9 marzo 2008

Un 8 marzo listato a lutto.

Ieri, 8 marzo, anche nei Territori occupati era la giornata internazionale della donna, ma le donne palestinesi non hanno certamente avuto motivi per festeggiare questa ricorrenza, avendo anch’esse dovuto pagare un caro prezzo all’escalation di violenza e ai raid militari condotti da Israele nella Striscia di Gaza.

Nel corso della vera e propria campagna militare scatenata contro il campo profughi di Jabalya, nel nord della Striscia, tra il 28 febbraio e il 4 marzo di quest’anno, l’esercito israeliano ha massacrato ben 110 Palestinesi: 54 erano civili inermi e, tra questi, 27 erano i bambini e 6 le donne, di età compresa tra i 19 e i 60 anni.

Povere donne che non avevano intenzione di andare incontro al martirio e che non avevano alcuna familiarità con un ak47, colte di sorpresa dal terrificante attacco missilistico scatenato dagli aerei e dagli elicotteri israeliani durante la giornata del 1° marzo, uccise dentro le loro case che erroneamente ritenevano un rifugio abbastanza sicuro, maciullate e smembrate mentre dormivano o mentre erano intente alla cura delle faccende domestiche.

Ghada ‘Abdullah, 27 anni, era in cucina e stava preparando la colazione per i suoi figli quando un missile ha colpito la sua casa, Nihad Zaher, 20 anni, è stata uccisa da un colpo di fucile al collo, Samah ‘Assaliya, 19 anni, è stata uccisa da un missile che ha colpito la camera da letto dove dormiva, e così sono cadute vittime dei missili israeliani anche Su’ad Rajab ‘Atallah, 60 anni, e le sue figlie Ibtissam e Rajaa’, rispettivamente di 25 e 30 anni.

Complessivamente, nel corso di poco più di due mesi del 2008, Israele si è macchiato le mani del sangue di 13 donne.

Tra loro possiamo ricordare anche Fatheya Yusef al-Hassoumi, 35 anni, la cui unica colpa è stata quella di aver accettato un passaggio in auto dalla persona sbagliata, e cioè da un candidato all’eliminazione “mirata” da parte dei bravi soldati israeliani; Miriam Mohammad Ahmad al-Rahel, 52 anni, che invece di una eliminazione “mirata” è stata vittima per un deprecabile errore, uccisa da un missile della Iaf mentre tornava a casa, insieme a uno dei suoi figli, sul suo povero carretto trainato da un mulo; Haniya Hussein ‘Abdul Jawwad, 52 anni, uccisa nel corso di un bombardamento aereo mentre partecipava al ricevimento nuziale di un nipote.

Questo per non parlare di quei morti che non entrano nemmeno nelle statistiche di guerra, come le 7 donne morte, dal giugno del 2007 ad oggi, per non essersi potute recare all’estero per ricevere le cure mediche di cui avevano bisogno, a causa dell’illegale e immorale imprigionamento di un milione e mezzo di Palestinesi nella Striscia di Gaza da parte di Israele.

O come le sei donne morte a Rafah, bloccate insieme a migliaia di altri civili dalla chiusura del valico internazionale protrattasi per oltre due mesi.

L’8 marzo è già ieri, e sembra già svanito persino l’eco dell’orribile massacro di Jabalya, 110 morti di cui la metà erano civili inermi e innocenti, una strage incredibilmente passata pressoché sotto silenzio e con la tacita approvazione dei governi occidentali, che l’hanno derubricata sotto la voce “diritto all’autodifesa”, seppur blandamente ammonendo Israele per l’uso eccessivo e sproporzionato della forza militare: che gentili!

Resta la memoria e il pensiero rivolto a queste donne, vittime della più perfetta estrinsecazione della cultura israeliana, una cultura di violenza, di oppressione, di morte.

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