Chi ricostruirà Gaza?
A distanza di due anni dall'operazione militare israeliana a Gaza denominata “Piombo Fuso” (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009), che ha provocato la morte di 1.419 Palestinesi (l'82% dei quali civili inermi) e causato immani rovine e distruzioni, viene spontaneo chiedersi a che punto sia la ricostruzione nella Striscia, impegno dichiaratamente assunto dalla comunità internazionale.
Ed è amaro constatare che quello di Gaza è l'unico caso al mondo in cui una popolazione, attaccata e massacrata, continua ad essere sottoposta ad un embargo che impedisce ogni lavoro di ricostruzione e ogni accenno di ripresa dell'economia, una punizione collettiva che è illegale sotto il profilo del diritto e indegna e immorale sotto il profilo etico.
In realtà, a seguito del blocco della flottiglia umanitaria e del successivo massacro sulla Mavi Marmara, il 20 giugno il governo israeliano aveva annunciato la propria intenzione di “consentire ed espandere l’afflusso dei materiali da costruzione a duplice uso (“dual use” è un termine usato per indicare beni o tecnologie che possono avere un duplice scopo, civile e militare, n.d.r.) per progetti approvati con autorizzazione dell’Autorità Palestinese che siano sotto la supervisione internazionale”, e di facilitare “l’espansione dell’attività economica” a Gaza, limitando le restrizioni al movimento da e per la Striscia solo a quelle necessarie ad impedire l’ingresso di materiali bellici.
Nonostante la decisione governativa, Israele continua ad impedire l’importazione a Gaza di acciaio, ghiaia e cemento, materiali che non sono considerati a duplice uso secondo gli standard internazionali.
Vi sono state in realtà limitate eccezioni che hanno permesso l’afflusso di questi materiali per progetti finanziati dalla comunità internazionale e approvati dall’Autorità Palestinese, caratterizzati tuttavia da una estrema lentezza e da notevoli intralci di carattere burocratico.
A seguito della decisione del Gabinetto di Sicurezza israeliano del 20 giugno, il successivo 6 luglio Israele rilasciava due liste di prodotti di cui avrebbe proibito l’ingresso nella Striscia di Gaza in aggiunta a quei materiali di cui già impediva l’importazione nei Territori palestinesi, in accordo alla Directive on Defense Export Control. Tale direttiva consiste in una lista di 56 prodotti che riprende, andando tuttavia oltre, le previsioni del Wassenaar Arrangement, la fonte internazionalmente riconosciuta per definire i beni cd. “dual-use”.
Una delle liste rilasciate il 6 luglio, dal titolo “Beni a duplice uso per progetti”, include il cemento e altri materiali necessari per l’edilizia, nonostante il fatto che questi materiali non siano ad uso militare, non siano mai stati precedentemente inclusi in alcuna lista israeliana o internazionalmente riconosciuta di beni a duplice uso, e siano necessari per riparare ai danni provocati alle abitazioni e alle infrastrutture civili durante l’Operazione “Piombo Fuso”.
Israele ha richiesto alla comunità internazionale una sorta di “assicurazione di utilizzo finale”, che attesti che i materiali da costruzione per la realizzazione dei progetti non finisca nelle mani del governo di Gaza. Israele teme che Hamas userebbe questi materiali per costruire bunker o per “accrescere le proprie capacità militari”.
E tuttavia, a fronte della richiesta di una “assicurazione di utilizzo finale”, Israele non ha esattamente chiarito alla comunità internazionale quali siano le sue aspettative. L'ong israeliana Gisha ha richiesto la documentazione e la modulistica che precisano le procedure per richiedere l’importazione di beni, ai sensi del Freedom of Information Act, e i criteri per la valutazione delle richieste, ma sino ad ora Israele ha rifiutato di renderli noti. L’onere di fornire la certezza dell’utilizzo finale ha spinto alcune organizzazioni internazionali ad assumere guardie a costi elevati per “proteggere” i materiali da costruzione, mentre altre documentano ampiamente il trasferimento e l’installazione dei materiali per mezzo di fotografie e di video; questo nonostante il fatto che i materiali da costruzione non sono armi e non sono considerati beni a duplice uso secondo la normativa israeliana o gli accordi internazionali. Le Nazioni Unite hanno stimato che i procedimenti relativi all’assicurazione sull’utilizzo finale sono costati milioni di dollari agli organismi internazionali, fondi che avrebbero potuto essere usati per progetti di cui avrebbero beneficiato direttamente gli abitanti di Gaza.
Paradossalmente, mentre le organizzazioni internazionali, che sono finanziate dagli stati occidentali e lavorano in cooperazione con l’Autorità palestinese, negoziano scrupolosamente l’ingresso di ogni prodotto necessario per progetti vitali, il governo a Gaza acquista materiali attraverso i tunnel. Dal 6 luglio al 6 dicembre di quest’anno, per la realizzazione di progetti internazionali è stato consentito l’ingresso a Gaza solamente di 744 carichi di cemento, ghiaia e acciaio - ovvero di circa 149 carichi al mese. In raffronto, precedentemente al giugno del 2007, i residenti di Gaza acquistavano più di 5.000 carichi di cemento, ghiaia e acciaio ogni mese. D’altra parte, ogni giorno, fino a 900 tonnellate di cemento (l’equivalente di 36 carichi) o 300 tonnellate di acciaio o 250 tonnellate di ghiaia entrano a Gaza attraverso un numero stimato di 30-40 tunnel utilizzati per il trasporto di materiali da costruzione. Alti prezzi, assenza di prevedibilità delle forniture e la scarsa qualità rendono i tunnel un’opzione non attraente per gli imprenditori privati. Mentre l’attività di costruzione intrapresa dal governo rimane in gran parte limitata a piccole riparazioni e a qualche progetto minore, si ha nondimeno la percezione che il governo di Gaza sia in grado di mantenere gli impegni, mentre la comunità internazionale lotta faticosamente per superare gli ostacoli burocratici persino per iniziare i suoi progetti.
La differenza la si può vedere a Gaza. Per fare un esempio: a fine giugno, Israele acconsentì “in linea di principio” a permettere all’UN Relief and Works Agency (UNRWA) di costruire otto delle 100 scuole di cui necessita per l’istruzione degli studenti di Gaza. Ci sono voluti quattro mesi ad Israele per iniziare effettivamente a permettere l’ingresso dei materiali da costruzione a Gaza – e successivamente Israele revocò il permesso per quattro delle scuole. All’inizio di quest’anno scolastico, l’UNRWA è stata costretta a respingere 40.000 bambini per mancanza di spazio nelle classi.
Il diritto internazionale consente ad Israele di limitare l’ingresso di beni per motivi di sicurezza, ma deve farlo tenendo in considerazione e soppesando le legittime preoccupazioni per la sicurezza con i diritti e le necessità degli abitanti di Gaza, di cui Israele controlla la possibilità di accesso ai beni. Anche se vi fosse un motivo di sicurezza per limitare i materiali da costruzione (va ripetuto, il cemento non è un’arma e non è considerato un materiale a duplice uso né dalla legislazione israeliana né da quella internazionale), la disponibilità di materiali da costruzione attraverso i tunnel solleva dubbi sulla effettività del divieto, da una parte, e sul danno terribile al diritto di ricostruire inflitto agli abitanti di Gaza, dall’altra. Ciò rende il divieto sproporzionato e controproducente.
L’allentamento del blocco e l’economia di Gaza
I cinque mesi trascorsi dall’attuazione in data 6 luglio della decisione governativa hanno visto un costante aumento della quantità di beni di consumo importati nella Striscia di Gaza, in corrispondenza con l’allentamento del divieto sui prodotti per la casa ed alimentari, e dei cambiamenti infrastrutturali operati al valico di Kerem Shalom. Nonostante il Fondo Monetario Internazionale abbia pubblicato in settembre un rapporto in apparenza promettente, che riflette lo sviluppo nella Striscia, gli indicatori socio-economici, tuttavia, mostrano un quadro molto meno positivo. I tassi di disoccupazione, di insicurezza alimentare e di povertà restano elevati.
Mentre il volume dei beni in ingresso è aumentato a circa il 40% del fabbisogno, rispetto al 22% del fabbisogno durante i precedenti tre anni, permane il divieto di esportazione e quello sui materiali da costruzione, frenando la possibilità di una ripresa dell'economia. La capacità massima di Kerem Shalom è cresciuta fino a 250 camion al giorno, ma la tipologia di beni che viene importata è costituita quasi interamente da beni di consumo fabbricati in Israele e da spedizioni umanitarie, con solo il 3,5% delle importazioni costituite da materiali da costruzione (acciaio, ghiaia, cemento) e circa il 3% da materie prime.
Alcune limitate esportazioni sono iniziate nelle settimane passate, con la promessa di consentire ulteriori esportazioni di prodotti dei settori agricolo, dell'arredamento e dell'industria leggera, in conformità a una decisione del Gabinetto di Sicurezza dello scorso 8 dicembre. Si tratta di un cambiamnto benvenuto dopo tre anni e mezzo di divieto quasi totale di commercializzare beni al di fuori di Gaza. La Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Israele sono parte di un'unica zona doganale controllata da Israele, che fissa le tariffe doganali e le aliquote IVA in tutte e tre le aree. Commercializzare beni da Gaza verso la Cisgiordania e Israele, di conseguenza, non costituisce “esportazione” ma piuttosto commercio che, secondo il diritto internazionale, può essere limitato solo per ragioni di sicurezza. Questo commercio è decisivo per la ripresa dell'economia e per lo sviluppo per il milione e mezzo di abitanti di Gaza la cui capacità di vendere beni è controllata da Israele, particolarmente al fine di rivitalizzare il settore privato di Gaza che, in passato, vendeva i suoi prodotti locali a commercianti in Israele, in Cisgiordania e all'estero, portando ricavi e lavoro ai residenti, al pari di autosufficienza e dignità.
Vi è chi ha asserito che la domanda di movimento ai valichi di frontiera è più bassa della loro capacità corrente. A partire dal 2007, Israele ha chiuso tre valichi commerciali per Gaza su quattro, determinando una pressione sul valico di Kerem Shalom, la cui capacità è limitata. Israele attualmente sta frenando la domanda a Kerem Shalom con il divieto all'entrata dei materiali da costruzione e all'uscita dei beni destinati all'esportazione, con limitate eccezioni. Prima di queste restrizioni, giornalmente, in media sarebbero entrati a Gaza 433 camion e ne sarebbero usciti 70 di beni destinati all'esportazione. Al contrario, a partire dal giugno del 2007 e fino alla data del 6 dicembre 2010, Israele ha consentito soltanto l'uscita in totale di 268 carichi di beni per l'estero, con una media giornaliera pari ad un terzo del carico di un camion.
Circolazione delle persone
Ormai da molti mesi, i due terzi di coloro che riescono a viaggiare attraverso il valico di Erez sono malati che necessitano di cure mediche e i loro accompagnatori e gli addetti delle organizzazioni internazionali. In particolare risulta limitata la circolazione tra Gaza e la Cisgiordania, laddove ogni spostamento è vietato al di fuori dei casi più eccezionali. Mentre vi è stato un insignificante incremento del numero dei permessi concessi a uomini d’affari, i criteri in base ai quali è concesso di viaggiare rimangono limitati principalmente ai “casi umanitari” e senza alcuna considerazione riguardo a motivazioni di sicurezza attinenti ai singoli individui che richiedono di viaggiare. In altre parole, la libertà di movimento rimane vincolata, non per concrete ragioni di sicurezza, con implicazioni negative sulle possibilità di ripresa dell’economia e la realizzazione dei diritti umani.
Come nota il rapporto dell’FMI dello scorso settembre, una reale e sostenibile ripresa dell’economia, obiettivo dichiarato sia di Israele sia della comunità internazionale, richiede che vengano rimosse le rimanenti limitazioni al movimento delle merci e delle persone. Le esportazioni e l’importazione di materiali da costruzione, al pari della libera circolazione delle persone da e verso Gaza, soggetta solo a controlli di sicurezza individuali e comprendente gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania, dovrebbero e potrebbero aver luogo da subito.
Ogni ulteriore indugio da parte della comunità internazionale a far seguire agli appelli e alle denunce anche la concreta pressione su Israele per togliere l'embargo criminale alla Striscia di Gaza, lungi dal fiaccare il governo di Hamas e dal privarlo del consenso popolare, non farà altro che accrescere l'astio e il rancore del mondo arabo verso Israele e in generale verso l'Occidente, non a torto considerato complice di questo ennesimo crimine israeliano.
Etichette: diritti umani, embargo, piombo fuso, striscia di gaza
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