Lettera aperta di Gideon Levy ad Abraham Yehoshua.
A proposito di ipocrisia e di finti “pacifisti” israeliani, non possiamo non inserire nell’elenco il “trio delle meraviglie”, ovverosia gli scrittori israeliani Grossman, Oz e Yehoshua, sempre in giro per il mondo a propagandare l’immagine di uno stato e di un popolo ebraico forte ma giusto, compassionevole e desideroso di pace.
Costoro, e in particolare Yehoshua, hanno però sempre apertamente appoggiato ogni campagna militare israeliana e ciascuno dei più brutali crimini contro l’umanità di cui si è macchiato Israele nella sua storia, ivi inclusi i massacri di civili in Libano e, ora, l’assassinio in massa di Palestinesi inermi, donne e bambini compresi, nella Striscia di Gaza.
Illuminante è, a tal proposito, la risposta pubblica del giornalista di Ha’aretz Gideon Levy ad una lettera aperta che lo scrittore israeliano gli aveva indirizzato dalle colonne dello stesso giornale, e che qui propongo nella traduzione di Davide Galati tratta dal suo prezioso blog “Le coordinate Galat(t)iche”.
Gideon Levy: Una risposta aperta a A.B.Yehoshua
18.1.2009
Costoro, e in particolare Yehoshua, hanno però sempre apertamente appoggiato ogni campagna militare israeliana e ciascuno dei più brutali crimini contro l’umanità di cui si è macchiato Israele nella sua storia, ivi inclusi i massacri di civili in Libano e, ora, l’assassinio in massa di Palestinesi inermi, donne e bambini compresi, nella Striscia di Gaza.
Illuminante è, a tal proposito, la risposta pubblica del giornalista di Ha’aretz Gideon Levy ad una lettera aperta che lo scrittore israeliano gli aveva indirizzato dalle colonne dello stesso giornale, e che qui propongo nella traduzione di Davide Galati tratta dal suo prezioso blog “Le coordinate Galat(t)iche”.
Gideon Levy: Una risposta aperta a A.B.Yehoshua
18.1.2009
Caro Bullo (Levy in vari precedenti articoli ha paragonato Israele al bulletto gradasso del quartiere, paragone qui esteso evidentemente anche a chi apertamente giustifica il massacro di civili nella Striscia di Gaza, n.d.r.),
grazie per la tua lettera franca e per le gentili parole. Scrivi che ti sei mosso da una "posizione di rispetto", e anch'io rispetto profondamente i tuoi meravigliosi lavori letterari. Ma, disgraziatamente, provo molto meno rispetto per la tua attuale posizione politica. E' come se i grandi, compreso tu, abbiano dovuto soccombere ad una terribile conflagrazione che ha consumato ogni traccia di ossatura morale.
Anche tu, autore stimato, sei caduto preda della sciagurata onda che ci ha invaso, intorpidito, accecato e ci ha lavato il cervello. Oggi ti trovi a giustificare la guerra più brutale che Israele abbia mai combattuto, e nel farlo sei compiacente con l'imbroglio che l'"occupazione di Gaza è finita" e giustifichi le uccisioni di massa evocando l'alibi che Hamas "mescola deliberatamente i suoi combattenti alla popolazione civile". Stai giudicando un popolo indifeso a cui è negato un governo ed un esercito – includendo un movimento fondamentalista che utilizza mezzi inadatti per combattere per una giusta causa, cioè la fine dell'occupazione – allo stesso modo in cui giudichi una potenza regionale, che si considera umanitaria e democratica ma che si è dimostrata essere un conquistatore crudele e brutale. Come israeliano, non posso ammonire i loro leader mentre le nostre mani sono coperte di sangue, né voglio giudicare Israele e i palestinesi come hai fatto tu.
I residenti a Gaza non hanno mai avuto il possesso della "loro stessa porzione di terra", come tu hai affermato. Abbiamo lasciato Gaza per soddisfare i nostri interessi e bisogni, e poi li abbiamo imprigionati. Abbiamo escluso il territorio dal resto del mondo e occupato la Cisgiordania, e non abbiamo permesso loro di costruire un aeroporto o un porto navale. Controlliamo il loro registro civile e la loro moneta – e disporre di un proprio esercito è fuori questione – e tu sostieni che l'occupazione è finita? Abbiamo annientato i loro mezzi di sostentamento, li abbiamo assediati per due anni, e tu affermi che loro "hanno respinto l'occupazione israeliana"? L'occupazione di Gaza ha semplicemente assunto una nuova forma: un recinto al posto delle colonie. I carcerieri fanno la guardia dall'esterno invece che all'interno.
E no, io non so "molto bene", come hai scritto, che non intendiamo uccidere i bambini. Quando vengono impiegati carri armati, artiglieria e aerei in un'area così densamente popolata è impossibile evitare di uccidere dei bambini. Capisco che la propaganda israeliana ha lavato la tua coscienza, ma non la mia né quella della maggior parte del pianeta. I risultati, non le intenzioni, sono quelle che contano – e i risultati sono stati orrendi. "Se tu fossi realmente preoccupato per la morte dei nostri e dei loro bambini" hai scritto, "capiresti l'attuale guerra". Persino nel peggiore dei tuoi passi letterari, e ce ne sono stati pochi, non avresti potuto tirare fuori un'argomentazione morale più disonesta: che all'uccisione criminale di bambini non corrisponda una vera preoccupazione per il loro destino. "Eccoci ancora una volta, a scrivere di bambini", ti devi essere detto questo weekend quando io ho scritto ancora sui bambini uccisi. Si, bisogna scriverne. Bisogna gridarlo. Va fatto per il bene di entrambi.
A tuo parere la guerra è "il solo modo per indurre Hamas a capire". Anche volendo ignorare il tono accondiscendente della tua osservazione, mi sarei aspettato di più da uno scrittore. Mi sarei aspettato che uno scrittore conosciuto fosse familiare con la storia delle insurrezioni nazionali: non possono essere schiacciate con la forza. Nonostante tutta la forza distruttiva che abbiamo messo in atto in questa guerra, non capisco ancora come possano venirne influenzati i palestinesi; i Qassam vengono ancora lanciati su Israele. Loro e il mondo hanno chiaramente tratto un'altra lezione nelle ultime settimane: che Israele è un paese violento, pericoloso e privo di scrupoli. Desideri vivere in un paese che possiede una simile reputazione? Una nazione che annuncia orgogliosamente di essere "pazza", come alcuni ministri israeliani hanno detto con riferimento alle operazioni militari a Gaza? Io no.
Hai scritto che ti sei sempre preoccupato per me a causa dei miei viaggi in "luoghi così ostili". Quei luoghi sono meno ostili di quanto pensi, se ci vai armato di nulla tranne che del desiderio di ascoltare. Non ci sono andato per "raccontare la storia delle afflizioni degli altri", ma per rendere note le nostre stesse azioni. Questo è sempre stato l'autentico punto di partenza israeliano del mio lavoro.
Infine, mi chiedi di conservare la mia "autorità morale". Non è la mia immagine che desidero proteggere ma quella della nazione, che è ugualmente cara ad entrambi noi.
In amicizia, nonostante tutto.
Titolo originale: An open response to A.B. Yehoshua
Etichette: gaza, gideon levy, haaretz, piombo fuso, yehoshua
8 Commenti:
«Così i ragazzini di Hamas
ci hanno utilizzato come bersagli»
Abitanti di Gaza accusano i militanti islamici: «Ci impedivano di lasciare le case e da lì sparavano»
GAZA - «Andatevene, andatevene via di qui! Volete che gli israeliani ci uccidano tutti? Volete veder morire sotto le bombe i nostri bambini? Portate via le vostre armi e i missili», gridavano in tanti tra gli abitanti della striscia di Gaza ai miliziani di Hamas e ai loro alleati della Jihad islamica. I più coraggiosi si erano organizzati e avevano sbarrato le porte di accesso ai loro cortili, inchiodato assi a quelle dei palazzi, bloccato in fretta e furia le scale per i tetti più alti. Ma per lo più la guerriglia non dava ascolto a nessuno. «Traditori. Collaborazionisti di Israele. Spie di Fatah, codardi. I soldati della guerra santa vi puniranno. E in ogni caso morirete tutti, come noi. Combattendo gli ebrei sionisti siamo tutti destinati al paradiso, non siete contenti di morire assieme?». E così, urlando furiosi, abbattevano porte e finestre, si nascondevano ai piani alti, negli orti, usavano le ambulanze, si barricavano vicino a ospedali, scuole, edifici dell’Onu.
In casi estremi sparavano contro chi cercava di bloccare loro la strada per salvare le proprie famiglie, oppure picchiavano selvaggiamente. «I miliziani di Hamas cercavano a bella posta di provocare gli israeliani. Erano spesso ragazzini, 16 o 17 anni, armati di mitra. Non potevano fare nulla contro tank e jet. Sapevano di essere molto più deboli. Ma volevano che sparassero sulle nostre case per accusarli poi di crimini di guerra», sostiene Abu Issa, 42 anni, abitante nel quartiere di Tel Awa. «Praticamente tutti i palazzi più alti di Gaza che sono stato colpiti dalle bombe israeliane, come lo Dogmoush, Andalous, Jawarah, Siussi e tanti altri avevano sul tetto le rampe lanciarazzi, oppure punti di osservazione di Hamas. Li avevano messi anche vicino al grande deposito Onu poi andato in fiamme E lo stesso vale per i villaggi lungo la linea di frontiera poi più devastati dalla furia folle e punitiva dei sionisti», le fa eco la cugina, Um Abdallah, 48 anni. Usano i soprannomi di famiglia. Ma forniscono dettagli ben circostanziati. E’ stato difficile raccogliere queste testimonianze. In generale qui trionfa la paura di Hamas e imperano i tabù ideologici alimentati da un secolo di guerre con il «nemico sionista».
Chi racconta una versione diversa dalla narrativa imposta dalla «muhamawa» (la resistenza) è automaticamente un «amil», un collaborazionista e rischia la vita. Aiuta però il recente scontro fratricida tra Hamas e Olp. Se Israele o l’Egitto avessero permesso ai giornalisti stranieri di entrare subito sarebbe stato più facile. Quelli locali sono spesso minacciati da Hamas. «Non è un fatto nuovo, in Medio Oriente tra le società arabe manca la tradizione culturale dei diritti umani. Avveniva sotto il regime di Arafat che la stampa venisse perseguitata e censurata. Con Hamas è anche peggio», sostiene Eyad Sarraj, noto psichiatra di Gaza city. E c’è un altro dato che sta emergendo sempre più evidente visitando cliniche, ospedali e le famiglie delle vittime del fuoco israeliano. In verità il loro numero appare molto più basso dei quasi 1.300 morti, oltre a circa 5.000 feriti, riportati dagli uomini di Hamas e ripetuti da ufficiali Onu e della Croce Rossa locale. «I morti potrebbero essere non più di 500 o 600. Per lo più ragazzi tra i 17 e 23 anni reclutati tra le fila di Hamas che li ha mandati letteralmente al massacro», ci dice un medico dell’ospedale Shifah che non vuole assolutamente essere citato, è a rischio la sua vita. Un dato però confermato anche dai giornalisti locali: «Lo abbiamo già segnalato ai capi di Hamas. Perché insistono nel gonfiare le cifre delle vittime? Strano tra l’altro che le organizzazioni non governative, anche occidentali, le riportino senza verifica. Alla fine la verità potrebbe venire a galla. E potrebbe essere come a Jenin nel 2002. Inizialmente si parlò di 1.500 morti. Poi venne fuori che erano solo 54, di cui almeno 45 guerriglieri caduti combattendo».
Come si è giunti a queste cifre? «Prendiano il caso del massacro della famiglia Al Samoun del quartiere di Zeitun. Quando le bombe hanno colpito le loro abitazioni hanno riportato che avevano avuto 31 morti. E così sono stati registrati dagli ufficiali del ministero della Sanità controllato da Hamas. Ma poi, quando i corpi sono stati effettivamente recuperati, la somma totale è raddoppiata a 62 e così sono passati al computo dei bilanci totali», spiega Masoda Al Samoun di 24 anni. E aggiunge un dettaglio interessante: «A confondere le acque ci si erano messe anche le squadre speciali israeliane. I loro uomini erano travestiti da guerriglieri di Hamas, con tanto di bandana verde legata in fronte con la scritta consueta: non c’è altro Dio oltre Allah e Maometto è il suo Profeta. Si intrufolavano nei vicoli per creare caos. A noi è capitato di gridare loro di andarsene, temevamo le rappresaglie. Più tardi abbiamo capito che erano israeliani». E’ sufficiente visitare qualche ospedale per capire che i conti non tornano. Molti letti sono liberi all’Ospedale Europeo di Rafah, uno di quelli che pure dovrebbe essere più coinvolto nelle vittime della «guerra dei tunnel» israeliana. Lo stesso vale per il “Nasser” di Khan Yunis. Solo 5 letti dei 150 dell’Ospedale privato Al-Amal sono occupati. A Gaza city è stato evacuato lo Wafa, costruito con le donazioni «caritative islamiche» di Arabia Saudita, Qatar e altri Paesi del Golfo, e bombardato da Israele e fine dicembre. L’istituto è noto per essere una roccaforte di Hamas, qui vennero ricoverati i suoi combattenti feriti nella guerra civile con Fatah nel 2007. Gli altri stavano invece allo Al Quds, a sua volta bombardato la seconda metà settimana di gennaio.
Dice di questo fatto Magah al Rachmah, 25 anni, abitante a poche decine di metri dai quattro grandi palazzi del complesso sanitario oggi seriamente danneggiato. «Gli uomini di Hamas si erano rifugiati soprattutto nel palazzo che ospita gli uffici amministrativi dello Al Quds. Usavano le ambulanze e avevano costretto ambulanzieri e infermieri a togliersi le uniformi con i simboli dei paramedici, così potevano confondersi meglio e sfuggire ai cecchini israeliani». Tutto ciò ha ridotto di parecchio il numero di letti disponibili tra gli istituti sanitari di Gaza. Pure, lo Shifah, il più grande ospedale della città, resta ben lontano dal registrare il tutto esaurito. Sembra fossero invece densamente occupati i suoi sotterranei. «Hamas vi aveva nascosto le celle d’emergenza e la stanza degli interrogatori per i prigionieri di Fatah e del fronte della sinistra laica che erano stato evacuati dalla prigione bombardata di Saraja», dicono i militanti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. E’ stata una guerra nella guerra questa tra Fatah e Hamas. Le organizzazioni umanitarie locali, per lo più controllate dall’Olp, raccontano di «decine di esecuzioni, casi di tortura, rapimenti nelle ultime tre settimane» perpetrati da Hamas. Uno dei casi più noti è quello di Achmad Shakhura, 47 anni, abitante di Khan Yunis e fratello di Khaled, braccio destro di Mohammad Dahlan (ex capo dei servizi di sicurezza di Yasser Arafat oggi in esilio) che è stato rapito per ordine del capo della polizia segreta locale di Hamas, Abu Abdallah Al Kidra, quindi torturato, gli sarebbe stato strappato l’occhio sinistro, e infine sarebbe stato ucciso il 15 gennaio.
Dal quotidiano "La Repubblica", 26 gennaio:
"La mia famiglia distrutta dal fosforo" - i superstiti raccontano le armi proibite
dal nostro inviato ALBERTO STABILE
GAZA - A piedi nudi e a capo coperto, con le lunghe vesti che lambiscono l'acqua, le donne della famiglia Abu Halima cercano di cancellare i segni della devastazione che si è abbattuta sulla loro casa di Beit Lahiya. Ogni centimetro di pavimento, ogni palmo di parete vengono puliti con scope, spazzole e chili di detersivo, ma quell'odore che pervade le stanze resiste anche al vento che irrompe dalle finestre senza infissi. L'odore nauseante, dicono gli esperti, del fosforo bianco.
Sull'uso di questa sostanza, non vietato se adoperata in campo aperto, ma illegale se usata contro le persone o in ambienti densamente abitati, l'esercito ha annunciato l'apertura di un'inchiesta, affermando, tuttavia, di aver sempre agito nell'ambito della legalità. Amnesty international, invece, ha dichiarato di essere in possesso di "prove indiscutibili" che Tsahal abbia utilizzato ordigni al fosforo in modo indiscriminato. Da qui l'accusa di aver commesso "crimini di guerra".
Il governo israeliano ha subito reagito e, dopo aver imposto la censura sui nomi di soldati e ufficiali coinvolti nell'operazione, ieri ha annunciato di aver approvato uno scudo legale protettivo a favore dei militari israeliani nel caso dovessero essere chiamati a rispondere d'aver commesso violazioni dei diritti umani da qualche tribunale straniero. "Israele - ha detto Olmert - darà pieno sostegno ai comandanti e ai soldati che sono stati mandati a Gaza, così come loro hanno protetto noi con i loro corpi durante l'operazione". Il Guardasigilli e il ministro della Difesa, oltre ad un gruppo di legali, faranno parte di questo "ombrello" protettivo.
Omar Abu Halima, 18 anni, uno degli figli di Sabah e Sadallah Abu Halima, racconta quel pomeriggio d'inferno. I carri armati israeliani erano a un centinaio di metri dalla palazzina di famiglia di tre piani che sorge, allineata ad altre quattro o cinque case delle stesse dimensioni, nella zona chiamata Atara, dove finisce l'abitato di Beit Lahiya e cominciano le serre e i campi coltivati. Zona di fragole e agrumi, ma anche, qua e là, data la vicinanza al confine israeliano, di lanci di Qassam.
"Ero nella casa accanto, da un mio zio, quando abbiamo sentito tre o quattro esplosioni, una dietro l'altra. Mi sono precipitato. La nostra casa era avvolta da un fumo denso e bianco che non faceva respirare e dalle fiamme. Sono salito al secondo piano e ho visto mia madre avvolta nel fuoco. Nel corridoio c'erano i miei fratelli Abed di 14 anni, Said di 10, Hamza di 8 abbracciati a mio padre Sadallah, che di anni ne aveva 45. Bruciavano. Hamza diceva: voglio pregare, voglio pregare, ma subito dopo morì. Gli altri erano già morti. Mio padre non aveva più la testa". Nel reparto ustioni dell'ospedale Shifa, dove è ricoverata Sabah Abu Halima, la madre, anche lei di 45 anni, il primario Nafez al Shaban, laureato a Glasgow, specializzato negli Stati Uniti, è certo che a provocare le ustioni subite dalla donna e da altri feriti sia stato il fosforo. Racconta di essersi trovato per la prima volta nella sua carriera di fronte a piaghe che continuavano a bruciare, anche dopo ore, emanavano un odore insopportabile e soprattutto resistevano al normale trattamento di chirurgia plastica. "Tanto che - dice - su suggerimento di colleghi giordani ed egiziani che avevano avuto esperienze simili in Libano, abbiamo dovuto amputare".
Una tragedia nella tragedia è rappresentata dalla mancanza di soccorsi, sia nel caso degli Abu Halima, che in quello della famiglia Abd Rabbo, nel villaggio di Jabaliya (vicino all'omonimo campo profughi). Per dirla in breve, morti e feriti della famiglia Abu Halima sono stati messi su due macchine e su un trattore. La macchina con i morti, secondo il racconto dei sopravvissuti, bloccata al primo posto di blocco israeliano, è stata capovolta da un caterpillar militare. I cadaveri sono rimasti per giorni sull'asfalto. Sabah Abu Halima, la madre ferita, ha potuto raggiungere l'ospedale su un carro trainato da un asino.
Inutile chiedere se in zona ci fossero miliziani di Hamas. "Qui siamo tutti al Fatah - dice Osam, un vicino che era inquadrato nell'Autorità palestinese e continua a prendere lo stipendio da Ramallah -. Se ci fosse stato qualcosa ce ne saremmo andati". Anche se la domanda: "Andati dove?", resta senza risposta.
A Gaza, in questi giorni, non si parla soltanto di armi proibite, ma anche di armi sconosciute, come il missile che ha ucciso otto ragazzi, tre femmine e cinque maschi davanti alla Educational School dell'Unrwa, in pieno centro. Un ordigno che diffonde una pioggia di schegge piccolissime, taglienti come rasoi, di forma quadrata, dal lato di due o tre millimetri come quelle che brillano controluce, nella radiografia del braccio e del ginocchio di Adib al Rais, che si è salvato perché era all'interno del negozio. Il missile, all'impatto, ha provocato un buco sull'asfalto largo dieci centimetri e profondo trenta. Ma sul muro distante tre metri, sulle porte di ferro del piccolo supermercato e sui corpi delle vittime hanno infierito le schegge, grandi come coriandoli.
(26 gennaio 2009)
Positiva la frattura del mondo arabo messa in luce a Gaza
di Jonathan Spyer
Il summit arabo a Doha della scorsa settimana intendeva unire i paesi arabi nella condanna di Israele e lanciare una campagna diplomatica contro Gerusalemme. Ma con Egitto e Arabia Saudita assenti, ed anzi attivamente impegnati a premere su altri capi arabi perché boicottassero l’incontro, il vertice si è trasformato in una riunione del blocco filo-iraniano, nel quale il Qatar è sembrato un semplice componente.
Il vertice, e la reazione che ha suscitato nella maggior parte degli stati arabi, offre una prova evidente delle dimensioni cui è giunta l’attuale polarizzazione del mondo arabo; è dà un’indicazione degli effetti che sta avendo la controffensiva israeliana anti-Hamas a Gaza sul corso degli eventi a livello regionale.
Gli unici importanti capi di stato arabi presenti a Doha erano quelli di Siria, Sudan, Algeria e Libano. Insieme a loro, un altro presidente, l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad, e i capi di Hamas e Jihad Islamica. A parte la decisione del Qatar di estromettere la missione diplomatico-commerciale israeliana presente a Doha, il summit non ha prodotto praticamente nessun altro risultato significativi se non altro perché tutti i presenti erano già di per sé nemici di Israele. Soprattutto il vertice, trasformandosi in una semplice riunione dei filo-iraniani, non è affatto riuscito a conquistare il centro della scena politica araba, anche perché ormai non esiste quasi più alcun “centro della scena politica araba” da conquistare.
La facilità con cui, nel frattempo, l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita si permettevano di respingere con insolenza la retorica incendiaria di Doha attesta il fatto che la controffensiva israeliana a Gaza viene percepita come un successo. Si dice che nelle guerre del XXI secolo, destinate a non concludersi più con la bandiera dei vincitori issata sulla capitale degli sconfitti, il fattore percezione diventa quello politicamente più importante. Mentre a Gaza si diradano i fumi dell’ultimo round di combattimenti, la percezione su entrambi i versanti del lacerato mondo arabo è che Israele ha vinto e che Hamas e i suoi alleati hanno subito un significativo battuta d’arresto.
Sono proprio le estese distruzioni inferte alle strutture di Hamas nella striscia di Gaza, unite al bassissimo numero di perdite subite da parta israeliana, ciò che rende tragicamente insulsa la pretesa di Hamas di aver conseguito almeno qualche risultato, per non dire addirittura una “vittoria”.
Dopo la seconda guerra in Libano contro Hezbollah (estate 2006), è diventato un articolo di fede e un tema favorito della propaganda filo-iraniana sostenere che Israele non sarebbe più stato capace di intraprendere una decisa azione miliare contro le forze semi-irregolari intente ad armarsi sempre più ai suoi confini settentrionale e meridionale, per via della “debolezza” del fronte interno israeliano e della sua incapacità di sopportare perdite civili e militari (fu Nasrallah che lanciò lo slogan di “Israele fragile come una ragnatela”).
Questa volta invece il modello basato sulla muqawama (“resistenza, lotta armata”) non sembra aver funzionato. I razzi non sono riusciti a creare un senso di assedio nel sud di Israele ed anzi il loro numero è andato rapidamente scemando al progredire dell’operazione israeliana. L’intervento di terra è stato portato sin nel cuore della striscia di Gaza con successo e perdite molto limitate. L’eroica “resistenza” che era stata tante volte promessa nei raduni e nei discorsi di Hamas si è squagliata senza riuscire a realizzare neanche qualche successo simbolico come la cattura di un soldato o la distruzione di un mezzo blindato, cosa che se non altro avrebbe potuto essere sbandierata come prova di valore tattico. Alla fine dei combattimenti, il dichiarato obiettivo di Hamas di ottenere l’apertura (completa e incontrollata) dei valichi fra Israele, Egitto e striscia di Gaza non è stato raggiunto e per il momento non vi sono segnali che possa essere realizzato nell’immediato futuro.
Il giornale egiziano Al-Ahram ha persino citato il leader di Hamas Khaled Mashaal, con sede a Damasco, lamentarsi del fatto che Hamas ha fatto troppo affidamento sul più virtuale degli alleati, la piazza araba, perché le venisse in soccorso facendo pressione sul regime del Cairo.
Il modello della muqawama aveva acquistato carisma per via della sua promessa di vendicare le umiliazioni e invertire l’ondata di sconfitte arabe. Una volta dimostrato che non è in grado di farlo, diventa semplicemente una delle possibili opzioni a disposizione degli arabi, e non necessariamente la più appetibile. La controffensiva israeliana a Gaza non ha ancora portato il Medio Oriente a questo punto, ma potrebbe essere ricordata come un primo, piccolo passo in questa direzione.
A questo proposito appare istruttiva la reazione delle fonti anti-iraniane e anti-siriane alla stridula retorica di Doha. Il quotidiano filo-saudita Asharq Alawsat ha fatto la predica a Hamas dicendo che “chi cerca la guerra deve essere capace di reggerne le conseguenze, e non incitare alla guerra per poi chiedere aiuto alle popolazioni e ai governi”. L’ex presidente libanese Amin Gemayel ha espresso un concetto molto simile quando ha detto: “A Gaza abbiamo visto i massacri provocati dalla strategia della resistenza”.
Non sono dichiarazioni filo-israeliane, né vogliono esserlo. La cosa funziona in questo modo. Israele fa da argine quando si oppone fisicamente alle forze anti-occidentali incrinandone così il carisma. Questo apre uno spazio in cui gli stati arabi filo-occidentali possono far avanzare l’idea che opporsi all’occidente e a Israele sia una strada che non porta da nessuna parte. Può sembrare ingiusto nei confronti di Israele, ma è esattamente in questo modo che è stato stroncato il nazionalismo estremista arabo degli anni ’60-‘70, aprendo la strada alla pace fra Israele ed Egitto. È in questo modo che di fatto Israele, difendendosi, gioca un ruolo cruciale come alleato dell’occidente.
L’ideologia estremista islamista promossa dall’Iran e le ambizioni regionali che porta con sé saranno alla fine verosimilmente sconfitte nello stesso modo, anche se il Medio Oriente è ancora molto lontano da questo punto e vi saranno ulteriori battaglie con progressi e regressi. I recenti fatti di Gaza – per parafrasare un ben noto primo ministro britannico – non sono la fine dello scontro, e neanche l’inizio della fine, ma forse rappresentano la fine dell’inizio.
C'è una piccola dimenticanza (voluta?): a Doha c'era anche la Turchia, e non credo che questo possa essere ascritto a "successo" di Israele!
Per il resto, lo abbiamo già detto, una delle motivazioni di "Piombo Fuso" era proprio quella di ristabilire l'onore, ma soprattutto la capacità di deterrenza, dell'esercito israeliano, rimasti entrambi alquanto scossi dalla batosta libanese.
Non si dimentichi, infatti, che Israele si è preparata a questa "guerra" (rectius, massacro) per ben cinque mesi, in gran segreto e - dettaglio trascurabile chiaramente - mentre discuteva di "tregua" oon Hamas...
Il grande capo Gabi, per non sbagliare, aveva fatto persino costruire un campo di addestramento che simulasse il combattimento all'interno di Gaza City.
Ma, naturalmente, Tsahal aveva dalla sua parte soprattutto lo strapotere tecnologico proprio di uno degli eserciti più forti del mondo: per battere una milizia male armata, Israele ha messo in campo:
232 carri armati;
687 veicoli corazzati;
43 caccia-bombardieri e 105 elicotteri da battaglia;
221 pezzi d'artiglieria campale, e 346 mortai;
3 satelliti artificiali;
10 mila soldati armati di tutto punto, con giubbotti antiproiettile, visori notturni e tutti i gadget delle moderne ss.
Mentre Hamas non disponeva nemmeno dei missili antitank filoguidati così ben utilizzati da hezbollah in Libano, solo qualche mitra e granate.
Certo che Israele ha vinto, certo che ha avuto poche perdite, ma al prezzo di distruggere "le infrastrutture di Hamas" insieme a quasi il 20% di tutto quanto vi era di edificato nella Striscia.
Al prezzo, soprattutto, di uno dei crimini contro l'umanità più sanguinosi e scellerati che la storia recente ricordi.
http://meddletv.wordpress.com/2009/01/27/oneplusone-il-muro-del-benessere-2/
oppure
http//meddletv.wordpress.com
"Un solo missile e la piccola Dalal non ha più nessuno"
Scritto da Michele Giorgio, Inviato a Gaza City
il Manifesto, 25 gennaio 2009
LE VITTIME BAMBINE
Tra gli oltre 200mila ragazzi e ragazze di Gaza che ieri, dopo un mese, sono tornati a scuola non c'era Dalal Abu Eisha, 13 anni.
Anche lei risultava tra gli alunni assenti, ma non tra quelli che in classe non entreranno mai più perché uccisi nel corso dell'offensiva israeliana.
«Non voglio più tornare alla mia scuola di Shate, le mie compagne mi farebbero tante domande e io sono stanca di piangere. Preferisco trasferirmi all'istituto femminile di Sheikh Radwan, accanto alla casa della nonna», spiega la bambina. Esile, con i capelli coperti da un cappello di lana, con voce tremante e occhi gonfi Dalal parla della perdita di tutta la famiglia in un solo colpo.
« Mamma, papà, la mia sorellina Ghaida, i miei fratelli Sayed e Mohammad, non ci sono più, li ha uccisi un missile israeliano», racconta ricordando la notte del 9 gennaio, quando il telefono squillò a casa della nonna. «Mi piace andare a casa di teta (nonna) - dice accennando solo per un attimo un sorriso - quella sera avevo deciso di dormire da lei».
Rimase sveglia fino a tardi Dalal quella sera, poi pian piano la stanchezza vinse la paura della guerra e si addormentò. «Fui svegliata dal telefono, ebbi subito paura - prosegue la bambina - la nonna rispose e portò le mani al volto. Mi guardò e mi disse di essere forte, perché papà e mamma erano morti, assieme a Ghadia, Sayed e Mohammed. Non riuscivo a parlare, arrivammo a casa in tempo per vedere i corpi caricati sulle ambulanze».
La famiglia di Dalal è stata cancellata da un missile che ha centrato un palazzo di tre piani ed è esploso proprio nel suo appartamento. Nessuno ha mai trovato un motivo per quel raid. Il padre della bambina era un muratore, che manifestava simpatie per l'Olp e non per Hamas.
«Cosa avevano fatto papà, mamma e i miei fratelli per meritare la morte?», si chiede da quel giorno Dalal. Adesso è sola, dovrà costruire il suo futuro da sola, contando sull'aiuto dello zio materno Hatem e della nonna.
«All'inizio, dopo la morte dei miei familiari, soffrivo meno perché avevo tanta gente intorno. Ora invece sento tanto la mancanza della mamma e di tutti gli altri. La notte piango e a tenermi compagnia è solo Lulu», dice Dalal accarezzando la gatta di famiglia sopravvissuta all'attacco.
Nelle scorse settimane si è parlato della morte e del ferimento di centinaia di bambini palestinesi, ma le organizzazioni umanitarie saranno impegnate anche ad assistere un numero imprecisato di orfani di guerra, almeno 200, secondo dati non ufficiali.
«È un problema diffuso e molto serio - ci dice Dominique Sbardella, di Save the Children -. Ci stiamo attivando, assieme ad altre associazioni locali e internazionali, per seguire questi bambini lungo un percorso che purtroppo saranno costretti a fare senza più l'aiuto di uno, talvolta entrambi i genitori». Saranno impegnati anche gli insegnanti, aggiunge Sbardella, che dovranno spiegare, specie ai bambini più piccoli, che non pochi dei loro compagni non verranno mai più a scuola.
«Oggi (ieri) sono rimasta scioccata - racconta Duna Matta, una palestinese cristiana della Scuola della "Sacra Famiglia" di Gaza city - ho scoperto che la mia compagna di banco Christine al Torok è stata uccisa durante la guerra. Ero tornata a scuole felice ma ora sono molto triste».
Sono davvero molto colpito. Non conoscevo questi risvolti della guerra in Palestina e non avrei mai pensato che, Abraham Yehoshua uno dei miei scrittori preferiti potesse appoggiare tali atrocità.
Credo che, la maggiorparte delle volte, gli scrittori dovrebbero lasciar perdere la politica e fare ciò che sanno fare meglio, raccontare storie di fantasia, invece di prendere posizione per l'una o l'altra fazione.
Gentile anonimo, purtroppo molti di quelli che girano per il mondo con l'etichetta di "pacifisti" israeliani - in specie il trio Yehoshua Oz e Grossman oltre alla cantante Noah - in realtà non hanno mai negato la loro approvazione alle tante guerre di "difesa" che israele ha scatenato in questi tempi contro gaza e il libano.
Si sono sempre limitati, dopo, a chiedere di non esagerare...
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