Il razzismo ebraico.
Chiunque si interessi alla storia recente, o alla cronaca quotidiana, dell’occupazione israeliana della Palestina, non può fare a meno di chiedersi quale valore sia attribuito in Israele alla vita umana di un “altro” e, in particolare, di un Arabo, considerati l’elevato numero di civili palestinesi innocenti uccisi o feriti durante raids o incursioni “mirate”, e la quantità e qualità delle violazioni dei diritti umani quotidianamente poste in essere da Tsahal nei Territori occupati.
E la realtà, purtroppo, è che questo valore è molto scarso, visto che il rischio di mettere a repentaglio la vita di Palestinesi innocenti passa sempre in secondo piano (o meglio, non viene nemmeno preso in considerazione) rispetto agli obiettivi perseguiti da Israele, siano essi la risposta ad un lancio di razzi Qassam o l’effettuazione di un arresto o l’assassinio mirato di un “terrorista” (vedi, da ultimo, http://palestinanews.blogspot.com/2006/02/donne-e-bambini-le-vittime-preferite.html).
Basti pensare al raid di Gerico, dove l’illegittima cattura di Ahmed Saadat e di altri quattro membri del PFLP, ritenuti mandanti ed esecutori dell’assassinio di un ex ministro israeliano, ha provocato la morte di due Palestinesi (una guardia ed un detenuto) ed il ferimento di decine di altre persone del tutto estranee all’evento, e dove si è assistito allo spettacolo di centinaia di Palestinesi legati, umiliati ed esposti seminudi a dimostrazione della gloria e del valore di Israele, fatto che ha sollevato le proteste di varie associazioni per la tutela dei diritti umani.
O basti pensare all’assassinio di una bambina palestinese di soli 10 anni, Akbar Zaid, durante un’operazione di arresto tentata da poliziotti israeliani sotto copertura (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/ennesimo-tributo-di-sangue-innocente.html).
Ma anche a chi è stato testimone di questi e di altri atti di barbarie compiuti da Israele non può non restare stupito e disgustato dalla lettura delle dichiarazioni rilasciate dal Rabbino Colonnello Avi Romsky, principale candidato alla carica di rabbino capo dell’esercito israeliano, riportate dal quotidiano Ha’aretz (http://www.haaretz.com/hasen/spages/691320.html).
Secondo questo uomo di fede, infatti, l’esercito israeliano dovrebbe snidare e uccidere i terroristi palestinesi in ogni luogo, colpendoli con bombardamenti aerei persino “nelle loro case e nei loro letti”.
Il rabbino Romsky, tuttavia, omette di ricordare (o forse non prende nemmeno in considerazione il problema) che bombardare case di civile abitazione significa ineluttabilmente colpire e uccidere anche civili innocenti, ma evidentemente la fede ebraica non contempla simili eventualità.
Non è peregrino ricordare che in un caso del genere, nel luglio del 2002, un F-16 dell’aviazione israeliana sganciò una bomba da una tonnellata contro un edificio di Gaza, uccidendo oltre all’obiettivo dichiarato – il dirigente di Hamas Salah Shehade – anche altre 14 persone, tra cui otto bambini, uno di due mesi e cinque sotto i 5 anni; vale la pena di ricordare anche che il premier Sharon definì quell’operazione una “delle più riuscite dell’esercito israeliano” (vedi http://www.repubblica.it/online/esteri/terrisei/gaza/gaza.html).
Ma il rabbino Romsky non è nuovo a dichiarazioni di questo genere.
Nel 1996, infatti, a margine di un dibattito concernente la legittimità o meno di curare un terrorista arabo ferito durante lo Shabbat, ebbe a dichiarare: “la vita di un non-giudeo ha certamente valore … ma il valore dello Shabbat è più importante”: se sono queste le opinioni della guida spirituale dell’esercito israeliano, davvero si spiegano tante cose!
E d’altronde un razzismo di tale virulenza non è appannaggio soltanto di certi rabbini o degli ebrei osservanti, ma permea buona parte della società israeliana.
Un paio di settimane addietro, nel villaggio di Kyriat Yam, un Arabo israeliano di 21 anni, Mohammed Tawili, è stato assalito da numerose persone che gridavano “qui non parliamo arabo” ed è rimasto gravemente ferito da un colpo di pietra alla testa, e questo solo perché aveva osato uscire con una ragazza ebrea.
Ma il fatto più grave e sconcertante è senz’altro quello accaduto in un ospedale di Gerusalemme est e ampiamente riportato, una volta tanto, anche dalla stampa italiana.
Poco più di due mesi fa, una donna araba di nazionalità israeliana, sposata ad un Palestinese, aveva dato alla luce tre gemelli presso l’ospedale Moqassed di Gerusalemme est.
Non avendo i soldi per pagare il conto del ricovero e delle cure per i neonati, la direzione ospedaliera ne ha dimessi due ed ha trattenuto il terzo, a “garanzia” del saldo delle spettanze: per il Moqassed, avrebbe detto il direttore, è pratica comune assicurarsi il pagamento delle cure, con ogni mezzo!
E’ ben vero – come ha osservato Susanne Scheidt sulla mailing list di Al-Awda (Al-Awda-Italia-subscribe@yahoogroups.com) - che l’abominevole comportamento della direzione dell’ospedale israeliano nasce da una legge discriminatoria come la Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele.
Come ho già avuto modo di scrivere nel mio blog “Palestina libera!” (vedi “La discriminazione razziale in Israele” 29.9.2004), questa disposizione, originariamente approvata nel luglio del 2003 e successivamente prorogata, vieta che venga accordata la residenza o lo status di cittadino ai Palestinesi dei Territori occupati che siano sposati a cittadini israeliani.
Si tratta di una legge di discriminazione razziale, poiché ha come target una categoria di persone individuata esclusivamente sulla base della nazionalità, ed ha come effetto di impedire ai Palestinesi sposati con cittadini/e israeliani di vivere insieme a loro (e ai figli) in Israele, mentre, per converso, ai cittadini israeliani è vietato di recarsi a loro volta nei Territori palestinesi.
E poiché questa norma non riconosce la cittadinanza neanche ai figli di queste coppie, ecco che i tre gemelli ricoverati al Moqassed sono risultati privi di alcuna copertura finanziaria da parte del servizio sanitario pubblico.
E’ anche inutile ricordare che questa legge viola numerose convenzioni sui diritti dell’uomo e del fanciullo, liberamente sottoscritte da Israele; ma quello che è più sconcertante e disgustoso, al di là dell’esistenza di una legislazione palesemente discriminatoria, è a mio avviso la totale mancanza di rispetto mostrata dalla direzione dell’ospedale israeliano per la dignità e la sacralità dell’essere umano, ridotto ad una “cosa” qualsiasi, un bene materiale che può essere trattenuto a garanzia di un pagamento, come si sequestra un’auto o un televisore per delle rate non pagate.
Casi eccezionali, che non valgono a qualificare come razzista un’intera nazione, si potrebbe osservare. Ma non è proprio così.
Secondo una ricerca effettuata dalla società israeliana Geocartographia per conto del Center for the Struggle Against Racism, dal titolo “Indice del razzismo verso gli Arabi palestinesi cittadini dello Stato di Israele”, il 68% degli Israeliani di religione ebraica (ovvero due ebrei su tre) rifiuterebbero di convivere nello stesso edificio con un Arabo israeliano, contro il 26% che, al contrario, non avrebbe alcun problema a farlo.
La ricerca, relativa al 2005, mostra anche che il 63% degli ebrei israeliani è d’accordo con l’affermazione “gli Arabi sono una minaccia demografica e per la sicurezza dello Stato”, il 46% non permetterebbe mai ad un Arabo di visitare la propria casa, il 40% crede che lo Stato dovrebbe incoraggiare l’emigrazione (leggi: deportazione) dei cittadini di origine araba.
Il fenomeno del razzismo in Israele è estremamente preoccupante: nel solo 2005 – secondo il Centro che ha commissionato la ricerca – vi sono stati ben 225 incidenti per motivi razziali a danno di cittadini arabi, e si stima che quelli denunciati siano meno del 20% di quelli che si sono effettivamente verificati.
Ed è un fenomeno preoccupante anche per l’indifferenza che sull’argomento regna nell’opinione pubblica israeliana (ma anche all’estero): come bene afferma Baruch Ouda, direttore del Center for the Struggle Against Racism, “quando la gente parla di trasferire gli Arabi o ne parla come di una bomba ad orologeria demografica, nessuna voce si leva contro simili affermazioni”.
Secondo la ricerca, il razzismo è più forte quanto maggiore è il livello di osservanza religiosa, ed è inoltre ben radicato tra gli ebrei provenienti dall’Europa dell’est; e ciò aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione, considerato che i risultati delle elezioni israeliane sembrerebbero mostrare una buona affermazione dello Shas (sefarditi ultraortodossi) e soprattutto di Ysrael Beiteinu (partito della destra russofona del razzista Lieberman), che avrebbero addirittura superato il Likud e saranno con molta probabilità determinanti per la formazione del nuovo governo.
Ma, al di là di tutto questo, addolora e disgusta il fatto che la quasi totalità dei deputati che si insedieranno alla Knesset – e degli elettori che li hanno votati – hanno a cuore soltanto la “sicurezza” di Israele o, al più, le loro pensioni.
Ai Palestinesi non è riconosciuta l’uguaglianza dei diritti né tanto meno l’uguale dignità di essere umano, e a nessuno importa delle sofferenze e del disastro economico causati dal muro, dai posti di blocco, dalle chiusure dei valichi di frontiera, dall’illegale sequestro delle entrate finanziarie dell’Anp, a nessuno importa se durante le quotidiane incursioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati viene ucciso un bimbo, o una donna, o un civile innocente.
Questo è oggi Israele, il “faro” di civiltà nel medio oriente, un Paese colonialista, brutale, affamatore, razzista.
E di questa realtà nessuno parla in Occidente, nessun governo a difendere i Palestinesi, nessun giornale o televisione a raccontare le loro sofferenze e la loro miseria.
E bisogna, ancora una volta, andare a cercare nella coraggiosa pattuglia dei giornalisti di Ha’aretz qualcuno, come Gideon Levy, che abbia il coraggio di definire Israele come “One racist nation” (http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArtVty.jhtml?sw=racist&itemNo=698698).
E la realtà, purtroppo, è che questo valore è molto scarso, visto che il rischio di mettere a repentaglio la vita di Palestinesi innocenti passa sempre in secondo piano (o meglio, non viene nemmeno preso in considerazione) rispetto agli obiettivi perseguiti da Israele, siano essi la risposta ad un lancio di razzi Qassam o l’effettuazione di un arresto o l’assassinio mirato di un “terrorista” (vedi, da ultimo, http://palestinanews.blogspot.com/2006/02/donne-e-bambini-le-vittime-preferite.html).
Basti pensare al raid di Gerico, dove l’illegittima cattura di Ahmed Saadat e di altri quattro membri del PFLP, ritenuti mandanti ed esecutori dell’assassinio di un ex ministro israeliano, ha provocato la morte di due Palestinesi (una guardia ed un detenuto) ed il ferimento di decine di altre persone del tutto estranee all’evento, e dove si è assistito allo spettacolo di centinaia di Palestinesi legati, umiliati ed esposti seminudi a dimostrazione della gloria e del valore di Israele, fatto che ha sollevato le proteste di varie associazioni per la tutela dei diritti umani.
O basti pensare all’assassinio di una bambina palestinese di soli 10 anni, Akbar Zaid, durante un’operazione di arresto tentata da poliziotti israeliani sotto copertura (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/ennesimo-tributo-di-sangue-innocente.html).
Ma anche a chi è stato testimone di questi e di altri atti di barbarie compiuti da Israele non può non restare stupito e disgustato dalla lettura delle dichiarazioni rilasciate dal Rabbino Colonnello Avi Romsky, principale candidato alla carica di rabbino capo dell’esercito israeliano, riportate dal quotidiano Ha’aretz (http://www.haaretz.com/hasen/spages/691320.html).
Secondo questo uomo di fede, infatti, l’esercito israeliano dovrebbe snidare e uccidere i terroristi palestinesi in ogni luogo, colpendoli con bombardamenti aerei persino “nelle loro case e nei loro letti”.
Il rabbino Romsky, tuttavia, omette di ricordare (o forse non prende nemmeno in considerazione il problema) che bombardare case di civile abitazione significa ineluttabilmente colpire e uccidere anche civili innocenti, ma evidentemente la fede ebraica non contempla simili eventualità.
Non è peregrino ricordare che in un caso del genere, nel luglio del 2002, un F-16 dell’aviazione israeliana sganciò una bomba da una tonnellata contro un edificio di Gaza, uccidendo oltre all’obiettivo dichiarato – il dirigente di Hamas Salah Shehade – anche altre 14 persone, tra cui otto bambini, uno di due mesi e cinque sotto i 5 anni; vale la pena di ricordare anche che il premier Sharon definì quell’operazione una “delle più riuscite dell’esercito israeliano” (vedi http://www.repubblica.it/online/esteri/terrisei/gaza/gaza.html).
Ma il rabbino Romsky non è nuovo a dichiarazioni di questo genere.
Nel 1996, infatti, a margine di un dibattito concernente la legittimità o meno di curare un terrorista arabo ferito durante lo Shabbat, ebbe a dichiarare: “la vita di un non-giudeo ha certamente valore … ma il valore dello Shabbat è più importante”: se sono queste le opinioni della guida spirituale dell’esercito israeliano, davvero si spiegano tante cose!
E d’altronde un razzismo di tale virulenza non è appannaggio soltanto di certi rabbini o degli ebrei osservanti, ma permea buona parte della società israeliana.
Un paio di settimane addietro, nel villaggio di Kyriat Yam, un Arabo israeliano di 21 anni, Mohammed Tawili, è stato assalito da numerose persone che gridavano “qui non parliamo arabo” ed è rimasto gravemente ferito da un colpo di pietra alla testa, e questo solo perché aveva osato uscire con una ragazza ebrea.
Ma il fatto più grave e sconcertante è senz’altro quello accaduto in un ospedale di Gerusalemme est e ampiamente riportato, una volta tanto, anche dalla stampa italiana.
Poco più di due mesi fa, una donna araba di nazionalità israeliana, sposata ad un Palestinese, aveva dato alla luce tre gemelli presso l’ospedale Moqassed di Gerusalemme est.
Non avendo i soldi per pagare il conto del ricovero e delle cure per i neonati, la direzione ospedaliera ne ha dimessi due ed ha trattenuto il terzo, a “garanzia” del saldo delle spettanze: per il Moqassed, avrebbe detto il direttore, è pratica comune assicurarsi il pagamento delle cure, con ogni mezzo!
E’ ben vero – come ha osservato Susanne Scheidt sulla mailing list di Al-Awda (Al-Awda-Italia-subscribe@yahoogroups.com) - che l’abominevole comportamento della direzione dell’ospedale israeliano nasce da una legge discriminatoria come la Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele.
Come ho già avuto modo di scrivere nel mio blog “Palestina libera!” (vedi “La discriminazione razziale in Israele” 29.9.2004), questa disposizione, originariamente approvata nel luglio del 2003 e successivamente prorogata, vieta che venga accordata la residenza o lo status di cittadino ai Palestinesi dei Territori occupati che siano sposati a cittadini israeliani.
Si tratta di una legge di discriminazione razziale, poiché ha come target una categoria di persone individuata esclusivamente sulla base della nazionalità, ed ha come effetto di impedire ai Palestinesi sposati con cittadini/e israeliani di vivere insieme a loro (e ai figli) in Israele, mentre, per converso, ai cittadini israeliani è vietato di recarsi a loro volta nei Territori palestinesi.
E poiché questa norma non riconosce la cittadinanza neanche ai figli di queste coppie, ecco che i tre gemelli ricoverati al Moqassed sono risultati privi di alcuna copertura finanziaria da parte del servizio sanitario pubblico.
E’ anche inutile ricordare che questa legge viola numerose convenzioni sui diritti dell’uomo e del fanciullo, liberamente sottoscritte da Israele; ma quello che è più sconcertante e disgustoso, al di là dell’esistenza di una legislazione palesemente discriminatoria, è a mio avviso la totale mancanza di rispetto mostrata dalla direzione dell’ospedale israeliano per la dignità e la sacralità dell’essere umano, ridotto ad una “cosa” qualsiasi, un bene materiale che può essere trattenuto a garanzia di un pagamento, come si sequestra un’auto o un televisore per delle rate non pagate.
Casi eccezionali, che non valgono a qualificare come razzista un’intera nazione, si potrebbe osservare. Ma non è proprio così.
Secondo una ricerca effettuata dalla società israeliana Geocartographia per conto del Center for the Struggle Against Racism, dal titolo “Indice del razzismo verso gli Arabi palestinesi cittadini dello Stato di Israele”, il 68% degli Israeliani di religione ebraica (ovvero due ebrei su tre) rifiuterebbero di convivere nello stesso edificio con un Arabo israeliano, contro il 26% che, al contrario, non avrebbe alcun problema a farlo.
La ricerca, relativa al 2005, mostra anche che il 63% degli ebrei israeliani è d’accordo con l’affermazione “gli Arabi sono una minaccia demografica e per la sicurezza dello Stato”, il 46% non permetterebbe mai ad un Arabo di visitare la propria casa, il 40% crede che lo Stato dovrebbe incoraggiare l’emigrazione (leggi: deportazione) dei cittadini di origine araba.
Il fenomeno del razzismo in Israele è estremamente preoccupante: nel solo 2005 – secondo il Centro che ha commissionato la ricerca – vi sono stati ben 225 incidenti per motivi razziali a danno di cittadini arabi, e si stima che quelli denunciati siano meno del 20% di quelli che si sono effettivamente verificati.
Ed è un fenomeno preoccupante anche per l’indifferenza che sull’argomento regna nell’opinione pubblica israeliana (ma anche all’estero): come bene afferma Baruch Ouda, direttore del Center for the Struggle Against Racism, “quando la gente parla di trasferire gli Arabi o ne parla come di una bomba ad orologeria demografica, nessuna voce si leva contro simili affermazioni”.
Secondo la ricerca, il razzismo è più forte quanto maggiore è il livello di osservanza religiosa, ed è inoltre ben radicato tra gli ebrei provenienti dall’Europa dell’est; e ciò aggiunge un ulteriore elemento di preoccupazione, considerato che i risultati delle elezioni israeliane sembrerebbero mostrare una buona affermazione dello Shas (sefarditi ultraortodossi) e soprattutto di Ysrael Beiteinu (partito della destra russofona del razzista Lieberman), che avrebbero addirittura superato il Likud e saranno con molta probabilità determinanti per la formazione del nuovo governo.
Ma, al di là di tutto questo, addolora e disgusta il fatto che la quasi totalità dei deputati che si insedieranno alla Knesset – e degli elettori che li hanno votati – hanno a cuore soltanto la “sicurezza” di Israele o, al più, le loro pensioni.
Ai Palestinesi non è riconosciuta l’uguaglianza dei diritti né tanto meno l’uguale dignità di essere umano, e a nessuno importa delle sofferenze e del disastro economico causati dal muro, dai posti di blocco, dalle chiusure dei valichi di frontiera, dall’illegale sequestro delle entrate finanziarie dell’Anp, a nessuno importa se durante le quotidiane incursioni dell’esercito israeliano nei Territori occupati viene ucciso un bimbo, o una donna, o un civile innocente.
Questo è oggi Israele, il “faro” di civiltà nel medio oriente, un Paese colonialista, brutale, affamatore, razzista.
E di questa realtà nessuno parla in Occidente, nessun governo a difendere i Palestinesi, nessun giornale o televisione a raccontare le loro sofferenze e la loro miseria.
E bisogna, ancora una volta, andare a cercare nella coraggiosa pattuglia dei giornalisti di Ha’aretz qualcuno, come Gideon Levy, che abbia il coraggio di definire Israele come “One racist nation” (http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArtVty.jhtml?sw=racist&itemNo=698698).
5 Commenti:
Gideon Levy, di Haaretz, l'ho sentito intervistato da una giornalista della BBC.
Parla un inglese perfetto e non ha peli sulla lingua.
Su Come don Chisciotte, ho letto una traduzione di una intervista a Blankfort sull'argomento dell'AIPAC.
In quest'ultimo periodo non ho potuto seguire molto le vicende.
La mia domanda sull'affluenza alle urne nelle recenti elezioni in Israele, non era ironica.
Ciao.
C5
molto intiresno, grazie
quello che stavo cercando, grazie
leggere l'intero blog, pretty good
good start
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