, in quanto tutti i Palestinesi sono soggetti a maltrattamenti e abusi arbitrari presso il confine o i checkpoint militari, in flagrante violazione delle previsioni contenute nella Convenzione di Ginevra.

Secondo Falk, Stati Uniti ed Europa dovrebbero dire molto chiaramente ad Israele che non intendono passare sopra alle sue continue violazioni del diritto internazionale.

Sottoscriviamo in pieno.

NOTTE DI PREGHIERA
di Gideon Levy, 25.10.2008

Ali Jabarin è solo un'ombra di quel che era. Da quando è stato arrestato e picchiato non lavora, dorme poco, soffre di frequenti mal di testa, vertigini ed incubi, e i suoi timpani a pezzi non gli danno tregua. Tutto a causa dei pugni degli agenti della Polizia di Frontiera che lo hanno arrestato mentre si recava alla funzione di preghiera per celebrare Laylat al-Qadr, la notte in cui Mohammed ricevette il Corano dal Cielo. Quella notte, calci e pugni sono piovuti sul pellegrino Jabarin, che vive solo a pochi minuti da Gerusalemme, ma a cui è proibito recarvisi, anche per queste preghiere più sacre.

Pochi mesi fa, quando sua madre era ricoverata al Makassed Hospital a Gerusalemme Est, Jabarin vi si introduceva furtivamente attraverso i condotti delle fognature che conducono fuori dalla sua cittadina. Si toglieva i pantaloni per guadare l'acqua lercia, alta fino al ginocchio, che usciva dall'altra parte della fogna, e si faceva strada verso la città santa. Ora anche questa opzione è finita: Israele ha sigillato la tubatura e chiuso la strada che conduce dalla parte vecchia di Beit Hanina - in cui abita - a quella nuova, situata all’interno dei confini della città di Gerusalemme.

Beit Hanina, un sobborgo di Gerusalemme, anche piuttosto prestigioso, è divisa fra la parte vecchia e quella nuova. Quella vecchia è tagliata fuori da Gerusalemme dalla Strada 443, che la separa dalla capitale, separando gli abitanti dalla città che era stata il centro delle loro vite. Nella parte vecchia di Beit Hanina, così come nelle cittadine adiacenti di Biddu e di Beit Iksa, centinaia di appartamenti restano vuoti, abbandonati dai loro residenti a causa del muro di separazione e della Strada di apartheid 443, destinata agli Israeliani, e soltanto a loro. L'autostrada per Gerusalemme è simile ad un'altra barriera di separazione. La prossima volta che passi per questa strada ricorda che, a causa di essa, Ali Jabarin non può pregare nel luogo a lui sacro.

Jabarin, 35 anni e padre di due bambine, con due gemelle in arrivo, lavora per un'organizzazione benefica per orfani ad Azzariyeh. Questa settimana, nella sua casa a Beit Hanina, ci ha raccontato la storia di quel che gli è successo, soffermandosi sui dettagli di ogni pugno e di ogni insulto subito.

La mattina del 25 settembre, alla fine del mese sacro del Ramadan, Jabarin telefonò a un amico nella sezione di Beit Hanina a Gerusalemme, dicendogli che avrebbe cercato di raggiungerlo, in modo da poter andare insieme alla moschea di Al Aqsa, per trascorrere la notte in preghiera. Jabarin si recò al checkpoint di Qalandiyah, sperando di essere in grado di arrivare a Gerusalemme. Fin lì, la sua preghiera venne esaudita. Racconta che c'era una folla di centinaia di Palestinesi, riusciti in qualche modo ad aprirsi un varco attraverso il checkpoint dopo che i soldati ne avevano perso il controllo, e di essersi trovato in mezzo a loro. È salito a bordo di un autobus palestinese dirigendosi a casa dell'amico, a Beit Hanina.

Alcuni minuti dopo essere sceso dall’autobus, mentre camminava verso la casa dell’amico, una jeep della Polizia di Frontiera gli si fermò bruscamente accanto; il guidatore gli chiese la carta di identità. Quella di Jabarin, dei territori, gli vietava di stare nel luogo in cui si trovava. Una passante gridò all'agente della Polizia di Frontiera: “Cosa volete da lui?” L’agente rispose con una pioggia di imprecazioni, e Jabarin gli disse: “Parla più educatamente. Stai parlando con un essere umano”. Allora sono cominciate le botte e le violenze: agli agenti della Polizia di Frontiera non piace essere rimproverati per come si comportano, in particolar modo da un Palestinese.

Dopo essersi rifiutato di entrare nella jeep fintanto che gli parlavano con sgarbo, Jabarin venne costretto a salire sul veicolo e fu portato in una struttura della Polizia di Frontiera ad Atarot. Egli venne condotto giù per alcuni gradini fino ad un ampio spazio in cui erano in stato di fermo circa 70 Palestinesi. Alcuni, come lui, avevano cercato di raggiungere la funzione di preghiera.

Erano i giorni del digiuno del Ramadan, e i prigionieri non avevano mangiato o bevuto alcunché dalla notte prima. Fra di loro vi erano pure alcuni bambini ed anziani. Su di loro, per tutto il tempo, era puntata una telecamera di sicurezza. Uno degli agenti della Polizia di Frontiera che li sorvegliava li insultava di continuo: “Chiaveremo tua madre, chiaveremo le tue sorelle, vi fotteremo tutti”, e così via. Riferendo le parolacce Jabarin, per l'imbarazzo, abbassa la voce.

Ad un certo punto, i prigionieri decisero di ignorare gli insulti, ed uno di loro cominciò a leggere ad alta voce da un Corano che portava con sé. L'agente della Polizia di Frontiera gli ordinò di tacere. Quello continuò lo stesso. Insulti e lettura andarono avanti pressappoco per tre ore, fino a circa le due del pomeriggio. Poi arrivò un nuovo agente della Polizia di Frontiera, uno che parlava bene l'arabo, e; anche lui cominciò a insultare i prigionieri – in arabo, questa volta. Dirigeva la maggior parte dei suoi insulti al tipo che continuava a leggere versetti dal Corano. Jabarin nuovamente non ha potuto stare zitto, si è alzato e ha detto qualcosa all'agente della Polizia di Frontiera sulle sue imprecazioni. L'agente è andato da lui; Jabarin ha pensato che gli volesse parlare. Aveva intenzione di dirgli, spiega, che lì c'erano bambini e vecchi, e che non avrebbe dovuto insultarli. Ma, invece di parole, hanno cominciato a volare contro di lui pugni e calci. I pugni diretti alla testa, i calci allo stomaco.

A Jabarin cominciò a girare la testa per i colpi che gli arrivavano sulla faccia e sulle orecchie, e presto è caduto sul pavimento, stordito. Egli poteva sentire di avere la schiuma alla bocca. Quando ne parla adesso, molti giorni dopo l'incidente, appare molto turbato. A ferirlo non sono stati solo i colpi e gli insulti, ma anche il fatto che tutto è avvenuto davanti a decine di altri prigionieri, fra cui alcuni bambini e adolescenti. È stato anche un colpo alla sua dignità. Dopo circa 10 minuti cercò di mettersi in piedi, ma non ne fu in grado. Aveva le vertigini e la nausea, come se avesse bisogno di vomitare. Con le ultime forze che gli restavano barcollò su per i gradini e chiese agli agenti della Polizia di Frontiera presenti di chiamargli un'ambulanza e la polizia. Oltre al trattamento medico, Jabarin voleva sporgere querela per il pestaggio.

La sua richiesta rimase senza risposta, e gli ordinarono di tornare giù alla stanza di detenzione. Racconta che sentiva scoppiare le orecchie dal dolore. Uno degli agenti della Polizia di Frontiera gli chiese chi lo avesse picchiato, aggiungendo che, chiunque fosse, non lo aveva fatto a sufficienza: “Avrebbe dovuto ammazzarti”. Nel frattempo sopraggiunse un uomo in abiti civili, armato di pistola, e condusse Jabarin nel suo ufficio. Jabarin racconta di avergli detto che non ci si dovrebbe rivolgere ai detenuti in modo così volgare, soprattutto durante il digiuno. Ha anche chiesto di conoscere il nome dell'agente che l'aveva picchiato, ma l'uomo in abiti civili non voleva dirgli ne' quel nome, ne' il proprio. Jabarin fu ricondotto nella stanza di detenzione, dopo che gli venne promesso l'arrivo di un'ambulanza.

Invece di un'ambulanza, arrivò un uomo con l’uniforme della Polizia di Frontiera che sosteneva di essere un medico. Jabarin gli chiede di vedere la sua tessera di sanitario, ricevendo un rifiuto. L'agente che l'aveva pestato gli disse: “Mi hai scocciato; il mio problema è che ti ho picchiato davanti alla telecamera”. Jabarin replicò di non aver bisogno di una telecamera: aveva 70 testimoni. L'agente della Polizia di Frontiera chiese ai detenuti se vi fosse qualcuno che avesse visto il pestaggio e volesse testimoniare, ma nessuno si alzò. Jabarin chiese chi dei giovani sapesse leggere l'ebraico, e quando qualcuno si fece avanti, gli chiese di leggere il nome dell'agente che l'aveva pestato, scritto in ebraico sul cartellino. Raad Malahala, “o qualcosa del genere”, era quel nome. Jabarin racconta di essere stato spinto e picchiato ancora ogni volta che chiedeva un'ambulanza. “Non dirmi di non essere mai stato picchiato prima”, disse sorpreso l'agente che lo pestava.

Intorno alle sei e mezza del pomeriggio, giunse l'ordine di rilasciare i detenuti. Venne ordinato loro di camminare in fila per uno, scortati da un agente della Polizia di Frontiera, verso il checkpoint di Qalandiyah. Al momento del rilascio, erano stati fermati ancora altri clandestini, fra cui donne e bambini; il massimo, secondo la stima di Jabarin, è stato di circa 100 detenuti. Dapprima egli ha rifiutato di andarsene a piedi, e ha continuato a chiedere un'ambulanza, ma la sua richiesta è stata respinta. Ha usato il cellulare per chiamare suo cugino, Karim Jubran, un ricercatore di B'Tselem (un gruppo per i diritti umani) nell'area di Gerusalemme, e gli ha spiegato cosa succedeva. Non molto tempo prima, quando era arrivato il momento di interrompere il digiuno, uno dei detenuti aveva gridato “Allahu Akbar” per indicarne la fine, e, secondo Jabarin, gli agenti della Polizia di Frontiera avevano picchiato pure lui.

Alla fine, si sono diretti a piedi verso il checkpoint. Jabarin, che poteva stare a malapena in piedi, si trascinava e veniva spintonato da un agente della Polizia di Frontiera. Finalmente, egli è stato caricato su un veicolo della Polizia di Frontiera e trasportato per il resto della strada fino al checkpoint. L'amico di Jabarin, un attivista dell'organizzazione per i diritti umani Al-Haq, da lì gli ha dato un passaggio in macchina e lo ha accompagnato direttamente all'ospedale Sheikh Zayed a Ramallah. Là gli hanno diagnosticato la rottura dei timpani per il pestaggio. B'Tselem ha registrato la testimonianza di Jabarin e prevede di presentare presto un reclamo al dipartimento investigativo della Polizia israeliana.

Un portavoce della Polizia di Frontiera questa settimana ha risposto: “Non siamo a conoscenza di un simile episodio. Alla ricezione del reclamo, esso sarà esaminato dal comandante del distretto 'circondario di Gerusalemme'. Allo stesso tempo, presenteremo un reclamo al Dipartimento Investigativo della Polizia, nell'ambito della politica di tolleranza zero per l'uso non autorizzato della forza. Ma prima controlleremo se l'episodio sia o no realmente accaduto”.
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