6 maggio 2011

La riconciliazione palestinese frutto della rivoluzione egiziana e del fallimento degli Usa

Abbiamo già sottolineato l’importanza fondamentale dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, che potrebbe imprimere un nuovo impulso al processo di pace israelo-palestinese.

Nei due articoli che seguono, proposti nella traduzione di
Medarabnews, vengono messi in risalto due dei fattori principali che hanno determinato e/o accelerato il processo di riunificazione delle diverse fazioni palestinesi.

Nel primo, scritto dal giornalista palestinese Rajab Abu Sirriyeh per il quotidiano al-Ayyam, si fa rilevare come l’accordo raggiunto con la mediazione egiziana sia il frutto dei profondi cambiamenti in atto nella regione, dal cambio di regime in Egitto alle proteste popolari in Siria, cambiamenti di cui Israele dovrà giocoforza tenere in conto. La caduta di Hosni Mubarak, in particolare, ha tolto di mezzo quello che era diventato di fatto un alleato di Usa e Israele nel mantenimento dello status quo e nell’assedio di Gaza.

Nel secondo articolo, scritto da Daniel Levy per il Guardian, si evidenziano invece i fattori connessi allo stallo del processo di pace e al fallimento della mediazione degli Stati Uniti, dimostratisi ormai con certificata evidenza incapaci di assumere un ruolo di honest broker del conflitto israelo-palestinese.

L’incrollabile fiducia di Abu Mazen nella mediazione americana, ovvero – se si vuole – i generosi finanziamenti concessi all’Anp, avevano portato l’Autorità palestinese a trasformarsi addirittura in braccio armato dell’occupazione, e i cd. Palestine Papers hanno mostrato come i negoziatori palestinesi fossero inclini a concessioni inaudite ad Israele, financo sulla spinosa questione degli insediamenti ebraici a Gerusalemme est.

Ma, alla fine, anche Abu Mazen si è dovuto piegare di fronte all’evidenza del fatto che, mentre il processo di pace non muoveva un solo passo in avanti, le colonie e i coloni si accrescevano a dismisura, e con essi la ferrea presa di Israele sui territori occupati, mentre la sua popolarità e il suo prestigio andavano diminuendo di pari passo.

Resta da capire se gli Usa continueranno a restare prigionieri dello strapotere della Israel Lobby, che si traduce nella totale impotenza diplomatica dell’amministrazione americana, e soprattutto se Israele si convertirà ad un approccio maggiormente pragmatico verso la controparte palestinese. Perché la riconciliazione tra i Palestinesi è un passo indispensabile per poter giungere, un giorno si spera, ad una pace equa e duratura in Medio Oriente.

Riconciliazione palestinese: il primo frutto regionale della rivoluzione egiziana
di Rajab Abu Sirriyeh – 29.4.2011


La reazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo ministro degli esteri Avigdor Lieberman all’annuncio della firma preliminare dell’accordo di riconciliazione palestinese tra Hamas e Fatah conferma fino a che punto Israele avesse investito sullo stato di divisione esistente tra i palestinesi, ed allo stesso tempo indica che questo evento storico, che ha posto i palestinesi seriamente sulla strada per ottenere uno Stato, andrà incontro a una “guerra” israeliana, sostenuta entro certi limiti da alcuni ambienti americani, di cui sarà necessario tener conto quando si tratterà di cominciare a implementare l’accordo. Solo con questa consapevolezza, infatti, sarà possibile evitare una nuova battuta d’arresto, e i decisori politici palestinesi capiranno che implementare l’unità nazionale è un atto di lotta per la cui difesa e salvaguardia è necessario mobilitare tutte le energie nazionali, affinché tale unità sopravviva a dispetto degli israeliani.

Tornando a quanto è accaduto la sera di mercoledì scorso, è necessario dire che la strada verso la riconciliazione non poteva non essere una strada ardua e difficile, lungo la quale i palestinesi hanno lottato contro tutti i fallimenti e i complotti orchestrati da numerose potenze regionali, le quali hanno sfruttato le divisioni palestinesi per realizzare i propri obiettivi politici a spese degli interessi della Palestina. E’ altrettanto necessario dire che la sostanza dell’accordo conferma che tutte le forze interne hanno da guadagnare dalla sua riuscita, mentre le potenze straniere nel loro complesso hanno solo da perdere da tale accordo. Tuttavia è necessario qui esprimere tutta la gratitudine al Cairo la cui nuova leadership, pur essendo impegnata sul fronte interno, ha seguito con solerzia, e senza le passate strumentalizzazioni politiche, il processo di riconciliazione. L’atteggiamento equilibrato del Cairo, lontano dal clamore dei media, ha convinto le due parti contendenti a firmare l’accordo, godendo l’Egitto post-25 gennaio di una fiducia maggiore (presso entrambe le parti) di quella di cui godeva l’Egitto pre-rivoluzionario.

Vi sono dunque fattori interni e fattori regionali che hanno facilitato gli sforzi di riconciliazione. Il cambiamento avvenuto in Egitto ha infatti fatto sì che il nuovo regime del Cairo godesse di una fiducia maggiore, da parte di Hamas, rispetto al regime precedente alla rivoluzione. Allo stesso tempo, la fiducia di Fatah e dell’ANP nel Cairo è rimasta inalterata. Si può dunque dire che, sebbene il documento di riconciliazione egiziano fosse stato messo a punto fin dall’ottobre 2009, e fosse stato firmato da Fatah (ma non da Hamas), il fatto che non sono intervenute modifiche sostanziali al documento indica che l’elemento decisivo è stato quello della fiducia, giacché il Cairo rimarrà il garante principale dell’implementazione dell’accordo di riconciliazione.

Inoltre, è necessario rilevare che la partecipazione dei Fratelli Musulmani alla rivoluzione, il loro sostegno al governo transitorio, ed il loro orientamento a prendere parte attivamente al nuovo sistema politico che si sta preparando in Egitto, rappresentano un ulteriore fattore che ha spinto Hamas verso la riconciliazione. Gli effetti della rivoluzione che sta investendo il mondo arabo sono stati anch’essi determinanti a spingere in questa direzione – ed in particolare gli eventi siriani. Il coinvolgimento del regime di Damasco nell’instabilità regionale, e l’incerto futuro della leadership di Hamas nella capitale siriana, sono tutti fattori che hanno spinto in direzione della riconciliazione. Ad essi bisogna aggiungere l’emergere di divergenze tra le posizioni del Qatar e di uno dei maggiori ispiratori dei Fratelli Musulmani e dei principali esponenti del mondo islamico sunnita attuale – lo sheikh Yusuf al-Qaradawi – da un lato, e le posizioni del regime siriano dall’altro, riguardo alle proteste del popolo siriano ed alla risposta repressiva del regime.

Perfino quando è stato detto che l’Egitto non era più determinato a farsi carico della riconciliazione, e che non si opponeva all’eventuale trasferimento della questione presso altre capitali arabe, Hamas non ha fatto propria quest’idea, e nemmeno Damasco, sebbene ciò sarebbe effettivamente potuto accadere in passato, quando al Cairo era al potere il vecchio regime.

Bisogna poi rilevare che la mobilitazione dalla piazza palestinese a partire dalla metà dello scorso marzo, che è all’origine dell’invito del primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh al presidente palestinese a recarsi in visita a Gaza, e poi l’iniziativa del presidente palestinese stesso, sono stati altrettanti fattori decisivi per superare gli ostacoli che hanno lungamente impedito la firma dell’accordo di riconciliazione. Questa volta, infatti, il popolo palestinese, i suoi giovani, e le sue forze politiche, non si sono limitati a chiedere la fine delle divisioni, ma hanno compiuto passi concreti per porvi fine scendendo in piazza e sfidando le autorità di governo in Cisgiordania e a Gaza.

In questo modo i palestinesi si avviano all’appuntamento di settembre nutrendo fiducia nel futuro, essendo più forti e influenti. Essi infatti non andranno all’ONU ad elemosinare uno Stato, ma a rivendicare il loro chiaro diritto ad esso. In alternativa, i palestinesi avranno a loro disposizione tutte le opzioni per imporne uno, rinnovando la loro lotta in tutte le sue forme allo scopo di ottenerlo. Questa volta essi saranno spalleggiati da un muro arabo più forte ed efficace, che non sarà forse rappresentato dall’insieme dei paesi arabi che hanno superato l’appuntamento del vertice arabo, lo scorso marzo, senza convocarlo, ma dalla Lega Araba e dall’Egitto in primo luogo, i quali saranno maggiormente in grado di influenzare e contrastare la prepotenza israeliana che continua a rappresentare il vero ostacolo sulla via della risoluzione della questione palestinese da vent’anni a questa parte.

La determinazione del Cairo a svolgere il proprio ruolo regionale con efficacia maggiore rispetto al passato è confermata dalle dichiarazioni dei nuovi leader egiziani, che hanno suscitato la collera ed il risentimento degli israeliani. Come ha annunciato il primo ministro egiziano Essam Sharaf, infatti, l’Egitto intende convocare una conferenza internazionale per dare una soluzione alla questione palestinese, e non per avviare ancora una volta dei negoziati.

Questa posizione palestinese più forte, sostenuta da un ruolo egiziano ed arabo più efficace, andrà incontro ad una “guerra” israeliana che chiederà ancora una volta un governo palestinese in cui Hamas accetti le condizioni imposte dal Quartetto nel 2006 – la rinuncia alla violenza, il rispetto degli accordi firmati in precedenza dall’ANP, e così via. La formazione di un governo di tecnici ha però proprio l’obiettivo di sottrarre questa possibilità a Israele, la quale in realtà trema di fronte all’unità nazionale palestinese.

Se Israele ha reagito in questo modo di fronte al semplice annuncio dell’accordo preliminare, cosa farà dopo la formazione del governo palestinese? I palestinesi saranno certamente soggetti a numerose pressioni politiche e finanziarie, che forse arriveranno a toccare gli aiuti finanziari ricevuti dall’ANP ritardando il pagamento degli stipendi degli impiegati. Tuttavia la costituzione di un governo di personalità competenti, non direttamente legate alle fazioni palestinesi, ridurrà la capacità degli israeliani di muovere guerra a tale governo. In ogni caso la possibilità di agire rimane in mano ai palestinesi, i quali fino a settembre possono imporre agli israeliani di chiudere il capitolo del loro attuale governo ostile alla pace, che non è un partner negoziale, ed è un residuato dell’era antecedente alla primavera della libertà araba. Nella misura in cui i regimi sulla cui debolezza Israele ha fatto affidamento per perpetuare la propria occupazione hanno cominciato a crollare, lo Stato ebraico deve inchinarsi alla tempesta araba e riconoscere almeno un livello minimo di diritti per i palestinesi.

Rajab Abu Sirriyeh è un giornalista e scrittore palestinese


Per quasi 20 anni, le politiche di Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono risultate scontate fino alla noia. Questa settimana al Cairo, accettando un accordo che prevede l’unità e la condivisione del potere con Hamas, Fatah ha stupito tutti. È vero che la riconciliazione nazionale palestinese è già stata tentata, fugacemente e senza entusiasmo, a seguito di un’intesa mediata dai sauditi nella primavera del 2007, e che potrebbe di nuovo fallire. Ma questa volta la mossa di Fatah sembra essere una rottura più calcolata e profonda con la prassi del passato, e la prevedibile condanna degli USA sembra pesare meno.

Dalla decisione presa a Algeri nel 1998 che vide il Consiglio Nazionale Palestinese adottare la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, passando per la Dichiarazione dei principi di Oslo del 1993 che riconosceva il diritto all’esistenza di Israele, fino alla ripresa dei negoziati israelo-palestinesi del settembre scorso a Washington DC, l’approccio dell’OLP si può ridurre a una semplice equazione: che una combinazione di atteggiamento conciliante palestinese, ragionato interesse personale da parte israeliana, e influenza americana, avrebbe prevalso sugli squilibri di forza fra Israele e Palestina e portato all’indipendenza palestinese e alla fine dell’occupazione.

Promuovere questa formula era una sfida sul piano dell’immagine per un Yasser Arafat segnato dalle campagne militari, ma questi fu sostituito, oltre sei anni fa, da quel Mahmoud Abbas indiscutibilmente considerato favorevole alla pace. E ancora i palestinesi hanno continuato a ripiegare su questa formula, nonostante il fallimento. Fatah ha portato avanti negoziati senza condizioni, un coordinamento di sicurezza con le forze di difesa israeliane, un processo di sviluppo delle istituzioni statali sotto l’occupazione, con un’inspiegabile fiducia nell’azione di mediazione americana, anche se gli insediamenti si diffondevano nei territori occupati, le elezioni sono state perse a favore di Hamas, e le accuse di collaborazionismo si inasprivano.

L’ultimo risultato della partita che si gioca in Palestina, il fayyadismo (che prende il nome dal primo ministro Salam Fayyad e si basa sull’idea che una buona capacità di governo palestinese indurrebbe Israele al ritiro, o almeno le pressioni della comunità internazionale la costringerebbero a farlo), è destinato a una fine ignominiosa entro questo settembre. Il programma di due anni finalizzato alla costituzione di uno stato avrà avuto successo, ma comunque non potrà far nulla contro l’inamovibile occupazione israeliana.

Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’equazione di un’OLP conciliante non funziona.

L’elemento principale di questa strategia era il dominio esclusivo della mediazione statunitense sul processo di pace. Nei mesi scorsi, i palestinesi si sono lentamente tirati fuori dalle strettoie americane. Abbas si è rifiutato di continuare i negoziati di settembre con Israele quando gli Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere un’estensione della seppur parziale e limitata moratoria sugli insediamenti implementata da Netanyahu. L’OLP ha costretto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad un voto sugli insediamenti, nonostante le pressioni americane, lasciando gli USA da soli con il loro veto e un voto finale di 14 a 1. Le preparazioni per un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dello Stato palestinese procedono rapidamente (ancora, in contrapposizione alla politica americana). In ultimo, e cosa più significativa, Fatah ha raggiunto questo accordo con Hamas.

La divisione dei palestinesi, nei ruoli dei cosiddetti ‘moderati’ contrapposti agli ‘estremisti’, è stata un fondamento della politica USA (e di Israele). Se l’accordo di unità palestinese tiene ( e la cautela è d’obbligo essendo i dettagli dell’accordo ancora da concordare, e data la passata storia di false partenze), non lo sarà più. Non sarebbe accurato attribuire questo sviluppo ad un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione Obama. Piuttosto, questo passaggio si comprende meglio rispetto ad una situazione di attrito, congiuntamente alle nuove realtà regionali nascenti dalla Primavera Araba. L’attrito ha un contesto ovvio: nel corso degli anni, c’è stata un’inarrestabile crescita degli insediamenti israeliani e un persistente controllo sui territori. Quando gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, c’erano 111.000 coloni solo nella Cisgiordania; oggi quel numero supera i 300.000, e il 60% della Cisgiordania e tutta Gerusalemme Est rimangono sotto l’esclusivo controllo israeliano. E c’è stata l’impunità puntualmente garantita ad Israele dagli USA.

Ciò che è cambiato è che, in una regione che sta attraversando un processo di democratizzazione, l’Egitto non riveste più il ruolo di garante dello status quo e sta riscoprendo la capacità di assumere una politica regionale che sia indipendente, costruttiva e recettiva nei confronti della propria opinione pubblica. La svolta nella posizione dell’Egitto era fondamentale per arrivare ad un progresso nella riconciliazione palestinese.

L’accordo Fatah-Hamas incontrerà inevitabilmente una rocciosa opposizione da parte degli USA. Il Congresso potrebbe decidere di interrompere il finanziamento all’Autorità Palestinese, potrebbe essere ritirata l’assistenza sulla sicurezza, e gli slogan politici di Israele (“hanno scelto la pace con i terroristi invece della pace con Israele”) saranno ben recepiti negli ambienti del Campidoglio. Ma, se dovesse tenere, questo accordo di riconciliazione sarà davvero uno sviluppo negativo per i palestinesi, gli USA o anche per Israele?

Per i palestinesi stessi, l’unità interna sembra un prerequisito per la nascita di una nuova struttura e strategia nazionale, nonché per far rivivere un’OLP dotata di legittimazione, potere e rappresentatività. L’unità crea un’interlocuzione palestinese, la possibilità di una posizione più forte nei negoziati, e dà un accesso diretto ad Hamas per impegnarsi nel processo politico, qualora dovesse scegliere di farlo. Sarà decisiva per qualsiasi strategia l’osservanza da parte palestinese del diritto internazionale e, in tale contesto, della non-violenza.

I palestinesi farebbero bene ad evitare una rottura preventiva con gli USA, ma una riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti, inclusa la possibile interruzione degli aiuti americani, sarebbe assai lontana dall’essere un disastro e potrebbe agevolare un approccio più produttivo e intraprendente da parte palestinese per ottenere la propria libertà. L’unità, o addirittura un voto dell’ONU per il riconoscimento, non costituiranno di per sé una strategia pienamente efficace o la fine dell’occupazione. Rimangono sfide enormi: amministrare il coordinamento sulla sicurezza (interna ed esterna), governare un’autorità autonoma limitata che, per poter funzionare, dipende dalla buona volontà di Israele e, non ultimo, alleviare la miseria conseguente all’isolamento di Gaza. L’unità, tuttavia, può essere un primo passo verso lo sviluppo di una strategia palestinese convincente sul piano locale e globale, soprattutto data la nuova prospettiva di un significativo appoggio egiziano.

Per gli USA, la questione israelo-palestinese è un interesse cruciale per la sicurezza nazionale in una regione critica del mondo. Insieme a questo, le peculiarità della politica interna americana in merito a qualunque cosa sia legata ad Israele portano gli USA ad ingabbiarsi e limitare la propria capacità di manovra in questo campo. Troppo spesso il risultato è l’impotenza diplomatica degli americani.

Potrebbero esserci dei vantaggi per gli USA nel vedersi togliere in qualche modo il carico di questo problema, sia che ciò avvenga attraverso un aumento dell’indipendenza palestinese sul piano strategico, attraverso il rafforzamento della diplomazia egiziana, o un maggiore coinvolgimento dell’Europa o delle Nazioni Unite. Tali sviluppi potrebbero migliorare le prospettive di una soluzione, creare aperture per un impegno statunitense più efficace verso Israele, o almeno mitigare il crescente impatto debilitante che questa questione ha sulle posizioni USA in Medio Oriente.

Infine, Israele. E’ improbabile che Israele dia il benvenuto ad una controparte palestinese più indipendente, dotata di capacità strategiche o di maggior potere. Finora, Israele è non meno, ma più insicura ed incerta sul suo futuro. Sotto molti aspetti, l’aggravamento dello squilibrio nell’attuale processo di pace e l’esitazione palestinese sotto il profilo delle strategie dà ad Israele la falsa sensazione di un’impunità permanente e ne ha incoraggiato le tendenze più auto-distruttive (non ultime, quelle verso la costruzione di insediamenti e il nazionalismo intollerante).

C’è ragione di pensare che una correzione nell’atteggiamento da parte dei leader israeliani verso un maggiore realismo, pragmatismo e capacità di compromesso possa emergere in risposta ad un avversario palestinese più difficile, tattico e – si spera – nonviolento.

Daniel Levy è senior fellow presso la New America Foundation e la Century Foundation, dove si occupa delle politiche di pace in Medio Oriente; in precedenza è stato consigliere dell’ufficio del primo ministro israeliano Barak; è stato anche tra i propositori dell’Iniziativa di Ginevra

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4 maggio 2011

La svolta storica della riconciliazione palestinese

La notizia è davvero di quelle destinate a lasciare il segno e a mutare profondamente lo scenario politico mediorientale: dopo quattro anni di aspre divisioni (ma anche scontri sanguinosi) Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi, hanno firmato ieri un protocollo d’intesa che sancisce la riconciliazione nazionale, facendo seguito all’accordo già raggiunto la scorsa settimana grazie alla mediazione egiziana.

L’accordo, sottoscritto anche dalle altre organizzazioni e partiti minori, prevede tra l’altro la formazione di un nuovo governo di unità nazionale formato da “tecnici”, la liberazione dei prigionieri politici detenuti a Gaza e in Cisgiordania, la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno.

L’articolo che segue, un editoriale della redazione di Medarabnews, sintetizza efficacemente i risvolti di questo accordo, le motivazioni che hanno spinto Abu Mazen e Hamas a sottoscriverlo, le reazioni internazionali, le novità che ne derivano per lo scacchiere mediorientale.

Qui vogliamo solo aggiungere che l’unità del popolo palestinese e dei suoi rappresentanti rappresenta una precondizione essenziale per la soluzione del conflitto israelo-palestinese cd. a due stati, che a parole tutti (o quasi tutti) vorrebbero raggiungere. La notizia dell’accordo tra Fatah e Hamas, dunque, dovrebbe essere salutata unanimemente come un importante passo verso la pace nella regione.

Così, ad esempio, Robert Serry, il Coordinatore Speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio Oriente, in un comunicato ufficiale ha dichiarato: “La riunificazione è essenziale per il raggiungimento di una soluzione a due stati che dovrebbe essere realizzata attraverso negoziati”. Così, ad esempio, Gush Shalom in un comunicato per la stampa ha accolto favorevolmente l’annuncio della riconciliazione tra Fatah e Hamas, aggiungendo, per bocca di Uri Avnery, che “l’unità dei Palestinesi … non è una minaccia per Israele, ma uno dei suoi massimi interessi”.

Usa e Israele, all’opposto, hanno accolto la notizia quasi come si fosse trattato dell’annuncio di una nuova e incombente minaccia per la pace e la sicurezza israeliana e del mondo. Israele, in particolare, ha parlato di un “errore fatale” (Peres dixit) e, per pronto accomodo, ha immediatamente deciso di sospendere il trasferimento delle entrate fiscali che lo stato israeliano raccoglie per conto dell’Autorità Palestinese, e che rappresentano il 37% circa del budget finanziario annuale dell’Anp.

Negli Usa, d’altra parte, con una indicazione felicemente bipartisan, sono numerosi i membri del Congresso che auspicano – come reazione all’accordo tra Fatah e Hamas – un deciso taglio agli aiuti finanziari fino ad ora garantiti all’Anp di Abu Mazen.

Nel mezzo, la solita posizione pavida e attendista dell’Unione europea che, per bocca di Catherine Ashton, rappresentante Ue per gli affari esteri, dichiara di dover ancora “studiare i dettagli di questo accordo”! Purtroppo, non è una novità…

Riconciliazione palestinese: una nuova variabile nel panorama dei cambiamenti mediorientali.
4.5.2011

La notizia, annunciata mercoledì scorso e sancita dalla cerimonia ufficiale di oggi, ha colto di sorpresa tutti: dopo quattro anni di aspre divisioni, Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi che controllano rispettivamente Gaza e la Cisgiordania, hanno sottoscritto un accordo di riconciliazione.

L’accordo, raggiunto grazie al contributo determinante della mediazione egiziana, prevede la costituzione di un governo ad interim di unità nazionale composto da figure di alto profilo non affiliate a nessuna delle due fazioni, la ripresa delle attività del Consiglio legislativo (il parlamento palestinese rimasto paralizzato a causa del dissidio tra i due partiti palestinesi), l’unificazione dei servizi di sicurezza, la liberazione dei prigionieri politici delle due fazioni detenuti nelle carceri di Gaza e della Cisgiordania, la ristrutturazione dell’OLP in modo da permettere l’ingresso di Hamas nell’organizzazione, l’avvio della ricostruzione di Gaza, e la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto a precisare che il nuovo governo non sarà incaricato dei negoziati con Israele, i quali rimarranno prerogativa esclusiva dell’OLP e sua personale. Questa precisazione, e l’accortezza di voler costituire un esecutivo composto da “figure indipendenti”, hanno l’obiettivo di scongiurare che Israele e la comunità internazionale mettano subito in scacco il nuovo governo di unità nazionale riesumando la sequela di richieste che il Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) aveva imposto al governo Hamas nel 2006 all’indomani della vittoria elettorale del movimento islamico palestinese: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza (cioè alla resistenza armata), e accettazione degli accordi precedentemente firmati dall’ANP con Israele.

Si tratta di condizioni che Hamas ha fermamente ribadito più volte di non voler accettare, in primo luogo perché neanche Israele ha riconosciuto uno Stato palestinese né ha accettato di definire i propri confini, in secondo luogo perché Hamas non vuole rinunciare a quello che dal suo punto di vista è un “legittimo strumento di resistenza”, come precondizione a qualsiasi negoziato e non come conseguenza di un processo negoziale e del raggiungimento di un accordo (e intende in ogni caso continuare a mantenere la tregua a Gaza che in questi anni ha dimostrato di saper rispettare), ed infine poiché ritiene che lo stesso Stato di Israele abbia più volte violato, e tuttora non rispetti, gli accordi firmati con l’ANP.

UN NUOVO BOICOTTAGGIO A DANNO DEI PALESTINESI?

Ribadire che i negoziati rimangono sotto la giurisdizione dell’OLP (di cui Hamas al momento non far parte), e che il governo ad interim di unità nazionale sarà composto da “tecnici indipendenti” rappresenta dunque una manovra da parte palestinese – e di Fatah in particolare – per evitare che il nuovo esecutivo venga sottoposto allo stesso assedio a cui fo sottoposto il governo Hamas.

Tale manovra tuttavia appare probabilmente vana – e Abbas deve essere stato consapevole dei rischi a cui andava incontro – poiché il governo Netanyahu ha subito dichiarato che l’ANP deve scegliere tra la pace con Israele e la pace con Hamas. Come ulteriore misura, Tel Aviv ha deciso di sospendere (per ora temporaneamente, ma la misura è candidata a diventare definitiva) il trasferimento di milioni di dollari in entrate fiscali palestinesi all’ANP – una misura che fu già adottata da Israele tra il 2000 e il 2002 in coincidenza con la seconda Intifada, e tra il 2006 e il 2007 quando Hamas era parte integrante del governo palestinese.

Nel frattempo, non solo esponenti dell’estrema destra israeliana, ma anche alcuni membri del governo Netanyahu hanno affermato che Israele dovrebbe minacciare l’annessione della Cisgiordania come rappresaglia contro l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Inoltre, alla sospensione del trasferimento delle entrate fiscali palestinesi – di fatto soldi palestinesi gestiti da Israele – potrebbe presto aggiungersi la sospensione dei finanziamenti americani all’ANP. Infatti, se alcuni membri dell’amministrazione USA hanno adottato un atteggiamento attendista e di cautela nei confronti del nuovo governo palestinese che potrebbe delinearsi, ben diversa è stata la reazione del Congresso. Negli Stati Uniti, Hamas è considerato un’organizzazione terroristica, ed è politicamente e giuridicamente molto difficile che dei soldi americani possano andare ad un governo che, malgrado le manovre palestinesi per renderlo “indipendente”, avrebbe di fatto il sostegno di una tale organizzazione.

Se si tiene conto che Obama si avvia alla sua corsa per la rielezione nel 2012, e che finora le pressioni della lobby israeliana a Washington sono sempre riuscite a piegare la volontà della Casa Bianca (di recente il caso più emblematico si è verificato quando gli USA hanno fatto ricorso al veto – per la prima volta sotto la presidenza Obama – per bloccare una risoluzione ONU di condanna degli insediamenti israeliani la quale ha avuto 14 voti favorevoli su 15, compresi quelli di Gran Bretagna, Francia e Germania), appare probabile che l’ANP dovrà confrontarsi con un nuovo boicottaggio americano qualora l’accordo di riconciliazione dovesse essere realmente implementato.

IL RICORSO ALL’ONU

Tale accordo, ed il conseguente braccio di ferro che già si prefigura tra l’ANP da un lato ed Israele – e probabilmente Washington – dall’altro, sono due fattori emersi all’improvviso mentre l’ANP era nel pieno della propria corsa per ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese in settembre da parte dell’ONU.

Sebbene un simile riconoscimento non si tradurrebbe certamente nella vera creazione di uno Stato, i vertici palestinesi ritengono che esso ridurrebbe lo spazio di manovra di Israele e renderebbe più difficile a Washington appoggiare incondizionatamente le politiche israeliane. In particolare, il presidente Abbas confida nell’appoggio dei paesi europei e delle potenze emergenti, in un contesto di crescente internazionalizzazione della questione palestinese che ha visto recentemente paesi come Brasile e Argentina riconoscere ufficialmente uno Stato palestinese indipendente entro i confini del 1967.

Tuttavia, se fino a questo momento a Tel Aviv e Washington i detrattori dell’iniziativa dell’ANP presso le Nazioni Unite affermavano che Abbas non poteva chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese in quanto egli non era rappresentativo del suo popolo, diviso in due entità separate guidate da due governi diversi a Gaza e a Ramallah, ora essi sosterranno che l’ONU non può riconoscere uno Stato governato da un’entità “terroristica”. La battaglia si preannuncia dunque aspra anche al “palazzo di vetro”.

Da quanto fin qui esposto emerge che le sfide che attendono il futuro governo palestinese di unità nazionale – se del tutto esso vedrà la luce – sono enormi. A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa ha spinto le due controparti a stipulare un accordo di riconciliazione, dopo che per anni ogni forma di negoziato tra esse era sembrata inesorabilmente destinata al fallimento, e soprattutto cosa ha convinto il presidente Mahmoud Abbas a scommettere su questo accordo, alla luce dei rischi di boicottaggio con cui l’ANP dovrà confrontarsi in conseguenza di esso.

FALLIMENTO DEL PROCESSO DI PACE E SOLLEVAZIONI POPOLARI

E’ opinione di diversi analisti che a spingere Abbas in questa direzione sia stato il fallimento di tutto ciò su cui egli aveva puntato nel corso dei suoi anni alla presidenza: la scelta del negoziato a oltranza e la cieca fiducia nella mediazione americana, mentre gli insediamenti israeliani continuavano a espandersi senza sosta.

Molti ritengono che Abbas abbia definitivamente perso la fiducia nell’amministrazione Obama, dopo che quest’ultima si è dimostrata incapace di imporre a Israele il congelamento degli insediamenti, e addirittura ha continuato ad appoggiare le posizioni israeliane in sede ONU.

Ma il fallimento dell’amministrazione Obama ha sancito anche il fallimento personale di Abbas e delle sue politiche, e dunque la sua completa delegittimazione agli occhi dei palestinesi – soprattutto se si tiene conto che il suo mandato è ormai scaduto da tempo.

La posizione di Abbas si è ulteriormente complicata a seguito delle rivolte della cosiddetta “primavera araba” che, partendo dalla Tunisia, si è propagata in tutta la regione. L’ANP, ostaggio dei finanziamenti americani ed occidentali, è vista da molti arabi come un esempio della corruzione e dell’inettitudine dei regimi arabi, e del loro asservimento a potenze straniere come gli Stati Uniti.

La caduta di Hosni Mubarak ha poi rappresentato per Abbas la scomparsa del suo più importante alleato in Medio Oriente. Il nuovo regime egiziano non sembra intenzionato a giocare il ruolo di difensore dello status quo, e di partner di Israele e degli USA nell’assedio di Gaza.

Tutti questi elementi hanno convinto il presidente palestinese a giocare il tutto per tutto, puntando quel poco di capitale politico rimastogli su un accordo di riconciliazione con Hamas.

Per altro verso, il tramonto politico di Hosni Mubarak ha rimosso l’ostacolo più ingombrante nei rapporti tra il Cairo ed il movimento islamico palestinese. Il nuovo regime egiziano, che sembra essere in buoni rapporti con i Fratelli Musulmani egiziani di cui Hamas rappresenta per certi versi una costola, sta cercando di recuperare un ruolo indipendente a livello regionale, anche perché tale ruolo rappresenterebbe un potente fattore di legittimazione agli occhi dell’ancora turbolento fronte egiziano interno.

Non considerando più Hamas come un nemico esistenziale dell’Egitto, il nuovo regime del Cairo è riuscito a sua volta a guadagnarsi la fiducia del movimento islamico palestinese il quale lo ha accettato come garante dell’accordo di riconciliazione – a differenza di quanto aveva fatto con Mubarak.

Anche la scelta di Hamas, del resto, proprio come quella di Mahmoud Abbas, è stata motivata in parte da ragioni di debolezza. Assediato ormai da quattro anni nell’impoverita enclave di Gaza, isolato a livello internazionale ed in crisi di consensi nella Striscia, il movimento ha visto nelle scorse settimane la sua unica retrovia araba – la Siria, che ospita il capo dell’ufficio politico del partito, Khaled Meshaal – travolta dalle proteste popolari e dalla brutale repressione del regime di Damasco.

Hamas, che come detto non è altro che la branca palestinese della Fratellanza Musulmana, è venuto a trovarsi in una posizione imbarazzante dal momento che è ospite di un regime che in questo momento, a causa della sua condotta repressiva, è duramente criticato dai Fratelli Musulmani siriani, da quelli giordani e dallo stesso Yusuf al-Qaradawi, influente leader spirituale sunnita noto per le sue abituali apparizioni sugli schermi di al-Jazeera.

Inoltre, alla luce della destabilizzazione interna della Siria, il futuro della presenza di Hamas nel paese è a rischio, al pari di quella delle altre fazioni palestinesi tradizionalmente ospitate dal regime siriano. Nei giorni scorsi, alcune voci poi smentite (almeno fino a questo momento) avevano addirittura indicato che la leadership di Hamas avrebbe abbandonato Damasco per il Qatar.

Tutto ciò ha avuto un ruolo determinante nel convincere il movimento palestinese ad uscire dal suo isolamento a livello arabo, allacciando contatti con nuovi partner – il nuovo Egitto, e lo stesso Qatar, che ha calorosamente appoggiato l’accordo di riconciliazione – e cercando di rompere l’assedio di Gaza attraverso un accordo con il Cairo e con l’ANP. Tale accordo, anche secondo quanto ribadito dal governo egiziano, dovrebbe spianare la strada all’apertura del valico di Rafah con l’Egitto.

INCOGNITE DELL’ACCORDO E VARIABILI REGIONALI

L’accordo raggiunto tra Fatah e Hamas è dunque il frutto dello stallo del processo di pace, del fallimento della mediazione americana, e delle trasformazioni regionali che hanno visto il divampare delle proteste popolari e delle rivendicazioni di giustizia e democrazia in tutto il Medio Oriente, seguite dall’emergere di un nuovo governo al Cairo e dal pauroso vacillare del regime di Damasco.

La riconciliazione è poi un accordo di necessità, motivato almeno in parte dalle difficoltà in cui versano sia Hamas che Fatah. Pertanto tale accordo – che è stato accolto con favore dalla popolazione palestinese, la quale da anni chiede di essere rappresentata da un unico governo e da istituzioni unitarie – è esposto a numerose incognite e interrogativi.

La vera sfida sarà l’effettiva implementazione dell’accordo, tenuto conto che:

- Esso ha una forma molto vaga e comporta il rischio che la Palestina rimanga di fatto divisa in due entità separate: Gaza e la Cisgiordania.

- Sarà estremamente difficile armonizzare i servizi di sicurezza affiliati a Hamas con quelli dell’ANP addestrati e finanziati dagli USA.

- Fatah e Hamas dovranno accordarsi su un programma politico nazionale comune, che al momento non esiste.
- L’ANP è un’istituzione debole che per funzionare dipende in ogni cosa dalla buona volontà della potenza occupante.

- Non è chiaro fino a che punto l’Egitto, che è il garante dell’accordo, riuscirà a portare avanti la sua nuova politica indipendente qualora dovesse emergere una forte opposizione da parte di Washington.

Al di là di questi interrogativi, vi sono però variabili a livello regionale che, alla luce della situazione estremamente fluida che caratterizza il Medio Oriente in questo momento, potrebbero giocare a favore dell’accordo. Ad esempio:

1) Pur essendo certo che il governo Netanyahu farà di tutto per far fallire la riconciliazione, non è chiaro fino a che punto gli Stati Uniti, pur volendolo, siano in grado di esercitare pressioni realmente efficaci sull’ANP, sul Cairo e in sede ONU, alla luce della loro debolezza interna e del numero e della complessità dei fronti sui cui essi sono già impegnati sia militarmente che diplomaticamente – talvolta per difendere vitali interessi nazionali.

2) Sebbene Tel Aviv e Washington possano certamente imporre un boicottaggio finanziario all’ANP, la determinazione con cui Abbas ha mostrato di voler difendere l’accordo ha spinto diversi osservatori a ipotizzare che alcuni paesi arabi potrebbero essere disposti a coprire almeno in parte le spese dell’ANP (a questo proposito molti guardano all’Arabia Saudita, i cui rapporti con Washington in questo momento non sono idilliaci).

3) La capacità del Cairo di portare avanti una politica estera più assertiva e indipendente, di difendere l’accordo e di porre realmente fine all’insostenibile assedio di Gaza aumenterà se il nuovo regime egiziano riuscirà a stabilizzare la situazione politica ed economica interna, ad assicurarsi una reale legittimazione democratica, ed a trovare finanziatori esteri che aiutino il paese ad uscire dalla crisi che sta attraversando, eventualmente rendendolo meno dipendente dagli aiuti americani (il viaggio del primo ministro egiziano Essam Sharaf in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, la scorsa settimana, aveva anche questo fra i suoi obiettivi).

Certo è che – come ha scritto recentemente il presidente turco Abdullah Gul dalle pagine del New York Times – un accordo di pace israelo-palestinese rappresenterebbe un contributo essenziale a far sì che le rivoluzioni attualmente in corso in Medio Oriente portino a una nuova era di democrazia e di concordia nella regione. Ma è altrettanto vero che – come ha scritto l’ex consigliere dell’ANP Khaled Elgindy – non è pensabile che la pace possa essere raggiunta solo con una parte dei palestinesi, a spese dell’altra; o che i palestinesi debbano essere costretti a scegliere tra l’eventualità di restare in guerra con se stessi e quella di restare in guerra con Israele.

E’ dunque evidente che un accordo di riconciliazione tra i palestinesi è un passo necessario e imprescindibile per il raggiungimento di una pace equa e duratura in Medio Oriente. Nell’interesse della sicurezza, della stabilità e della democrazia nella regione, dunque, questo accordo non dovrebbe essere ostacolato né da Israele né dagli Stati Uniti.

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18 febbraio 2010

Il "lavoro sporco" di Fatah in Cisgiordania.

Dopo la presa del potere nella Striscia di Gaza da parte di Hamas, nel giugno del 2007, la principale preoccupazione di Israele e degli Usa è stata quella di impedire che la stessa cosa potesse succedere nella West Bank.

A tal fine gli Usa hanno inviato sul posto il generale Dayton con il compito di formare e addestrare le forze di sicurezza fedeli ad Abu Mazen, mettendolo a capo di un progetto da 261 milioni di dollari che – alla fine del 2011 – dovrebbe portare alla formazione di 10 nuovi battaglioni di sicurezza, uno per ciascun governatorato della Cisgiordania più uno di riserva.

Lo scopo di questo progetto è chiaro. Parlando davanti ad una sottocommissione della Camera dei Rappresentanti, nel 2007, Dayton ha avuto modo di affermare come esso sia volto a “fornire sicurezza ai Palestinesi e a preservare e proteggere gli interessi dello Stato di Israele”.

Il che ha comportato non solo una serie di attacchi indiscriminati alla rete di sicurezza sociale di Hamas in Cisgiordania, ma anche, e soprattutto, l’instaurazione di un regime repressivo fatto di irruzioni, carcere duro e torture. In stretto coordinamento con i comandi di Tsahal ed in puro stile israeliano.

Pur di mantenere il potere, dunque, Abu Mazen si è persino adattato a svolgere per conto degli Israeliani il “lavoro sporco” di repressione e di annientamento delle strutture di Hamas in Cisgiordania. Con il rischio concreto, tuttavia, di provocare una vera e propria guerra civile.

Questo è l’argomento dell’articolo che segue, scritto l’8 febbraio scorso dal corrispondente canadese John Elmer per il sito web in lingua inglese di al-Jazeera, qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

Betlemme – Abu Abdullah non è mai stato condannato per nessun crimine, ma negli ultimi due anni è stato arrestato così tante volte da aver perso il conto. È stato arrestato al lavoro, al mercato, per strada e, più di una volta, durante violente incursioni compiute da uomini col volto coperto che hanno fatto irruzione in casa sua e lo hanno catturato davanti alla sua famiglia. Nel cuore del campo profughi di Deheishe, nei sobborghi di Betlemme, Abu Abdullah descrive nei dettagli le violenze fisiche che ha subito in carcere, le numerose infreddature, le notti insonni trascorse in celle sporche e striminzite, i periodi prolungati che ha passato legato in posizioni di logorante tensione muscolare, e le lunghe ore di aggressivi interrogatori. “Gli interrogatori cominciano sempre allo stesso modo”, spiega Abu Abdullah. “Chiedono di sapere chi ho votato alle ultime elezioni”.

Abu Abdullah non è il solo. Da quando il governo provvisorio del primo ministro palestinese Salam Fayyad ha preso il potere a Ramallah nel giugno 2007, storie come quelle di Abu Abdullah sono diventate la routine in Cisgiordania. Gli arresti sono parte di un piano più ampio messo in atto dalle forze di sicurezza palestinesi – finanziate e addestrate da ‘patroni’ europei e americani – per schiacciare l’opposizione e consolidare la presa sul potere in Cisgiordania da parte del governo guidato da Fatah.

Uno sforzo internazionale

Il governo del presidente palestinese Mahmoud Abbas è sostenuto da migliaia di membri delle forze di sicurezza e di polizia da poco addestrati, il cui obiettivo dichiarato è l’eliminazione dei gruppi islamisti che possono rappresentare una minaccia per il potere del governo – ovvero Hamas e i suoi sostenitori.

Sotto gli auspici del Tenente Generale Keith Dayton, coordinatore della sicurezza americana, queste forze di sicurezza ricevono una formazione pratica da personale militare canadese, britannico e turco in un centro di addestramento nel deserto, in Giordania.

Il programma è stato accuratamente coordinato con ufficiali di sicurezza israeliani. A partire dal 2007, il Centro internazionale di addestramento della polizia in Giordania ha formato e schierato 5 battaglioni della Forza di sicurezza nazionale Palestinese in Cisgiordania. Entro la fine del mandato di Dayton, nel 2011, il progetto da 261 milioni di dollari vedrà 10 nuovi battaglioni di sicurezza, uno per ciascuno dei 9 governatorati della Cisgiordania, più un’unità di riserva.

Il loro scopo è chiaro. Parlando davanti a una sottocommissione delle Camera dei Rappresentanti, nel 2007, Dayton definì il progetto come “davvero importante per portare avanti i nostri interessi nazionali, fornire sicurezza ai palestinesi e preservare e proteggere gli interessi dello stato di Israele”.

Altri sono stati persino più espliciti a proposito della funzione di queste forze di sicurezza. Quando Nahum Barnea, un esperto corrispondente israeliano specializzato in questioni legate alla difesa, nel 2008 ha assistito ad un incontro di coordinamento di massimo livello tra comandanti palestinesi e israeliani, ha detto di essere rimasto sbalordito da quanto aveva sentito.

“Hamas è il nemico, e abbiamo deciso di muovergli una guerra totale”, ha detto Majid Faraj, l’allora capo dell’intelligence militare palestinese ai comandanti israeliani, secondo quanto riferito da Barnea. “Ci stiamo occupando di ogni istituzione di Hamas in conformità con le vostre istruzioni”.

Dopo la presa del potere da parte di Hamas a Gaza

Quando Dayton arrivò negli ultimi giorni del 2005, la sua missione di era quella di creare una forza di sicurezza palestinese apparentemente incaricata di opporsi alla resistenza palestinese. Il progetto ebbe inizio a Gaza. Sean McCormack, al tempo un portavoce del Dipartimento di Stato americano, spiegò il ruolo di Dayton come “il vero lavoro tecnico, di formazione e di equipaggiamento, nel contribuire a costituire le forze di sicurezza”.

Ma a poche settimane dal suo arrivo, le cose cominciarono ad andare in pezzi. La decisiva vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 inaugurò un paralizzante embargo internazione contro i palestinesi a Gaza. Poco dopo, le forze di sicurezza di Hamas e Fatah iniziarono a combattere per le strade, e ciò culminò con la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia, nel giugno del 2007.

Gli obiettivi iniziali di Dayton erano andati in fumo, e mentre Fayyad diventava primo ministro di un governo “provvisorio” a Ramallah, veniva formulata una nuova strategia di sicurezza.

Mentre un sinistro status quo si instaurava a Gaza, la nuova missione di Dayton divenne chiara. Il compito del coordinatore della sicurezza era ora quello “di prevenire una presa del potere di Hamas in Cisgiordania”, secondo Michael Eisenstadt, ex collaboratore di Dayton.

Un attacco coordinato all’apparato civile di Hamas fu lanciato immediatamente dopo la presa del potere da parte di quest’ultimo a Gaza nel giugno 2007. Il Generale di divisione Gadi Dhamni, a capo del comando centrale dell’esercito israeliano, diresse un’iniziativa volta a colpire la base dell’appoggio di Hamas in Cisgiordania. Il piano, soprannominato Strategia Dawa, comportava l’esatta identificazione dell’esteso apparato di assistenza sociale di Hamas, il pilastro della sua popolarità tra molti palestinesi.

Omar Abdel Razeq, ex ministro delle finanze nel breve governo Hamas, spiega gli effetti di questa iniziativa. “Quando parliamo delle infrastrutture parliamo delle società, delle cooperative e delle istituzioni che erano preposte all’aiuto dei poveri”, dice. “Loro hanno fatto fuori le infrastrutture di Hamas”. Il Generale di Brigata Michael Herzog, capo di stato maggiore di Ehud Barak, il ministro della Difesa israeliano, ha riassunto il punto di vista degli israeliani sul progetto. “Dayton sta facendo un ottimo lavoro”, ha detto. Siamo molto contenti di quello che sta svolgendo”.

Le accuse di tortura

La strategia Dawa ha visto più di 1.000 palestinesi imprigionati dalle forze dell’Autorità Palestinese (ANP). Gli arresti – sebbene concentrati su Hamas e sui suoi sospetti alleati – hanno toccato un ampio strato della società palestinese, e tutte le fazioni politiche. Hanno preso di mira assistenti sociali, studenti, insegnanti e giornalisti. Ci sono state regolari irruzioni nelle moschee, nei campus universitari e negli enti benefici, e ripetute accuse di torture, a carico degli ufficiali delle forze di sicurezza finanziate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Tali accuse includono diversi decessi avvenuti in prigione.

Nel mese di ottobre, Abbas ha emanato un decreto contro le forme di tortura più violente usate dalle sue forze di sicurezza e ha sostituito il suo ministro dell’interno, il Generale Abdel Razak-al-Yahya, partner di vecchia data di Israele e degli Stati Uniti, con Said Abu Ali. Sebbene si sia registrato un miglioramento a partire dall’emanazione del decreto, gli attivisti dei diritti umani hanno sostenuto che i cambiamenti non sono sufficienti. “Non è ancora previsto nessun processo, ancora non è stata fornita alcuna giustificazione legale per molti degli arresti, e i civili sono ancora trascinati in giudizio davanti alle corti militari”, dice Salah Moussa, un avvocato della Commissione Indipendente per i Diritti Umani (Independent Commission for Human Rights, ICHR, istituzione creata nel 1993 tramite un decreto dell’allora presidente palestinese Yasser Arafat (N.d.T.) ).

Il Generale di divisione Adnan Damiri, portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, ha riconosciuto che sono stati commessi atti illeciti ma li ha classificati come atti individuali, e non dettati dalla politica.“A volte ci sono stati ufficiali e soldati che hanno commesso errori in questo senso, compresa la tortura”, ha detto Damiri. “Ma adesso li stiamo punendo”. Damiri ha citato 42 casi di tortura negli ultimi 3 mesi che hanno comportato varie forme di sanzioni, compresa la perdita del grado. Sei soldati sono stati mandati in congedo a causa delle loro azioni. Ma nelle strade, il clima è peggiorato da quando i servizi di sicurezza spalleggiati dall’estero hanno stretto la loro morsa in Cisgiordania.

Naje Odeh, leader di una comunità di sinistra nel campo di Deheishe, che gestisce un centro per la gioventù, ha descritto l’apparato di sicurezza come legato ai regimi della Giordania e dell’Egitto, alleati degli Stati Uniti. Odeh dice che le forze di sicurezza che compiono i raid sanno che ciò che stanno facendo è sbagliato. “Perché hanno il volto coperto? “, domanda retoricamente. “Perché noi conosciamo queste persone. Conosciamo le loro famiglie. Essi si vergognano di quello che stanno facendo”.

Alcuni temono che il comportamento delle forze di sicurezza addestrate dagli Stati Uniti e dall’UE faranno scoccare la scintilla di uno scontro potenzialmente mortale. “Se loro attaccano le tue moschee, le tue scuole, le tue società, tu puoi essere paziente, ma per quanto?”, domanda un leader islamico in Cisgiordania.

Abdel Razeq, ex ministro delle finanze di Hamas, è più esplicito nelle sue previsioni, e dice: “Se le forze di sicurezza insistono a difendere gli israeliani, questa è una ricetta per la guerra civile”.

Jon Elmer è un giornalista e fotografo freelance di nazionalità canadese; ha seguito il conflitto israelo-palestinese da Gaza e dalla Cisgiordania.

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