16 gennaio 2010

La Gaza Freedom March: cronaca e bilancio.

Ricevo dalla lista conflitti di Peacelink e pubblico questo bel resoconto degli eventi e delle prospettive legate alla Gaza Freedom March, scritto a cura del Forum Palestina.

Posso solo aggiungere lo sgomento personale per il pressocché totale silenzio dei maggiori media italiani sull'argomento, non solo sulle violenze a danno dei manifestanti ma anche e soprattutto sulla sempre più disastrosa situazione umanitaria nella Striscia di Gaza.

E l'amarezza e lo sdegno per il comportamento dell'Egitto, sempre più schiavo degli interessi sionisti e dei desiderata del generoso finanziatore Usa. Ci sarebbe da chiedere al fresco premio Nobel Obama come si sentirebbe e cosa farebbe se i suoi figli fossero costretti a vivere nel disumano ghetto di Gaza.

Ma già è più che chiaro il fatto che i comportamenti e le prese di posizione dell'attuale amministrazione targata Obama non si discostano in nulla, per quanto riguarda la questione palestinese, dalla precedente amministrazione Bush.

LA GAZA FREEDOM MARCH: CRONACA E BILANCIO DI UNA STRAORDINARIA ESPERIENZA DI LOTTA INTERNAZIONALISTA
A cura del Forum Palestina

“Israele controlla soltanto tre lati della Striscia. I confini settentrionale e orientale sono bloccati dall’esercito israeliano, quello occidentale dalla flotta israeliana. Il quarto, quello meridionale, è controllato dall’Egitto. Perciò l’intero blocco sarebbe inefficace senza la partecipazione dell’Egitto”.
(Il Muro d’acciaio – di Uri Avnery)

Nelle intenzioni degli organizzatori e dei partecipanti, la Gaza Freedom March avrebbe dovuto essere una manifestazione storica, probabilmente la più grande manifestazione internazionale della storia recente. Promossa dalla rete statunitense Code Pink, la Gaza Freedom March, nel primo anniversario dell’operazione “Piombo Fuso”, avrebbe portato quasi 1.500 attivisti, provenienti da tutto il mondo, a spezzare l’assedio cui è sottoposta da più di tre anni la Striscia di Gaza, dove un milione e mezzo di Palestinesi vivono in poco più di 350 km. quadrati, chiusi ad est dal mare, a nord ed ovest dai carri armati israeliani ed a sud dal confine con l’Egitto. E’ proprio attraverso quest’ultimo confine che gli attivisti internazionali intendevano entrare nella Striscia, avendo concordato con il governo del Cairo l’ingresso per il 28 dicembre e l’uscita per il 2 gennaio, con l’opportunità, per chi lo avesse desiderato, di poter rimanere a Gaza fino al 9 gennaio.

Nei mesi precedenti la fine del 2009, decine di organizzazioni di 42 Paesi si sono dunque attivate per partecipare alla Gaza Freedom March, ed a pochi giorni dalla partenza i numeri parlavano di 350 partecipanti dagli U.S.A., 300 dalla Francia, 150 dall’Italia e molti altri da Belgio, Spagna, Svizzera, Germania, Inghilterra, Scozia, Canada, Sud Africa, India, ecc., cui si aggiungevano delegazioni simboliche da molti Paesi arabi, come la Libia e la Siria.

Improvvisamente, a due giorni dalla partenza per il Cairo delle prime delegazioni, il governo egiziano ha comunicato agli ambasciatori dei 42 Paesi di provenienza degli Internazionali che la Marcia a Gaza non era autorizzata e che ogni manifestazione in territorio egiziano sarebbe stata repressa. In un primo momento, gli organizzatori non si sono lasciati impressionare, anche perché nessuna delle delegazioni che nei mesi precedenti avevano raggiunto Gaza dal confine egiziano (compresa quella del Forum Palestina del marzo scorso) aveva ottenuto l’autorizzazione ad attraversare il confine di Rafah prima di arrivare sul confine stesso; le delegazioni, quindi, hanno raggiunto il Cairo fra il 25 ed il 28 dicembre, data in cui sia noi che la delegazione francese, belga e svizzera avevamo programmato la partenza in pullman per Gaza, notificandola al governo egiziano. Fra l’altro, il divieto egiziano di manifestare a Gaza appariva surreale, perché un governo non può vietare una manifestazione che non si svolge sul suo territorio, ma su quello di un altro Paese, come se l’Italia vietasse una manifestazione prevista a Zurigo.

In realtà, i primi Internazionali giunti al Cairo si sono subito resi conto che l’intenzione del regime di Mubarak era quella di impedire l’accesso alla Striscia, in ossequio agli ordini arrivati da Tel Aviv e da Washington. La mattina del 28 dicembre, infatti, la polizia ed i servizi segreti di Mubarak hanno sequestrato i pullman prenotati per Rafah ed abbiamo avuto la sgradita sorpresa di trovarci bloccati in albergo, fra l’altro a più di venti chilometri dal centro del Cairo. Sentite le altre delegazioni, la decisione è stata quella di raggiungere le rispettive ambasciate, per costringerle a prendere posizione su quello che stava accadendo.

La delegazione del Forum Palestina ha quindi forzato, più o meno pacificamente, il blocco della polizia egiziana, avviandosi, con tutti i bagagli, verso il centro dell’immensa metropoli (che conta più di 20 milioni di abitanti), con i poliziotti che impedivano ai taxi di prenderci a bordo. Quella “passeggiata” è durata quasi due ore, quando gli agenti hanno finalmente smesso di allontanare i taxi ed abbiamo potuto prenderne alcuni e raggiungere l’ambasciata italiana. Naturalmente, abbiamo trovato l’ambasciata massicciamente presidiata dalla polizia egiziana, anche se non con l’atteggiamento minaccioso ostentato alle ambasciate francese, inglese, canadese e, soprattutto, statunitense. Per la verità, va detto che i diplomatici italiani hanno avuto un comportamento molto diverso da quello dei loro colleghi, adoperandosi per trovarci una sistemazione al Cairo, mentre – per esempio – l’ostilità dei rappresentanti francesi induceva la delegazione di Europalestine ad occupare con tende e sacchi a pelo il marciapiede di fronte alla loro ambasciata (ribattezzato la Striscia di Ghiza, dal nome del quartiere dove si trova l’edificio), occupazione che sarebbe durata per tutti i giorni successivi, diventando un importante punto di riferimento per tutti gli Internazionali.

Il giorno successivo, 29 dicembre, gli Internazionali raccolgono l’invito dei sindacati egiziani degli avvocati e dei giornalisti a manifestare davanti alle loro sedi, per protestare sia contro il divieto imposto alla Marcia che contro le continue violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Mubarak. Di queste violazioni nessuno chiede conto, essendo il regime egiziano il più importante alleato di Stati Uniti ed Israele nell’area, il che fa chiudere tutti e due gli occhi a governi e mass media occidentali sulla repressione, sulle torture e sulle uccisioni degli oppositori, per non parlare dei brogli elettorali che da trent’anni garantiscono al “Faraone” Hosni Mubarak ed alla sua corte di corrotti la maggioranza in un Parlamento peraltro privo di ogni potere reale.
La manifestazione viene controllata dai reparti antisommossa egiziani, che mantengono un atteggiamento tranquillo e non aggressivo, anche rispetto a quello adottato il giorno precedente di fronte a quasi tutte le ambasciate ed alla sede dell’ONU, anch’essa obiettivo di una manifestazione della Gaza Freedom March. Verso la fine della manifestazione, intorno alle 17.30, i rappresentati delle delegazioni vengono contattati da esponenti di Code Pink, che gli comunicano una notizia assolutamente imprevista, accompagnata da una sorta di ultimatum: attraverso una trattativa condotta segretamente dalla stessa Code Pink, in virtù del rapporto esistente fra alcune esponenti statunitensi e la moglie del presidente Mubarak, l’Egitto aveva accettato di consentire l’ingresso a Gaza, il giorno successivo, di un centinaio di delegati della Marcia e di tutti gli aiuti umanitari al seguito della delegazione stessa. Le condizioni sono drastiche, perché la risposta di tutte le delegazioni, compreso il nome del rappresentante scelto – solo uno per delegazione – deve pervenire entro le 19.00 ad una mail prestabilita. Le delegazioni possono inviare solo un delegato ciascuna perché la metà del gruppo è stata “occupata” dagli statunitensi.

Naturalmente, la proposta di Code Pink e del governo egiziano apre subito una drammatica discussione nella delegazione italiana, anzi in tutte e due le delegazioni italiane (la nostra e quella di Action for Peace), così come in tutte le altre. I tempi ristrettissimi e l’assenza di ulteriori informazioni credibili – perché alla storiella dell’intercessione della moglie di Mubarak non ci crede nessuno – rendono le discussioni ancora più tese. Esiste la consapevolezza che la proposta egiziana punta a dividere il fronte degli Internazionali, ma si fatica a capire come rispondere ad una mossa senza dubbio abile e cinica: infatti, se solo una parte delle delegazioni accettasse la proposta, l’obiettivo egiziano sarebbe raggiunto, ma il discorso vale anche all’inverso. Ci si misura con il rischio concreto che il giorno successivo possa segnare la fine prematura della Gaza Freedom March, anche perché non si riesce ad avere un’informazione completa e credibile delle caratteristiche dell’accordo raggiunto, oltre al fatto che della trattativa intercorsa la stragrande maggioranza degli Internazionali, compresi gli Statunitensi, erano completamente all’oscuro.

E’ necessario attendere le due del mattino, quando i compagni italiani che hanno partecipato alla riunione di tutte le delegazioni tornano a riferire, e quello che dicono spazza via ogni dubbio: tutte le delegazioni, compresa la maggioranza di quella statunitense, respingono la mossa egiziana e rifiutano di ridurre la Gaza Freedom March ad un’iniziativa meramente umanitaria. Sono risuonate durissime le parole di un compagno sudafricano, rivolte a quegli esponenti di Code Pink che avevano condotto i negoziati “riservati” con il governo egiziano: “Se ci fossimo comportati come voi, nel nostro Paese avremmo ancora l’apartheid”.

La situazione è divenuta talmente chiara che, dopo ore di discussioni e contrapposizioni, si decide in pochi minuti il comunicato stampa italiano e, soprattutto, di andare a contestare la partenza, di lì a quattro ore, dei due pullman che partiranno comunque per Gaza, con a bordo quei delegati che hanno accettato il ruolo impostogli dal governo egiziano e – bisogna dirlo – dalla gestione scellerata di una parte del gruppo dirigente di Code Pink. E’ ormai evidente, infatti, non solo la gravità dell’errore commesso dall’organizzazione che aveva promosso la Gaza Freedom March, ma pure la necessità di imprimere una svolta ad una situazione sull’orlo della disgregazione.

La partenza dei due pullman, prevista per le sette del mattino, si trasforma in una nuova manifestazione contro il regime egiziano, resa ancora più determinata dalla notizia che anche i referenti palestinesi della Marcia hanno respinto con sdegno la manovra egiziana. Centinaia di Internazionali, Statunitensi compresi, lanciano slogan e parlano con quelli che vorrebbero comunque partire, convincendoli a desistere ed a scendere dai pullman. Anche Walden Bello, che dal pullman salutava sorridendo i manifestanti, viene indotto a scendere da un poderoso coro di “Shame!” (Vergogna!) gridato dagli Internazionali. Alla fine, i due pullman partiranno mezzi vuoti, con a bordo soltanto alcuni Palestinesi – che ne approfittano per tornare a casa – e qualche delegato della Corea del Sud. Questa realtà ridicolizza la dichiarazione del Ministro degli Esteri egiziano, che definisce “buoni e onesti” quelli che hanno accettato di partire, e “hooligans” quelli che hanno deciso di rimanere al Cairo e continuare la protesta.

Gli hooligans hanno però il problema di riorganizzarsi, perché il ruolo dirigente di Code Pink si è oggettivamente sgretolato e c’è il rischio concreto di una dispersione delle energie e della disgregazione delle delegazioni, anche perché c’è chi, con una buona dose di immaturità e irresponsabilità, si inventa di ora in ora nuovi coordinamenti, gruppi di affinità e quant’altro. E’ qui che la “Striscia di Ghiza” assume un ruolo decisivo, perché è lì che si forma il coordinamento dei rappresentanti delle diverse delegazioni, costituito dalle compagne e dai compagni che per mesi hanno costruito la Gaza Freedom March nei rispettivi Paesi: Forum Palestina ed Action for Peace per l’Italia, Europalestine per la Francia, quattro diversi rappresentanti per le diverse associazioni U.S.A. non più unificate dall’ombrello di Code Pink e i delegati di Spagna, Germania, Svizzera, Inghilterra, Scozia, Canada, India, Sud Africa e Libia. La prima decisione del nuovo coordinamento è quella di tenere la Marcia nel pieno centro del Cairo la mattina del giorno successivo, ultimo dell’anno 2009.

L’appuntamento è al Museo Egizio, scelto perché è un luogo conosciuto visivamente in tutto il mondo, immediatamente identificabile nelle immagini che, si presume, documenteranno l’evento. La tattica scelta è quella detta “swarm of bees” (sciame di api), cioè la concentrazione improvvisa e il movimento veloce, che si pensa saranno favoriti dal fatto che l’area antistante il museo è sempre affollata di turisti e relativamente libera da poliziotti. In effetti, alle 10.00 in punto, i primi gruppi di manifestanti arrivati alla spicciolata riescono a concentrarsi, ma nel giro di pochissimi minuti affluiscono sul posto centinaia e centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa ed agenti in borghese dei servizi di sicurezza, che iniziano subito a picchiare selvaggiamente i dimostranti. In precedenza, quasi tutta la delegazione nordamericana era stata sequestrata nell’hotel Lotus, da cui era difficilissimo uscire.

Mentre i poliziotti in uniforme – perlopiù giovanissimi contadini analfabeti e privi di addestramento – vengono usati come massa di contenimento, i funzionari in borghese picchiano come fabbri, accanendosi in particolare contro le donne. Dopo una buona mezz’ora di tafferugli e pestaggi, non riuscendo a disperdere la manifestazione, la polizia costringe centinaia di Internazionali in un angolo dell’immensa piazza Tahrir, circondandoli con un triplo cordone di agenti. Da quell’angolo, continuano canti e slogan per la libertà di Gaza e della Palestina, contro il regime corrotto e collaborazionista di Mubarak.

Noi abbiamo due feriti: una compagna di Varese colpita al volto, probabilmente con un tirapugni, che perde molto sangue dal naso, ed un compagno di Roma, che in un primo momento sembra avere una gamba rotta. I medici della delegazione italiana, protetti da un cordone di compagne e compagni, allestiscono fulmineamente un punto di primo soccorso, che si prenderà cura degli Internazionali feriti dagli sgherri di Mubarak. Fra l’altro, le autorità egiziane bloccano le ambulanze, per cui un’altra volontaria italiana, colpita da un collasso, potrà essere portata via soltanto dopo l’intervento dell’ambasciata italiana, che invia una propria auto con i contrassegni diplomatici per prelevarla. Complessivamente, i feriti bisognosi di cure saranno una decina.

Gli Internazionali tengono la piazza per circa sei ore, mentre la notizia degli scontri fa il giro del mondo. Nonostante sia l’ultimo dell’anno, manifestazioni di protesta si materializzano di fronte alle ambasciate egiziane di Roma, Parigi, Londra ed altre capitali. Non siamo riusciti a raggiungere Gaza, ma siamo consapevoli di aver infranto il muro del silenzio sull’assedio e sulla rinnovata complicità del regime egiziano con lo Stato sionista e con i suoi sponsor a Washington ed in Europa, e questo ci ripaga di ogni stanchezza ed ogni tensione. Tuttavia, quando il coordinamento delle delegazioni decide che l’obiettivo della manifestazione è stato raggiunto e che si può abbandonare la piazza, sappiamo anche che non è finita, che abbiamo il dovere di aggiungere un altro elemento di lotta alla nostra forzata permanenza al Cairo. Per i delegati del coordinamento, la festa di Capodanno deve attendere: ci dobbiamo incontrare ancora nella Striscia di Ghiza, al riparo dei 300 irriducibili francesi e delle loro tende sul marciapiede.

L’elemento che ancora manca è la contestazione visibile del rapporto servile che lega il regime egiziano all’entità sionista, rappresentato dall’ambasciata di Tel Aviv, che ha sede in un grattacielo esattamente di fronte l’entrata del grande zoo del Cairo, non lontano dalla Striscia di Ghiza. Intorno al tavolo di un fast food, si mettono a punto i particolari: ricorreremo ancora allo “swarm of bees”, dislocandoci a piccoli gruppi vicino all’ingresso dello zoo per concentrarci all’improvviso davanti l’ambasciata, contando sul fatto che dovremmo essere centinaia, rispetto a non più di un paio di decine di poliziotti egiziani. Condizione fondamentale per la riuscita del blitz è il mantenimento del segreto, piuttosto improbabile, visto che dell’azione devono essere informate centinaia di persone, e che le stesse persone dovranno comunque muoversi da alberghi sottoposti a strettissima sorveglianza, per non parlare dei Francesi, che dovranno percorrere i cinquecento metri che separano la Striscia di Ghiza, presidiata da un numero impressionante di agenti, dalla piazza dello zoo.

Il blitz del primo giorno del nuovo anno funziona alla perfezione. All’orario convenuto, centinaia di api sciamano fino all’ambasciata israeliana, travolgendo pacificamente i pochi agenti egiziani presenti. Dalle auto e dagli autobus, i cittadini del Cairo assistono – stupefatti ed entusiasti – allo spettacolo straordinario delle bandiere palestinesi alzate davanti al simbolo dell’oppressione e del tradimento dei propri governanti, quelli che ricevevano con tutti gli onori il primo ministro israeliano, nelle stesse ore in cui facevano reprimere e picchiare gli amici della Palestina arrivati da ogni parte del mondo.

I reparti antisommossa impiegano almeno venti minuti per raggiungere l’ambasciata e schierarsi intorno agli Internazionali, stavolta senza ricorrere a violenze. Appare evidente che le reazioni nel mondo alle brutalità del giorno precedente pesano sull’immagine dell’Egitto, e poi persino un regime corrotto e screditato come quello di Mubarak avrebbe difficoltà a gestire con la propria opinione pubblica la repressione di una pacifica protesta contro lo Stato di Israele, il cui ambasciatore, infatti, chiede senza successo l’arresto immediato di tutti i manifestanti, mentre le cancellerie occidentali, stavolta, fanno sapere al governo egiziano di non gradire altri interventi repressivi contro i propri cittadini. La manifestazione si scioglie, come previsto, dopo un paio d’ore.

Nella serata, un grande saluto collettivo nella piazza Tahrir segna l’ultimo momento della Gaza Freedom March: un attivista legge la Cairo Declaration, elaborata – non a caso – dai delegati del Sud Africa, dove vengono riaffermati i punti fondamentali della solidarietà con i diritti del popolo palestinese e rilanciata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimenti e sanzioni contro l’Apartheid israeliano. La Dichiarazione viene acclamata da tutti gli Internazionali, e si avvia a diventare la piattaforma comune di lotta del movimento di solidarietà con il popolo palestinese.

La Gaza Freedom March conclude così il suo percorso in Egitto. Inizia quello lungo tutte le strade del mondo.

“In quanto israeliano, protesto contro il blocco israeliano. Se fossi egiziano protesterei contro il blocco egiziano. Come cittadino di questo pianeta, protesto contro entrambi”.
(Il Muro d’acciaio – di Uri Avnery)

Il bilancio sul risultato dell’adesione e della partecipazione del Forum Palestina alla Gaza Freedom March è più che positivo per almeno due aspetti: il primo è relativo all’obiettivo politico raggiunto nella settimana di mobilitazioni organizzate al Cairo insieme alle altre delegazioni, il secondo riguarda più direttamente la piattaforma politica e i progetti di lavoro su cui insistere nei prossimi mesi.

Nel primo anniversario del massacro di circa 1.400 palestinesi (con oltre 5.000 feriti) compiuto da Israele con l’operazione militare cosiddetta “Piombo Fuso”, il primo obiettivo della Gaza Freedom March era quello di manifestare insieme ai Palestinesi di Gaza nel corteo che il 31 dicembre dal nord di Gaza City avrebbe raggiunto il valico di Eretz, sostenendo il tal modo la loro resistenza e la loro lotta di liberazione, dopo aver concretamente rotto l’assedio cui è sottoposta la Striscia di Gaza dal giugno del 2007. Le nostre intenzioni hanno dovuto scontrarsi contro il muro che, come quello che materialmente l’Egitto sta costruendo al confine con Gaza, Israele - con la complicità della comunità internazionale - da quasi tre anni ha eretto attorno al milione e mezzo di palestinesi della Striscia.

Ci siamo confrontati direttamente con le politiche del regime di Mubarak, che ha dimostrato, ancora una volta, quanto l’Egitto assecondi il sistema dell’oppressione israeliana della Palestina, tenendo chiuso il valico di Rafah, costruendo un muro di acciaio (finanziato dagli U.S.A.) che scenderà per 18 metri sotto il suolo al confine, ma anche impedendo alle delegazioni internazionali di portare solidarietà all’interno della Striscia di Gaza. La mancata autorizzazione delle autorità egiziane all’ingresso della Gaza Freedom March, annunciata pochi giorni prima che tutte le delegazioni raggiungessero l’Egitto, è stata ribadita nei giorni successivi attraverso il divieto a lasciare il Cairo, il costante controllo cui erano sottoposti i delegati da parte della polizia e della sicurezza egiziane e la violenza con cui la polizia egiziana ha tentato di reprimere la manifestazione del 31 gennaio in piazza Taharir, di fronte al Museo Egizio, provocando diversi feriti tra i manifestanti.

Era ben chiaro che la nostra presenza aveva un fine tutto politico, ed era chiaro a noi che, pur senza entrare a Gaza, avremmo potuto esercitare delle pressioni e raggiungere, come abbiamo fatto, un obiettivo importante: quello di rendere note all’opinione pubblica mondiale, ai media occidentali e arabi, le motivazioni della nostra presenza in Egitto, la nostra condanna dell’infame politica coloniale di occupazione della Palestina, del crudele isolamento della Striscia di Gaza, e del sistema di complicità internazionale che garantisce tutta l’agibilità e l’impunità alle politiche israeliane. La consideriamo come una vittoria all’interno della nostra costante battaglia sull’informazione, che in Italia come in altri Paesi serve quotidianamente la propaganda israeliana attraverso il silenzio o la distorsione della realtà. Questa soddisfazione, naturalmente, non vuole nascondere la nostra amarezza per non aver potuto consegnare gli aiuti raccolti per la popolazione di Gaza, a partire dalla sottoscrizione per l’ospedale Al Awda (che ha superato i 30.000 euro). Ma non ci arrendiamo nemmeno su questo punto: sapremo trovare il modo per portare a termine anche questo compito.
Con un accordo inizialmente siglato tra l’Egitto e gli organizzatori statunitensi, ma poi respinto da tutte le delegazioni, il regime di Mubarak ha evidentemente tentato di depotenziare politicamente la Gaza Freedom March, proponendo l’invio di una delegazione ristretta di cento attivisti delle organizzazioni più «buone e sincere nella loro solidarietà con Gaza come noi [il regime]», come ha detto il Ministro degli Esteri egiziano Aboul Gheit, con il fine di consegnare gli aiuti. Un accordo considerato come una trappola, dopo un lungo e a volte aspro confronto interno e tra le delegazioni. La decisione di rifiutare quell’accordo, condivisa in un secondo tempo anche dalla maggior parte degli statunitensi di Codepink, che l’avevano inizialmente accettato, ha evitato di concedere un’occasione d’oro al regime di Mubarak per “togliersi facilmente dall’imbarazzo”, come hanno scritto da Gaza Haidar Eid e Omar Barghouti, rispetto ad una posizione sempre più fedele agli Stati Uniti e a Israele, e di garante degli attuali equilibri nell’area mediorientale, tesi all’isolamento del’Iran, della Siria e di Hamas, e quindi della Striscia di Gaza. Una politica avallata anche da un’ANP consenziente, come hanno dimostrato le parole di Abu Mazen, che ha rigettato su Hamas la responsabilità dell’assedio cui è sottoposta Gaza e “giustificato” la costruzione del Muro di Ferro al confine con l’Egitto, come peraltro ha fatto anche il Clero Islamico egiziano legato al regime di Mubarak.

A partire dal 27 dicembre, nei giorni in cui Mubarak teneva “colloqui amichevoli” con il primo ministro israeliano Netanyahu e con il presidente del’ANP Abu Mazen, le delegazioni internazionali della Gaza Freedom March hanno, di fatto, “assediato” il Cairo: i delegati del Forum Palestina hanno manifestato insieme ai compagni delle altre delegazioni nelle vie centrali del Cairo, lungo il Nilo, davanti alla sede delle Nazioni Unite, insieme agli egiziani davanti alla sede del Sindacato dei Giornalisti, nella piazza del Museo Egizio dove passano migliaia di turisti, e di fronte alla sede dell’Ambasciata Israeliana. Dopo la spaccatura interna a Code Pink, le delegazioni hanno tenuto sulla gestione delle iniziative, costituendosi in un coordinamento strategicamente omogeneo e propositivo.

Qui veniamo al secondo importante risultato raggiunto nei giorni della Gaza Freedom March: il consolidamento di un grande movimento internazionale di sostegno al popolo palestinese che si è dato un’agenda su cui lavorare e una piattaforma su cui basare l’attività politica internazionale e interna ai diversi paesi di provenienza. Il documento finale (Cairo Declaration), redatto su iniziativa della delegazione sudafricana, in nome della passata esperienza storica vissuta da un Paese per anni sotto il regime dell’apartheid, rilancia la Campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni nei confronti di Israele, sulla base di una piattaforma condivisa da tutti: l’autodeterminazione per il popolo palestinese, la fine dell’occupazione della Palestina, pari diritti per tutti all’interno della Palestina storica, il rispetto del diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Tutto questo, senza dimenticare che l’“oppressione della Palestina trova fondamentalmente origine nell'ideologia sionista”, e che Israele rimane il primo responsabile di quanto da più di 60 anni avviene in Palestina.

Gli eventi immediatamente successivi alla partenza dal Cairo delle delegazioni della Gaza Freedom March non hanno fatto che confermare l’analisi sul livello di complicità dell’Egitto con le politiche israeliane: di fronte al violento tentativo di reprimere anche l’iniziativa della Carovana Viva Palestina, riuscita in parte ad entrare a Gaza ma subito dopo espulsa dall’Egitto, di fronte alla dichiarazione del ministro degli esteri Gheit che ha ribadito il divieto a future carovane di entrare attraverso il valico di Rafah, di fronte a un territorio di confine sempre più incandescente, vista la protesta dei cittadini di Gaza contro la costruzione del muro, e alla ripresa di un livello di tensione militare che può esplodere di nuovo, l’Egitto si riconferma come un obiettivo su cui continuare a esercitare la nostra pressione e la nostra mobilitazione.

Siamo tornati in Italia con un enorme carico di lavoro da portare avanti, a livello nazionale e internazionale. La morsa intorno alla Striscia di Gaza si sta chiudendo, la costruzione del Muro d’Acciaio da parte dell’Egitto e il divieto anche per le delegazioni umanitarie dimostrano che Israele – con la complicità dei suoi servi nell'area - punta al collasso dell’anomalia rappresentata dal solo lembo di terra palestinese che sfugge al suo dominio. La mobilitazione contro questo nuovo crimine è il primo impegno di tutti gli amici del popolo palestinese nel mondo. Possiamo dire che la Gaza Freedom March non è finita, ma continuerà il suo percorso. Sembra proprio che si sia messa sulla giusta strada.

Con la Palestina nel cuore, fino alla vittoria.

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2 Commenti:

Alle 18 gennaio 2010 alle ore 00:17 , Anonymous Andrea ha detto...

Peccato che le ong filopalestinesi, piene e strapiene di soldi, non abbiano mandato nemmeno un euro a Haiti. Il popolo di Haiti non avrà mai nessuna organizzazione che si chiami Viva Haiti per aiutare quelli che davvero muoiono di fame, costretti a vendere i propri figli per un giaciglio o un po' di cibo. I paesi poveri, poverissimi non interessano a meno che non siano collegabili a ebrei e sionisti da diffamare e odiare.
I palestinesi suscitano tanto amore e interesse perchè i loro amici si dichiarano nemici degli ebrei e di Israele.
Nel frattempo Israele si da da fare a Haiti, sono arrivati da Gerusalemme ospedali da campo, camere operatorie, cani da salvataggio, squadre di Zaka che hanno già salvato 8 studenti, medici, paramedici, infermieri, soldati specializzati in catastrofi e il Maghen David Adom.

 
Alle 18 gennaio 2010 alle ore 02:43 , Blogger vichi ha detto...

Ecco i cantori della propaganda sionista che si aggiornano, prima c'era il Darfur e il Tibet, adesso la litania passa ad Haiti.

Ma come sei, scemo? Non hai letto o sentito di quanti soldi in pochissimo tempo si sono raccolti in tutto il mondo per Haiti?

E perchè non si può contemporaneamente aiutare i poveri cristi di Haiti e denunciare con forza il crimine umanitario che Israele commette ai danni dei Palestinesi di Gaza?

Crimine barbaro e disumano, questo si, assolutamente tenuto nascosto dai media di regime e "dimenticato" dal mondo politico di casa nostra, gli uni e l'altro asserviti allo strapotere della lobby ebraica.

A proposito, bella la diretta del tg1 sulla visita del Papa alla sinagoga di Roma, neanche lo spaventoso terremoto di Haiti ha avuto tanto spazio...

 

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