Un problema particolare.
La lenta ma costante opera di annessione di buona parte della West Bank da parte di Israele si accompagna ad un’altrettanta inesausta opera di “pulizia etnica” dei territori interessati, una tecnica subdola e strisciante che si attua soprattutto, come osservava recentemente Ilan Pappe, attraverso un meccanismo giornaliero di deumanizzazione e di abusi, sia burocratici sia militari, piuttosto che attraverso un vero e proprio trasferimento forzato, il cui principale propugnatore resta Avigdor Lieberman.
Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme est, in cui l’opera di alterazione degli equilibri demografici e di giudaizzazione della città si attua attraverso quattro strumenti principali:
1) l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, attuata principalmente a mezzo del muro di “sicurezza”, che rende oltremodo difficile e penoso l’accesso ai servizi più basilari quali la sanità e l’educazione, nonché il raggiungimento del posto di lavoro per molti residenti palestinesi;
2) la palese discriminazione tra arabi ed ebrei per quanto attiene le espropriazioni, i permessi per costruire nuove abitazioni, le demolizioni;
3) la diseguale distribuzione del budget municipale tra le due parti della città, con negative conseguenze per i servizi e le infrastrutture destinate alla fruizione della popolazione araba;
4) la revoca della cittadinanza, e dei benefici sociali collegati, per i Palestinesi che restano all’estero per almeno 7 anni o che non riescono a provare che il centro della loro vita e dei loro interessi è a Gerusalemme.
Quest’ultimo strumento è applicato in un sempre crescente numero di casi, come segnalato recentemente da B’tselem, secondo cui, solo nel 2006, i Palestinesi a cui è stato revocato il permesso di residenza e che sono stati espulsi effettivamente dalla città sono stati ben 1.363.
Il pretesto più comune usato a tal fine – secondo l’ong israeliana – consiste nel denunciare il possesso da parte dei Palestinesi di un passaporto straniero, il che permette la revoca del loro status di “residenti permanenti” in Israele.
Ciò segnala una palese discriminazione razziale a danno dei Palestinesi, dato che un cittadino israeliano normalmente può possedere diversi passaporti e trascorrere la sua vita all’estero senza che alcuno si sogni di mettere in discussione il suo status di cittadino di Israele.
E questo è quello che sappiamo (dalle ong e/o dalla stampa estera, perché in Italia i media si occupano di tutt’altro).
Quello che è meno noto, potremmo dire sconosciuto ai più, è il fenomeno della pulizia etnica all’interno dello Stato di Israele, di cui non si occupano nemmeno quei fenomenali difensori dei diritti umani quali Amnesty o, soprattutto, Human Rights Watch, così intenti a bastonare il mondo arabo (ed anche giustamente) per le numerosi violazioni dei diritti ma, di tutta evidenza, un po’ distratti quando si discute di quel bastione di civiltà che è lo Stato israeliano.
Così può accadere, quietamente e tranquillamente, che uno schieramento inusitato di 1.500 poliziotti e addetti vari, con l’ausilio di cinque bulldozer, procedano (come è accaduto lunedì scorso) alla demolizione di 25 casupole e baracche di alluminio nei villaggi beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir, nel deserto del Negev, lasciando senza un tetto circa 150 persone.
Succede infatti che la Israel Land Administration (ILA) abbia deciso di distruggere i due villaggi (ufficialmente non riconosciuti) e di trasferirne gli abitanti, per far posto ad una comunità ebraica denominata Hiran, che dovrà essere stabilita sull’area.
E, tanto per aggiungere alla vicenda già triste un ulteriore tocco di brutalità (cosa di cui gli ebrei israeliani sono maestri), i poliziotti, al fine di accelerare le operazioni, hanno impedito alle donne del villaggio di portar fuori da sé i loro bambini, ma hanno afferrato i box con i bimbi dentro e hanno provveduto personalmente alla bisogna (vedi foto).
E già, non perdiamo tempo con dei pezzenti e i loro bambini piagnucolosi, svegliati all’improvviso, terrorizzati, e trascinati fuori dalla loro casa, cerchiamo di sbrigarci!
Secondo Adalah, un’organizzazione per la tutela dei diritti delle minoranze arabe in Israele, i residenti del villaggio erano lì da ben 51 anni; correva l’anno 1956, infatti, quando questi poveri Beduini furono trasferiti in quel sito, mentre la terra che originariamente possedevano veniva trasferita al kibbutz Shoval.
La ILA, nell’agosto del 2001, predispose un rapporto sulla creazione di nuove comunità, e tra queste vi era per l’appunto Hiran, la cui istituzione fu approvata dal governo israeliano nel 2002; successivamente, nel 2004, lo Stato richiese un’ordinanza giudiziale di sgombero, sostenendo che i Beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir occupavano la terra di proprietà statale senza alcun permesso.
Ma non erano stati loro a trasferirli là?
Il rapporto ILA del 2001 faceva riferimento ai Beduini residenti nell’area, rubricandoli alla voce “problemi particolari”, che avrebbero potuto pregiudicare il sorgere della nuova comunità ebraica.
Ma non è stato poi un problema così “particolare” e difficile da risolvere, è bastato schierare un numero sufficiente di addetti allo sgombero e di poliziotti (1.500!), è bastato afferrare e buttare fuori dalle case gli effetti personali dei residenti, ivi compresi i box con i bambini dentro.
Benvenuti in Israele, il focolare domestico degli ebrei, della pulizia etnica, del razzismo, della disumanità.
Ciò è particolarmente evidente a Gerusalemme est, in cui l’opera di alterazione degli equilibri demografici e di giudaizzazione della città si attua attraverso quattro strumenti principali:
1) l’isolamento fisico di Gerusalemme est dal resto della West Bank, attuata principalmente a mezzo del muro di “sicurezza”, che rende oltremodo difficile e penoso l’accesso ai servizi più basilari quali la sanità e l’educazione, nonché il raggiungimento del posto di lavoro per molti residenti palestinesi;
2) la palese discriminazione tra arabi ed ebrei per quanto attiene le espropriazioni, i permessi per costruire nuove abitazioni, le demolizioni;
3) la diseguale distribuzione del budget municipale tra le due parti della città, con negative conseguenze per i servizi e le infrastrutture destinate alla fruizione della popolazione araba;
4) la revoca della cittadinanza, e dei benefici sociali collegati, per i Palestinesi che restano all’estero per almeno 7 anni o che non riescono a provare che il centro della loro vita e dei loro interessi è a Gerusalemme.
Quest’ultimo strumento è applicato in un sempre crescente numero di casi, come segnalato recentemente da B’tselem, secondo cui, solo nel 2006, i Palestinesi a cui è stato revocato il permesso di residenza e che sono stati espulsi effettivamente dalla città sono stati ben 1.363.
Il pretesto più comune usato a tal fine – secondo l’ong israeliana – consiste nel denunciare il possesso da parte dei Palestinesi di un passaporto straniero, il che permette la revoca del loro status di “residenti permanenti” in Israele.
Ciò segnala una palese discriminazione razziale a danno dei Palestinesi, dato che un cittadino israeliano normalmente può possedere diversi passaporti e trascorrere la sua vita all’estero senza che alcuno si sogni di mettere in discussione il suo status di cittadino di Israele.
E questo è quello che sappiamo (dalle ong e/o dalla stampa estera, perché in Italia i media si occupano di tutt’altro).
Quello che è meno noto, potremmo dire sconosciuto ai più, è il fenomeno della pulizia etnica all’interno dello Stato di Israele, di cui non si occupano nemmeno quei fenomenali difensori dei diritti umani quali Amnesty o, soprattutto, Human Rights Watch, così intenti a bastonare il mondo arabo (ed anche giustamente) per le numerosi violazioni dei diritti ma, di tutta evidenza, un po’ distratti quando si discute di quel bastione di civiltà che è lo Stato israeliano.
Così può accadere, quietamente e tranquillamente, che uno schieramento inusitato di 1.500 poliziotti e addetti vari, con l’ausilio di cinque bulldozer, procedano (come è accaduto lunedì scorso) alla demolizione di 25 casupole e baracche di alluminio nei villaggi beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir, nel deserto del Negev, lasciando senza un tetto circa 150 persone.
Succede infatti che la Israel Land Administration (ILA) abbia deciso di distruggere i due villaggi (ufficialmente non riconosciuti) e di trasferirne gli abitanti, per far posto ad una comunità ebraica denominata Hiran, che dovrà essere stabilita sull’area.
E, tanto per aggiungere alla vicenda già triste un ulteriore tocco di brutalità (cosa di cui gli ebrei israeliani sono maestri), i poliziotti, al fine di accelerare le operazioni, hanno impedito alle donne del villaggio di portar fuori da sé i loro bambini, ma hanno afferrato i box con i bimbi dentro e hanno provveduto personalmente alla bisogna (vedi foto).
E già, non perdiamo tempo con dei pezzenti e i loro bambini piagnucolosi, svegliati all’improvviso, terrorizzati, e trascinati fuori dalla loro casa, cerchiamo di sbrigarci!
Secondo Adalah, un’organizzazione per la tutela dei diritti delle minoranze arabe in Israele, i residenti del villaggio erano lì da ben 51 anni; correva l’anno 1956, infatti, quando questi poveri Beduini furono trasferiti in quel sito, mentre la terra che originariamente possedevano veniva trasferita al kibbutz Shoval.
La ILA, nell’agosto del 2001, predispose un rapporto sulla creazione di nuove comunità, e tra queste vi era per l’appunto Hiran, la cui istituzione fu approvata dal governo israeliano nel 2002; successivamente, nel 2004, lo Stato richiese un’ordinanza giudiziale di sgombero, sostenendo che i Beduini di Um Al-Hiran e di A-Tir occupavano la terra di proprietà statale senza alcun permesso.
Ma non erano stati loro a trasferirli là?
Il rapporto ILA del 2001 faceva riferimento ai Beduini residenti nell’area, rubricandoli alla voce “problemi particolari”, che avrebbero potuto pregiudicare il sorgere della nuova comunità ebraica.
Ma non è stato poi un problema così “particolare” e difficile da risolvere, è bastato schierare un numero sufficiente di addetti allo sgombero e di poliziotti (1.500!), è bastato afferrare e buttare fuori dalle case gli effetti personali dei residenti, ivi compresi i box con i bambini dentro.
Benvenuti in Israele, il focolare domestico degli ebrei, della pulizia etnica, del razzismo, della disumanità.
Etichette: beduini, Israele, palestina, pulizia etnica
5 Commenti:
Purtroppo questi "problemi particolari" sono all'ordine del giorno. Un popolo usurpato della propria terra che pian piano sta scomparendo sotto l'egemonia militare di uno Stato terrorista. Ciao. Freenfo
...purtroppo, quando c'è di mezzo la politica israeliana (ed USA), diventa tutto molto "particolare"...
un saluto e a presto
orso
questo è l'articolo di un giornalista israeliano sull'episodio evidenziato
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=8242
qui viene condannato l'uso di sostanze chimiche sui campi dei beduini per costringerli ad andarsene
http://www.haaretz.com/hasen/spages/848950.html
tutto ciò ha del vergognoso. questo susseguirsi di eventi irrintracciabili sugli organi di stampa italiani è frustrante. mi permetto di segnalarti un articolo da infopal:
http://www.infopal.it/testidet.php?id=5688
4000 palestinesi sbandati al confine con l'egitto, e noi non stiamo "neppure" a guardare, proprio ce ne freghiamo...
ti abbraccio, emanuele.
Grazie ad arial per il link all'articolo di peacereporter, che racconta in maniera più esaustiva l'inganno e la brutalità adottati da Israele nell'evacuazione dei beduini.
Il silenzio della stampa italiana su quanto accade in Israele e nei Territori occupati, come sottolinea Emanuele, è assolutamente sconvolgente.
Così come è sconvolgente l'acquiescenza della comunità internazionale rispetto alla inosservanza da parte israeliana di trattati e accordi pure liberamente sottoscritti.
Oggi Gaza (in base all'accordo denominato AMA) dovrebbe essere collegata alla West Bank a mezzo di convogli di bus e di camion.
Da Gaza, via Rafah, i Palestinesi dovrebbero essere liberi di entrare ed uscire.
Tutto questo non avviene e non si capisce come possa passare la menzogna giudaica del "ritiro da Gaza" se gli Israeliani continuano a controllare financo i registri dello stato civile!
Ieri a Rafah è morta una donna di 31 anni, madre di 5 figli, malata, uccisa dagli stenti.
Posso ancora essere libero di definire questo un crimine "nazista", che pesa sulla coscienza del civilissimo popolo di Israele?
Un caro saluto,
Vichi
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