Esecuzioni sommarie.
Tra sabato 12 e lunedì 14 novembre, nel corso di due separate azioni militari, le truppe israeliane hanno ucciso due militanti palestinesi, e in entrambi i casi, con molta probabilità, si è trattato di vere e proprie esecuzioni sommarie.
Nella notte tra sabato e domenica, alcuni paracadutisti israeliani stavano pattugliando la strada che congiunge Nablus a Jenin; giunti all’ingresso meridionale di Jenin, città situata nel nord della Cisgiordania, i soldati di Tsahal aprivano il fuoco contro tre Palestinesi armati, ferendo lievemente uno di essi.
Il ferito, il 21enne Shojua Bilawi, un militante delle brigate al-Aqsa, riusciva dapprima a nascondersi dietro una siepe, ma veniva quasi subito localizzato dalle truppe israeliane, mediante l’utilizzo di un cane addestrato.
Secondo lo stesso rapporto delle forze armate israeliane, Bilawi era in terra ferito, gridava e si contorceva per il dolore, e il suo kalashnikov d’assalto era già stato ritrovato, ma poiché i soldati temevano che avesse un’altra arma nascosta, e ritenendo i suoi movimenti “sospetti” (!), gli hanno comunque sparato addosso a distanza ravvicinata, uccidendolo sul colpo.
Secondo una prima, sommaria inchiesta delle autorità militari israeliane, Bilawi era a 15 metri dalle truppe, nascosto da una siepe, e i soldati di Tsahal non potevano sapere se fosse o no armato: la sua uccisione, dunque, è stata “appropriata”.
Secondo fonti mediche palestinesi dell’ospedale Khalil Suleiman di Jenin, tuttavia, il militante palestinese è stato ucciso da numerosi colpi alla testa, al petto e all’addome, tutti sparati da distanza ben più ravvicinata dei 15 metri citati dal rapporto israeliano.
Una vera e propria liquidazione sommaria di un ferito, dunque, barbara ed atroce, avvenuta proprio in quella cittadina di Jenin che, nell’aprile del 2002, fu teatro di un attacco militare senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, che provocò la morte di 52 Palestinesi, di cui almeno 22 civili inermi e assolutamente non coinvolti nei combattimenti.
Anche allora Tsahal ebbe a macchiarsi di quelli che Human Rights Watch definì “chiari crimini di guerra”, come le esecuzioni sommarie di Jamal al-Sabbagh e di Munthir al-Haj, giustiziato mentre era in terra ferito, con entrambe le braccia rotte e disarmato (cfr. sul punto http://hrw.org/reports/2002/israel3/, il report di hrw sull’accaduto, un’ottima lettura per chi voglia avere un quadro esaustivo delle modalità di “combattimento” dell’esercito israeliano).
Nel secondo “incidente”, avvenuto a Nablus nelle prime ore della mattina, paracadutisti israeliani, polizia delle squadre anti-terrorismo, membri dell’unità anti-guerriglia della Duvdevan e del battaglione di fanteria Haruv, con l’appoggio di una quindicina di automezzi, compivano un raid mirato all’arresto di militanti palestinesi dell’area.
Nel corso dell’operazione, durante la quale secondo fonti palestinesi sono stati utilizzati dei civili come “scudi umani”, è stato ucciso il 33enne Amjad Rasheed al-Hinnawi, responsabile locale delle Brigate Izzedin al-Qassam, l’ala militare del movimento Hamas.
Secondo fonti militari israeliane, al-Hinnawi è stato ucciso mentre cercava di scappare, dopo aver aperto il fuoco contro i soldati di Tsahal, e tuttavia anche in questo caso – come riportato da Ha’aretz – sul cadavere del Palestinese è stato riscontrato un sospetto colpo di arma da fuoco alla testa, sparato a distanza ravvicinata.
Anche quando non assumono la veste di esecuzioni sommarie – che rappresentano evidenti crimini di guerra – le esecuzioni extra-giudiziarie equivalgono alla condanna a morte di un essere umano senza un regolare processo e senza che gli sia consentita la possibilità di difendersi; come tali, questi veri e propri assassinii sono vietati dal diritto internazionale, ed in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949 e dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966.
Questo senza contare i numerosi casi in cui le esecuzioni extra-giudiziarie – condotte con metodi ed armi altamente letali e distruttivi – coinvolgono anche civili inermi ed innocenti, come nel caso del raid aereo israeliano del 27 ottobre nel campo profughi di Jabalya, che ha provocato la morte di due militanti delle Brigate al Quds, Shadi Suhail Muhanna e Mohammed Ghazaineh, ma anche quella di cinque incolpevoli passanti, mentre altri 19 civili palestinesi sono rimasti feriti (vedi “L’infame vendetta di Israele”, 1 novembre).
Più in generale, nel corso della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha eseguito ben 490 esecuzioni extra-giudiziarie, che hanno comportato, tra l’altro, la morte di 169 civili Palestinesi del tutto estranei e non appartenenti ad alcuna organizzazione, inclusi 54 minori di 18 anni (dati fonte PCHR).
E questa carneficina, purtroppo, non pare destinata ad arrestarsi.
Mentre, infatti, fioccavano le dichiarazioni di riprovazione e di sdegno per le frasi pronunciate dal Presidente iraniano Ahmadinejad contro Israele (nel corso di un convegno intitolato “Un mondo senza sionismo”), nessuno ha avuto niente da ridire quando l’8 novembre, davanti alla Commissione Difesa ed Esteri della Knesset, il Capo di Stato Maggiore israeliano Dan Halutz ha affermato che Israele avrebbe continuato con la sua politica di esecuzioni extra-giudiziarie (“targeted killings” come le definisce l’Idf), dato che essa “ha dimostrato la sua efficacia nell’impedire le attività terroristiche” (Ha’aretz, 9.11.2005).
Né risulta che alcun Capo di Stato, Ministro degli Esteri o qualsivoglia altra personalità politica del mondo occidentale abbia protestato ufficialmente quando Sharon, riportato sempre da Ha’aretz, ha dichiarato a sua volta alla Commissione che gli “omicidi mirati” e la pressione militare sulle organizzazioni terroristiche continuerà anche in futuro.
Eppure la road map, già nella sua prima fase, “esige la fine della violenza contro i Palestinesi, ovunque…”, ed obbliga il Governo di Israele a non “intraprendere alcuna azione … come le deportazioni, gli attacchi contro civili, la confisca e/o la demolizione di case e proprietà del popolo palestinese”.
Eppure, come ha ricordato, da ultimo, in una dichiarazione ufficiale del 28 ottobre il Segretario generale dell’Onu Annan, “le esecuzioni extra-giudiziarie sono contrarie al diritto internazionale”.
Eppure la stessa Unione Europea, con una dichiarazione ufficiale di Jack Straw del 7 novembre, aveva chiesto ad Israele di “astenersi da tutte le esecuzioni extra-giudiziarie, che sono contrarie al diritto internazionale”.
Ma di tutto questo in Italia, nel dibattito politico e sui media di regime, non si trova alcuna traccia.
In questi giorni, è giunto in visita istituzionale in Italia il Presidente israeliano Katsav.
Il nostro Presidente Ciampi, nel discorso ufficiale di accoglienza, a proposito di Israele ha affermato che “la sua sicurezza deve essere pienamente tutelata”; il Presidente del Consiglio Berlusconi si è spinto più in là, giungendo ad auspicare un ingresso di Israele nella Ue.
Forse sarebbe stato meglio, al di là delle frasi di rito, delle banalità e delle battute di spirito, che qualcuno avesse ricordato al Presidente Katsav che anche Israele ha l’obbligo di conformarsi alla legalità internazionale, e che la strada della pace comporta anche, necessariamente, la cessazione del quotidiano massacro di civili ed il riconoscimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese.
Nella notte tra sabato e domenica, alcuni paracadutisti israeliani stavano pattugliando la strada che congiunge Nablus a Jenin; giunti all’ingresso meridionale di Jenin, città situata nel nord della Cisgiordania, i soldati di Tsahal aprivano il fuoco contro tre Palestinesi armati, ferendo lievemente uno di essi.
Il ferito, il 21enne Shojua Bilawi, un militante delle brigate al-Aqsa, riusciva dapprima a nascondersi dietro una siepe, ma veniva quasi subito localizzato dalle truppe israeliane, mediante l’utilizzo di un cane addestrato.
Secondo lo stesso rapporto delle forze armate israeliane, Bilawi era in terra ferito, gridava e si contorceva per il dolore, e il suo kalashnikov d’assalto era già stato ritrovato, ma poiché i soldati temevano che avesse un’altra arma nascosta, e ritenendo i suoi movimenti “sospetti” (!), gli hanno comunque sparato addosso a distanza ravvicinata, uccidendolo sul colpo.
Secondo una prima, sommaria inchiesta delle autorità militari israeliane, Bilawi era a 15 metri dalle truppe, nascosto da una siepe, e i soldati di Tsahal non potevano sapere se fosse o no armato: la sua uccisione, dunque, è stata “appropriata”.
Secondo fonti mediche palestinesi dell’ospedale Khalil Suleiman di Jenin, tuttavia, il militante palestinese è stato ucciso da numerosi colpi alla testa, al petto e all’addome, tutti sparati da distanza ben più ravvicinata dei 15 metri citati dal rapporto israeliano.
Una vera e propria liquidazione sommaria di un ferito, dunque, barbara ed atroce, avvenuta proprio in quella cittadina di Jenin che, nell’aprile del 2002, fu teatro di un attacco militare senza precedenti da parte dell’esercito israeliano, che provocò la morte di 52 Palestinesi, di cui almeno 22 civili inermi e assolutamente non coinvolti nei combattimenti.
Anche allora Tsahal ebbe a macchiarsi di quelli che Human Rights Watch definì “chiari crimini di guerra”, come le esecuzioni sommarie di Jamal al-Sabbagh e di Munthir al-Haj, giustiziato mentre era in terra ferito, con entrambe le braccia rotte e disarmato (cfr. sul punto http://hrw.org/reports/2002/israel3/, il report di hrw sull’accaduto, un’ottima lettura per chi voglia avere un quadro esaustivo delle modalità di “combattimento” dell’esercito israeliano).
Nel secondo “incidente”, avvenuto a Nablus nelle prime ore della mattina, paracadutisti israeliani, polizia delle squadre anti-terrorismo, membri dell’unità anti-guerriglia della Duvdevan e del battaglione di fanteria Haruv, con l’appoggio di una quindicina di automezzi, compivano un raid mirato all’arresto di militanti palestinesi dell’area.
Nel corso dell’operazione, durante la quale secondo fonti palestinesi sono stati utilizzati dei civili come “scudi umani”, è stato ucciso il 33enne Amjad Rasheed al-Hinnawi, responsabile locale delle Brigate Izzedin al-Qassam, l’ala militare del movimento Hamas.
Secondo fonti militari israeliane, al-Hinnawi è stato ucciso mentre cercava di scappare, dopo aver aperto il fuoco contro i soldati di Tsahal, e tuttavia anche in questo caso – come riportato da Ha’aretz – sul cadavere del Palestinese è stato riscontrato un sospetto colpo di arma da fuoco alla testa, sparato a distanza ravvicinata.
Anche quando non assumono la veste di esecuzioni sommarie – che rappresentano evidenti crimini di guerra – le esecuzioni extra-giudiziarie equivalgono alla condanna a morte di un essere umano senza un regolare processo e senza che gli sia consentita la possibilità di difendersi; come tali, questi veri e propri assassinii sono vietati dal diritto internazionale, ed in particolare dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949 e dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966.
Questo senza contare i numerosi casi in cui le esecuzioni extra-giudiziarie – condotte con metodi ed armi altamente letali e distruttivi – coinvolgono anche civili inermi ed innocenti, come nel caso del raid aereo israeliano del 27 ottobre nel campo profughi di Jabalya, che ha provocato la morte di due militanti delle Brigate al Quds, Shadi Suhail Muhanna e Mohammed Ghazaineh, ma anche quella di cinque incolpevoli passanti, mentre altri 19 civili palestinesi sono rimasti feriti (vedi “L’infame vendetta di Israele”, 1 novembre).
Più in generale, nel corso della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha eseguito ben 490 esecuzioni extra-giudiziarie, che hanno comportato, tra l’altro, la morte di 169 civili Palestinesi del tutto estranei e non appartenenti ad alcuna organizzazione, inclusi 54 minori di 18 anni (dati fonte PCHR).
E questa carneficina, purtroppo, non pare destinata ad arrestarsi.
Mentre, infatti, fioccavano le dichiarazioni di riprovazione e di sdegno per le frasi pronunciate dal Presidente iraniano Ahmadinejad contro Israele (nel corso di un convegno intitolato “Un mondo senza sionismo”), nessuno ha avuto niente da ridire quando l’8 novembre, davanti alla Commissione Difesa ed Esteri della Knesset, il Capo di Stato Maggiore israeliano Dan Halutz ha affermato che Israele avrebbe continuato con la sua politica di esecuzioni extra-giudiziarie (“targeted killings” come le definisce l’Idf), dato che essa “ha dimostrato la sua efficacia nell’impedire le attività terroristiche” (Ha’aretz, 9.11.2005).
Né risulta che alcun Capo di Stato, Ministro degli Esteri o qualsivoglia altra personalità politica del mondo occidentale abbia protestato ufficialmente quando Sharon, riportato sempre da Ha’aretz, ha dichiarato a sua volta alla Commissione che gli “omicidi mirati” e la pressione militare sulle organizzazioni terroristiche continuerà anche in futuro.
Eppure la road map, già nella sua prima fase, “esige la fine della violenza contro i Palestinesi, ovunque…”, ed obbliga il Governo di Israele a non “intraprendere alcuna azione … come le deportazioni, gli attacchi contro civili, la confisca e/o la demolizione di case e proprietà del popolo palestinese”.
Eppure, come ha ricordato, da ultimo, in una dichiarazione ufficiale del 28 ottobre il Segretario generale dell’Onu Annan, “le esecuzioni extra-giudiziarie sono contrarie al diritto internazionale”.
Eppure la stessa Unione Europea, con una dichiarazione ufficiale di Jack Straw del 7 novembre, aveva chiesto ad Israele di “astenersi da tutte le esecuzioni extra-giudiziarie, che sono contrarie al diritto internazionale”.
Ma di tutto questo in Italia, nel dibattito politico e sui media di regime, non si trova alcuna traccia.
In questi giorni, è giunto in visita istituzionale in Italia il Presidente israeliano Katsav.
Il nostro Presidente Ciampi, nel discorso ufficiale di accoglienza, a proposito di Israele ha affermato che “la sua sicurezza deve essere pienamente tutelata”; il Presidente del Consiglio Berlusconi si è spinto più in là, giungendo ad auspicare un ingresso di Israele nella Ue.
Forse sarebbe stato meglio, al di là delle frasi di rito, delle banalità e delle battute di spirito, che qualcuno avesse ricordato al Presidente Katsav che anche Israele ha l’obbligo di conformarsi alla legalità internazionale, e che la strada della pace comporta anche, necessariamente, la cessazione del quotidiano massacro di civili ed il riconoscimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese.
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