19 gennaio 2011

Sono i bulldozer israeliani a condurre il dialogo.

I lavori di demolizione di un’ala dello storico Shepherd Hotel, nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est, per farvi posto a 20 nuove unità abitative da destinare ai coloni israeliani, costituiscono solo uno degli ultimi atti con cui le autorità israeliane tentano di imporre la giudaizzazione di Gerusalemme est e la cancellazione di ogni simbolo della sua antica identità arabo-islamica.

In ciò Israele è favorito dall’incredibile acquiescenza e dalla passività dell’intera comunità internazionale, pur essendo chiaro che nessuna pace vi potrà mai essere tra Israeliani e Palestinesi se a questi ultimi non sarà consentito di creare uno stato indipendente e sovrano con capitale Gerusalemme est.

Eppure, proprio negli stessi giorni, i capi delle missioni diplomatiche Ue nell’area hanno tracciato una possibile strada da seguire, arrivando addirittura a invocare il boicottaggio delle aziende e delle merci israeliane provenienti dalle zone occupate di Gerusalemme.

E’ dunque la politica che deve battere un colpo, e i governi occidentali, se davvero hanno a cuore la pace, devono far seguire atti concreti di sanzione contro Israele alle sterili condanne formali che lasciano il tempo che trovano.

Israeli bulldozers do the talking.
di Khaled Amayreh – 15 gennaio 2011

Israele la scorsa settimana ha dimostrato ancora una volta la sua determinazione a rifuggire da qualsiasi vera occasione di dialogo che potrebbe portare alla fondazione di uno Stato palestinese accettabile basato sui confini del 1967.

Ruspe israeliane ed enormi martelli pneumatici si sono abbattuti sul quartiere palestinese di Sheikh Jarrah per demolire lo Shepherd Hotel, un enorme complesso costruito negli anni ’30 (attualmente i lavori sono sospesi in pendenza di un ricorso del Palestinian Islamic Council, n.d.r.). Una parte della struttura era stata anche la casa del Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin Al Husseini. La struttura demolita aveva in effetti un grande valore storico legato alla lotta palestinese.

Questa demolizione è stata solo l’ultimo passo di Israele per consolidare l’egemonia ebraica su una città araba occupata e obliterare la sua antica identità arabo-islamica. La giudaizzazione forzata della città – sacra a musulmani, cristiani ed ebrei – viene febbrilmente eseguita tramite oscuri accordi e dubbie espropriazioni dove abbondano menzogne, inganni e truffe.

Inoltre i circoli sionisti, in cooperazione con il governo israeliano e con gli interessi dei coloni ebrei, hanno disposto centinaia di milioni di dollari per trasferire le proprietà arabe agli interessi ebraici in tutta Gerusalemme Est. La distruzione dello Shepherd Hotel è avvenuta nonostante le obiezioni dell’intera comunità internazionale.

In ogni caso, data l’inefficacia storica di questo genere di obiezioni, il governo israeliano si è abituato a non prenderle seriamente, pensando che esse siano solo fatte per motivi di facciata e che non costituiscano in alcun modo una contestazione credibile alla politica israeliana degli insediamenti.

Secondo fonti israeliani attendibili a Gerusalemme, le autorità municipali israeliane stanno aspettando il momento giusto per dare il via ad altre grandi demolizioni di case arabe nel quartiere di Silwan. “Se il governo dovesse scoprire che la reazione internazionale, soprattutto statunitense, sarà debole come al solito, allora andrà avanti con le demolizioni,” ha riferito la fonte, che non era stata autorizzata a parlare con i media.

“[il Consiglio Municipale pro-insediamenti della città] vuole desensibilizzare l’opinione pubblica internazionale per farle accettare la [sua] realtà e il fatto che Israele ha carta bianca a Gerusalemme.”

Le reazioni all’ultima provocazione israeliana sono state “normali”, che si tratti dell’Autorità Palestinese (ANP) – che si è spesso appellata alla “comunità internazionale” per fare pressione su Israele – dell’UE, dell’ONU o degli Stati arabi, che hanno soltanto più o meno ripetuto le solite formalità sull’illegalità della politica israeliana.

Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese, ha richiesto che i Paesi occidentali facciano seguito alle loro condanne nei confronti delle provocazioni israeliane. “L’ONU ed i governi di tutto il mondo, inclusi gli Stati Uniti ed il Regno Unito, hanno già condannato i piani di demolizione dell’hotel. Chiediamo a tutto il mondo di prendere una forte posizione in difesa delle proprie opinioni. Questo comportamento intransigente e illegale di Israele deve essere contrastato e controllato.”

Con toni disperati, Erekat avverte che il primo ministro israeliano Binyamin Netanhyahu sta minando e sminuendo gli sforzi internazionali per la creazione di uno Stato Palestinese. “Mentre Netanyahu continua la sua campagna propagandistica sul processo di pace, nella realtà si sta muovendo rapidamente per prevenire la fondazione di uno Stato Palestinese.”

“Israele continua a modificare il paesaggio di Gerusalemme cercando di cambiare il suo status e di trasformarla in una città esclusivamente ebraica. Questo processo di pulizia e colonizzazione deve essere fermato per poter cambiare la cupa realtà dell’occupazione israeliana e trasformarla in uno Stato palestinese libero e sovrano con Gerusalemme Est come capitale.”

Nel frattempo il governo israeliano sta cercando di dare l’impressione che i diplomatici siano al lavoro, probabilmente per controbilanciare l’espansione degli insediamenti e la pulizia etnica dei palestinesi da Gerusalemme Est e dalla West Bank.

Netanyahu si è incontrato col presidente Hosni Mubarak al Cairo la scorsa settimana. Ha anche richiesto un incontro col re Abdullah di Giordania, apparentemente per la stessa ragione. Mubarak ha spinto Netanyahu a cambiare la politica israeliana verso i palestinesi e verso il processo di pace. Netanyahu ha ascoltato la richiesta di Mubarak, tuttavia senza recepirla. Infatti non appena è rientrato in Israele, sono avvenute le demolizioni a Gerusalemme Est.

Nel frattempo Israele sta per mandare un inviato a Washington per rassicurare l’amministrazione Obama che il governo Netanyahu è ancora impegnato nel processo di pace. Tutto questo avviene dopo il fallimento dell’amministrazione Obama nel suo tentativo di convincere Israele a congelare l’espansione degli insediamenti nei territori occupati palestinesi, anche in cambio di grandi incentivi diplomatici e militari.

Alcuni analisti credono che l’ossequioso comportamento americano verso il governo Netanyahu, soprattutto l’eccessiva pazienza mostrata dal segretario di Stato Hillary Clinton, abbia ulteriormente incoraggiato Israele e la sua leadership a ignorare le pressioni statunitensi. “ Sono sicuro che la signora Clinton teme l’ira israeliana più di quanto gli israeliani temano l’ira americana”, ha detto un esperto giornalista europeo a Gerusalemme Est.

La reazione americana alla demolizione dello Shepherd Hotel insieme agli ultimi omicidi a sangue freddo di palestinesi innocenti nella West Bank e nella Striscia di Gaza, inclusi contadini che coltivavano la loro terra e anziani che dormivano nei loro letti, è stata caratteristicamente vuota e mascherata dal linguaggio diplomatico.

Nel frattempo, la Clinton ha rimesso nel cassetto il processo di pace durante il suo tour negli emirati del Golfo Persico, preferendo incitare gli arabi contro il programma nucleare iraniano. Prevedibilmente la Clinton sottintendeva che Israele non rappresenta alcuna minaccia per gli arabi e che il vero nemico comune di Israele e degli arabi è l’Iran. La Clinton è arrivata fino screditare le dichiarazioni del capo del Mossad, Meir Dagan, nelle quali egli aveva affermato che l’Iran non avrebbe avuto capacità belliche nucleari prima del 2015.

Qualche settimana fa, la Clinton ha respinto l’accusa che “azioni unilaterali israeliane” stiano facendo deragliare il processo di pace. “I negoziati bilaterali”, ha detto, “sono l’unico modo per raggiungere la pace fra Israele e i palestinesi”. Un ministro del governo dell’ANP ha commentato le dichiarazioni della Clinton, dicendo: “ Questo è come dire alla vittima e al suo stupratore di mettersi d’accordo fra di loro”.

Khaled Amayreh è un giornalista palestinese; è corrispondente di al-Ahram Weekly da Gerusalemme Est

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23 luglio 2010

La pulizia etnica a Gerusalemme est, un cancro che mina ogni speranza di pace.


Il report dell’UNOCHA relativo alla settimana compresa tra il 7 e il 13 luglio ci informa che sono riprese le demolizioni di abitazioni palestinesi a Gerusalemme est. Le ultime, in ordine di tempo, si sono registrate nei quartieri di Beit Hanina, Jabal Al Mukabber e Al ‘Isawiya, e hanno riguardato tre abitazioni, due case in costruzione, un deposito e le fondamenta di un edificio.

Il risultato è che 25 Palestinesi, inclusi 12 bambini (il più piccolo dei quali di soli due mesi), sono stati sfollati forzatamente.

Le autorità municipali naturalmente sostengono che le demolizioni riguardano soltanto le costruzioni prive dei regolari permessi rilasciati dalle autorità israeliane, ma è noto non solo che ai Palestinesi è consentito costruire solo sul 13% dell’estensione di Gerusalemme est, ma anche che ottenere tali permessi equivale a vincere una lotteria milionaria.


Così nel 2010, per tali motivi, sono state già demolite 24 strutture di proprietà di Palestinesi, lasciando senza un tetto 32 persone, tra le quali 17 bambini.

Di contro le colonie ebraiche a Gerusalemme est coprono già un terzo dell’intera superficie municipale e sono in continua espansione, in quanto ai coloni viene naturalmente consentito di costruire in ogni dove e senza alcun vincolo.

L’articolo che segue – scritto il 15 luglio da Seth Freedman per il Guardian e qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews – ci ricorda che il cancro della giudaizzazione di Gerusalemme est e la strisciante pulizia etnica in atto ai danni della popolazione palestinese residente impone un fermo intervento della comunità internazionale, per impedire la fine di ogni possibilità di accordi di pace e una inevitabile ripresa della violenza e degli scontri.

Impedire le demolizioni di abitazioni palestinesi da parte di Israele.

In teoria, un comune che demolisce delle strutture abusive sul proprio territorio non dovrebbe sorprendere nessuno. In pratica, tuttavia, tale misura deve essere considerata nel contesto della più ampia politica del luogo – e quando si tratta della polveriera israelo-palestinese, le azioni delle autorità israeliane dovrebbero essere considerate per quello che sono: un comportamento provocatorio e pieno di astio.

Mettendo fine al congelamento delle demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme Est, durato nove mesi, questa settimana gli operai comunali hanno raso al suolo tre case della zona, provocando una tempesta di polemiche sia in patria che all’estero. Il congelamento fu introdotto in seguito al caso diplomatico sorto durante le ultime demolizioni a Gerusalemme Est, in occasione della visita di Hillary Clinton nel marzo 2009 – demolizioni descritte dalla Clinton come “inutili” e come una violazione degli impegni assunti da Israele nel contesto della Road Map.

Da allora, Israele ha continuato ad ignorare gli accordi che sancivano una moratoria sulle costruzioni illegali nelle colonie israeliane, pur continuando a perseguire una linea dura nei confronti dei residenti palestinesi di Gerusalemme Est. L’espulsione di famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah continua a ritmo sostenuto, per far posto a nuovi coloni; a Silwan è in programma la demolizione di 22 case per la costruzione di un giardino pubblico, e in tutta la zona orientale della città viene esercitata una pressione incessante come parte di quella che gli attivisti chiamano la politica del “trasferimento silenzioso”.

Secondo Angela Godfrey-Goldstein dell’ Israeli Committee Against House Demolitions, il “trasferimento silenzioso” denota la pratica di esasperare gradualmente i palestinesi, finché essi si arrendono per la disperazione, abbandonano l’area e si spostano verso est. La politica dei permessi edilizi fa parte del trasferimento silenzioso – sostiene.

La maggior parte di Gerusalemme Est è stata dichiarata “area verde”, il che impedisce la costruzione di case, cosa che a sua volta porta ad una grave carenza di alloggi nella città. La presenza di un numero insufficiente di unità abitative rispetto ai bisogni dei residenti significa che il costo delle proprietà sale alle stelle e che le persone del posto vengono escluse dal mercato, e costrette a cercare un alloggio meno costoso dall’altro lato del muro di separazione. Una volta che hanno abbandonato la città, viene loro sottratto il diritto al possesso di documenti di identità di Gerusalemme, distruggendo in questo modo ogni loro speranza di trovare impiego in Israele; e così esse vengono efficacemente intrappolate per sempre nella povertà della Cisgiordania.

Nel frattempo, viene dato il via libera ai coloni perché costruiscano in ogni direzione – un evidente caso di discriminazione, fa notare Godfrey-Goldstein. Nei rari casi in cui i tribunali israeliani dichiarano come abusivi degli edifici di coloni – come nel caso di Bet Yehonatan a Silwan – gli ordini di sfratto sono ignorati dai coloni e non vengono fatti rispettare dalle autorità, dimostrando l’uso di due pesi e due misure da parte del comune di Gerusalemme per quanto riguarda le violazioni abitative.

Al di là delle terribili implicazioni per quelle famiglie che i bulldozer hanno lasciato senza casa questa settimana, le demolizioni rappresentano un altro duro colpo per le relazioni israelo-palestinesi. La distruzione delle case a Beit Hanina e Issawiya è un chiaro segnale di quanto poco importino ai leader israeliani le concessioni e i compromessi, e di quanto essi preferiscano accumulare capitale politico sul fronte interno inchinandosi agli ultra-nazionalisti.

I politici israeliani stanno seguendo questo atteggiamento da mesi, e la loro risolutezza è rafforzata dalla debole reazione internazionale, dopo che essi si sono fatti beffe del diritto internazionale e dei codici morali più elementari.

Nir Barkat, storico sindaco di Gerusalemme, è noto per aver respinto le critiche di Hillary Clinton riguardo alle demolizioni di case, l’anno scorso, definendole “aria fritta”, riassumendo così l’atteggiamento beffardo e sicuro di sé tipico della gran parte di coloro che sono al timone della politica israeliana.

Purtroppo, non è difficile capire da dove derivi la loro arroganza: da anni nessun leader americano o europeo ha osato accompagnare le proprie parole di rabbia con azioni concrete, quali per esempio l’applicazione di sanzioni contro Israele.

Malgrado il grande clamore che ha accompagnato l’ascesa di Barack Obama al vertice della politica americana, nulla è cambiato nel rapporto tra gli Stati Uniti e il loro alleato in Medio Oriente. Gli sforzi di trattare in maniera ragionevole e seria la questione della divisione di Gerusalemme si sono arenati, insieme ad altre questioni controverse – come la questione degli insediamenti illegali, dei diritti idrici in Cisgiordania, e dei profughi palestinesi.

In un tale scenario, la ripresa delle demolizioni a Gerusalemme Est deve essere vista per quello che è: una sfacciata dichiarazione d’intenti, sia a livello locale che internazionale.

La “giudaizzazione” di Gerusalemme Est è una politica dichiarata, da parte di numerosi gruppi di coloni e di loro sostenitori a livello economico e politico, e ogni casa demolita ed ogni famiglia espulsa dalla propria abitazione accelera il processo di pulizia etnica già intrapreso.

Se non si fa nulla per fermare questo cancro, l’inevitabile risultato sarà una rottura totale dei colloqui tra le due parti, che a sua volta probabilmente scatenerà un’ondata di violenti scontri.
L’unico modo per evitare una simile svolta disastrosa è che gli Stati Uniti, l’Unione Europea ed altri esercitino pressioni su Israele – perché è Israele che ha in mano tutte le carte da giocare, quando si parla di negoziati. Qualsiasi misura più blanda non funzionerebbe: ormai non c’è quasi più tempo per portare le due parti al tavolo negoziale, e i soli vincitori dello status quo attuale sono gli estremisti. Né gli israeliani né i palestinesi meritano, né possono permettersi, le conseguenze di un’altra intifada, e quindi è necessario un intervento risoluto.

La demolizione delle abitazioni è solo la punta dell’iceberg, ma è uno dei tanti fattori incendiari in termini delle implicazioni politiche che comportano. Se i leader israeliani hanno dimostrato che a loro importa ben poco del danno che stanno arrecando sia in termini fisici che emotivi, è giunto il momento che qualcuno li costringa a tenere in maggior conto tali danni, per il bene di tutte le parti interessate.

Seth Freedman è un giornalista e scrittore britannico che risiede a Gerusalemme

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