Otto giorni che valgono ben più di un attentato.
Dopo la breve interruzione dell’attentato di Netanya, continua ininterrotta l’alacre opera di assassinio della popolazione palestinese, con la novità che adesso vi partecipa attivamente anche la Marina israeliana.
Lunedì 5 dicembre, qualche ora prima dell’attentato, il Ministro della Difesa Mofaz aveva preannunciato solennemente, nel corso di una intervista alla radio israeliana, che sarebbero riprese le esecuzioni “mirate” dei militanti palestinesi nella Striscia di Gaza e che Tsahal avrebbe messo in atto ogni misura per “difendere” la sicurezza dei cittadini israeliani.
Detto fatto, ecco che parte una sequenza impressionante di raid e di omicidi, “mirati” e non, con il risultato che nel giro di poco più di una settimana le vittime tra i Palestinesi sono state più del doppio di quelle avutesi nel pur tragico attentato di Netanya.
Mercoledì 7 dicembre, a Rafah, l’aviazione israeliana lancia un missile contro l’auto guidata da Mohammad Arkan, esponente di spicco dei Comitati di Resistenza Popolare (PRC), ala estremista di Fatah, uccidendolo sul colpo; in conseguenza dell’attacco, altri sei Palestinesi che si trovavano sul posto rimangono feriti, uno in gravissime condizioni.
Giovedì 8 dicembre, in un altro attacco aereo della IAF, un missile colpisce una casa situata nei pressi del campo profughi di Jabalya, uccidendo due militanti delle Brigate al Aqsa, il 27enne Ayad Nagar ed il 21enne Ziyad Qaddas, mentre un terzo Palestinese, il 27enne Khader Rayan, muore il sabato seguente a causa delle ferite riportate; in aggiunta, sei civili palestinesi vengono feriti dalle schegge, inclusa una bambina di sei anni che abitava nei pressi.
Nel corso della stessa giornata, alcune ore prima, aerei israeliani compiono un raid nei pressi di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, cercando di colpire – secondo fonti militari – i siti di lancio dei missili Qassam: nessun missile o militante risulta colpito, ma in compenso quattro civili che si trovavano nei pressi (un uomo, sua sorella e i due figli di lei) rimangono feriti.
Venerdì 9 dicembre, nel corso della periodica manifestazione popolare di protesta contro la costruzione del muro di “sicurezza” nel villaggio di Bi’lin, i prodi soldatini di Tsahal attaccano duramente, come al solito, il corteo pacifico dei dimostranti, sparando proiettili rivestiti di gomma e gas lacrimogeni e ferendo due pacifisti israeliani e cinque abitanti del villaggio, tra cui due ragazzini di 14 e 15 anni.
Testimone d’eccezione della vicenda è l’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi John Dugard, che ha potuto successivamente render conto dell’eccesso di violenza usato dall’esercito nell’affrontare una manifestazione assolutamente pacifica; la stessa auto su cui viaggiava Dugard, peraltro, viene anch’essa fatta oggetto di colpi sparati dai soldati israeliani.
Sabato 10 dicembre, entra in scena la Marina israeliana, decisa anch’essa a coprirsi di gloria sul campo di battaglia, e lo fa con una delle sue motovedette che apre il fuoco contro una barca di pescatori che avevano gettato le reti nei pressi del confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, a sud-ovest di Rafah: uno dei pescatori, il 37enne Nazeer Yousef Farahat, viene ucciso sul colpo mentre l’altro Palestinese risulta tutt’ora disperso.
I militari israeliani si sono giustificati dicendo che i due stavano cercando di far entrare delle armi nella Striscia di Gaza, ma naturalmente le armi – se c’erano – adesso sono in fondo al mare.
Analogo incidente era accaduto sabato 3 dicembre, quando era stato assassinato a sangue freddo, sulla sua barca, il 22enne Ziad Dardawel; secondo gli israeliani, il Palestinese si trovava in acque proibite (circostanza negata dalle Autorità palestinesi) e aveva aperto il fuoco per primo: figuriamoci, una barchetta di pescatori che va all’attacco di una cannoniera armata fino ai denti!
Domenica 11 dicembre, nel corso di un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Balata, a est di Nablus (West Bank), viene ucciso il 18enne Ayad Hashash, attivista delle brigate al-Aqsa, mentre un altro Palestinese, il 19enne Mohammed al-Shoubaki, rimane leggermente ferito; qualche ora dopo, nei pressi del campo profughi di Askar, a nord-est di Nablus, i soldati israeliani sparano contro un gruppo di ragazzini che tiravano pietre ad un tank israeliano, ferendone due.
La sera, intorno alle 21:00, una motovedetta dell’esercito israeliano apre il fuoco contro alcune barche palestinesi che stavano pescando nelle acque antistanti Khan Yunis, senza alcun motivo né, tanto meno, alcun preavviso; viene così ferito il 18enne Mahmoud Radwan, mentre gli israeliani, non contenti, sparano anche contro un’altra barca che cercava di soccorrere il ferito.
Martedì 13 dicembre, nelle prime ore della mattina, unità dell’esercito israeliano entrano a Nablus e cominciano a sparare indiscriminatamente, ferendo almeno 25 civili palestinesi, tra cui 15 ragazzini; uno dei feriti, il 23enne Hussam Saqer, morirà qualche ore dopo nel locale Rafidia Hospital.
Mercoledì 14 dicembre, un aereo (o un drone) dell’aviazione israeliana lancia due missili contro una Subaru che sta transitando all’interno del popoloso quartiere al-Shojaeya di Gaza, distruggendola completamente; muoiono in questo modo quattro membri delle Brigate Salah al-Din, l’ala militare dei PRC, mentre 5 passanti rimangono feriti dall’esplosione.
Nel giro di otto giorni, dunque, l’esercito israeliano ha ucciso 11 Palestinesi, di cui otto assassinati extra-giudizialmente nella Striscia di Gaza, e ne ha feriti almeno 40, tra i quali 17 ragazzini, per tacere degli oltre 100 arresti effettuati nello stesso periodo (tra cui quelli di una decina di Palestinesi minori di 18 anni).
Si tratta di un numero di vittime pari a più del doppio dei morti israeliani nell’attentato di Netanya, per cui l’intera comunità internazionale si è stracciata le vesti e i media di regime hanno gridato tutta la loro indignazione.
L’ininterrotto massacro dei Palestinesi non sembra invece interessare nessuno, almeno da questa parte del mondo, dato che neppure una timida reazione o un accenno di protesta si sono registrati da parte dei Governi occidentali, e le tv e i giornali hanno fatto passare questo bagno di sangue sotto una assoluta coltre di silenzio, con poche, lodevoli, eccezioni.
Ed anche in questi casi, spesso si è presentata questa serie di raid assassini da parte dell’esercito israeliano come una “risposta” all’attentato di Netanya, tacitamente avallando la tesi che si sia trattato di una sorta di “legittima” vendetta di Israele.
Ma ciò, naturalmente, è solo una colossale menzogna: come abbiamo visto sopra, la serie di omicidi “mirati” nella Striscia di Gaza era stata preannunciata dal Ministro della Difesa israeliano Mofaz già prima dell’attentato di Netanya e, peraltro, nessuna delle vittime di cui abbiamo parlato apparteneva alla Jihad islamica, responsabile dell’attentato al centro commerciale Hasharon.
Capisco che per un giornale o una tv un attentato faccia più “notizia” dell’esecuzione mirata di un paio di “biechi attivisti” palestinesi, ma mi sembra inconcepibile che nessuno abbia il tempo e la voglia di ricordare che, alla data dell’11 dicembre di quest’anno, i Palestinesi morti e feriti a causa dell’occupazione israeliana dei Territori ammontano rispettivamente a 3.754 e a 29.308, in un rapporto di 3,5:1 e di 3,9:1 con le analoghe cifre relative ai civili e al personale militare israeliano.
Sul piano politico, è ormai chiaro che quello di Berlusconi è il governo più filo-israeliano che la storia italiana ricordi, ma qualcosa in più ci si poteva aspettare dall’opposizione, e segnatamente dai Ds.
Ad un convegno su islamofobia e antisemitismo svoltosi il 14 dicembre a Roma, organizzato dall’Associazione “A Buon Diritto” e dall’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia, si sono trovati a confronto (per modo di dire…) Gianfranco Fini e Piero Fassino, ed è sconcertante rilevare che tra i due sono stati più i punti di accordo che quelli di contrasto.
Gianfranco Fini ha riproposto con discreto successo il racconto della madre israeliana a Gerusalemme che manda i suoi due figli a scuola con due autobus diversi, in modo tale che, in caso di attentato, non muoiano entrambi; a parte questa storiella buona per la becera propaganda sionista, tuttavia, Fini nulla ha avuto da eccepire, ne in questa occasione né altrove, contro gli assassinii extra-giudiziali di Israele, che pure sono contrari al diritto internazionale e sono stati più volte ufficialmente condannati dalla Ue, cui l’Italia, almeno fino ad ora, continua ad appartenere.
Né, tanto meno, alcuna parola il nostro Ministro degli esteri ha inteso spendere per i bambini, le donne e tutte le vittime innocenti dei prodi soldatini di Tsahal, vittime di un “terrorismo di Stato” che abbiamo visto essere ben più devastante di quello dei kamikaze.
Piero Fassino, a sua volta, ha sostenuto che, in m.o., si contrappongono “due ragioni”, e che in nessun caso Israele “deve essere lasciato solo”: si tratta di banalità davvero sconcertanti!
Quali sono le “ragioni” che si contrappongono, quella di una potenza occupante e del suo braccio armato che quotidianamente compie crimini di guerra e quella di un popolo che vede la sua terra devastata e i suoi figli destinati al massacro?
E in cosa non dobbiamo lasciar solo Israele, dobbiamo magari anche stargli accanto e incoraggiarlo a devastare, contemporaneamente, la libertà e il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità internazionale, il diritto umanitario?
Non sappiamo se prese di posizione come queste siano dettate da sufficienza, ignoranza dei problemi o cinico calcolo politico, né ci interessa.
Ciò che ci sta a cuore è che nell’agenda politica del prossimo governo vi sia, ai primissimi posti, la questione palestinese, secondo una prospettiva radicalmente diversa da quella oggi prevalente: prima Israele cessi la costruzione del muro e l’espansione degli insediamenti, i suoi raid nei Territori, i suoi assassinii, e dopo si chieda all’Anp di fare la sua parte e di bloccare gli attacchi terroristici.
E si intervenga con il giusto impegno e la necessaria fermezza, anche a costo di chiedere la denuncia degli accordi commerciali tra Israele e l’Unione europea: magari da questo orecchio gli Israeliani ancora ci sentono.
Lunedì 5 dicembre, qualche ora prima dell’attentato, il Ministro della Difesa Mofaz aveva preannunciato solennemente, nel corso di una intervista alla radio israeliana, che sarebbero riprese le esecuzioni “mirate” dei militanti palestinesi nella Striscia di Gaza e che Tsahal avrebbe messo in atto ogni misura per “difendere” la sicurezza dei cittadini israeliani.
Detto fatto, ecco che parte una sequenza impressionante di raid e di omicidi, “mirati” e non, con il risultato che nel giro di poco più di una settimana le vittime tra i Palestinesi sono state più del doppio di quelle avutesi nel pur tragico attentato di Netanya.
Mercoledì 7 dicembre, a Rafah, l’aviazione israeliana lancia un missile contro l’auto guidata da Mohammad Arkan, esponente di spicco dei Comitati di Resistenza Popolare (PRC), ala estremista di Fatah, uccidendolo sul colpo; in conseguenza dell’attacco, altri sei Palestinesi che si trovavano sul posto rimangono feriti, uno in gravissime condizioni.
Giovedì 8 dicembre, in un altro attacco aereo della IAF, un missile colpisce una casa situata nei pressi del campo profughi di Jabalya, uccidendo due militanti delle Brigate al Aqsa, il 27enne Ayad Nagar ed il 21enne Ziyad Qaddas, mentre un terzo Palestinese, il 27enne Khader Rayan, muore il sabato seguente a causa delle ferite riportate; in aggiunta, sei civili palestinesi vengono feriti dalle schegge, inclusa una bambina di sei anni che abitava nei pressi.
Nel corso della stessa giornata, alcune ore prima, aerei israeliani compiono un raid nei pressi di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, cercando di colpire – secondo fonti militari – i siti di lancio dei missili Qassam: nessun missile o militante risulta colpito, ma in compenso quattro civili che si trovavano nei pressi (un uomo, sua sorella e i due figli di lei) rimangono feriti.
Venerdì 9 dicembre, nel corso della periodica manifestazione popolare di protesta contro la costruzione del muro di “sicurezza” nel villaggio di Bi’lin, i prodi soldatini di Tsahal attaccano duramente, come al solito, il corteo pacifico dei dimostranti, sparando proiettili rivestiti di gomma e gas lacrimogeni e ferendo due pacifisti israeliani e cinque abitanti del villaggio, tra cui due ragazzini di 14 e 15 anni.
Testimone d’eccezione della vicenda è l’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi John Dugard, che ha potuto successivamente render conto dell’eccesso di violenza usato dall’esercito nell’affrontare una manifestazione assolutamente pacifica; la stessa auto su cui viaggiava Dugard, peraltro, viene anch’essa fatta oggetto di colpi sparati dai soldati israeliani.
Sabato 10 dicembre, entra in scena la Marina israeliana, decisa anch’essa a coprirsi di gloria sul campo di battaglia, e lo fa con una delle sue motovedette che apre il fuoco contro una barca di pescatori che avevano gettato le reti nei pressi del confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, a sud-ovest di Rafah: uno dei pescatori, il 37enne Nazeer Yousef Farahat, viene ucciso sul colpo mentre l’altro Palestinese risulta tutt’ora disperso.
I militari israeliani si sono giustificati dicendo che i due stavano cercando di far entrare delle armi nella Striscia di Gaza, ma naturalmente le armi – se c’erano – adesso sono in fondo al mare.
Analogo incidente era accaduto sabato 3 dicembre, quando era stato assassinato a sangue freddo, sulla sua barca, il 22enne Ziad Dardawel; secondo gli israeliani, il Palestinese si trovava in acque proibite (circostanza negata dalle Autorità palestinesi) e aveva aperto il fuoco per primo: figuriamoci, una barchetta di pescatori che va all’attacco di una cannoniera armata fino ai denti!
Domenica 11 dicembre, nel corso di un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Balata, a est di Nablus (West Bank), viene ucciso il 18enne Ayad Hashash, attivista delle brigate al-Aqsa, mentre un altro Palestinese, il 19enne Mohammed al-Shoubaki, rimane leggermente ferito; qualche ora dopo, nei pressi del campo profughi di Askar, a nord-est di Nablus, i soldati israeliani sparano contro un gruppo di ragazzini che tiravano pietre ad un tank israeliano, ferendone due.
La sera, intorno alle 21:00, una motovedetta dell’esercito israeliano apre il fuoco contro alcune barche palestinesi che stavano pescando nelle acque antistanti Khan Yunis, senza alcun motivo né, tanto meno, alcun preavviso; viene così ferito il 18enne Mahmoud Radwan, mentre gli israeliani, non contenti, sparano anche contro un’altra barca che cercava di soccorrere il ferito.
Martedì 13 dicembre, nelle prime ore della mattina, unità dell’esercito israeliano entrano a Nablus e cominciano a sparare indiscriminatamente, ferendo almeno 25 civili palestinesi, tra cui 15 ragazzini; uno dei feriti, il 23enne Hussam Saqer, morirà qualche ore dopo nel locale Rafidia Hospital.
Mercoledì 14 dicembre, un aereo (o un drone) dell’aviazione israeliana lancia due missili contro una Subaru che sta transitando all’interno del popoloso quartiere al-Shojaeya di Gaza, distruggendola completamente; muoiono in questo modo quattro membri delle Brigate Salah al-Din, l’ala militare dei PRC, mentre 5 passanti rimangono feriti dall’esplosione.
Nel giro di otto giorni, dunque, l’esercito israeliano ha ucciso 11 Palestinesi, di cui otto assassinati extra-giudizialmente nella Striscia di Gaza, e ne ha feriti almeno 40, tra i quali 17 ragazzini, per tacere degli oltre 100 arresti effettuati nello stesso periodo (tra cui quelli di una decina di Palestinesi minori di 18 anni).
Si tratta di un numero di vittime pari a più del doppio dei morti israeliani nell’attentato di Netanya, per cui l’intera comunità internazionale si è stracciata le vesti e i media di regime hanno gridato tutta la loro indignazione.
L’ininterrotto massacro dei Palestinesi non sembra invece interessare nessuno, almeno da questa parte del mondo, dato che neppure una timida reazione o un accenno di protesta si sono registrati da parte dei Governi occidentali, e le tv e i giornali hanno fatto passare questo bagno di sangue sotto una assoluta coltre di silenzio, con poche, lodevoli, eccezioni.
Ed anche in questi casi, spesso si è presentata questa serie di raid assassini da parte dell’esercito israeliano come una “risposta” all’attentato di Netanya, tacitamente avallando la tesi che si sia trattato di una sorta di “legittima” vendetta di Israele.
Ma ciò, naturalmente, è solo una colossale menzogna: come abbiamo visto sopra, la serie di omicidi “mirati” nella Striscia di Gaza era stata preannunciata dal Ministro della Difesa israeliano Mofaz già prima dell’attentato di Netanya e, peraltro, nessuna delle vittime di cui abbiamo parlato apparteneva alla Jihad islamica, responsabile dell’attentato al centro commerciale Hasharon.
Capisco che per un giornale o una tv un attentato faccia più “notizia” dell’esecuzione mirata di un paio di “biechi attivisti” palestinesi, ma mi sembra inconcepibile che nessuno abbia il tempo e la voglia di ricordare che, alla data dell’11 dicembre di quest’anno, i Palestinesi morti e feriti a causa dell’occupazione israeliana dei Territori ammontano rispettivamente a 3.754 e a 29.308, in un rapporto di 3,5:1 e di 3,9:1 con le analoghe cifre relative ai civili e al personale militare israeliano.
Sul piano politico, è ormai chiaro che quello di Berlusconi è il governo più filo-israeliano che la storia italiana ricordi, ma qualcosa in più ci si poteva aspettare dall’opposizione, e segnatamente dai Ds.
Ad un convegno su islamofobia e antisemitismo svoltosi il 14 dicembre a Roma, organizzato dall’Associazione “A Buon Diritto” e dall’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia, si sono trovati a confronto (per modo di dire…) Gianfranco Fini e Piero Fassino, ed è sconcertante rilevare che tra i due sono stati più i punti di accordo che quelli di contrasto.
Gianfranco Fini ha riproposto con discreto successo il racconto della madre israeliana a Gerusalemme che manda i suoi due figli a scuola con due autobus diversi, in modo tale che, in caso di attentato, non muoiano entrambi; a parte questa storiella buona per la becera propaganda sionista, tuttavia, Fini nulla ha avuto da eccepire, ne in questa occasione né altrove, contro gli assassinii extra-giudiziali di Israele, che pure sono contrari al diritto internazionale e sono stati più volte ufficialmente condannati dalla Ue, cui l’Italia, almeno fino ad ora, continua ad appartenere.
Né, tanto meno, alcuna parola il nostro Ministro degli esteri ha inteso spendere per i bambini, le donne e tutte le vittime innocenti dei prodi soldatini di Tsahal, vittime di un “terrorismo di Stato” che abbiamo visto essere ben più devastante di quello dei kamikaze.
Piero Fassino, a sua volta, ha sostenuto che, in m.o., si contrappongono “due ragioni”, e che in nessun caso Israele “deve essere lasciato solo”: si tratta di banalità davvero sconcertanti!
Quali sono le “ragioni” che si contrappongono, quella di una potenza occupante e del suo braccio armato che quotidianamente compie crimini di guerra e quella di un popolo che vede la sua terra devastata e i suoi figli destinati al massacro?
E in cosa non dobbiamo lasciar solo Israele, dobbiamo magari anche stargli accanto e incoraggiarlo a devastare, contemporaneamente, la libertà e il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità internazionale, il diritto umanitario?
Non sappiamo se prese di posizione come queste siano dettate da sufficienza, ignoranza dei problemi o cinico calcolo politico, né ci interessa.
Ciò che ci sta a cuore è che nell’agenda politica del prossimo governo vi sia, ai primissimi posti, la questione palestinese, secondo una prospettiva radicalmente diversa da quella oggi prevalente: prima Israele cessi la costruzione del muro e l’espansione degli insediamenti, i suoi raid nei Territori, i suoi assassinii, e dopo si chieda all’Anp di fare la sua parte e di bloccare gli attacchi terroristici.
E si intervenga con il giusto impegno e la necessaria fermezza, anche a costo di chiedere la denuncia degli accordi commerciali tra Israele e l’Unione europea: magari da questo orecchio gli Israeliani ancora ci sentono.
2 Commenti:
a palermo ci sono problemi più o
meno sconcertanti. cerca di risolvere i tuoi problemi,poi
quando ai finito vediamo quelli fuori dal tuo territorio. ok?
Caro anonimo, quando "ai" un po' di tempo torna a scuola a studiare, e poi ne riparliamo, ok?
Affettuosi saluti e buon Natale!
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