13 luglio 2008

In Iraq gli Usa copiano Israele.

Da Arabnews riporto la traduzione di questo interessante articolo di Ahmad bin Rashid bin Saeed, pubblicato il 5 luglio sul website in lingua inglese Dar al Hayat, in cui si da conto della “israelizzazione” della guerra condotta dagli Usa in Iraq, attraverso l’adozione delle medesime tecniche utilizzate da Israele contro la popolazione civile palestinese: muri, barriere, ghetti, raid aerei, eliminazioni “mirate”, squadroni della morte. Con gli stessi risultati in termini di vittime civili innocenti e di violazione dei diritti umani fondamentali, e con il sospetto che gli Usa si stiano attrezzando a perpetuare l’occupazione anziché pianificarne la fine.

5.7.2008

In Iraq, l’esercito americano che ha occupato il paese è impegnato a costruire muri e barriere di cemento, in applicazione della teoria delle ‘comunità chiuse’ (Gated Communities). Soltanto a Baghdad sono stati eretti 12 muri che separano almeno 11 quartieri sunniti e sciiti, determinando una frammentazione sociale e commerciale che l’Iraq non aveva mai conosciuto prima. Altri muri sono stati costruiti in diverse città irachene, mentre la città di Fallujah è completamente circondata da una barriera di filo spinato che ha un solo varco, in corrispondenza del quale vi è l’ingresso della città.

Nel frattempo, le truppe americane compiono periodicamente campagne di arresti, e bombardano le abitazioni dei ‘sospettati’. Gran parte della città di al-Dawra, come ha riferito un giornalista americano, è ormai una “città di spettri”. La vittoria americana in Iraq ha ridotto la città in uno stato di avvilente miseria. Le acque delle condotte fognarie riempiono le strade, e cumuli di rifiuti e di detriti spiccano fra le pozze inquinate.

Ma la cosa che maggiormente attira l’attenzione della gente di al-Dawra è il muro, alto più di tre metri e mezzo, costruito dagli americani per separare le fazioni in conflitto ed obbligare gli abitanti a rimanere nei propri luoghi di residenza. A causa di quel muro, al-Dawra appare desolata e priva di vita. In Iraq, la strategia americana della violenza, fondata sulle operazioni militari, sui bombardamenti mirati, e sulla costruzione di muri, non è un’invenzione dei teorici del Pentagono, ma è derivata dall’esperienza israeliana nello scontro con il popolo palestinese. In tutta la Cisgiordania, ed intorno alla sventurata Striscia di Gaza, Israele ha eretto muri di separazione, barriere e posti di blocco, trasformando le regioni palestinesi in ghetti ed in zone isolate fra loro, separando il fratello dal fratello, il vicino dal vicino, il contadino dalla sua terra, lo studente dalla sua scuola. Intorno alla terra assediata, ed anche al suo interno, è stata impiantata una serie di insediamenti, che si propagano (in base a quello che viene chiamato uno ‘sviluppo naturale’) ed i cui abitanti si moltiplicano.

Questa politica dei muri viene sostenuta da una continua osservazione dall’alto dei movimenti della resistenza, in preparazione di operazioni di ‘bonifica’ portate a termine con i missili degli elicotteri Apache. Nella Striscia di Gaza, la barbarie delle barriere di cemento ha raggiunto il culmine dopo il ritiro israeliano del 2005. Più di un milione e mezzo di persone vivono ora una vita disumana all’interno di una grande gabbia in cui tutti i progressi che l’umanità aveva compiuto in termini di libertà e diritti umani sono stati cancellati. Gli israeliani, da soli, controllano le necessità vitali degli abitanti di Gaza, attraverso valichi di confine attrezzati con le più moderne tecnologie, da cui lanciano campagne di morte e distruzione sistematica nella Striscia di Gaza. Ciò che accade a Gaza è stato riprodotto in Iraq, dove gli americani hanno portato avanti una ‘israelizzazione’ del conflitto. Un cittadino iracheno, riferendosi al varco nel muro di cemento che circonda al-Amariya (un sobborgo a ovest di Baghdad), lo ha chiamato il ‘valico di Rafah’ (il valico che separa la Striscia di Gaza dall’Egitto (N.d.T.) ).

L’impronta israeliana salta agli occhi. La guerra che gli americani conducono in Iraq e in Afghanistan adotta le stesse tattiche degli israeliani. Il pantano iracheno ha spinto il Pentagono a fare ricorso alle esperienze israeliane. Secondo il commentatore americano Mike Davis, alcuni ‘consulenti’ israeliani hanno addestrato elementi dei marines nelle più moderne tecniche di caccia all’uomo, di distruzione delle abitazioni e di assedio dei quartieri abitati. L’ ‘israelizzazione’ della guerra americana è stata il risultato, come afferma Davis, della ‘sharonizzazione’ della visione del Pentagono.

Questa visione può essere riassunta nell’affermazione secondo cui la violenza è l’unica strada per “risolvere il problema palestinese”. In altre parole, per usare l’affermazione dello stesso Sharon, “ciò che non può essere ottenuto con la forza, lo si può ottenere facendo un uso maggiore della forza”. Sharon teneva sul proprio comodino una traduzione ebraica del libro ‘A Savage War of Peace: Algeria 1954–1962’ dello storico inglese Alistair Horne, che documenta la sconfitta della Francia in Algeria. Molti ritenevano che quella sconfitta fosse la dimostrazione del fallimento del colonialismo, ma Sharon era convinto che la sconfitta della Francia fosse una lezione che Israele doveva mettere a frutto, e che gli israeliani potessero evitare gli errori commessi dai francesi in Algeria. Il giornalista britannico Robert Fisk racconta che Sharon disse all’ex presidente francese Jacques Chirac, nel corso di una conversazione telefonica, che gli israeliani sono “come voi in Algeria”, con una sola differenza, e cioè che “noi resteremo”.

Un altro giornalista britannico, Justin Huggler, scrisse sul quotidiano ‘The Independent’ che l’operazione ‘Scudo Difensivo’ scatenata da Sharon contro la città di Jenin nell’aprile del 2002 fu seguita con interesse dai militari americani e britannici che stavano pianificando l’invasione dell’Iraq. La violenza americana in Iraq è dunque debitrice nei confronti di Sharon e delle esperienze israeliane accumulate nella guerra con i palestinesi. E’ una violenza totale e sistematica che prevede la chiusura delle città e dei villaggi con il filo spinato, l’irruzione nelle case, la distruzione delle abitazioni dei ‘sospettati’, dei sistemi d’irrigazione e dei campi coltivati, la presa in ostaggio dei civili, l’uso della tortura, l’utilizzo di squadre specializzate negli assassini mirati.

Il giornalista Julian Borger del ‘Guardian’ ha attribuito a un ex responsabile dei servizi segreti americani una dura critica nei confronti del ricorso americano all’esperienza israeliana durante la guerra in Iraq. Egli avrebbe detto: “Ecco che nel mondo arabo veniamo paragonati a Sharon; ma noi lo abbiamo dimostrato copiando gli israeliani e creando squadre specializzate negli assassini mirati”. Borger riferisce che un altro responsabile americano aveva affermato che unità speciali israeliane avevano addestrato soldati americani a Fort Bragg, nel North Carolina, e che “alcuni israeliani sono andati in Iraq, non per addestrare soldati, ma per fornire servizi di consulenza”.

Ma le prove più evidenti dell’ ‘israelizzazione’ della guerra americana in Iraq sono rappresentate dalla trasformazione delle regioni irachene in settori separati e ghetti, circondati da muri e barriere, ed attentamente monitorati e sorvegliati dall’alto. Gli Stati Uniti hanno imparato dall’alleato israeliano a gestire l’occupazione, invece di pianificarne la fine. Israele non prova un solo giorno il senso di sicurezza che cerca, e sembra che non lo proverà mai, poiché sa di aver usurpato una terra non sua, e di aver distrutto la società che l’abitava prima della fondazione dello stato ebraico.

Ma perché l’America si è mischiata con lo stato ebraico, uno stato che vive un senso di insicurezza e di guerra perenne? Perché ne ha adottato le tattiche barbare di assedio e di isolamento delle città? In Cisgiordania avanza la barbarie del muro, che inghiotte pascoli e terreni coltivati, devasta villaggi e distrugge uliveti. Il muro raggiunge una lunghezza di 600 Km, e un’altezza di 8 metri (il muro di Berlino era lungo 155 Km ed alto 3,6 metri). Centinaia di terreni coltivati sono stati brutalmente divisi in due, ed i loro proprietari non sanno come raggiungerli. In pratica, il muro annette il 54 % della Cisgiordania a Israele, tracciando in questo modo i confini del promesso stato palestinese. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, più di 274.000 palestinesi si troveranno a vivere nelle regioni racchiuse fra il muro e la linea verde, o in enclave completamente circondate dal muro. La cittadina di Abu Dis, a est di Gerusalemme, è stata letteralmente divisa in due dal muro, che ha inghiottito il 40 % dei suoi terreni coltivati, facendo sì che gli abitanti di questa città corrano il rischio di doverla abbandonare.

Non ha senso parlare di globalizzazione, di dialogo fra le culture e di rispetto delle libertà fino a quando i muri, il filo spinato e i posti di blocco soffocheranno interi popoli. Soltanto il dialogo ed il prevalere del linguaggio della ragione sul linguaggio della violenza possono garantire la convivenza e la stabilità a livello mondiale. Verso la fine dello scorso aprile il governo egiziano ha completato la costruzione di un muro al confine con la Striscia di Gaza, con un costo stimato di 400 milioni di dollari, e con l’aiuto del genio militare americano. Il giornalista Steve Niva ricorda che nell’inverno del 2006 Henry Kissinger regalò al presidente Bush una copia dello stesso libro di Horne, ‘A Savage War of Peace’. Tuttavia gli americani non hanno realizzato la pace, e sembra che non abbiano imparato le lezioni della storia.

Ahmad bin Rashid bin Saeed è un giornalista e accademico saudita; insegna presso la King Saud University

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