29 aprile 2008

Israele e il prototipo islamista.

Israele visto come una delle maggiori cause del prevalere del radicalismo nel mondo arabo e musulmano in un interessante articolo apparso il 3 aprile su Bitterlemons International, proposto nella traduzione offerta da Arabnews.
3/4/2008
Senza volerlo, Israele è diventato una delle maggiori cause del radicalismo nel mondo arabo e musulmano. Sottolineo il fatto che ciò potrebbe non essere intenzionale, perché la sola idea di Israele quale entità esclusivamente ebraica ha servito da punto di richiamo per un’intera serie di movimenti parzialmente violenti, dai socialisti “di sinistra” ai “jihadisti” islamisti. In altre parole, quest’opposizione radicale all’ideale sionista che sta al cuore della nazione israeliana esisterebbe comunque, al di là delle azioni dello stato.

Naturalmente, il fatto che Israele si identifichi con l’”Occidente” (cioè l’Europa occidentale e gli Stati Uniti) e la sua politica di potere “machiavellica” verso l’”Oriente” (cioè il mondo arabo e islamico) non hanno certo aiutato a integrarla a livello intellettuale e politico con l’Asia occidentale e il Nordafrica. Ma tendo a essere d’accordo con Jacqueline Rose, che nel suo libro “The Question of Zion” scrive che “il ‘sionismo’ si è sempre sentito minacciato, e spesso a ragione.” L’idea di Israele—i suoi miti fondativi, il suo atteggiamento esclusivista, la sua tassonomia del “noi contro loro”—è stata rifiutata dalla regione fin da subito.

In tale contesto, perseguire una politica della durezza è stato l’unico modo per affrontare l’apparente dilemma della legittimità di Israele in relazione ai suoi vicini. Le principali figure politiche israeliane non hanno mai nascosto che questa era la loro strategia. Si può intuire ciò dall’ammissione di Ben-Gurion che i primi sionisti non erano affatto benevoli verso i palestinesi; dall’affermazione di Yitzak Shamir che “né l’etica né la tradizione ebraica condannano il terrorismo come strumento di lotta”; dal linguaggio di Berl Katznelson, il maggior teorico del sionismo laburista, che dichiarò nel 1929 che “l’impresa sionista è un’impresa di conquista” e che non “è un caso se uso termini militari quando parlo di insediamento”; e dalle poesie di Yosef Brenner (1905): “Ascolta Israele! Non occhio per occhio! Ma due occhi per uno, e tutti i loro denti in cambio di qualunque tipo di umiliazione!”

Non sto dicendo che non ci fossero posizioni contrarie; ma nessuno storico di Israele che si rispetti – certamente non quelli critici come Shlomo Zand, Haim Gerber, Avi Shlaim o Ilan Pappe – negherebbe che la violenza sistematica fu essenziale per il consolidamento del potere israeliano in Palestina fra il 1947 e il 1948, e che la si ritenne necessaria per sostenere il giovane stato di Israele nei periodi successivi e ricorrenti di crisi. Questa violenza, che ha caratterizzato il riassetto della Palestina, ha portato a 7 guerre fra stati, numerosi atti di terrorismo da entrambe le parti, ed ha causato Jenin, e Sabra e Shatila. Ebbene, questa stessa violenza è stata incorporata e reificata dagli “indigeni”, dalle persone che abitano nella regione in cui si è radicata l’idea di Israele.

In questo senso si può dire che Israele ha prodotto il prototipo “islamista”, cioè persone come Nasrallah e Haniyeh, ed è per questo che ho cominciato col dire che Israele è una delle maggiori cause del radicalismo nel mondo arabo e islamico. Si potrebbe dire che il Caino della psiche israeliana abbia partorito la propria prole: Hamas come reazione all’occupazione protratta dei territori palestinesi, e Hezbollah in reazione alla violenta invasione del Libano nel 1982. Questi movimenti non avrebbero potuto operare politicamente né mobilitare ideologicamente le loro basi di sostegno fra la popolazione senza l’immagine del nemico israeliano. A mio parere, è per questo che sia Hamas che Hezbollah non sono mai esterni alle aggressioni israeliane; è per questo che nessuno di essi sfugge alla portata dell’altro, perché sono intrappolati all’interno di un’unica dialettica. Questo spiega perché gli attacchi continui a Hezbollah nel 2006 abbiano provocato contrattacchi palestinesi nei territori occupati, e perché il recente bombardamento di Gaza abbia aumentato il sostegno a Hamas in tutto il mondo islamico. Questo spiega anche perché la fazioni di destra che sostengono il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad abbiano intenzione di tenere gli iraniani in un perpetuo stato di allerta riguardo alla politica israeliana in Palestina, e in genere nella regione dell’Asia occidentale. Infatti, oggi chi parlerebbe di Ahmadinejad se non fosse per la sua famosa “tirata” sui miti fondativi dello stato israeliano?

Nel “Medio Oriente” di oggi non c’è letteralmente alcun territorio intellettuale e geografico che gli ebrei, i turchi, gli iraniani, i palestinesi, gli arabi, i cristiani, i musulmani, i copti, i curdi, ecc. potrebbero dire di loro appartenenza in totale indipendenza dagli altri. All’interno di questa costellazione, qualsiasi sforzo per definire Israele in senso esclusivamente religioso o etnico si può solo sostenere con l’aiuto di “muri di sicurezza” e del filo spinato. E` irrazionale definire un paese in contrasto con la regione in cui è radicato, a meno che, naturalmente, l’intera regione non venga ricodificata culturalmente, politicamente e ideologicamente per adattarsi alle preferenze dello stato israeliano e del suo “chaperon”, gli Stati Uniti. Ma, non ci sono sempre più movimenti radicali di portata globale che si oppongono a questo tipo di politica? E non sono adesso (diversamente da trent’anni fa) a capo di intere burocrazie, istituzioni, mass media, canali di comunicazione per propagare le loro vedute? Internet e la televisione satellitare non hanno reso molto più difficile la monopolizzazione dell’opinione pubblica, sia a livello nazionale che internazionale?

Nel 1948, Israele si è coscientemente insediato in una regione che era esistita senza lo stato ebraico per diversi millenni. Perciò, è inevitabilmente entrato in una relazione di interdipendenza immanente. Ne dovrebbe conseguire, piuttosto logicamente, che il paese condivide un destino comune con le popolazioni della regione, e che non può continuare a raccontarsi e a costituirsi senza di esse. La vecchia guardia, generazioni e generazioni di uomini politici, storici “di corte”, e attivisti legati al regime, non sono riusciti a presentare una difesa intellettuale convincente dell’esistenza di uno stato ebraico esclusivista, legato all’identità occidentale in senso culturale e intellettuale. Se non hanno convinto la maggioranza razionale, come potranno vincere contro gli estremisti violenti?

Perciò, continua a essere responsabilità degli intellettuali critici scoprire le fondamenta di queste identità apparentemente primordiali, fino ad arrivare ai residui ideologici che sono così diversi dal miscuglio di miti, invenzioni e complete bugie che ci vengono propinati tutti i giorni. I “nuovi storici” hanno intrapreso questo sforzo in relazione ad Israele, ed è da parecchio tempo che gli intellettuali palestinesi si sono impegnati in un progetto simile. Altri arabi e musulmani, soprattutto gli iraniani e i turchi sono stati più lenti a farlo, anche perché troppo spesso sono presi dall’esaltazione nazionalista o da fantasie religiose uni-dimensionali. La lotta per una pace sostenibile in Palestina e in Iraq, in Afghanistan e in Libano, non può che svilupparsi da un nuovo intellettualismo, una coscienza critica che generi proteste contro i crimini commessi dai governi e contro coloro che li difendono. Questo è uno sforzo comune, ed è ora che venga fornito di un archivio storico condiviso.

Arshin Adib-Moghaddam è autore del libro “Iran in World Politics: The question of the Islamic Republic and The International Politics of the Persian Gulf”; insegna alla School of Oriental and African Studies di Londra

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2 Commenti:

Alle 30 aprile 2008 alle ore 11:13 , Blogger Melina2811 ha detto...

non conosco bene la situazione politica del mio-oriente... o meglio con tutti i problemi che abbiamo preferisco seguire la nostra..

 
Alle 30 aprile 2008 alle ore 15:00 , Blogger vichi ha detto...

Gentile melina, è anche vero che i media italiani non concedono molto spazio alla questione palestinese, qualcosa in più al medio oriente nel suo complesso, e che per trovare una informazione più completa e attendibile bisogna rivolgersi alla stampa estera.
Ma non dobbiamo commettere l'errore di pensare che quel che accade in medio oriente non ci riguardi affatto o non abbia refluenze anche da noi.
Un caro saluto,
Vichi

 

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