12 ottobre 2011

Contro l'islamofobia, a sostegno degli 11 di Irvine

La grande democrazia americana – secondo quanto ci raccontano – dovrebbe essere il luogo, più di tutti gli altri al mondo, in cui la libertà di espressione assume un valore quasi sacrale. Ma non sempre è così, quanto meno non è così quando ci si trova ad avere a che fare con Israele e quando si professa una certa religione.

Come forse pochi sanno, lo scorso 8 settembre è iniziato il processo agli undici studenti le cui proteste interruppero il discorso che l’ambasciatore israeliano negli Usa stava tenendo alla University of California di Irvine.

Gli undici ragazzi – ormai noti come gli “11 di Irvine” – oltre ad essere stati espulsi dall’ateneo, sono stati incriminati per avere ripetutamente interrotto per protesta il discorso che Michael Oren stava tenendo al campus della loro università l’8 febbraio del 2010. Secondo l’accusa, gli studenti avrebbero violato il diritto di espressione di Oren, interrompendone il discorso con una azione premeditata e concertata.

Naturalmente, in ogni altra controversia di questo tipo, gli avvocati difensori avrebbero avuto buon gioco ad affermare che anche gli studenti incriminati godono dello stesso diritto di espressione, che essi non intendevano affatto interrompere il discorso dell’ambasciatore, che infatti è stato sospeso solo per una ventina di minuti, che forme di protesta analoghe sono usuali all’università di Irvine come in altre università in tutto il mondo.

Gli studenti, infatti, si erano limitati ad alzarsi, uno per volta, e a scandire slogan del tipo “Michael Oren, propagandare l’assassinio non è un’espressione della libertà di parola”. Va ricordato, in proposito, che il 2 giugno Oren aveva scritto un “op-ed” per il New York Times, nel quale aveva pienamente giustificato il massacro dei nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara ad opera delle forze d’assalto israeliane. Eppure, per questa azione dimostrativa non violenta, dieci ragazzi (le accuse nei confronti dell’undicesimo sono state in seguito lasciate cadere) – tutti di fede islamica – sono stati condannati a 56 ore di servizio civile e a tre anni di libertà vigilata.

Si tratta, a ben vedere, di una clamorosa ingiustizia poichè, in altre analoghe occasioni e addirittura quando ad essere interrotto è stato lo stesso primo ministro israeliano Netanyahu, non si è avuta alcuna incriminazione e alcuna condanna, perché gli autori del “crimine” non erano di fede islamica…

E’ questo il tema della lettera che segue, diffusa dal gruppo Jewish Voice for Peace, che ha creato appositamente un blog affinché ciascuno possa esprimere il proprio sostegno agli “11 di Irvine” e, più in generale, alla lotta per la libertà di espressione e la tutela dell’uguaglianza dei diritti, contro ogni forma di discriminazione e di razzismo.

Riuscite a individuare la differenza?

Caro lettore,

quando abbiamo interrotto il discorso del primo ministro Benjamin Netanyahu all’assemblea generale annuale delle Federazioni ebraiche del Nord America a New Orleans lo scorso novembre, siamo stati accolti con fischi, grida di disapprovazione, molestie verbali e persino aggressioni fisiche da parte di altri membri del pubblico. Ma le accuse penali non sono state mai nemmeno menzionate. Eppure, solo poche settimane fa, dieci studenti che avevano interrotto il discorso dell’ambasciatore israeliano Michael Oren all’Università della California di Irvine nel febbraio del 2010 sono stati condannati per due illeciti a causa della loro partecipazione alla protesta.

Oggi (martedì 11 ottobre, n.d.t.) è una giornata nazionale di azione per protestare contro queste condanne ingiuste. Abbiamo aperto un blog per mostrare il nostro sostegno agli 11 di Irvine. Pensiamo anche che questa giornata di azione sia un’occasione perfetta per valutare le similitudini e le differenze tra queste due proteste. Vedi se riesci a individuare la differenza:

In entrambe le proteste, ognuno che si è alzato in piedi per richiamare l’attenzione sull’occupazione israeliana e sulle altre violazioni del diritto internazionale commesse dal governo israeliano ha agito in modo non violento, ed ha pienamente collaborato con il personale della sicurezza e con la polizia. Allora perché noi non siamo stati arrestati, incriminati e processati e gli 11 di Irvine si? Da un punto di vista logico, avrebbe dovuto esser vero il contrario: il nostro obiettivo era più grosso – il primo ministro israeliano; il luogo era più grande – il maggiore evento ebraico del Nord America; e la nostra protesta è venuta dopo – in parte ispirata dalle coraggiose azioni degli 11 di Irvine. Ma c’è un’altra differenza, che si è rivelata essere quella cruciale: noi siamo ebrei e gli 11 di Irvine sono musulmani.

Con le condanne degli 11 di Irvine, il sistema giudiziario penale della Contea di Orange ha inviato il messaggio che il diritto dell’ambasciatore israeliano a parlare senza interruzioni è maggiormente degno di protezione del diritto dei cittadini americani di protestare contro le azioni illegali e ingiustificabili del governo di Israele.

Il fatto che gli 11 di Irvine siano stati accusati e processati mentre noi ce la siamo cavata senza una macchia (al pari di altri manifestanti non-musulmani nella Contea di Orange che in seguito interruppero Dick Cheney e George W. Bush) testimonia l’influenza della islamofobia, del razzismo anti-arabo e del cieco sostegno ad Israele sulla società americana contemporanea e sul dibattito politico. Questo palese prendere di mira una minoranza dovrebbe far scattare dei campanelli d’allarme per quelli di noi che aborrono il razzismo e lottano per la salvaguardia dell’uguaglianza dei diritti per tutti i cittadini, indipendentemente dalla religione o dall’etnia.

Ci uniamo all’amministrazione e al preside della facoltà di diritto dell’Università di Irvine, insieme ai sostenitori della libertà di espressione e dei diritti umani di tutto il paese, nel deprecare queste condanne. Questo prendere di mira gli studenti musulmani da parte dell’ufficio del procuratore distrettuale della Contea di Orange non durerà. Ogni individuo ha il diritto di esprimersi a favore della giustizia. Unisciti a noi oggi nel dire: “Noi siamo contro l’islamofobia, per la giustizia e con gli 11 di Irvine.

In solidarietà,

Amirah Mizrahi, Antonia House e Emily Ratner
membri di YJP, l’ala giovanile di Jewish Voice for Peace

Etichette: , , ,

Condividi

2 agosto 2011

Non esiste crisi finanziaria che possa determinare la riduzione degli aiuti Usa a Israele

Da poche ore è giunta la notizia tanto attesa dai mercati di tutto il mondo: l’incubo default degli Stati Uniti è svanito, grazie all’accordo raggiunto in extremis tra democratici e repubblicani che prevede un innalzamento del tetto massimo dell’indebitamento pubblico accompagnato da un parallelo taglio dello spesa.


Più in dettaglio, il rialzo del tetto del debito da parte del Congresso avverrà in due tempi. In una prima fase, immediata, si avrà una prima tranche di aumento di 900 miliardi di dollari, accompagnata da tagli di spese pubbliche pari a 917 miliardi.


La seconda tranche di aumento del tetto del debito, tra i 1.100 e i 1.500 miliardi, è condizionata a nuovi tagli di spese per un ammontare equivalente, che verranno definiti da una commissione paritetica nominata dai quattro leader democratici e repubblicani di Camera e Senato.


Ma neanche la grave crisi finanziaria e la necessità di effettuare consistenti tagli di bilancio valgono a mettere in dubbio gli aiuti finanziari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono generosamente allo stato ebraico, destinati a rimanere invariati anche per il 2012 al fine di “assicurare che il nostro alleato Israele mantenga il suo vantaggio militare qualitativo”, secondo quanto dichiarato dalla repubblicana Nita Lowey.


E infatti, in una dichiarazione congiunta, il repubblicano Hal Rogers, Presidente della Commissione Stanziamenti della Camera dei Rappresentanti, e la sua collega di partito Kay Granger, Presidente della sotto-Commissione per le operazioni estere, hanno garantito che i 3,075 miliardi di dollari di aiuti ad Israele previsti per il prossimo anno resteranno intatti, secondo quanto previsto dallo State and Foreign Operations Act 2012.


Va ricordato che l’ex Presidente Usa George W. Bush aveva concordato con l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert un pacchetto di aiuti da 30 miliardi di dollari spalmati su 10 anni, a partire dal 2007, e l’attuale Presidente Barack Obama sembra voler onorare fino in fondo questo impegno, nonostante la grave crisi economica e finanziaria che attanaglia gli Usa.


Cambiano i Presidenti, dunque, ma per l’alleato israeliano si ha sempre un occhio di riguardo, e persino per Obama è più facile tagliare i fondi per il Medicare piuttosto che quelli che servono a garantire ad Israele il suo “vantaggio qualitativo” in campo militare.


Anche se l’unica attività a cui attualmente si dedica l’esercito israeliano è l’assassinio dei giovani palestinesi e il rapimento e i maltrattamenti dei bambini.

Etichette: , ,

Condividi

3 giugno 2011

Obama ha deluso il mondo arabo

Torniamo un attimo al discorso tenuto da Obama il 19 maggio (e a quello pronunciato tre giorni dopo alla convention dell’AIPAC) per sottolineare nuovamente la profonda delusione, ed anzi la decisa irritazione, del mondo arabo per quanto riguarda la posizione degli Usa sulla questione palestinese, e il clamoroso doppio standard ancora una volta utilizzato in favore di Israele.

Obama ha iniziato il suo discorso sul Medio Oriente parlando di democrazia, di eguaglianza e di libertà, lodando le rivoluzioni arabe, e ha concluso parlando del “carattere ebraico di Israele”, che di fatto nega la pienezza dei diritti di cittadinanza al 20% della popolazione araba e, soprattutto, il diritto al ritorno di 6 milioni di rifugiati palestinesi.

E affermando, in aggiunta, che “le Nazioni Unite non fondano Stati”, cercando così di delegittimare il tentativo palestinese di ottenere il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu il prossimo settembre. Il che è profondamente iniquo e, tra l’altro, costituisce una palese menzogna se poniamo a mente proprio la nascita dello stato israeliano.

Il vero è che, parlando di Israele e delle questioni che stanno a cuore ad Israele, gli Usa proprio non riescono a fare a meno di usare un clamoroso doppio standard di giudizio a favore dello Stato ebraico. Per dirla come
Gideon Levy, “quando ha citato l’ambulante tunisino che fu umiliato da una poliziotta che aveva rovesciato la sua bancarella – quel venditore che più tardi si diede fuoco appiccando la rivoluzione – Obama ha pensato anche alle centinaia di ambulanti palestinesi che hanno subito la stessa identica sorte per mano di soldati e poliziotti israeliani?” Se ci ha pensato, deve aver fatto finta di niente…

Obama, in realtà, cerca di conciliare ciò che è inconciliabile, e cioè l’elogio della democrazia con la difesa e l’aperto supporto all’oppressione e all’occupazione militare israeliana. E ciò è inutile, controproducente e soprattutto immorale.

Di questo tratta l’editoriale di
Medarabnews che segue, da cui sono state estrapolate le parti più strettamente legate alla questione palestinese.

OBAMA E IL MEDIO ORIENTE: L’INANITA’ DELLA SPERANZA
25 maggio 2011


“L’Audacia della Speranza”. Così era intitolato il libro che avrebbe lanciato la vittoriosa campagna presidenziale di Obama nel 2007. Sono trascorsi più di quattro anni da allora, e quasi due anni e mezzo dall’insediamento di Obama alla Casa Bianca, che tante aspettative aveva suscitato anche in Medio Oriente. Ma di quel vento di speranza che soffiava dall’America non vi è più traccia nella regione.

Oggi il vento della speranza in Medio Oriente soffia dalle piazze di città come Tunisi, il Cairo, Sana’a, e dai cortei di dimostranti che chiedono libertà e democrazia dal Marocco all’Oman, nonostante le situazioni drammatiche con cui in alcuni casi hanno dovuto confrontarsi: la guerra in Libia, la brutale repressione in Siria e nel Bahrein, le uccisioni e le intimidazioni dei manifestanti nello Yemen.

Ma si tratta di una speranza araba, autoctona, sorta dal basso, dai giovani, dalle classi lavoratrici, dai disoccupati. I popoli arabi hanno deciso di prendere in mano il proprio destino e (quantomeno di tentare) di rovesciare le dittature corrotte e repressive che li governano – quelle stesse dittature che, nonostante tutta la sua retorica sulla democrazia, e nonostante le promesse pronunciate da Obama nel 2009 a proposito di un nuovo inizio con i popoli arabi, Washington ha sostenuto fino ad oggi.

La delusione suscitata da quelle promesse non mantenute, dopo che erano state solennemente articolate da Obama nel famoso discorso del Cairo di due anni fa, è stata cocente nel mondo arabo: da allora nulla è realmente cambiato nelle politiche americane nei confronti della regione. Ma l’insuccesso più grave per Obama è stato il suo fallito tentativo di riavviare il processo di pace al fine di giungere a quella soluzione del problema palestinese che egli aveva solennemente promesso fin dal suo insediamento alla Casa Bianca.

Quanto sia tuttora centrale questo problema nel mondo arabo lo ha confermato il mare di bandiere palestinesi che nemmeno due settimane fa ha invaso Piazza Tahrir al Cairo, mischiandosi con le bandiere del movimento democratico egiziano per commemorare la “Nakba”, la catastrofe palestinese del 1948.

OBAMA HA DELUSO IL MONDO ARABO

Ancora una volta, la scorsa settimana, Obama ha preso la parola per mostrare agli arabi il volto benigno dell’America, per convincerli che gli Stati Uniti appoggiano le trasformazioni democratiche nella regione, e per promettere loro un rinnovato impegno a favore del processo di pace israelo-palestinese.

Ma il discorso di giovedì 19 maggio (di cui le parole pronunciate dal presidente americano tre giorni dopo di fronte all’AIPAC, la potente lobby filo-israeliana negli USA, rappresentano solo un corollario), anche questa volta non ha centrato il bersaglio.

Sebbene tale discorso sia stato accolto con favore da buona parte della stampa europea, ben diversa è stata la reazione dei mezzi di informazione arabi, che lo hanno definito inutile, noioso, e per molti versi un vero e proprio “fiasco”.

Secondo la maggior parte dei commentatori arabi, Obama non ha offerto nulla di nuovo, facendo ampio ricorso alla sua ormai nota arte retorica (che fino a questo momento non è mai stata sostanziata dai fatti), ed in molti casi dimostrando un’assoluta mancanza di familiarità con la cultura politica araba …

IL NODO PALESTINESE

… Il passaggio del suo discorso che più di ogni altro ha attirato le critiche unanimi degli arabi è stato quello dedicato alla questione palestinese.

Ampiamente criticata è stata l’insistenza di Obama affinché gli arabi riconoscano Israele come “Stato ebraico”, in pratica legittimando il diritto di Israele a discriminare i suoi cittadini non ebrei su base etnica e religiosa.

Molti hanno fatto dell’amara ironia sulla seguente affermazione pronunciata da Obama in riferimento ad Hamas: “come si può negoziare con una controparte che ha mostrato la propria indisponibilità a riconoscere il tuo diritto ad esistere”. Dopotutto – hanno ironizzato alcuni – i palestinesi hanno negoziato per vent’anni con Israele, che si ostina a non riconoscere il diritto dei palestinesi ad esistere all’interno di un proprio Stato.

Ugualmente criticata è stata l’affermazione di Obama secondo cui gli Stati Uniti hanno perseguito per decenni una politica di non-proliferazione nucleare in Medio Oriente, visto che l’unico paese che possiede armi nucleari nella regione è Israele, il più stretto alleato degli USA, che si è sempre rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione.

Ma a deludere è stato soprattutto il fatto che Obama ha praticamente condannato ogni iniziativa palestinese volta a ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese all’ONU, ha bocciato l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas (il che significa di fatto pretendere che i palestinesi continuino a fare la guerra fra di loro pur di fare la pace con Israele), ed ha affermato che ogni Stato ha il diritto all’autodifesa traducendo poi quest’affermazione nel fatto che Israele ha diritto alla propria sicurezza mentre lo Stato palestinese dovrà essere smilitarizzato.

A fronte di queste prese di posizione, egli non ha esercitato nessuna pressione reale nei confronti del governo Netanyahu. Né ha accennato al carattere “non democratico” dell’occupazione israeliana, o alle umiliazioni subite dai palestinesi per mano dei soldati israeliani.

Ma la posizione di Obama è apparsa ancora più sbilanciata domenica, quando di fronte alla platea dell’AIPAC egli ha ribadito in maniera ancora più netta queste posizioni, ed in particolare ha chiarito che, quando nel suo precedente discorso aveva parlato di una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967 con mutui scambi di territori, intendeva dire che le controparti avrebbero negoziato un confine “che è differente da quello che esisteva il 4 giugno 1967”.

Questo nuovo confine, secondo Obama, terrà conto “dei cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi 44 anni, incluse le nuove realtà demografiche sul terreno”. Un’affermazione di questo genere da parte del presidente degli Stati Uniti – soprattutto se fatta prima di qualsiasi trattativa, e non come risultato di un negoziato fra le parti – agli occhi degli arabi significa ratificare la “politica del fatto compiuto” portata avanti dai governi israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est negli ultimi trent’anni.

Rifiutandosi di condannare esplicitamente gli insediamenti nei Territori occupati e di ostacolarne l’espansione – o addirittura ponendo il veto a una risoluzione di condanna dell’ONU, come è avvenuto nel febbraio di quest’anno – gli Stati Uniti di fatto permettono a Israele di modificare a proprio favore la realtà sul terreno.

Con la progressiva espansione degli insediamenti e della rete di strade e di infrastrutture ad essi connesse, le prospettive di una soluzione a due Stati che permetta la creazione di uno Stato palestinese territorialmente contiguo e in grado di sopravvivere sono diventate praticamente trascurabili.

LA POLITICA MEDIORIENTALE DI OBAMA, STRETTA FRA TEL AVIV E RIYADH

Ma, al di là dei singoli contenuti dei due discorsi pronunciati da Obama la scorsa settimana, il dato complessivo che traspare è la debolezza del presidente americano e della sua amministrazione. Sebbene il suo discorso di giovedì fosse tutt’altro che favorevole ai palestinesi, egli si è visto costretto a spostare ulteriormente le proprie posizioni a favore del governo israeliano in occasione del suo discorso di domenica di fronte all’AIPAC.

E malgrado ciò, le sue posizioni continuano ad essere guardate con sospetto non solo dal governo Netanyahu, ma anche da gran parte del Congresso americano e da alcuni elementi della sua stessa amministrazione.

Due episodi, in particolare, sono emblematici della bancarotta delle politiche di Obama relative alla questione palestinese. Alla vigilia del suo discorso di giovedì, il suo inviato speciale per il Medio Oriente George Mitchell rassegnava mestamente le dimissioni, in quella che è stata una palese ammissione di fallimento. E proprio giovedì, mentre Obama si apprestava a rivolgersi al mondo arabo, la Commissione per la pianificazione edilizia del municipio di Gerusalemme programmava la costruzione di altre 1.500 unità abitative a Gerusalemme Est.

Mentre Obama si separava dall’uomo simbolo delle sue politiche mediorientali nei primi due anni del suo mandato, egli doveva subire l’ennesimo affronto da parte del municipio di Gerusalemme e del governo israeliano.

Tutto ciò che il presidente americano ha potuto fare nel suo discorso di domenica all’AIPAC è stato “mettere in guardia”. Mettere in guardia sul fatto che la situazione internazionale sta rapidamente cambiando a svantaggio di Israele; che, sebbene gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare Israele fino alla fine, l’influenza internazionale degli USA sta declinando.

“Così come il contesto è cambiato in Medio Oriente, negli ultimi anni esso sta cambiando anche nella comunità internazionale”, ha detto Obama. “C’è una ragione se i palestinesi stanno perseguendo i loro interessi alle Nazioni Unite. Essi si rendono conto che vi è un’impazienza in merito al processo di pace – o alla sua assenza – non solo nel mondo arabo, ma in America Latina, in Asia, in Europa. E questa impazienza sta crescendo, e si sta già manifestando nelle capitali di tutto il mondo. E questi sono fatti”.

Ma, tenuto conto della debolezza dell’America, e del potere del Congresso e della lobby filo-israeliana negli USA, Netanyahu può permettersi di non dar retta a simili ammonimenti, e di continuare a fare il male di Israele ignorando qualsiasi ragionevole processo di pace con i palestinesi.

Obama non ha alcuna possibilità di esercitare pressioni nei suoi confronti. E’ debole nei confronti di Israele, così come è debole in Medio Oriente in generale. Un esempio su tutti: mentre gli USA hanno promesso di sostenere le nascenti democrazie in Egitto e Tunisia, ed in particolare di aiutare l’Egitto cancellando un miliardo del suo debito ed offrendo al paese un altro miliardo sotto forma di prestiti, l’Arabia Saudita ha silenziosamente stanziato quattro miliardi di dollari per sostenere l’economia egiziana.

Gli Stati Uniti, afflitti dalla crisi economica e da seri problemi di bilancio, non sono in grado – o comunque non sono disposti – di fornire gli aiuti economici che invece i sauditi possono elargire senza grossi affanni contando sulle loro enormi riserve di denaro liquido derivanti dagli introiti petroliferi. Ed è noto che gli aiuti economici si traducono in potere contrattuale, in influenza politica.

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), di cui l’Arabia Saudita è di gran lunga il membro più influente, inorridito dalla (seppur riluttante) decisione americana di assecondare il cambiamento in paesi come l’Egitto, ha deciso di uscire dall’ombra americana adottando un’aggressiva politica di aiuti (miliardi di dollari a Bahrein, Oman ed Egitto), di repressione delle proteste in Bahrein attraverso un intervento militare diretto, di forte mediazione nello Yemen per assicurare un cambio di regime favorevole al GCC; così come ha deciso di invitare le monarchie di Giordania e Marocco ad entrare a far parte dell’organizzazione – per formare quello che alcuni hanno definito il fronte delle monarchie arabe ostili al cambiamento.

L’attivismo saudita sta mettendo a dura prova il legame con Washington. I rapporti strategici fra i paesi del GCC e gli Stati Uniti continuano a essere saldi semplicemente perché gli interessi in gioco sono troppo alti per entrambe le parti, ma i paesi del Golfo non hanno esitato negli ultimi mesi a mostrare un approccio politico che molto spesso diverge da quello americano. Essi hanno deciso di intervenire in Bahrein nonostante le velate critiche di Washington, di usare con l’Iran un linguaggio ben più duro di quello americano, fomentando le tensioni settarie nel Golfo, di adottare un atteggiamento molto più aggressivo nei confronti del regime siriano di Bashar al-Assad, alleato di Teheran e accusato di reprimere brutalmente una ribellione “sunnita” (da notare come a prevalere in tutti questi approcci sia la logica settaria, non certo la logica democratica).

Come ha sottolineato in un suo articolo Riad Kahwaji – esperto di sicurezza dell’Institute for Near East and Gulf Military Analysis (INEGMA) con sede a Dubai – presso i leader del GCC vi è la crescente convinzione che gli Stati Uniti siano una potenza in declino, e che nuove potenze emergeranno in Oriente nel prossimo decennio, le quali necessiteranno delle risorse di gas e petrolio dei paesi del Golfo in misura anche maggiore dell’Occidente, e quindi saranno pronte a correre in aiuto del GCC se esso dovesse essere minacciato dall’Iran o da altre potenze.

Ma per il momento – prosegue Kahwaji – gli Stati Uniti hanno una capacità unica di proiettare la loro potenza bellica in tempi rapidi laddove occorra. Questo fa sì che i rapporti fra i paesi del Golfo e Washington resteranno saldi a breve termine, soprattutto per ragioni militari.

Dal canto suo, Washington trova vantaggioso il rapporto con l’Arabia Saudita e i paesi del GCC per ragioni militari, energetiche ed economiche. Riyadh è il terzo fornitore di petrolio degli USA, e i paesi del Golfo ospitano importantissime basi militari americane e sono fra i principali clienti della potente industria bellica USA (la quale ha bisogno di “nuovi mercati” visto che il Pentagono è costretto a stringere la cinghia del bilancio).

Di fronte a questi interessi, ancora una volta le parole e i discorsi di Obama sembrano avere ben poca influenza. Stretto fra il potere del Congresso e quello della lobby ebraica per quanto riguarda Israele, e fra gli interessi petroliferi e militari delle industrie americane e quelli del Pentagono per quanto riguarda i paesi del Golfo, è improbabile che il debole Obama riesca a modellare la politica USA in Medio Oriente in base a quel pugno di principi ideali che egli pronuncia in maniera sempre meno convincente nei suoi discorsi.

Etichette: , , ,

Condividi

6 maggio 2011

La riconciliazione palestinese frutto della rivoluzione egiziana e del fallimento degli Usa

Abbiamo già sottolineato l’importanza fondamentale dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, che potrebbe imprimere un nuovo impulso al processo di pace israelo-palestinese.

Nei due articoli che seguono, proposti nella traduzione di
Medarabnews, vengono messi in risalto due dei fattori principali che hanno determinato e/o accelerato il processo di riunificazione delle diverse fazioni palestinesi.

Nel primo, scritto dal giornalista palestinese Rajab Abu Sirriyeh per il quotidiano al-Ayyam, si fa rilevare come l’accordo raggiunto con la mediazione egiziana sia il frutto dei profondi cambiamenti in atto nella regione, dal cambio di regime in Egitto alle proteste popolari in Siria, cambiamenti di cui Israele dovrà giocoforza tenere in conto. La caduta di Hosni Mubarak, in particolare, ha tolto di mezzo quello che era diventato di fatto un alleato di Usa e Israele nel mantenimento dello status quo e nell’assedio di Gaza.

Nel secondo articolo, scritto da Daniel Levy per il Guardian, si evidenziano invece i fattori connessi allo stallo del processo di pace e al fallimento della mediazione degli Stati Uniti, dimostratisi ormai con certificata evidenza incapaci di assumere un ruolo di honest broker del conflitto israelo-palestinese.

L’incrollabile fiducia di Abu Mazen nella mediazione americana, ovvero – se si vuole – i generosi finanziamenti concessi all’Anp, avevano portato l’Autorità palestinese a trasformarsi addirittura in braccio armato dell’occupazione, e i cd. Palestine Papers hanno mostrato come i negoziatori palestinesi fossero inclini a concessioni inaudite ad Israele, financo sulla spinosa questione degli insediamenti ebraici a Gerusalemme est.

Ma, alla fine, anche Abu Mazen si è dovuto piegare di fronte all’evidenza del fatto che, mentre il processo di pace non muoveva un solo passo in avanti, le colonie e i coloni si accrescevano a dismisura, e con essi la ferrea presa di Israele sui territori occupati, mentre la sua popolarità e il suo prestigio andavano diminuendo di pari passo.

Resta da capire se gli Usa continueranno a restare prigionieri dello strapotere della Israel Lobby, che si traduce nella totale impotenza diplomatica dell’amministrazione americana, e soprattutto se Israele si convertirà ad un approccio maggiormente pragmatico verso la controparte palestinese. Perché la riconciliazione tra i Palestinesi è un passo indispensabile per poter giungere, un giorno si spera, ad una pace equa e duratura in Medio Oriente.

Riconciliazione palestinese: il primo frutto regionale della rivoluzione egiziana
di Rajab Abu Sirriyeh – 29.4.2011


La reazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo ministro degli esteri Avigdor Lieberman all’annuncio della firma preliminare dell’accordo di riconciliazione palestinese tra Hamas e Fatah conferma fino a che punto Israele avesse investito sullo stato di divisione esistente tra i palestinesi, ed allo stesso tempo indica che questo evento storico, che ha posto i palestinesi seriamente sulla strada per ottenere uno Stato, andrà incontro a una “guerra” israeliana, sostenuta entro certi limiti da alcuni ambienti americani, di cui sarà necessario tener conto quando si tratterà di cominciare a implementare l’accordo. Solo con questa consapevolezza, infatti, sarà possibile evitare una nuova battuta d’arresto, e i decisori politici palestinesi capiranno che implementare l’unità nazionale è un atto di lotta per la cui difesa e salvaguardia è necessario mobilitare tutte le energie nazionali, affinché tale unità sopravviva a dispetto degli israeliani.

Tornando a quanto è accaduto la sera di mercoledì scorso, è necessario dire che la strada verso la riconciliazione non poteva non essere una strada ardua e difficile, lungo la quale i palestinesi hanno lottato contro tutti i fallimenti e i complotti orchestrati da numerose potenze regionali, le quali hanno sfruttato le divisioni palestinesi per realizzare i propri obiettivi politici a spese degli interessi della Palestina. E’ altrettanto necessario dire che la sostanza dell’accordo conferma che tutte le forze interne hanno da guadagnare dalla sua riuscita, mentre le potenze straniere nel loro complesso hanno solo da perdere da tale accordo. Tuttavia è necessario qui esprimere tutta la gratitudine al Cairo la cui nuova leadership, pur essendo impegnata sul fronte interno, ha seguito con solerzia, e senza le passate strumentalizzazioni politiche, il processo di riconciliazione. L’atteggiamento equilibrato del Cairo, lontano dal clamore dei media, ha convinto le due parti contendenti a firmare l’accordo, godendo l’Egitto post-25 gennaio di una fiducia maggiore (presso entrambe le parti) di quella di cui godeva l’Egitto pre-rivoluzionario.

Vi sono dunque fattori interni e fattori regionali che hanno facilitato gli sforzi di riconciliazione. Il cambiamento avvenuto in Egitto ha infatti fatto sì che il nuovo regime del Cairo godesse di una fiducia maggiore, da parte di Hamas, rispetto al regime precedente alla rivoluzione. Allo stesso tempo, la fiducia di Fatah e dell’ANP nel Cairo è rimasta inalterata. Si può dunque dire che, sebbene il documento di riconciliazione egiziano fosse stato messo a punto fin dall’ottobre 2009, e fosse stato firmato da Fatah (ma non da Hamas), il fatto che non sono intervenute modifiche sostanziali al documento indica che l’elemento decisivo è stato quello della fiducia, giacché il Cairo rimarrà il garante principale dell’implementazione dell’accordo di riconciliazione.

Inoltre, è necessario rilevare che la partecipazione dei Fratelli Musulmani alla rivoluzione, il loro sostegno al governo transitorio, ed il loro orientamento a prendere parte attivamente al nuovo sistema politico che si sta preparando in Egitto, rappresentano un ulteriore fattore che ha spinto Hamas verso la riconciliazione. Gli effetti della rivoluzione che sta investendo il mondo arabo sono stati anch’essi determinanti a spingere in questa direzione – ed in particolare gli eventi siriani. Il coinvolgimento del regime di Damasco nell’instabilità regionale, e l’incerto futuro della leadership di Hamas nella capitale siriana, sono tutti fattori che hanno spinto in direzione della riconciliazione. Ad essi bisogna aggiungere l’emergere di divergenze tra le posizioni del Qatar e di uno dei maggiori ispiratori dei Fratelli Musulmani e dei principali esponenti del mondo islamico sunnita attuale – lo sheikh Yusuf al-Qaradawi – da un lato, e le posizioni del regime siriano dall’altro, riguardo alle proteste del popolo siriano ed alla risposta repressiva del regime.

Perfino quando è stato detto che l’Egitto non era più determinato a farsi carico della riconciliazione, e che non si opponeva all’eventuale trasferimento della questione presso altre capitali arabe, Hamas non ha fatto propria quest’idea, e nemmeno Damasco, sebbene ciò sarebbe effettivamente potuto accadere in passato, quando al Cairo era al potere il vecchio regime.

Bisogna poi rilevare che la mobilitazione dalla piazza palestinese a partire dalla metà dello scorso marzo, che è all’origine dell’invito del primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh al presidente palestinese a recarsi in visita a Gaza, e poi l’iniziativa del presidente palestinese stesso, sono stati altrettanti fattori decisivi per superare gli ostacoli che hanno lungamente impedito la firma dell’accordo di riconciliazione. Questa volta, infatti, il popolo palestinese, i suoi giovani, e le sue forze politiche, non si sono limitati a chiedere la fine delle divisioni, ma hanno compiuto passi concreti per porvi fine scendendo in piazza e sfidando le autorità di governo in Cisgiordania e a Gaza.

In questo modo i palestinesi si avviano all’appuntamento di settembre nutrendo fiducia nel futuro, essendo più forti e influenti. Essi infatti non andranno all’ONU ad elemosinare uno Stato, ma a rivendicare il loro chiaro diritto ad esso. In alternativa, i palestinesi avranno a loro disposizione tutte le opzioni per imporne uno, rinnovando la loro lotta in tutte le sue forme allo scopo di ottenerlo. Questa volta essi saranno spalleggiati da un muro arabo più forte ed efficace, che non sarà forse rappresentato dall’insieme dei paesi arabi che hanno superato l’appuntamento del vertice arabo, lo scorso marzo, senza convocarlo, ma dalla Lega Araba e dall’Egitto in primo luogo, i quali saranno maggiormente in grado di influenzare e contrastare la prepotenza israeliana che continua a rappresentare il vero ostacolo sulla via della risoluzione della questione palestinese da vent’anni a questa parte.

La determinazione del Cairo a svolgere il proprio ruolo regionale con efficacia maggiore rispetto al passato è confermata dalle dichiarazioni dei nuovi leader egiziani, che hanno suscitato la collera ed il risentimento degli israeliani. Come ha annunciato il primo ministro egiziano Essam Sharaf, infatti, l’Egitto intende convocare una conferenza internazionale per dare una soluzione alla questione palestinese, e non per avviare ancora una volta dei negoziati.

Questa posizione palestinese più forte, sostenuta da un ruolo egiziano ed arabo più efficace, andrà incontro ad una “guerra” israeliana che chiederà ancora una volta un governo palestinese in cui Hamas accetti le condizioni imposte dal Quartetto nel 2006 – la rinuncia alla violenza, il rispetto degli accordi firmati in precedenza dall’ANP, e così via. La formazione di un governo di tecnici ha però proprio l’obiettivo di sottrarre questa possibilità a Israele, la quale in realtà trema di fronte all’unità nazionale palestinese.

Se Israele ha reagito in questo modo di fronte al semplice annuncio dell’accordo preliminare, cosa farà dopo la formazione del governo palestinese? I palestinesi saranno certamente soggetti a numerose pressioni politiche e finanziarie, che forse arriveranno a toccare gli aiuti finanziari ricevuti dall’ANP ritardando il pagamento degli stipendi degli impiegati. Tuttavia la costituzione di un governo di personalità competenti, non direttamente legate alle fazioni palestinesi, ridurrà la capacità degli israeliani di muovere guerra a tale governo. In ogni caso la possibilità di agire rimane in mano ai palestinesi, i quali fino a settembre possono imporre agli israeliani di chiudere il capitolo del loro attuale governo ostile alla pace, che non è un partner negoziale, ed è un residuato dell’era antecedente alla primavera della libertà araba. Nella misura in cui i regimi sulla cui debolezza Israele ha fatto affidamento per perpetuare la propria occupazione hanno cominciato a crollare, lo Stato ebraico deve inchinarsi alla tempesta araba e riconoscere almeno un livello minimo di diritti per i palestinesi.

Rajab Abu Sirriyeh è un giornalista e scrittore palestinese


Per quasi 20 anni, le politiche di Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono risultate scontate fino alla noia. Questa settimana al Cairo, accettando un accordo che prevede l’unità e la condivisione del potere con Hamas, Fatah ha stupito tutti. È vero che la riconciliazione nazionale palestinese è già stata tentata, fugacemente e senza entusiasmo, a seguito di un’intesa mediata dai sauditi nella primavera del 2007, e che potrebbe di nuovo fallire. Ma questa volta la mossa di Fatah sembra essere una rottura più calcolata e profonda con la prassi del passato, e la prevedibile condanna degli USA sembra pesare meno.

Dalla decisione presa a Algeri nel 1998 che vide il Consiglio Nazionale Palestinese adottare la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, passando per la Dichiarazione dei principi di Oslo del 1993 che riconosceva il diritto all’esistenza di Israele, fino alla ripresa dei negoziati israelo-palestinesi del settembre scorso a Washington DC, l’approccio dell’OLP si può ridurre a una semplice equazione: che una combinazione di atteggiamento conciliante palestinese, ragionato interesse personale da parte israeliana, e influenza americana, avrebbe prevalso sugli squilibri di forza fra Israele e Palestina e portato all’indipendenza palestinese e alla fine dell’occupazione.

Promuovere questa formula era una sfida sul piano dell’immagine per un Yasser Arafat segnato dalle campagne militari, ma questi fu sostituito, oltre sei anni fa, da quel Mahmoud Abbas indiscutibilmente considerato favorevole alla pace. E ancora i palestinesi hanno continuato a ripiegare su questa formula, nonostante il fallimento. Fatah ha portato avanti negoziati senza condizioni, un coordinamento di sicurezza con le forze di difesa israeliane, un processo di sviluppo delle istituzioni statali sotto l’occupazione, con un’inspiegabile fiducia nell’azione di mediazione americana, anche se gli insediamenti si diffondevano nei territori occupati, le elezioni sono state perse a favore di Hamas, e le accuse di collaborazionismo si inasprivano.

L’ultimo risultato della partita che si gioca in Palestina, il fayyadismo (che prende il nome dal primo ministro Salam Fayyad e si basa sull’idea che una buona capacità di governo palestinese indurrebbe Israele al ritiro, o almeno le pressioni della comunità internazionale la costringerebbero a farlo), è destinato a una fine ignominiosa entro questo settembre. Il programma di due anni finalizzato alla costituzione di uno stato avrà avuto successo, ma comunque non potrà far nulla contro l’inamovibile occupazione israeliana.

Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’equazione di un’OLP conciliante non funziona.

L’elemento principale di questa strategia era il dominio esclusivo della mediazione statunitense sul processo di pace. Nei mesi scorsi, i palestinesi si sono lentamente tirati fuori dalle strettoie americane. Abbas si è rifiutato di continuare i negoziati di settembre con Israele quando gli Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere un’estensione della seppur parziale e limitata moratoria sugli insediamenti implementata da Netanyahu. L’OLP ha costretto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad un voto sugli insediamenti, nonostante le pressioni americane, lasciando gli USA da soli con il loro veto e un voto finale di 14 a 1. Le preparazioni per un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dello Stato palestinese procedono rapidamente (ancora, in contrapposizione alla politica americana). In ultimo, e cosa più significativa, Fatah ha raggiunto questo accordo con Hamas.

La divisione dei palestinesi, nei ruoli dei cosiddetti ‘moderati’ contrapposti agli ‘estremisti’, è stata un fondamento della politica USA (e di Israele). Se l’accordo di unità palestinese tiene ( e la cautela è d’obbligo essendo i dettagli dell’accordo ancora da concordare, e data la passata storia di false partenze), non lo sarà più. Non sarebbe accurato attribuire questo sviluppo ad un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione Obama. Piuttosto, questo passaggio si comprende meglio rispetto ad una situazione di attrito, congiuntamente alle nuove realtà regionali nascenti dalla Primavera Araba. L’attrito ha un contesto ovvio: nel corso degli anni, c’è stata un’inarrestabile crescita degli insediamenti israeliani e un persistente controllo sui territori. Quando gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, c’erano 111.000 coloni solo nella Cisgiordania; oggi quel numero supera i 300.000, e il 60% della Cisgiordania e tutta Gerusalemme Est rimangono sotto l’esclusivo controllo israeliano. E c’è stata l’impunità puntualmente garantita ad Israele dagli USA.

Ciò che è cambiato è che, in una regione che sta attraversando un processo di democratizzazione, l’Egitto non riveste più il ruolo di garante dello status quo e sta riscoprendo la capacità di assumere una politica regionale che sia indipendente, costruttiva e recettiva nei confronti della propria opinione pubblica. La svolta nella posizione dell’Egitto era fondamentale per arrivare ad un progresso nella riconciliazione palestinese.

L’accordo Fatah-Hamas incontrerà inevitabilmente una rocciosa opposizione da parte degli USA. Il Congresso potrebbe decidere di interrompere il finanziamento all’Autorità Palestinese, potrebbe essere ritirata l’assistenza sulla sicurezza, e gli slogan politici di Israele (“hanno scelto la pace con i terroristi invece della pace con Israele”) saranno ben recepiti negli ambienti del Campidoglio. Ma, se dovesse tenere, questo accordo di riconciliazione sarà davvero uno sviluppo negativo per i palestinesi, gli USA o anche per Israele?

Per i palestinesi stessi, l’unità interna sembra un prerequisito per la nascita di una nuova struttura e strategia nazionale, nonché per far rivivere un’OLP dotata di legittimazione, potere e rappresentatività. L’unità crea un’interlocuzione palestinese, la possibilità di una posizione più forte nei negoziati, e dà un accesso diretto ad Hamas per impegnarsi nel processo politico, qualora dovesse scegliere di farlo. Sarà decisiva per qualsiasi strategia l’osservanza da parte palestinese del diritto internazionale e, in tale contesto, della non-violenza.

I palestinesi farebbero bene ad evitare una rottura preventiva con gli USA, ma una riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti, inclusa la possibile interruzione degli aiuti americani, sarebbe assai lontana dall’essere un disastro e potrebbe agevolare un approccio più produttivo e intraprendente da parte palestinese per ottenere la propria libertà. L’unità, o addirittura un voto dell’ONU per il riconoscimento, non costituiranno di per sé una strategia pienamente efficace o la fine dell’occupazione. Rimangono sfide enormi: amministrare il coordinamento sulla sicurezza (interna ed esterna), governare un’autorità autonoma limitata che, per poter funzionare, dipende dalla buona volontà di Israele e, non ultimo, alleviare la miseria conseguente all’isolamento di Gaza. L’unità, tuttavia, può essere un primo passo verso lo sviluppo di una strategia palestinese convincente sul piano locale e globale, soprattutto data la nuova prospettiva di un significativo appoggio egiziano.

Per gli USA, la questione israelo-palestinese è un interesse cruciale per la sicurezza nazionale in una regione critica del mondo. Insieme a questo, le peculiarità della politica interna americana in merito a qualunque cosa sia legata ad Israele portano gli USA ad ingabbiarsi e limitare la propria capacità di manovra in questo campo. Troppo spesso il risultato è l’impotenza diplomatica degli americani.

Potrebbero esserci dei vantaggi per gli USA nel vedersi togliere in qualche modo il carico di questo problema, sia che ciò avvenga attraverso un aumento dell’indipendenza palestinese sul piano strategico, attraverso il rafforzamento della diplomazia egiziana, o un maggiore coinvolgimento dell’Europa o delle Nazioni Unite. Tali sviluppi potrebbero migliorare le prospettive di una soluzione, creare aperture per un impegno statunitense più efficace verso Israele, o almeno mitigare il crescente impatto debilitante che questa questione ha sulle posizioni USA in Medio Oriente.

Infine, Israele. E’ improbabile che Israele dia il benvenuto ad una controparte palestinese più indipendente, dotata di capacità strategiche o di maggior potere. Finora, Israele è non meno, ma più insicura ed incerta sul suo futuro. Sotto molti aspetti, l’aggravamento dello squilibrio nell’attuale processo di pace e l’esitazione palestinese sotto il profilo delle strategie dà ad Israele la falsa sensazione di un’impunità permanente e ne ha incoraggiato le tendenze più auto-distruttive (non ultime, quelle verso la costruzione di insediamenti e il nazionalismo intollerante).

C’è ragione di pensare che una correzione nell’atteggiamento da parte dei leader israeliani verso un maggiore realismo, pragmatismo e capacità di compromesso possa emergere in risposta ad un avversario palestinese più difficile, tattico e – si spera – nonviolento.

Daniel Levy è senior fellow presso la New America Foundation e la Century Foundation, dove si occupa delle politiche di pace in Medio Oriente; in precedenza è stato consigliere dell’ufficio del primo ministro israeliano Barak; è stato anche tra i propositori dell’Iniziativa di Ginevra

Etichette: , , ,

Condividi

23 febbraio 2011

Una "giornata della rabbia" per protestare contro il veto Usa a difesa delle colonie israeliane

Come è noto, lo scorso 18 febbraio gli Stati Uniti hanno usato il proprio potere di veto per bloccare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, lungi dall’essere “anti Israele”, si limitava a condannare – secondo quanto previsto dal diritto internazionale umanitario – la continua espansione degli insediamenti colonici.

La bozza di
risoluzione che, in realtà, non era stata presentata solo da “un gruppo di Paesi arabi” (sempre qualche imprecisione, vero cari giornalisti della Repubblica?), ma anche da Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda, Norvegia, Portogallo solo per citare alcune delle nazioni firmatarie, si limitava invero a “riaffermare che le colonie israeliane costruite nei Territori palestinesi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme est, sono illegali e costituiscono il principale ostacolo per il raggiungimento di un accordo di pace giusto, durevole e globale” e a reiterare la richiesta ad Israele “di cessare immediatamente e completamente” ogni attività di espansione di tali insediamenti.

Come si vede, una risoluzione interamente basata sul diritto internazionale, del tutto condivisibile e, soprattutto, dal valore puramente formale, dato che non prevedeva alcuna sanzione nell’immediato nei confronti di Israele.

Ma, ancora una volta, lo strapotere della lobby ebraica e la sua pervasiva capacità di condizionamento della politica estera americana ha indotto gli Stati Uniti ha usare il proprio potere di veto per bloccare la risoluzione, costringendo la rappresentante Usa al Consiglio di Sicurezza ad arrampicarsi sugli specchi.

E, infatti, Susan Rice, se da una parte ha pur dovuto ricordare che gli Stati Uniti “respingono con la massima forza la legittimità” della continua attività di espansione delle colonie, dall’altra ha ribadito che il componimento del conflitto spetta solo ad Israeliani e Palestinesi, e che la risoluzione proposta avrebbe rischiato soltanto di irrigidire la posizione delle due parti.

Tesi, questa, in realtà un po’ bizzarra, perché è semmai l’ostinazione israeliana a costruire e ad ampliare le colonie che impedisce di fare il pur minimo passo verso la pace; non a caso, la responsabile Ue per gli affari esteri, Catherine Ashton, il giorno successivo ha rilasciato un
comunicato ufficiale da cui traspare il disappunto per la posizione assunta dagli Usa: “Rilevo con rammarico che non è stato possibile raggiungere il consenso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla risoluzione relativa agli insediamenti. La posizione della Ue sulle colonie, incluse quelle a Gerusalemme est, è chiara: esse sono illegali secondo il diritto internazionale, sono un ostacolo verso la pace e costituiscono una minaccia per una soluzione a due stati”.

Ma, soprattutto, il punto debole delle argomentazioni della Rice riguarda il fatto che ogni soluzione del conflitto israelo-palestinese andrebbe demandata esclusivamente ai negoziati tra le parti: è vero invece l’esatto contrario, perché non stiamo parlando di due contraenti posti su un piano di parità, ma di un negoziato in cui una delle parti contraenti è infinitamente più debole rispetto all’altra, e dunque necessita di sostegno ed assistenza, soprattutto ove si consideri che null’altro chiede se non il rispetto della legalità internazionale.

L’ennesimo uso del potere di veto, peraltro, rafforza tra i Palestinesi e in tutto il mondo arabo la percezione che gli Usa, in realtà, si adoperino soltanto per garantire gli interessi del loro alleato israeliano, e solo in seconda battuta per raggiungere un equo (ma per chi?) accordo di pace.

Su quest’ultimo aspetto della vicenda si sofferma la corrispondente del Guardian da Gerusalemme, Harriet Sherwood, nell’articolo che segue proposto nella traduzione di
Medarabnews.

I Palestinesi pianificano una “giornata della rabbia” dopo il veto Usa a una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani
di Harriet Sherwood – 20.2.2011

I Palestinesi stanno organizzando una “giornata della rabbia” per venerdì, in risposta al veto statunitense su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che avrebbe condannato gli insediamenti israeliani.

La decisione degli Stati Uniti di usare il veto ha suscitato una reazione furiosa nella West Bank e a Gaza.

Questo fine settimana ci sono state proteste anti-americane nelle città di Betlemme, Tulkarem e Jenin della West Bank in seguito al voto di 14 a 1, con il quale gli Stati Uniti si sono opposti da soli a tutto il Consiglio di Sicurezza, incluse la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. Gli USA hanno fra l’altro votato contro la loro stessa politica.

A Gaza, Hamas ha detto che la posizione degli Stati Uniti è oltraggiosa e ha incalzato affermando che Washington è “completamente dalla parte” di Israele.

Ibrahim Sarsour, un membro arabo-israeliano della Knesset, ha affermato che è giunto il momento di dire a Barack Obama di “andare al diavolo”.

“Non ci si può fidare di Obama”, ha scritto in una lettera aperta al presidente palestinese Mahmoud Abbas. “Sapevamo che le sue promesse erano solo bugie. E’ arrivato il momento di sputare in faccia agli Americani”.

Il ministero degli esteri egiziano ha detto che il veto degli Stati Uniti avrebbe “condotto a un ulteriore indebolimento tra gli Arabi della credibilità degli Stati Uniti come mediatori negli sforzi di pace”.

L’uso del veto, per la prima volta sotto la presidenza Obama, rafforzerà nel mondo arabo la percezione che per gli Stati Uniti la protezione del suo alleato Israele supera la volontà di trovare una giusta soluzione per i Palestinesi all’eterno conflitto.

Questa mossa probabilmente intralcerà gli sforzi statunitensi volti a convincere le parti a ritornare al tavolo dei negoziati, che si erano arenati a settembre proprio sulla questione dell’espansione degli insediamenti.

Con le proteste contro la repressione, la corruzione, il carovita e le disastrose prospettive economiche, che stanno infiammando tutto il Medio Oriente, Washington è consapevole della sfiducia nei confronti degli Stati Uniti diffusa in tutta la regione.

Il primo ministro israeliano, Binyamin Netanyahu, ha dichiarato che il suo paese ha “molto apprezzato” l’uso del veto da parte Stati Uniti.

Tuttavia, alcuni commentatori israeliani hanno avvertito che il voto è servito solo a rafforzare l’isolamento internazionale di Israele e hanno affermato che Washington si aspetterà qualcosa in cambio dal suo alleato. Essi hanno suggerito che gli Stati Uniti non saranno disposti a riutilizzare il veto in un altro caso simile.

La leader dell’opposizione, Tzipi Livni, ha detto che Israele è ora in una situazione di “collasso politico”.

“Scopriamo ora che la Germania, la Gran Bretagna e la Francia – tutti amici di Israele, che la vogliono aiutare a difendersi – hanno votato contro le posizioni di Israele, e che gli Stati Uniti stanno venendo costretti in un angolo, e si trovano, con Israele, contro tutto il mondo”, ha dichiarato.

Il voto di venerdì scorso ha fatto seguito a frenetici sforzi diplomatici per evitare che la risoluzione venisse sottoposta a votazione.

Obama aveva parlato con Abbas per più di 50 minuti giovedì, offrendogli vari incentivi, incluse eventuali dichiarazioni pubbliche, in cambio del ritiro della risoluzione.

Secondo la stampa palestinese, Obama ha anche minacciato di bloccare gli aiuti americani all’Autorità Palestinese se la risoluzione fosse stata presentata.

Anche il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha contattato Abbas venerdì per convincerlo ad abbandonare la risoluzione.

In ogni caso, il presidente palestinese – rendendosi conto degli umori infiammabili nella regione e del contraccolpo che egli avrebbe subito qualora avesse accettato le richieste di Obama – si è rifiutato di tornare sui propri passi. Un funzionario palestinese ha dichiarato alla Reuters che “la gente sarebbe scesa in piazza e avrebbe rovesciato il presidente” se egli avesse ceduto.

Dopo il voto, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza che Washington “è d’accordo con gli altri membri del Consiglio, e con il resto del mondo, sulla follia e l’illegittimità della persistente attività di Israele negli insediamenti”.

Ma ha aggiunto: “Pensiamo che non sia saggio che questo Consiglio tenti di risolvere le questioni essenziali che dividono gli Israeliani ed i Palestinesi”.

Sottolineando la crescente distanza che vi è fra gli Stati Uniti e l’Europa sulla questione israelo-palestinese, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania hanno emesso una dichiarazione congiunta affermando che la costruzione degli insediamenti va contro il diritto internazionale.

Il veto è servito a unire Hamas e Fatah nella condanna del comportamento di Washington. I leader palestinesi stanno considerando la possibilità di presentare una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Harriet Sherwood è corrispondente da Gerusalemme per il Guardian

Etichette: , , , ,

Condividi

9 febbraio 2011

In Medio Oriente, l'appoggio americano genera un potere dispotico.

Le sollevazioni popolari in atto in Medio Oriente, specialmente in Egitto, segnano probabilmente la fine della politica perseguita fino ad oggi dagli Usa nell’area, che ha visto anteporre la lotta all’incombente minaccia del fondamentalismo islamico e, naturalmente, la garanzia della sicurezza di Israele alla libertà, al benessere e al rispetto dei diritti umani delle popolazioni costrette a vivere sotto il tallone dell’oppressione dei regimi semi-dittatoriali amici degli Stati Uniti.

Ciò vale anche e soprattutto per i “cavalli” Abu Mazen e Salam Fayyad su cui hanno puntato gli Usa per tenere a bada Hamas e che hanno portato l’Anp a diventare un vero e proprio braccio operativo dell’occupazione israeliana nella West Bank, un’autorità brutale e repressiva che imprigiona e tortura chiunque sia sospettato di vicinanza all’organizzazione islamica.

Ancora lunedì scorso quattro attivisti di Hamas sono stati arrestati nel villaggio di Assira, uno a Salfit ed un altro a Jenin, mentre a Tulkarem lo Sheikh Hasan Manasra è stato ricoverato in ospedale per le ferite riportate al volto a seguito delle torture inflittegli dai servizi di sicurezza dell’Anp.

Il vero è che l’attuale leadership palestinese ha perso ogni legittimazione sia da un punto di vista formale, essendo ormai scaduto da due anni il mandato elettorale di Abbas, sia da quello sostanziale, dopo che la pubblicazione dei cd. Palestine Papers ha drammaticamente evidenziato come gli attuali dirigenti dell’Autorità palestinese siano pronti ad ogni concessione ad Israele e a svendere i diritti del popolo palestinese pur di mantenere il potere e, soprattutto, l’afflusso dei generosi finanziamenti Usa e Ue.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto da Fadi Elsalameen per il quotidiano israeliano Ha’aretz e qui pubblicato nella traduzione di Medarabnews.

In Meadest, U.S. backing means absolute power
di Fadi Elsalameen – 4.2.2011
I cavalli americani, Salam Fayyad e Mahmoud Abbas, spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.

L’ondata di rivolte popolari che stanno avendo luogo in Medio Oriente manda un chiaro messaggio a coloro che sono – o che aspirano ad essere – al potere nel mondo arabo. Assieme alla serie di documenti segreti recentemente trapelati, tali rivolte dimostrano come non si debba mai puntare sul “cavallo dell’America”.

Il “cavallo dell’America” è il leader arabo sostenuto dagli Stati Uniti, e autorizzato a governare qualora lo ritenga opportuno, purché non minacci la sicurezza di Israele o altri interessi americani nella regione. In cambio, egli è autorizzato a violare i diritti umani e a negare i diritti economici e politici al suo popolo. Con la benedizione dell’America, e sotto la bandiera della lotta al fondamentalismo islamico, può reprimere ogni possibile forma di opposizione.

In tutti i 10 anni trascorsi per studio negli Stati Uniti, ho sognato di tornare in Palestina e di contribuire alla creazione del futuro stato palestinese. Provenendo da un ambiente modesto a Hebron, e avendo avuto il privilegio di studiare in alcune delle migliori università degli Stati Uniti, mi sentivo in dovere di aiutare la mia gente, consapevole di essere stato più fortunato degli amici e fratelli che erano rimasti in Palestina.

Tuttavia, quando lo scorso settembre sono tornato, ho trovato un muro ancora più alto della barriera di separazione israeliana ad impedirmi di aiutare i miei fratelli e le mie sorelle palestinesi. Quel muro era costituito dai “cavalli” palestinesi dell’America: il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad e il presidente Mahmoud Abbas.

Quando ho iniziato a sollevare pubblicamente obiezioni nei confronti dello stato di polizia che si stava formando in Cisgiordania, e contro la paura instillata in coloro che osavano criticare il governo di Fayyad, i servizi segreti hanno cominciato a molestarmi, al punto che non mi sono sentito più al sicuro in Cisgiordania. Anche adesso che sono tornato negli Stati Uniti, ricevo telefonate di minaccia a causa delle mie critiche a Fayyad e Abbas. Molti amici in Palestina sono stati arrestati o convocati per interrogatori da parte di funzionari dell’intelligence palestinese, a causa delle loro critiche a Fayyad e Abbas su Facebook e Twitter.

Quello che si legge sui giornali circa il governo tecnocratico di Fayyad, sulla base di interviste con il primo ministro stesso, non corrisponde alla realtà. Sono colpevole di essere stato tra quelli che hanno ingiustamente elogiato il lavoro di Fayyad. Fayyad offre un approccio teorico molto interessante alla creazione dello stato, ma nella pratica la sua attuazione non potrebbe essere più lontana dai principi di democrazia, trasparenza, libertà e senso di responsabilità. I “cavalli dell’America”, Fayyad e Abbas, mi spiace dirlo, hanno creato uno stato di polizia autoritario che sta attivamente reprimendo lo scontento popolare.

Molti prima di me si sono dovuti scontrare con questa realtà. In effetti, ciò che si vede oggi in Palestina e nel mondo arabo in generale non è che una reazione alle politiche repressive dei “cavalli dell’America” nei confronti di popoli istruiti che sognano le riforme.

I “Palestine Papers” pubblicati da Al Jazeera e dal Guardian non sono emersi perché due insoddisfatti ex dipendenti dell’ANP sono stati incoraggiati a farlo da presunti operatori della CIA e dell’MI6, come ha affermato il negoziatore palestinese Saeb Erekat. Al contrario, essi sono la conseguenza di anni di insoddisfazione vissuti da palestinesi intelligenti, capaci, che hanno studiato in Occidente, e che hanno abbandonato gli stipendi redditizi che avevano negli Stati Uniti per tornare in patria ed avere un ruolo nel processo di pace palestinese e nella costruzione delle istituzioni del futuro stato.

Ma il loro duro lavoro e le loro opinioni sono state completamente ignorate dalla leadership dell’Autorità Palestinese. Come risultato, molti di essi hanno smesso di lavorare per l’ANP e, ispirati da Wikileaks, si sono sentiti in dovere di entrare in contatto con network come Al Jazeera per far luce sulle gravi carenze della leadership di Abbas e dei suoi collaboratori.

Ci saranno altre fughe di notizie che comprometteranno ulteriormente ciò che resta della credibilità dell’Autorità Palestinese fino a quando non vi sarà un serio cambiamento nel processo decisionale, affinché sia più inclusivo e rappresentativo del popolo.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali dovranno riconsiderare il loro approccio nei confronti dei regimi del Medio Oriente. Al “cavallo dell’America” non basterà più usare la bandiera della moderazione e dei valori occidentali, e il pretesto di combattere gli islamisti, per reprimere ogni opposizione. Dopotutto, chiunque nel mondo arabo sa che non è in questo modo che l’America sceglie i propri leader e tratta la propria opposizione politica.

Questo è un momento cruciale per gli Stati Uniti, che dovranno riflettere a lungo e con attenzione sui loro interessi nella regione, osservandoli attraverso la lente dei bisogni e dei desideri delle masse arabe, e non giocando d’azzardo e scommettendo su questo o quel “cavallo” americano. Più gli Stati Uniti e Israele ignoreranno le voci dei giovani arabi che chiedono le riforme, più sarà difficile che essi troveranno in tali giovani degli alleati quando questi ultimi prenderanno il destino nelle proprie mani.

La lezione da trarre è che il “cavallo dell’America” non può vincere la gara. Il presidente Obama ha imparato la lezione? Lo capiremo dal modo in cui sta gestendo la crisi in Egitto – e in Palestina – e dal messaggio che sta inviando alle masse arabe desiderose della libertà politica.

Fadi Elsalameen si occupa dell’American Strategy Program presso la New America Foundation; è anche direttore dei giornali online palestinenote.com e diwanpalestine.com

Etichette: , , , ,

Condividi

25 marzo 2010

Lo scontro Usa-Israele.

Abbiamo già visto come i rapporti tra Usa e Israele, in questi ultime settimane, si siano fortemente deteriorati a causa del massiccio piano di giudaizzazione di Gerusalemme est, rappresentato dalle circa 50.000 unità abitative in vario stadio di realizzazione oltre la cd. “green line”.

Su questo argomento è interessante dare una lettura all’articolo che segue, scritto dal noto analista politico mediorientale Rami G. Khouri per il Jordan Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Medarabnews.

Khouri, in particolare, ci fa riflettere sulla cruciale questione rappresentata dalla capacità degli Stati Uniti di elaborare una autonoma politica per il Medio Oriente che rifletta i veri interessi americani e non sia influenzata dai desiderata di Israele. E, in effetti, mai come adesso gli interessi degli Usa e quelli di Israele sono apparsi così divergenti.

Persino l’attuale capo del Central Command, il generale David Petraeus, ha più volte fatto presente alla Casa Bianca che le attuali politiche di Israele minano gravemente la rete di consensi che gli Usa avevano costruito con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. Petraeus, tra l’altro, ha chiarito come la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese e la sensazione assolutamente prevalente nel mondo arabo dell’atteggiamento sbilanciato degli Usa a favore di Israele rendano oltremodo più facile alle organizzazioni terroristiche reclutare nuovi seguaci, e all’Iran godere di maggior influenza nel mondo arabo.

Il generale americano si preoccupa, in primo luogo, dell’incolumità dei soldati al suo comando, ma naturalmente le sue argomentazioni valgono anche per noi tutti e, soprattutto, per i destini della pace nel mondo.

Come hanno dimostrato nel tempo i vari messaggi registrati dei vertici di al-Qaeda, la continua oppressione del popolo palestinese – che riempie di collera il mondo arabo nei confronti di Israele e dell’Occidente accusato di connivenza – costituisce un formidabile strumento di propaganda e di inesausto proselitismo.

Uri Avnery, giorni addietro, faceva notare che non ci può essere pace senza uno Stato palestinese indipendente, e non può esservi uno Stato palestinese che non abbia Gerusalemme est come capitale. E su questo c’è assoluta unanimità tra i Palestinesi, siano essi di Fatah o di Hamas, tra gli Arabi, dal Marocco all’Iraq, e all’interno dell’intero mondo islamico, dalla Nigeria all’Iran.

Siamo certi della sincerità di Barack Obama, allorquando ha dichiarato che si sarebbe impegnato strenuamente per la pace tra Israeliani e Palestinesi, e siamo consci del fatto che l’influenza delle potentissime lobby ebraiche sui deputati e sui senatori Usa gli impediscono di agire come probabilmente vorrebbe.

Ma è giunto il momento di dare un chiaro segnale a Israele e di porre fine alla continua espansione delle colonie a Gerusalemme est e in tutta la West Bank, anche mediante l’uso di drastici strumenti di pressione. Gli ebrei di Jewish Voice for Peace, in quest’ottica, ci invitano a inviare una email al Presidente Usa, chiedendo la sospensione di ogni aiuto finanziario ad Israele fino a che non ponga fine alla colonizzazione dei Territori occupati e non allenti il criminale assedio alla Striscia di Gaza.

Per dirla come Khouri, un conto è difendere la sovranità e la sicurezza del popolo israeliano, un conto è continuare a difendere un Paese di eterni colonizzatori, di espropriatori di terre, di violatori del diritto internazionale.

The US-Israeli feud.
di Rami G. Khouri
19.3.2010

Sono stato a Boston e a New York, tenendomi informato sulla crisi nelle relazioni israelo-americane, dopo che il governo israeliano (durante la visita ufficiale del vicepresidente americano Joseph Biden) ha fatto due annunci con cui approvava la costruzione di quasi 1.800 nuove unità abitative nelle aree occupate di Gerusalemme e della West Bank (si tratta delle 1.600 abitazioni nel quartiere di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est e delle 112 abitazioni approvate nell’insediamento di Beitar Illit, in Cisgiordania, 10 km a sud di Gerusalemme (N.d.T.) ).

La controversia ha assunto proporzioni notevoli, per quanto riguarda la storia delle relazioni israelo-americane. Raramente funzionari americani di primo piano dichiarano pubblicamente o in privato, come hanno fatto la scorsa settimana, che Israele ha “insultato” gli Stati Uniti, e la accusano di minare deliberatamente i processi di mediazione USA, “condannano” le azioni israeliane o chiedono a Israele di adoperarsi per dimostrare il suo impegno a favore dei negoziati di pace israelo-palestinesi, che stanno per essere avviati con la mediazione americana.

Tutto questo rappresenta una certa novità, ma sarebbe anche piuttosto insignificante qualora la polemica risulti essere solo un altro piccolo incidente di percorso lungo un altrimenti solido rapporto bilaterale fra America e Israele, nel corso del quale gli interessi della destra israeliana e i lobbisti di Washington hanno determinato per decenni la politica USA in Medio Oriente.

Che l’attuale controversia sia seria, è chiaro; quali siano le sue possibili conseguenze, non lo è.

In questa vicenda i palestinesi e gli arabi sono in gran parte osservatori silenziosi, proprio come sono stati vittime inerti e persone invisibili nel complessivo progetto di colonizzazione sionista che continua ad arraffare e ad inghiottire territori palestinesi.

Così l’attenzione si focalizza sui due protagonisti e sulle due questioni cruciali, rivelando la posta in gioco: Israele e la sua perenne colonizzazione delle terre arabe, e la capacità statunitense di prendere decisioni politiche sul Medio Oriente in totale autonomia.

Sarebbe limitato considerare questo contrasto come qualcosa che riguarda essenzialmente le probabilità di avviare i “colloqui di prossimità” questa settimana, come programmato. La questione è molto più profonda, riguarda il cuore del conflitto nazionalista fra arabi e israeliani e la relazione esclusiva fra Stati Uniti e Israele.

Gli arabi e i palestinesi ritengono di aver fatto ogni concessione loro richiesta, incluso riconoscere il diritto ad esistere d’Israele, accettare di negoziare e di vivere in pace con lo Stato ebraico, e acconsentire a una risoluzione del problema dei profughi palestinesi che sia negoziata e concordata con Israele (ovvero, accettare che solo un numero limitato e prestabilito di profughi ritornerà nella propria casa nel territorio palestinese incluso nell’odierna Israele). Se si deve arrivare alla pace, un passo avanti ora lo deve compiere Tel Aviv.

La faccenda degli insediamenti è così opprimente poiché riguarda le due questioni chiave in gioco: le politiche israeliane di colonizzazione e la subordinazione dell’America a Israele.

La polemica in corso è importante anche per la sua capacità di generare cambiamenti in merito a questi punti critici.

La prima questione è se esiste una linea di distinzione fra Israele come patria del popolo ebraico, con cui i palestinesi possono convivere in stati adiacenti, e Israele come progetto di perpetua colonizzazione sionista che rifiuta di accettare lo stato di diritto, così come definito dalle convenzioni internazionali sui diritti umani e dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Israele rivendica il diritto di costruire insediamenti e di colonizzare tutto il territorio dell’Israele biblica, e afferma che l’intera Gerusalemme è la sua capitale eterna e indivisibile. I suoi insediamenti/colonie rappresentano un simbolo dinamico della sua totale mancanza di considerazione per il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite, nonché una conferma della sua ostinazione, tipica di uno stato di apartheid, a godere di diritti maggiori rispetto ai palestinesi e agli arabi che vivono nella loro stessa terra.

Ad un certo punto, dopo 115 anni di sionismo moderno, gli ebrei e gli israeliani dovranno chiarire al mondo e a sé stessi se sono un insieme di eterni colonizzatori, di violatori del diritto internazionale e di espropriatori, o uno stato che cerca solo di permettere alla popolazione ebraica di vivere in pace, in sicurezza e nella normalità, nella terra a cui essa è legata sin da quando emerse come un popolo distinto, migliaia di anni fa.

La seconda questione che l’attuale controversia potrebbe chiarire è se gli Stati Uniti siano capaci di formulare una politica per il Medio Oriente che rifletta interessi nazionali autenticamente americani. Gli Stati Uniti possono abbandonare la loro abitudine di sottomettersi al ricatto, al terrorismo ideologico e all’intimidazione dei gruppi pro-Israele nei confronti dei politici americani, che temono di essere sollevati dal loro incarico se si discostano dalle posizioni israeliane?

Gli Stati Uniti hanno contrastato le opinioni e le prese di posizione d’Israele davvero molto raramente. Soltanto una o due volte nella storia contemporanea, gli Stati Uniti hanno costretto Israele a fare qualcosa che il paese si rifiutava di fare, come nel caso del ritiro dal Sinai nel 1956. Potremmo essere in una di quelle rare circostanze in cui gli Stati Uniti (adesso offesi e irritati) faranno veramente pressione su Israele affinché congeli totalmente gli insediamenti, con l’obiettivo di far ripartire i negoziati indiretti con i palestinesi.

Ci troviamo in un territorio inesplorato, ma anche in un ambito politico della massima importanza, dove la natura delle nazioni, e la determinazione politica degli uomini e delle donne che le governano, si trovano seriamente sotto esame per la prima volta nell’arco di due generazioni.

Rami G. Khouri è un analista politico di origine giordano-palestinese e di nazionalità americana; è direttore dell’Issam Fares Institute of Public Policy and International Affairs presso l’American University di Beirut, ed è direttore del quotidiano libanese “Daily Star”.

Etichette: , , , ,

Condividi

24 marzo 2010

I veri amici di Israele (e, soprattutto, della pace).

In concomitanza con la visita in Israele del Vice Presidente Usa Biden, il 9 marzo scorso, sono stati resi noti in una sequenza impressionante i piani dell’ulteriore, massiccia colonizzazione israeliana di Gerusalemme e dei suoi sobborghi, il che ha creato seri attriti tra l’amministrazione Obama e il governo israeliano.

L’8 marzo, le autorità israeliane hanno dato il via libera alla costruzione di 112 nuove unità abitative nell’insediamento di Beitar Illit, a ovest di Betlemme, venendo meno persino a quella minima promessa di “congelamento” per 10 mesi delle nuove costruzioni nelle colonie della West Bank.

Il 9 marzo, tanto per render chiaro a Biden come stavano le cose, il Ministro degli Interni israeliano ha reso nota l’approvazione di 1.600 nuovi appartamenti a Gerusalemme est. Queste costruzioni, stando ad Ha’aretz, dovrebbero sorgere nel quartiere ultra-ortodosso di Ramat Shlomo, al fine di assicurarne l’espansione verso est e verso sud.

L’11 marzo, il quotidiano israeliano Ha’aretz ha svelato come oltre 50.000 nuove abitazioni, da edificare nei quartieri di Gerusalemme oltre la “linea verde”, siano in vario grado di pianificazione e di approvazione. Alcuni di questi piani sono ormai in fase avanzata di attuazione e si tratta, in particolare, di: 3.000 abitazioni nella colonia di Gilo, 1.500 ad Har Homa, 1.500 a Pisgat Ze’ev, 3.500 a Givat Hamatos, 1.200 a Ramot, 600 ad Armon Hanetziv e 450 nella colonia di Neveh Yaakov. In aggiunta risulta programmata la costruzione di un nuovo quartiere di ben 13.000 unità abitative nei pressi del villaggio di al-Walajah, a nord-ovest di Betlemme, che domina Gerusalemme.

L’annuncio di questa imponente mole di nuove costruzioni ha di colpo reso molto tesi i rapporti tra gli Usa ed Israele, ben esemplificati dal botta e risposta tra Hillary Clinton e il premier israeliano “Bibi” Netanyahu al congresso dell’Aipac, la (tristemente) nota e potente lobby ebraica statunitense. Alla Clinton che sosteneva che le colonie sono un ostacolo e che Israele deve compiere “scelte difficili” per raggiungere la pace con i Palestinesi, Netanyahu ha infatti replicato che “Gerusalemme non è una colonia, è la capitale di Israele”.

Su questo argomento, è apparso in questi giorni un articolo redazionale del sito Medarabnews, che bene sintetizza tutte le questioni sul tappeto e che vi propongo qui di seguito.

Qui voglio soltanto aggiungere una cosa. La costruzione di abitazioni in territorio occupato, a Gerusalemme est come nella West Bank, non è solo un “ostacolo”, non è sufficiente dire che “non aiutano” o usare le similari formulette adoperate in passato dalle varie amministrazioni americane. Costruire in territorio occupato è immorale e illegale, e costituisce un vero e proprio crimine di guerra per aperta violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

E questo lo ha ricordato solo il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon

Ma persino il generale David Petraeus ha ritenuto di intervenire sottolineando i pericoli che potrebbero derivare agli Stati Uniti dalle politiche dissennate di Israele. Secondo Petraeus, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese e la sensazione assolutamente prevalente nel mondo arabo dell’atteggiamento sbilanciato degli Usa a favore di Israele rende più facile alle organizzazioni terroristiche reclutare nuovi seguaci, e all’Iran di godere di maggior influenza nel mondo arabo.

Petraeus ha assolutamente ragione, ma lui teme per la sicurezza delle truppe americane, noi temiamo, piuttosto, per la nostra sicurezza e per i destini della pace nel mondo.

“Nella lite sugli insediamenti, chi sono i veri amici di Israele?”, si è chiesto qualche giorno fa, dalle pagine del Washington Post, Stephen M. Walt, professore di Relazioni Internazionali all’Università di Harvard, in merito alla crisi scoppiata fra Washington e Tel Aviv a seguito dell’annuncio israeliano di un piano edilizio per la costruzione di 1.600 abitazioni a Gerusalemme Est.

La disputa ha suscitato un intenso dibattito negli Stati Uniti, fra coloro che hanno valutato positivamente la reazione dell’amministrazione Obama e coloro che l’hanno invece aspramente criticata, ritenendola indegna di uno stretto alleato di Israele.

Su posizioni molto critiche nei confronti di Obama si sono schierati l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) – la principale e più potente lobby filo-israeliana negli USA – ed altri gruppi fra cui l’ Anti-Defamation League, a cui bisogna aggiungere un consistente blocco di membri del Congresso, non solo repubblicani ma anche democratici.

A sostegno della posizione adottata dalla Casa Bianca si sono schierati gruppi filo-israeliani pacifisti come J Street e Americans for Peace Now. Degna di nota è anche la posizione espressa dal generale David Petraeus, attualmente a capo dello U.S. Central Command (la cui area di responsabilità copre tutto il Medio Oriente, fino all’Asia centrale, con l’esclusione di Israele e dei Territori palestinesi). Petraeus ha affermato che la sicurezza delle truppe americane in Medio Oriente è messa in pericolo dal conflitto israelo-palestinese.

Questo conflitto alimenta sentimenti anti-americani, secondo Petraeus, a causa di quello che viene percepito in Medio Oriente come un atteggiamento parziale degli Stati Uniti a favore di Israele. Il generale americano ha affermato che la collera suscitata nei paesi arabi dall’irrisolta questione palestinese rende più facile ad al-Qaeda e ad altri gruppi estremisti il compito di reclutare nuovi seguaci, e permette all’Iran di avere maggiore influenza nel mondo arabo.

La crisi di questi giorni ha dunque messo in evidenza una crescente spaccatura all’interno della comunità filo-israeliana negli Stati Uniti, fra difensori dello “status quo” e sostenitori della soluzione dei due stati. Questi ultimi sono stati accusati dai primi – che si ritengono i “veri amici di Israele” – di aver adottato un atteggiamento che danneggerebbe gli interessi di Tel Aviv.

In questo caso – sostiene tuttavia il prof. Walt, nell’articolo sopra citato – sono il presidente Obama e coloro che lo appoggiano ad avere realmente a cuore i veri interessi di Israele e degli Stati Uniti. Si possono condividere o meno le tattiche dell’amministrazione Obama – afferma in sostanza Walt – ma essa è seriamente impegnata a realizzare la soluzione dei due stati, e questo può essere ben difficilmente considerato un atto ostile nei confronti di Israele.

D’altra parte, come afferma Ron Kampeas, direttore degli uffici di Washington della Jewish Telegraphic Agency (JTA), quando in passato si sono manifestate aspre divergenze fra gli Stati Uniti ed Israele, e gli americani hanno esercitato pressioni reali nei confronti del loro stretto alleato mediorientale, il risultato è sempre stato vantaggioso per Tel Aviv.

Nel 1978, il presidente americano Jimmy Carter ed il primo ministro israeliano Menachem Begin si scontrarono duramente perché quest’ultimo si rifiutava di fermare la costruzione degli insediamenti. Tuttavia, gli sforzi di Carter portarono agli accordi di Camp David che avrebbero aperto la strada alla firma del trattato di pace fra Egitto e Israele nel 1979.

Nel 1991, ci fu un duro scontro fra l’amministrazione guidata da George H.W. Bush ed il governo Shamir, che l’anno successivo portò alla sconfitta elettorale di quest’ultimo ed all’elezione di Yitzhak Rabin, la quale aprì la strada agli accordi di Oslo ed alla pace fra Giordania ed Israele.

Malgrado questi fatti del passato, coloro che negli Stati Uniti si definiscono i “veri amici di Israele” hanno aspramente criticato l’amministrazione Obama per la sua reazione, ritenuta troppo dura, soprattutto se paragonata alla sua “scarsa determinazione” nell’affrontare la questione iraniana. Contro l’Iran vuole focalizzare l’attenzione, in particolare, l’AIPAC, la cui conferenza annuale si è tenuta proprio in questi giorni. Alla luce della “minaccia iraniana”, la condanna della Casa Bianca nei confronti del governo israeliano è stata definita “un regalo ai nemici di Tel Aviv”.

Ramat Shlomo, il sobborgo di Gerusalemme Est nel quale dovrebbero essere costruite le 1.600 unità abitative annunciate dal governo Netanyahu, è un quartiere ebraico che rimarrà a Israele anche in un futuro accordo di pace – sostengono coloro che si sono schierati dalla parte del primo ministro israeliano, criticando i passi compiuti dalla Casa Bianca.

Del resto, anche coloro che spingono per un maggiore impegno americano a favore del processo di pace non hanno risparmiato critiche all’amministrazione Obama, accusata di non avere una strategia precisa. Aaron David Miller, consulente di ben sei segretari di stato in merito ai negoziati israelo-palestinesi, ha affermato che una serie di dure prese di posizione da parte della Casa Bianca non costituiscono necessariamente una politica compiuta.

Che la strategia seguita dall’amministrazione Obama sia stata fino a questo momento poco coerente è un fatto difficilmente contestabile – sostengono altri – tuttavia l’obiettivo finale di spingere il governo israeliano a fare maggiori concessioni in vista di un negoziato produttivo è assolutamente condivisibile.

Dal canto loro, molti commentatori arabi ritengono che l’attuale crisi fra Washington e Tel Aviv sia “una tempesta in un bicchier d’acqua”, e che le divergenze saranno ben presto ricomposte, magari avviando colloqui israelo-palestinesi indiretti che avranno l’unico scopo di “guadagnare tempo”, senza portare a nessun risultato concreto.

E in effetti, i “gesti di buona volontà” nei confronti dei palestinesi, promessi da Netanyahu all’amministrazione americana, sono talmente trascurabili da far temere che l’esito di qualsiasi negoziato sarà inevitabilmente il fallimento.

Se le prospettive di una svolta positiva nel processo di pace israelo-palestinese appaiono scarse, la realtà sul terreno rischia invece di diventare esplosiva.

Mentre l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Catherine Ashton, di ritorno dalla sua visita a Gaza avrebbe definito la situazione laggiù “peggiore di Haiti”, in Cisgiordania la tensione cresce di giorno in giorno, con una serie di incidenti che ultimamente hanno portato all’uccisione di alcuni palestinesi, e con un’intifada strisciante a Gerusalemme.

Alla luce di questa situazione, sembrano aver ragione coloro che affermano che la reazione dell’amministrazione americana all’annuncio israeliano del piano edilizio di Ramat Shlomo, se non nella forma, sia corretta nella sostanza – ovvero, sia la giusta reazione di un alleato ed amico che vuole mettere in guardia il governo israeliano.

Infatti, se la costruzione di alcune abitazioni in un quartiere ebraico può apparire poco significativa, come hanno sostenuto molti commentatori israeliani, essa acquista ben altro peso se la si considera nel contesto della situazione complessiva esistente a Gerusalemme Est ed in Cisgiordania.

Tale decisione appare inoltre di una maggiore gravità se si tiene conto che fa parte di un pacchetto ben più ampio, di circa 50.000 unità abitative che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, dovrebbero essere costruite nei prossimi anni a Gerusalemme Est.

Questa pianificazione edilizia, del resto, è in perfetta armonia con la volontà di Netanyahu di considerare Gerusalemme capitale eterna e indivisibile dello stato di Israele, e come tale non facente parte del processo negoziale. Questo concetto è stato ribadito dal primo ministro israeliano alla conferenza dell’AIPAC a Washington, quando egli ha affermato: “Gerusalemme non è un insediamento; è la nostra capitale”.

Netanyahu sembra aver dimenticato, drammaticamente, che Gerusalemme dovrebbe essere non solo la capitale di Israele, ma anche del futuro stato palestinese. Chiunque abbia una minima dimestichezza con il conflitto arabo-israeliano sa bene che nessun leader palestinese o arabo potrà mai accettare una pace che comporti la rinuncia a Gerusalemme Est.

L’affermazione di Netanyahu che “costruire a Gerusalemme è come costruire a Tel Aviv” rappresenta il totale disconoscimento del significato che ha Gerusalemme (non solo per l’ebraismo, ma anche per le altre grandi fedi monoteiste), e in particolare di ciò che essa rappresenta per gli arabi ed i musulmani.

Come ha scritto Doron Rosenblum sul quotidiano Haaretz, quando Netanyahu guarda a Gerusalemme, non sembra considerare “la città reale, con i suoi problemi geo-demografici e con le soluzioni pratiche che sono necessarie nel quadro di un accordo complessivo, ma la cosiddetta Gerusalemme celeste”, una Gerusalemme mitica che tuttavia è drammaticamente lontana dalla città reale con i suoi problemi di oggi.

A Gerusalemme Est e in Cisgiordania, ovvero in quello che dovrebbe essere il futuro stato palestinese, vivono ormai più di 500.000 coloni israeliani. Nonostante il parziale congelamento degli insediamenti, la colonizzazione non si è fermata del tutto, e ci si attende una sua ripresa a settembre, quando scadranno i dieci mesi di sospensione decretati dal governo.

Alcune misure approvate ultimamente dal governo israeliano hanno contribuito ad accrescere la tensione in Cisgiordania. Il 13 dicembre 2009 è stata approvata la risoluzione sulle Aree di Priorità Nazionale (NPA). Queste aree comprendono anche diversi insediamenti in Cisgiordania, ovvero in territorio palestinese. Lo scorso 23 febbraio il governo ha inserito nella lista di siti che appartengono al “patrimonio nazionale di Israele” anche la Tomba dei Patriarchi a Hebron e la Tomba di Rachele a Betlemme, entrambi situati in Cisgiordania, ed entrambi luoghi sacri anche per i musulmani.

Questi ed altri provvedimenti, insieme all’espansione complessiva degli insediamenti, non possono che convincere i palestinesi e gli arabi che Israele vuole mantenere il controllo sulla Cisgiordania, facendo svanire qualunque speranza di un futuro stato palestinese indipendente ed in grado di sopravvivere.

L’alternativa che si profila alla soluzione dei due stati, non soltanto è drammatica per i palestinesi, ma non lascia presagire nulla di buono nemmeno per gli israeliani. Mantenere il controllo della Cisgiordania e continuare a portare avanti la colonizzazione significa infatti porre Israele davanti a due alternative: diventare uno stato bi-nazionale, concedendo i pieni diritti alla popolazione palestinese all’interno dello stato israeliano (che così cesserebbe di essere uno stato a maggioranza ebraica); oppure continuare a negare ai palestinesi i loro diritti, trasformando così Israele in uno stato non democratico – quello che lo stesso ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha definito “uno stato di apartheid”.

La seconda ipotesi appare essere la più probabile, tenendo conto del fatto che la maggioranza degli israeliani non sembra disposta a rinunciare al carattere ebraico del proprio stato. Questa prospettiva, inoltre, non appartiene a un futuro lontano, ma, secondo molti osservatori, è una realtà concreta già oggi in Cisgiordania, dove, tanto per fare un esempio, i villaggi di Bil’in e Na’alin sono stati dichiarati zone militari chiuse la scorsa settimana, allo scopo di impedire le manifestazioni (rigorosamente pacifiche) organizzate dagli abitanti di questi villaggi per protestare contro il muro di separazione eretto dagli israeliani (definito una violazione del diritto internazionale dalla Corte Internazionale di Giustizia).

Alla luce di questi dati, sembra aver ragione il prof. Walt quando, nell’articolo del Washington Post precedentemente citato, afferma che i gruppi che negli Stati Uniti si oppongono al congelamento di tutti gli insediamenti, e che sono favorevoli al mantenimento dello “status quo”, sono in realtà falsi amici di Israele, perché le posizioni che essi sostengono “spingono Israele a proseguire lungo la pericolosa strada che ha intrapreso”.

Etichette: , , ,

Condividi