9 aprile 2006

Il muro della morte.

Lunedì 3 aprile, mentre tutta l’Italia piangeva la sorte del piccolo Tommy, ucciso da una banda di bestiali assassini, lontano dai riflettori dei media un ragazzino palestinese veniva barbaramente trucidato dall’esercito israeliano in un campo profughi a nord di Gerusalemme.
Mohammad Zaid, questo era il suo nome, aveva 13 anni e abitava nel campo profughi di Qalandiyah, ed è stato ucciso con un colpo di fucile al torace durante un raid dell’esercito israeliano all’interno del campo, intorno alle 5 del pomeriggio, mentre altri due suoi coetanei sono rimasti lievemente feriti.
Sembrava, all’inizio, che i soldati avessero risposto sparando ad un lancio di pietre da parte di un gruppo di ragazzini palestinesi, ma poi, qualche ora dopo, è giunto un comunicato ufficiale dell’esercito israeliano a “giustificazione” del proprio comportamento: il piccolo Mohammad aveva tentato di danneggiare la barriera di separazione, i soldati hanno provato ad arrestarlo, lui è scappato e allora questi infami assassini hanno aperto il fuoco, uccidendolo sul colpo.
Ma che barbarie è mai questa? E che popolo senza onore è questo che manda il proprio esercito a vessare e a brutalizzare il proprio vicino, uccidendone i figli? E perché la comunità internazionale assiste inerte a questo ennesimo crimine, anziché mettere al bando Israele dal consesso delle nazioni civili?
Ma vi è di più.
Alle prime ore della mattina di sabato 26 marzo l’esercito israeliano ha ucciso il 16enne palestinese Hamad Hamdan, al confine tra la Striscia di Gaza e Israele nei pressi del campo profughi di al-Bureij.
Il povero Hamad, con molta probabilità, intendeva entrare illegalmente in Israele per cercare lavoro, come molti altri suoi conterranei, del resto: fatto sta che era completamente disarmato e che il suo assassinio rappresenta un crimine ingiustificato.
Il 13 febbraio, soldati israeliani hanno assassinato la 25enne Nayfa Abu Musaid, una giovane palestinese che abitava a Dir el-Balah; l’esercito israeliano si è giustificato sostenendo che i propri soldati avevano notato “movimenti di figure sospette a 50 metri dal muro” e che, per tale ragione, avevano aperto il fuoco.
Testimoni palestinesi, tuttavia, hanno sostenuto che la donna, in realtà, si trovava ad alcune centinaia di metri dal confine, ed in ogni caso l’uccisione di Nayfa è avvenuta in pieno giorno e in perfette condizioni di visibilità, senza possibilità di confondere una giovane donna con un nerboruto miliziano, in aperto contrasto con le sia pur “permissive” norme israeliane che regolano l’uso delle armi da fuoco.
Pensare che basti avvicinarsi al confine – e sia pur restando in territorio palestinese – per poter essere trucidati impunemente è una cosa per noi addirittura inconcepibile, una barbarie, un comportamento irresponsabile, illegale e disumano.
Eppure crimini di tal genere accadono, e sono gli ebrei a commetterli.
Secondo un recente rapporto dell’ong israeliana B’tselem (“Israel has classified areas near Gaza perimeter fence as killing zones”, 4 marzo 2006), dalla data del ritiro israeliano da Gaza (settembre 2005) al 28 febbraio di quest’anno, i soldati israeliani hanno ucciso nove civili palestinesi – assolutamente disarmati – in zone adiacenti alla barriera di separazione tra Gaza e Israele.
Tra loro, ben 5 minori di 18 anni, inclusa Aya al-Astal, una bambina di nove anni che si era persa, così piccola che uno dei soccorritori palestinesi ebbe ad affermare che “sembrava una bambola”, e che ha avuto in dono da Tsahal una raffica di pallottole che le ha letteralmente squarciato lo stomaco (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/02/donne-e-bambini-le-vittime-preferite.html).
Dei nove Palestinesi uccisi, cinque non erano nemmeno nelle immediate vicinanze della barriera di confine, ma distavano da essa tra i 100 e i 500 metri, mentre negli altri quattro casi si trattava di civili che cercavano di entrare illegalmente in Israele per trovare lavoro; in tutti e nove i casi, si trattava di civili disarmati, come ammesso dallo stesso esercito israeliano, in tutti e nove i casi a questi sfortunati non è stata data alcuna possibilità di allontanarsi o di arrendersi, ma solo quella di essere barbaramente trucidati in nome della “sicurezza” di Israele.
Non è, dunque, campata in aria l’ipotesi che la zona immediatamente adiacente alla barriera di separazione tra Gaza e Israele sia divenuta una sorta di “zona della morte”, a cui basta soltanto avvicinarsi per rischiare la vita.
E non è nemmeno un caso che, negli ultimi tempi, le regole sull’utilizzo delle armi da fuoco non vengano più impartite per iscritto, come avveniva in passato, ma siano fornite ai soldati, oralmente, direttamente dai loro comandanti sul campo.
Tutto questo, naturalmente, contravviene ad ogni standard internazionale relativo all’uso delle armi da fuoco, nonché alle più basilari norme del diritto umanitario.
Un principio fondamentale in questa materia, infatti, vuole che ogni parte in conflitto distingua tra combattenti e civili che non prendono parte alle ostilità, e che gli attacchi contro i civili siano assolutamente proibiti; in caso vi sia dubbio se una persona sia un combattente o un civile disarmato, si dovrà presumere che egli sia senz’altro un civile e ci si dovrà regolare di conseguenza.
Da ciò discende, come conseguenza, che sparare indiscriminatamente contro chiunque entri in una determinata area rappresenti senz’altro un crimine di guerra; i fatti sopra menzionati peraltro, per la loro gravità e sistematicità, costituiscono a mio giudizio dei veri e propri crimini contro l’umanità, che dovrebbero essere perseguiti con fermezza dalla comunità internazionale.
Dovrebbero.
Viene così a delinearsi, una volta di più, la reale portata di quel coraggioso passo verso la pace rappresentato dal ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza.
Oggi Gaza è nulla più di un enorme campo di concentramento, in cui i Palestinesi vengono strangolati e affamati dalla chiusura pressoché totale dei valichi di entrata e uscita delle merci operata da Israele.
Un campo di concentramento in cui quotidianamente i Palestinesi vengono uccisi, con cannoneggiamenti dal mare, fucilate da terra, bombardamenti dall’aria.
In poco più di 24 ore, tra venerdì e sabato (ma di questo parleremo successivamente), l’aviazione israeliana ha compiuto tre incursioni, uccidendo complessivamente 14 Palestinesi, tra cui un bambino di 5 anni, e ferendone numerosi altri.
Alcuni giorni fa, nel corso di un cannoneggiamento di obiettivi situati nella Striscia di Gaza, tra gli altri è rimasto ferito un bambino palestinese di soli 6 mesi.
Nel frattempo l’Unione europea, seguendo l’esempio degli Usa, ha deciso di sospendere ogni aiuto economico ai Palestinesi: sembrerebbe che l’Anp a guida Hamas debba ufficialmente dichiarare di voler convivere in pace con gli Israeliani.
Bene, ma chi si occupa di convincere gli Israeliani a convivere in pace con i Palestinesi?
Non ci si aspettava nulla dagli Usa, ma spiace davvero che anche l’Ue abbia abbandonato ogni sia pur minima parvenza di “honest broker” nel conflitto, abbandonando il popolo palestinese al suo destino di miseria e di morte, in balia di un nemico brutale e spietato.
Spiace che nemmeno il Papa Benedetto XVI abbia trovato il tempo di ricordare a Peres che la vita umana è sacra, persino quella dei Palestinesi, forse era troppo impegnato a discutere del regime giuridico dei beni della Chiesa in Terrasanta.
Spiace che nemmeno le maggiori organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani, Amnesty e Human Rights Watch in testa, non abbiano speso neppure una parola, in questi mesi, per condannare il massacro dei civili palestinesi per mano di questi ebrei assassini.
Eppure i numeri parlano chiaro, e ci dicono che dal 1°gennaio al 7 aprile di quest’anno l’esercito israeliano ha ucciso ben 78 Palestinesi e ne ha feriti 318, contro 6 Israeliani uccisi per mano palestinese: nessun dubbio, dunque, dovrebbe sussistere su chi sia l’aggressore, su chi sia il “terrorista”.
Ma l’amara verità, purtroppo, è che i Palestinesi sono rimasti soli davanti ad un bivio: la pax israeliana (ovvero un simulacro di Stato sotto forma di bantustan) o la morte; soli, con la lodevole eccezione di un pugno di pacifisti e di qualche meritoria ong israeliana come B’tselem.
Un giorno Rachel Corrie, un’eroina della pace dei nostri giorni, morta schiacciata da un bulldozer israeliano, ebbe ad annotare sul suo diario: “Questo deve finire. Io penso sia una buona idea per tutti noi lasciar stare tutto il resto e dedicare le nostre vite a far finire questo”.
Ma Rachel è morta, e il resto del mondo, evidentemente, la pensa in maniera diversa.

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2 Commenti:

Alle 9 aprile 2006 alle ore 21:23 , Blogger InOpera ha detto...

telecamere per tommy !!!

oramai siamo alla "mercificazione" del dolore. forse è questa la cosa che non quadra.

e questo è triste.

gli altri bambini? fanno poco ascolto...peccato, ma il mercato ha le sue regole ferree da rispettare!!!

 
Alle 8 dicembre 2019 alle ore 12:30 , Blogger ebru ha detto...


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