6 maggio 2011

La riconciliazione palestinese frutto della rivoluzione egiziana e del fallimento degli Usa

Abbiamo già sottolineato l’importanza fondamentale dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, che potrebbe imprimere un nuovo impulso al processo di pace israelo-palestinese.

Nei due articoli che seguono, proposti nella traduzione di
Medarabnews, vengono messi in risalto due dei fattori principali che hanno determinato e/o accelerato il processo di riunificazione delle diverse fazioni palestinesi.

Nel primo, scritto dal giornalista palestinese Rajab Abu Sirriyeh per il quotidiano al-Ayyam, si fa rilevare come l’accordo raggiunto con la mediazione egiziana sia il frutto dei profondi cambiamenti in atto nella regione, dal cambio di regime in Egitto alle proteste popolari in Siria, cambiamenti di cui Israele dovrà giocoforza tenere in conto. La caduta di Hosni Mubarak, in particolare, ha tolto di mezzo quello che era diventato di fatto un alleato di Usa e Israele nel mantenimento dello status quo e nell’assedio di Gaza.

Nel secondo articolo, scritto da Daniel Levy per il Guardian, si evidenziano invece i fattori connessi allo stallo del processo di pace e al fallimento della mediazione degli Stati Uniti, dimostratisi ormai con certificata evidenza incapaci di assumere un ruolo di honest broker del conflitto israelo-palestinese.

L’incrollabile fiducia di Abu Mazen nella mediazione americana, ovvero – se si vuole – i generosi finanziamenti concessi all’Anp, avevano portato l’Autorità palestinese a trasformarsi addirittura in braccio armato dell’occupazione, e i cd. Palestine Papers hanno mostrato come i negoziatori palestinesi fossero inclini a concessioni inaudite ad Israele, financo sulla spinosa questione degli insediamenti ebraici a Gerusalemme est.

Ma, alla fine, anche Abu Mazen si è dovuto piegare di fronte all’evidenza del fatto che, mentre il processo di pace non muoveva un solo passo in avanti, le colonie e i coloni si accrescevano a dismisura, e con essi la ferrea presa di Israele sui territori occupati, mentre la sua popolarità e il suo prestigio andavano diminuendo di pari passo.

Resta da capire se gli Usa continueranno a restare prigionieri dello strapotere della Israel Lobby, che si traduce nella totale impotenza diplomatica dell’amministrazione americana, e soprattutto se Israele si convertirà ad un approccio maggiormente pragmatico verso la controparte palestinese. Perché la riconciliazione tra i Palestinesi è un passo indispensabile per poter giungere, un giorno si spera, ad una pace equa e duratura in Medio Oriente.

Riconciliazione palestinese: il primo frutto regionale della rivoluzione egiziana
di Rajab Abu Sirriyeh – 29.4.2011


La reazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo ministro degli esteri Avigdor Lieberman all’annuncio della firma preliminare dell’accordo di riconciliazione palestinese tra Hamas e Fatah conferma fino a che punto Israele avesse investito sullo stato di divisione esistente tra i palestinesi, ed allo stesso tempo indica che questo evento storico, che ha posto i palestinesi seriamente sulla strada per ottenere uno Stato, andrà incontro a una “guerra” israeliana, sostenuta entro certi limiti da alcuni ambienti americani, di cui sarà necessario tener conto quando si tratterà di cominciare a implementare l’accordo. Solo con questa consapevolezza, infatti, sarà possibile evitare una nuova battuta d’arresto, e i decisori politici palestinesi capiranno che implementare l’unità nazionale è un atto di lotta per la cui difesa e salvaguardia è necessario mobilitare tutte le energie nazionali, affinché tale unità sopravviva a dispetto degli israeliani.

Tornando a quanto è accaduto la sera di mercoledì scorso, è necessario dire che la strada verso la riconciliazione non poteva non essere una strada ardua e difficile, lungo la quale i palestinesi hanno lottato contro tutti i fallimenti e i complotti orchestrati da numerose potenze regionali, le quali hanno sfruttato le divisioni palestinesi per realizzare i propri obiettivi politici a spese degli interessi della Palestina. E’ altrettanto necessario dire che la sostanza dell’accordo conferma che tutte le forze interne hanno da guadagnare dalla sua riuscita, mentre le potenze straniere nel loro complesso hanno solo da perdere da tale accordo. Tuttavia è necessario qui esprimere tutta la gratitudine al Cairo la cui nuova leadership, pur essendo impegnata sul fronte interno, ha seguito con solerzia, e senza le passate strumentalizzazioni politiche, il processo di riconciliazione. L’atteggiamento equilibrato del Cairo, lontano dal clamore dei media, ha convinto le due parti contendenti a firmare l’accordo, godendo l’Egitto post-25 gennaio di una fiducia maggiore (presso entrambe le parti) di quella di cui godeva l’Egitto pre-rivoluzionario.

Vi sono dunque fattori interni e fattori regionali che hanno facilitato gli sforzi di riconciliazione. Il cambiamento avvenuto in Egitto ha infatti fatto sì che il nuovo regime del Cairo godesse di una fiducia maggiore, da parte di Hamas, rispetto al regime precedente alla rivoluzione. Allo stesso tempo, la fiducia di Fatah e dell’ANP nel Cairo è rimasta inalterata. Si può dunque dire che, sebbene il documento di riconciliazione egiziano fosse stato messo a punto fin dall’ottobre 2009, e fosse stato firmato da Fatah (ma non da Hamas), il fatto che non sono intervenute modifiche sostanziali al documento indica che l’elemento decisivo è stato quello della fiducia, giacché il Cairo rimarrà il garante principale dell’implementazione dell’accordo di riconciliazione.

Inoltre, è necessario rilevare che la partecipazione dei Fratelli Musulmani alla rivoluzione, il loro sostegno al governo transitorio, ed il loro orientamento a prendere parte attivamente al nuovo sistema politico che si sta preparando in Egitto, rappresentano un ulteriore fattore che ha spinto Hamas verso la riconciliazione. Gli effetti della rivoluzione che sta investendo il mondo arabo sono stati anch’essi determinanti a spingere in questa direzione – ed in particolare gli eventi siriani. Il coinvolgimento del regime di Damasco nell’instabilità regionale, e l’incerto futuro della leadership di Hamas nella capitale siriana, sono tutti fattori che hanno spinto in direzione della riconciliazione. Ad essi bisogna aggiungere l’emergere di divergenze tra le posizioni del Qatar e di uno dei maggiori ispiratori dei Fratelli Musulmani e dei principali esponenti del mondo islamico sunnita attuale – lo sheikh Yusuf al-Qaradawi – da un lato, e le posizioni del regime siriano dall’altro, riguardo alle proteste del popolo siriano ed alla risposta repressiva del regime.

Perfino quando è stato detto che l’Egitto non era più determinato a farsi carico della riconciliazione, e che non si opponeva all’eventuale trasferimento della questione presso altre capitali arabe, Hamas non ha fatto propria quest’idea, e nemmeno Damasco, sebbene ciò sarebbe effettivamente potuto accadere in passato, quando al Cairo era al potere il vecchio regime.

Bisogna poi rilevare che la mobilitazione dalla piazza palestinese a partire dalla metà dello scorso marzo, che è all’origine dell’invito del primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh al presidente palestinese a recarsi in visita a Gaza, e poi l’iniziativa del presidente palestinese stesso, sono stati altrettanti fattori decisivi per superare gli ostacoli che hanno lungamente impedito la firma dell’accordo di riconciliazione. Questa volta, infatti, il popolo palestinese, i suoi giovani, e le sue forze politiche, non si sono limitati a chiedere la fine delle divisioni, ma hanno compiuto passi concreti per porvi fine scendendo in piazza e sfidando le autorità di governo in Cisgiordania e a Gaza.

In questo modo i palestinesi si avviano all’appuntamento di settembre nutrendo fiducia nel futuro, essendo più forti e influenti. Essi infatti non andranno all’ONU ad elemosinare uno Stato, ma a rivendicare il loro chiaro diritto ad esso. In alternativa, i palestinesi avranno a loro disposizione tutte le opzioni per imporne uno, rinnovando la loro lotta in tutte le sue forme allo scopo di ottenerlo. Questa volta essi saranno spalleggiati da un muro arabo più forte ed efficace, che non sarà forse rappresentato dall’insieme dei paesi arabi che hanno superato l’appuntamento del vertice arabo, lo scorso marzo, senza convocarlo, ma dalla Lega Araba e dall’Egitto in primo luogo, i quali saranno maggiormente in grado di influenzare e contrastare la prepotenza israeliana che continua a rappresentare il vero ostacolo sulla via della risoluzione della questione palestinese da vent’anni a questa parte.

La determinazione del Cairo a svolgere il proprio ruolo regionale con efficacia maggiore rispetto al passato è confermata dalle dichiarazioni dei nuovi leader egiziani, che hanno suscitato la collera ed il risentimento degli israeliani. Come ha annunciato il primo ministro egiziano Essam Sharaf, infatti, l’Egitto intende convocare una conferenza internazionale per dare una soluzione alla questione palestinese, e non per avviare ancora una volta dei negoziati.

Questa posizione palestinese più forte, sostenuta da un ruolo egiziano ed arabo più efficace, andrà incontro ad una “guerra” israeliana che chiederà ancora una volta un governo palestinese in cui Hamas accetti le condizioni imposte dal Quartetto nel 2006 – la rinuncia alla violenza, il rispetto degli accordi firmati in precedenza dall’ANP, e così via. La formazione di un governo di tecnici ha però proprio l’obiettivo di sottrarre questa possibilità a Israele, la quale in realtà trema di fronte all’unità nazionale palestinese.

Se Israele ha reagito in questo modo di fronte al semplice annuncio dell’accordo preliminare, cosa farà dopo la formazione del governo palestinese? I palestinesi saranno certamente soggetti a numerose pressioni politiche e finanziarie, che forse arriveranno a toccare gli aiuti finanziari ricevuti dall’ANP ritardando il pagamento degli stipendi degli impiegati. Tuttavia la costituzione di un governo di personalità competenti, non direttamente legate alle fazioni palestinesi, ridurrà la capacità degli israeliani di muovere guerra a tale governo. In ogni caso la possibilità di agire rimane in mano ai palestinesi, i quali fino a settembre possono imporre agli israeliani di chiudere il capitolo del loro attuale governo ostile alla pace, che non è un partner negoziale, ed è un residuato dell’era antecedente alla primavera della libertà araba. Nella misura in cui i regimi sulla cui debolezza Israele ha fatto affidamento per perpetuare la propria occupazione hanno cominciato a crollare, lo Stato ebraico deve inchinarsi alla tempesta araba e riconoscere almeno un livello minimo di diritti per i palestinesi.

Rajab Abu Sirriyeh è un giornalista e scrittore palestinese


Per quasi 20 anni, le politiche di Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono risultate scontate fino alla noia. Questa settimana al Cairo, accettando un accordo che prevede l’unità e la condivisione del potere con Hamas, Fatah ha stupito tutti. È vero che la riconciliazione nazionale palestinese è già stata tentata, fugacemente e senza entusiasmo, a seguito di un’intesa mediata dai sauditi nella primavera del 2007, e che potrebbe di nuovo fallire. Ma questa volta la mossa di Fatah sembra essere una rottura più calcolata e profonda con la prassi del passato, e la prevedibile condanna degli USA sembra pesare meno.

Dalla decisione presa a Algeri nel 1998 che vide il Consiglio Nazionale Palestinese adottare la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, passando per la Dichiarazione dei principi di Oslo del 1993 che riconosceva il diritto all’esistenza di Israele, fino alla ripresa dei negoziati israelo-palestinesi del settembre scorso a Washington DC, l’approccio dell’OLP si può ridurre a una semplice equazione: che una combinazione di atteggiamento conciliante palestinese, ragionato interesse personale da parte israeliana, e influenza americana, avrebbe prevalso sugli squilibri di forza fra Israele e Palestina e portato all’indipendenza palestinese e alla fine dell’occupazione.

Promuovere questa formula era una sfida sul piano dell’immagine per un Yasser Arafat segnato dalle campagne militari, ma questi fu sostituito, oltre sei anni fa, da quel Mahmoud Abbas indiscutibilmente considerato favorevole alla pace. E ancora i palestinesi hanno continuato a ripiegare su questa formula, nonostante il fallimento. Fatah ha portato avanti negoziati senza condizioni, un coordinamento di sicurezza con le forze di difesa israeliane, un processo di sviluppo delle istituzioni statali sotto l’occupazione, con un’inspiegabile fiducia nell’azione di mediazione americana, anche se gli insediamenti si diffondevano nei territori occupati, le elezioni sono state perse a favore di Hamas, e le accuse di collaborazionismo si inasprivano.

L’ultimo risultato della partita che si gioca in Palestina, il fayyadismo (che prende il nome dal primo ministro Salam Fayyad e si basa sull’idea che una buona capacità di governo palestinese indurrebbe Israele al ritiro, o almeno le pressioni della comunità internazionale la costringerebbero a farlo), è destinato a una fine ignominiosa entro questo settembre. Il programma di due anni finalizzato alla costituzione di uno stato avrà avuto successo, ma comunque non potrà far nulla contro l’inamovibile occupazione israeliana.

Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’equazione di un’OLP conciliante non funziona.

L’elemento principale di questa strategia era il dominio esclusivo della mediazione statunitense sul processo di pace. Nei mesi scorsi, i palestinesi si sono lentamente tirati fuori dalle strettoie americane. Abbas si è rifiutato di continuare i negoziati di settembre con Israele quando gli Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere un’estensione della seppur parziale e limitata moratoria sugli insediamenti implementata da Netanyahu. L’OLP ha costretto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad un voto sugli insediamenti, nonostante le pressioni americane, lasciando gli USA da soli con il loro veto e un voto finale di 14 a 1. Le preparazioni per un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dello Stato palestinese procedono rapidamente (ancora, in contrapposizione alla politica americana). In ultimo, e cosa più significativa, Fatah ha raggiunto questo accordo con Hamas.

La divisione dei palestinesi, nei ruoli dei cosiddetti ‘moderati’ contrapposti agli ‘estremisti’, è stata un fondamento della politica USA (e di Israele). Se l’accordo di unità palestinese tiene ( e la cautela è d’obbligo essendo i dettagli dell’accordo ancora da concordare, e data la passata storia di false partenze), non lo sarà più. Non sarebbe accurato attribuire questo sviluppo ad un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione Obama. Piuttosto, questo passaggio si comprende meglio rispetto ad una situazione di attrito, congiuntamente alle nuove realtà regionali nascenti dalla Primavera Araba. L’attrito ha un contesto ovvio: nel corso degli anni, c’è stata un’inarrestabile crescita degli insediamenti israeliani e un persistente controllo sui territori. Quando gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, c’erano 111.000 coloni solo nella Cisgiordania; oggi quel numero supera i 300.000, e il 60% della Cisgiordania e tutta Gerusalemme Est rimangono sotto l’esclusivo controllo israeliano. E c’è stata l’impunità puntualmente garantita ad Israele dagli USA.

Ciò che è cambiato è che, in una regione che sta attraversando un processo di democratizzazione, l’Egitto non riveste più il ruolo di garante dello status quo e sta riscoprendo la capacità di assumere una politica regionale che sia indipendente, costruttiva e recettiva nei confronti della propria opinione pubblica. La svolta nella posizione dell’Egitto era fondamentale per arrivare ad un progresso nella riconciliazione palestinese.

L’accordo Fatah-Hamas incontrerà inevitabilmente una rocciosa opposizione da parte degli USA. Il Congresso potrebbe decidere di interrompere il finanziamento all’Autorità Palestinese, potrebbe essere ritirata l’assistenza sulla sicurezza, e gli slogan politici di Israele (“hanno scelto la pace con i terroristi invece della pace con Israele”) saranno ben recepiti negli ambienti del Campidoglio. Ma, se dovesse tenere, questo accordo di riconciliazione sarà davvero uno sviluppo negativo per i palestinesi, gli USA o anche per Israele?

Per i palestinesi stessi, l’unità interna sembra un prerequisito per la nascita di una nuova struttura e strategia nazionale, nonché per far rivivere un’OLP dotata di legittimazione, potere e rappresentatività. L’unità crea un’interlocuzione palestinese, la possibilità di una posizione più forte nei negoziati, e dà un accesso diretto ad Hamas per impegnarsi nel processo politico, qualora dovesse scegliere di farlo. Sarà decisiva per qualsiasi strategia l’osservanza da parte palestinese del diritto internazionale e, in tale contesto, della non-violenza.

I palestinesi farebbero bene ad evitare una rottura preventiva con gli USA, ma una riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti, inclusa la possibile interruzione degli aiuti americani, sarebbe assai lontana dall’essere un disastro e potrebbe agevolare un approccio più produttivo e intraprendente da parte palestinese per ottenere la propria libertà. L’unità, o addirittura un voto dell’ONU per il riconoscimento, non costituiranno di per sé una strategia pienamente efficace o la fine dell’occupazione. Rimangono sfide enormi: amministrare il coordinamento sulla sicurezza (interna ed esterna), governare un’autorità autonoma limitata che, per poter funzionare, dipende dalla buona volontà di Israele e, non ultimo, alleviare la miseria conseguente all’isolamento di Gaza. L’unità, tuttavia, può essere un primo passo verso lo sviluppo di una strategia palestinese convincente sul piano locale e globale, soprattutto data la nuova prospettiva di un significativo appoggio egiziano.

Per gli USA, la questione israelo-palestinese è un interesse cruciale per la sicurezza nazionale in una regione critica del mondo. Insieme a questo, le peculiarità della politica interna americana in merito a qualunque cosa sia legata ad Israele portano gli USA ad ingabbiarsi e limitare la propria capacità di manovra in questo campo. Troppo spesso il risultato è l’impotenza diplomatica degli americani.

Potrebbero esserci dei vantaggi per gli USA nel vedersi togliere in qualche modo il carico di questo problema, sia che ciò avvenga attraverso un aumento dell’indipendenza palestinese sul piano strategico, attraverso il rafforzamento della diplomazia egiziana, o un maggiore coinvolgimento dell’Europa o delle Nazioni Unite. Tali sviluppi potrebbero migliorare le prospettive di una soluzione, creare aperture per un impegno statunitense più efficace verso Israele, o almeno mitigare il crescente impatto debilitante che questa questione ha sulle posizioni USA in Medio Oriente.

Infine, Israele. E’ improbabile che Israele dia il benvenuto ad una controparte palestinese più indipendente, dotata di capacità strategiche o di maggior potere. Finora, Israele è non meno, ma più insicura ed incerta sul suo futuro. Sotto molti aspetti, l’aggravamento dello squilibrio nell’attuale processo di pace e l’esitazione palestinese sotto il profilo delle strategie dà ad Israele la falsa sensazione di un’impunità permanente e ne ha incoraggiato le tendenze più auto-distruttive (non ultime, quelle verso la costruzione di insediamenti e il nazionalismo intollerante).

C’è ragione di pensare che una correzione nell’atteggiamento da parte dei leader israeliani verso un maggiore realismo, pragmatismo e capacità di compromesso possa emergere in risposta ad un avversario palestinese più difficile, tattico e – si spera – nonviolento.

Daniel Levy è senior fellow presso la New America Foundation e la Century Foundation, dove si occupa delle politiche di pace in Medio Oriente; in precedenza è stato consigliere dell’ufficio del primo ministro israeliano Barak; è stato anche tra i propositori dell’Iniziativa di Ginevra

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