23 luglio 2010

La pulizia etnica a Gerusalemme est, un cancro che mina ogni speranza di pace.


Il report dell’UNOCHA relativo alla settimana compresa tra il 7 e il 13 luglio ci informa che sono riprese le demolizioni di abitazioni palestinesi a Gerusalemme est. Le ultime, in ordine di tempo, si sono registrate nei quartieri di Beit Hanina, Jabal Al Mukabber e Al ‘Isawiya, e hanno riguardato tre abitazioni, due case in costruzione, un deposito e le fondamenta di un edificio.

Il risultato è che 25 Palestinesi, inclusi 12 bambini (il più piccolo dei quali di soli due mesi), sono stati sfollati forzatamente.

Le autorità municipali naturalmente sostengono che le demolizioni riguardano soltanto le costruzioni prive dei regolari permessi rilasciati dalle autorità israeliane, ma è noto non solo che ai Palestinesi è consentito costruire solo sul 13% dell’estensione di Gerusalemme est, ma anche che ottenere tali permessi equivale a vincere una lotteria milionaria.


Così nel 2010, per tali motivi, sono state già demolite 24 strutture di proprietà di Palestinesi, lasciando senza un tetto 32 persone, tra le quali 17 bambini.

Di contro le colonie ebraiche a Gerusalemme est coprono già un terzo dell’intera superficie municipale e sono in continua espansione, in quanto ai coloni viene naturalmente consentito di costruire in ogni dove e senza alcun vincolo.

L’articolo che segue – scritto il 15 luglio da Seth Freedman per il Guardian e qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews – ci ricorda che il cancro della giudaizzazione di Gerusalemme est e la strisciante pulizia etnica in atto ai danni della popolazione palestinese residente impone un fermo intervento della comunità internazionale, per impedire la fine di ogni possibilità di accordi di pace e una inevitabile ripresa della violenza e degli scontri.

Impedire le demolizioni di abitazioni palestinesi da parte di Israele.

In teoria, un comune che demolisce delle strutture abusive sul proprio territorio non dovrebbe sorprendere nessuno. In pratica, tuttavia, tale misura deve essere considerata nel contesto della più ampia politica del luogo – e quando si tratta della polveriera israelo-palestinese, le azioni delle autorità israeliane dovrebbero essere considerate per quello che sono: un comportamento provocatorio e pieno di astio.

Mettendo fine al congelamento delle demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme Est, durato nove mesi, questa settimana gli operai comunali hanno raso al suolo tre case della zona, provocando una tempesta di polemiche sia in patria che all’estero. Il congelamento fu introdotto in seguito al caso diplomatico sorto durante le ultime demolizioni a Gerusalemme Est, in occasione della visita di Hillary Clinton nel marzo 2009 – demolizioni descritte dalla Clinton come “inutili” e come una violazione degli impegni assunti da Israele nel contesto della Road Map.

Da allora, Israele ha continuato ad ignorare gli accordi che sancivano una moratoria sulle costruzioni illegali nelle colonie israeliane, pur continuando a perseguire una linea dura nei confronti dei residenti palestinesi di Gerusalemme Est. L’espulsione di famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah continua a ritmo sostenuto, per far posto a nuovi coloni; a Silwan è in programma la demolizione di 22 case per la costruzione di un giardino pubblico, e in tutta la zona orientale della città viene esercitata una pressione incessante come parte di quella che gli attivisti chiamano la politica del “trasferimento silenzioso”.

Secondo Angela Godfrey-Goldstein dell’ Israeli Committee Against House Demolitions, il “trasferimento silenzioso” denota la pratica di esasperare gradualmente i palestinesi, finché essi si arrendono per la disperazione, abbandonano l’area e si spostano verso est. La politica dei permessi edilizi fa parte del trasferimento silenzioso – sostiene.

La maggior parte di Gerusalemme Est è stata dichiarata “area verde”, il che impedisce la costruzione di case, cosa che a sua volta porta ad una grave carenza di alloggi nella città. La presenza di un numero insufficiente di unità abitative rispetto ai bisogni dei residenti significa che il costo delle proprietà sale alle stelle e che le persone del posto vengono escluse dal mercato, e costrette a cercare un alloggio meno costoso dall’altro lato del muro di separazione. Una volta che hanno abbandonato la città, viene loro sottratto il diritto al possesso di documenti di identità di Gerusalemme, distruggendo in questo modo ogni loro speranza di trovare impiego in Israele; e così esse vengono efficacemente intrappolate per sempre nella povertà della Cisgiordania.

Nel frattempo, viene dato il via libera ai coloni perché costruiscano in ogni direzione – un evidente caso di discriminazione, fa notare Godfrey-Goldstein. Nei rari casi in cui i tribunali israeliani dichiarano come abusivi degli edifici di coloni – come nel caso di Bet Yehonatan a Silwan – gli ordini di sfratto sono ignorati dai coloni e non vengono fatti rispettare dalle autorità, dimostrando l’uso di due pesi e due misure da parte del comune di Gerusalemme per quanto riguarda le violazioni abitative.

Al di là delle terribili implicazioni per quelle famiglie che i bulldozer hanno lasciato senza casa questa settimana, le demolizioni rappresentano un altro duro colpo per le relazioni israelo-palestinesi. La distruzione delle case a Beit Hanina e Issawiya è un chiaro segnale di quanto poco importino ai leader israeliani le concessioni e i compromessi, e di quanto essi preferiscano accumulare capitale politico sul fronte interno inchinandosi agli ultra-nazionalisti.

I politici israeliani stanno seguendo questo atteggiamento da mesi, e la loro risolutezza è rafforzata dalla debole reazione internazionale, dopo che essi si sono fatti beffe del diritto internazionale e dei codici morali più elementari.

Nir Barkat, storico sindaco di Gerusalemme, è noto per aver respinto le critiche di Hillary Clinton riguardo alle demolizioni di case, l’anno scorso, definendole “aria fritta”, riassumendo così l’atteggiamento beffardo e sicuro di sé tipico della gran parte di coloro che sono al timone della politica israeliana.

Purtroppo, non è difficile capire da dove derivi la loro arroganza: da anni nessun leader americano o europeo ha osato accompagnare le proprie parole di rabbia con azioni concrete, quali per esempio l’applicazione di sanzioni contro Israele.

Malgrado il grande clamore che ha accompagnato l’ascesa di Barack Obama al vertice della politica americana, nulla è cambiato nel rapporto tra gli Stati Uniti e il loro alleato in Medio Oriente. Gli sforzi di trattare in maniera ragionevole e seria la questione della divisione di Gerusalemme si sono arenati, insieme ad altre questioni controverse – come la questione degli insediamenti illegali, dei diritti idrici in Cisgiordania, e dei profughi palestinesi.

In un tale scenario, la ripresa delle demolizioni a Gerusalemme Est deve essere vista per quello che è: una sfacciata dichiarazione d’intenti, sia a livello locale che internazionale.

La “giudaizzazione” di Gerusalemme Est è una politica dichiarata, da parte di numerosi gruppi di coloni e di loro sostenitori a livello economico e politico, e ogni casa demolita ed ogni famiglia espulsa dalla propria abitazione accelera il processo di pulizia etnica già intrapreso.

Se non si fa nulla per fermare questo cancro, l’inevitabile risultato sarà una rottura totale dei colloqui tra le due parti, che a sua volta probabilmente scatenerà un’ondata di violenti scontri.
L’unico modo per evitare una simile svolta disastrosa è che gli Stati Uniti, l’Unione Europea ed altri esercitino pressioni su Israele – perché è Israele che ha in mano tutte le carte da giocare, quando si parla di negoziati. Qualsiasi misura più blanda non funzionerebbe: ormai non c’è quasi più tempo per portare le due parti al tavolo negoziale, e i soli vincitori dello status quo attuale sono gli estremisti. Né gli israeliani né i palestinesi meritano, né possono permettersi, le conseguenze di un’altra intifada, e quindi è necessario un intervento risoluto.

La demolizione delle abitazioni è solo la punta dell’iceberg, ma è uno dei tanti fattori incendiari in termini delle implicazioni politiche che comportano. Se i leader israeliani hanno dimostrato che a loro importa ben poco del danno che stanno arrecando sia in termini fisici che emotivi, è giunto il momento che qualcuno li costringa a tenere in maggior conto tali danni, per il bene di tutte le parti interessate.

Seth Freedman è un giornalista e scrittore britannico che risiede a Gerusalemme

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2 Commenti:

Alle 24 luglio 2010 alle ore 20:39 , Anonymous Gary78 ha detto...

Proprio oggi sul TG3 hanno trasmesso un interessante servizio in cui hanno intervistato alcune persone che si oppongono alla pulizia etnica riscostruendo le case dei palestinesi distrutte dalle ruspe israeliane.
Al di là dell'impegno encomiabile dei singoli, tuttavia, il mondo nel suo complesso sta a guardare, anche le campagne di boicottaggio contro israele sono messe in atto fa singole associazioni, ma non da uno Stato nel suo complesso, perchè quando una nazione è contraria alla politica israeliana viene subito accusata di antisemitismo.L'Iran è demonizzato proprio perchè il suo Presidente ha osato criticare duramente israele davanti all'ONU,i suoi discorsi sono stati strumentalizzati perchè in realtà l'Occidente vuole far passare all'opinione pubblica internazionale il concetto che chi è filoisraeliano è a favore del progresso, dei diritti umani e della democrazia, mentre chi la pensa diversamente è antisemita, reazionario e fiancheggiatore del terrorismo.

 
Alle 26 luglio 2010 alle ore 12:51 , Anonymous Anonimo ha detto...

infatti il tuo grande pres. iraniano, negazionista dell'olocausto,è proprio da prendere ad esempio per aver fatto trucidare manifestanti pacifici, interni, e centinaia di curdi.

 

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