19 giugno 2012

Raggiunto accordo per la liberazione di Mahmoud Sarsak


Mohammad Jabarin, l’avvocato del centrocampista della nazionale di calcio palestinese Mahmoud Sarsak, in sciopero della fame, ha riferito all’agenzia Ma’an che Sarsak sarà rilasciato dal carcere il prossimo 10 luglio, dopo tre anni di detenzione senza accuse o processo, durante i quali è stato considerato un “combattente illegale”.

L’accordo è stato raggiunto dopo 92 giorni di sciopero della fame da parte di Sarsak. La vita di Sarsak era considerata gravemente a rischio, e Israele stava affrontando una crescente pressione internazionale – da ultimo espressa da Eric Cantona, dal Presidente della FIFA Sepp Blatter, e da un obiettore di coscienza israeliano che aveva iniziato uno sciopero della fame di solidarietà nel carcere militare.

Nei prossimi giorni Sarsak inizierà gradualmente a mangiare restando ancora nel reparto ospedaliero del carcere. Non è ancora chiaro se lo sciopero della fame abbia causato dei danni permanenti alla sua muscolatura.

Si tratta della quarta concessione di questo genere che Israele ha fatto negli ultimi mesi, le prime tre riguardanti i detenuti amministrativi Khader Adnan, Hana Shalabi, Bilal Diab e Thaer Halahleh. L’accordo con Adnan è stato raggiunto dopo il 66° giorno di sciopero della fame, e con Diab e Halahleh dopo che entrambi hanno superato l’80°. Vari altri detenuti amministrativi sono ancora in sciopero della fame. 

(link: http://972mag.com/breaking-israel-to-free-hunger-striking-footballer-mahmoud-sarsak/48711/) 

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7 maggio 2012

Respinto il ricorso di due palestinesi in sciopero della fame


La Corte Suprema israeliana ha respinto il ricorso di due prigionieri palestinesi attualmente in sciopero della fame come segno di protesta per la loro detenzione non basata su alcuna accusa.

I due, il 27enne Bilal Diab e il 34enne Thaer Halahleh, in sciopero della fame da 70 giorni, sono tra le centinaia di prigionieri palestinesi che attualmente utilizzano questo mezzo estremo di protesta per chiedere migliori condizioni e la fine della detenzione senza processo in una delle più grandi manifestazioni di protesta di prigionieri degli ultimi anni.

Secondo quanto riferito da Jamil Khatib, il loro avvocato, all’agenzia di stampa AFP, “la Corte Suprema ha respinto entrambi i ricorsi”, aggiungendo che “i tribunali israeliani non trattano la questione della detenzione amministrativa in senso positivo. Ciò dimostra che i servizi segreti hanno l’ultima parola”.

(I due) “continueranno il loro sciopero della fame fino alla fine”, ha concluso.

Intanto dieci prigionieri palestinesi che partecipano allo sciopero della fame di massa sabato sono stati posti sotto controllo medico a seguito del peggioramento delle loro condizioni, secondo quanto comunicato da un portavoce del servizio carcerario israeliano.

I detenuti palestinesi che partecipano allo sciopero della fame sono almeno 1.550, anche se secondo gli attivisti questo numero è pari ad almeno 2.500 su un totale di 4.600 palestinesi in atto detenuti nelle carceri israeliane. La maggior parte dei partecipanti allo sciopero hanno iniziato a rifiutare il cibo 19 giorni fa, ma un nucleo più ristretto è in sciopero della fame ormai da un periodo di tempo che va dai 40 ai 70 giorni.

Diab, la settimana scorsa, è stato trasferito in un ospedale civile. Un team medico indipendente di Physicians for Human Rights-Israel ha affermato che era in imminente pericolo di morte. Secondo i medici di PHR, sia Diab che Halahleh sono comunque in pericolo in quanto il loro battito cardiaco è sceso al di sotto di 48 e la temperatura corporea a 35 gradi; entrambi inoltre soffrono di forti dolori allo stomaco e di ripetuti svenimenti per lunghi periodi, con Halahleh che ha difficoltà nel muoversi e nel parlare.

Halahleh era stato arrestato il 28 giugno del 2010, e da allora si trova incarcerato in regime di detenzione amministrativa, mentre Diab è detenuto dal 17 agosto dello scorso anno. A entrambi, similmente a quanto accaduto per Hana Shalabi, Israele ha offerto il rilascio e la deportazione a Gaza in cambio della cessazione dello sciopero della fame, in quella che costituirebbe una ulteriore violazione dei loro diritti fondamentali.

Mentre il mondo continua imperterrito a consentire che Israele utilizzi questa autentica barbarie giuridica che è la detenzione amministrativa, che consente la detenzione dei palestinesi – per periodi di 6 mesi prorogabili indefinitamente – sulla base di semplici segnalazioni dei servizi segreti e in violazione dei principi basilari di difesa che spettano a qualsiasi imputato

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18 aprile 2012

Un popolo dietro le sbarre, senza alcun diritto

                

Poche cifre servono a dare la misura delle dimensioni del dramma rappresentato dai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

I palestinesi attualmente imprigionati nelle carceri israeliane sono circa 4.700, tra i quali 27 membri del Consiglio legislativo palestinese, 3 ex ministri, 320 detenuti in regime di detenzione amministrativa. Nove sono le donne detenute, 10.000 quelle incarcerate dal 1967 ad oggi; 185 sono i detenuti minorenni, 8.000 dal 2000 ad oggi.

Il numero complessivo di palestinesi che si è trovato a dover soggiornare nelle galere israeliane dal 1967 ad oggi è pari a circa 750.000, il 20% del totale della popolazione dei Territori occupati e il 40% della popolazione maschile (dati fonte Addameer).

In questo documentario prodotto dal Palestinian Centre for Human Rights per celebrare l'annuale Giornata dei Prigionieri Palestinesi, caduta il 17 aprile, si racconta anche altro, e cioè le condizioni terribili e disumane in cui sono costretti a vivere i prigionieri palestinesi, la quotidiana violazione dei loro diritti fondamentali, la violazione di norme basilari del diritto umanitario e di convenzioni che pure Israele formalmente risulta aver sottoscritto.
E si racconta la condizione normale di un prigioniero palestinese, le celle invivibili, il diniego di cure mediche, il diniego delle visite familiari, a volte per cinque o sei anni, la barbarie della detenzione amministrativa, che rende nulla ogni possibilità di difesa e ogni diritto processuale dell'imputato.

Da questo punto di vista, è davvero triste dover constatare che Israele assomiglia più a una dittatura di stampo sudamericano che ad un paese civile di democrazia occidentale, quale (a torto) ritiene di assomigliare.

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15 aprile 2012

Ufficiale israeliano colpisce al volto un'attivista con il suo M-16

                                                                               
I soliti valorosi pezzi di merda dell'Idf...

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10 aprile 2012

Presidente Monti, la IV Convenzione di Ginevra è dunque solo carta straccia?



Se c'è un settore in cui il governo Monti non si discosta in nulla rispetto al precedente a guida Berlusconi è quello della politica estera. Non a caso a Frattini - il ministro più sionista d'Europa secondo la felice definizione di Ha'aretz - è succeduto Terzi di Sant'Agata, il quale sin dagli esordi (su twitter...) non ha esitato un attimo ad appuntarsi la medaglietta di amico di Israele.

Così, nel video qui sopra, ci tocca assistere allo spettacolo, in verità penoso, del nostro Presidente del Consiglio che reiteratamente si rifiuta di rispondere alla precisa domanda sul muro e sull'occupazione rivoltagli dell'inviata di Nena News. 

Eppure Monti non dovrebbe ignorare l'esistenza di un noto parere della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) dell'Aja che ha dichiarato a chiare lettere l'illegalità del muro dell'apartheid per la parte che corre al di là della green line e ne ha chiesto l'immediata demolizione.

E, soprattutto, non dovrebbe ignorare che il parere dell'ICJ richiama tutti gli Stati al preciso obbligo di non riconoscere la situazione di illegalità determinata dal Muro stesso e di non fornire in alcun modo aiuto o assistenza ad Israele nel mantenere in essere detta situazione; gli Stati firmatari della IV Convenzione di Ginevra, peraltro, avrebbero l'ulteriore obbligo di far si che Israele si conformi alle norme di diritto umanitario contenute nella Convenzione medesima. 

Fino a quando, caro Presidente Monti, l'amicizia con Israele ci porterà a ignorare il diritto internazionale e il diritto umanitario, a ignorare le sofferenze e le ruberie a danno del popolo palestinese, a violare la IV Convenzione di Ginevra che pure l'Italia ha sottoscritto e che costituisce un fondamentale presidio di civiltà? 

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3 aprile 2012

A Gaza a volte è meglio essere malati


Tre parrucchiere e due barbieri non potranno lasciare la Striscia di Gaza per partecipare al “Palestinian Beauty and Tradition Spring Fair” nella città di Tulkarem, in Cisgiordania, non perché l’esercito (israeliano) abbia dei sospetti relativi alla sicurezza nei loro confronti, ma semplicemente perché “in considerazione dell’attuale situazione politica e della sicurezza, i residenti della Striscia di Gaza non sono autorizzati ad entrare in Israele se non in casi umanitari eccezionali, con una particolare attenzione ai casi medici” (in ebraico).

Il problema è che altre persone, difficilmente qualificabili come “eccezionali casi umanitari”, riescono a lasciare la Striscia di Gaza, ma si tratta prevalentemente di uomini. Fino a 100 grossi commercianti sono autorizzati a uscire dalla Striscia di Gaza ogni giorno. Solo a febbraio, commercianti sono usciti dalla Striscia di Gaza per recarsi in Israele 2.146 volte. Il sito web del Coordinatore delle Attività Governative nei Territori (COGAT) vanta che nel 2011 8.411 commercianti hanno lasciato la Striscia di Gaza.

I permessi per uscire dalla Striscia di Gaza sono concessi solo a individui che il COGAT considera commercianti di rilevante importanza, nel presupposto che essi sono essenziali per lo sviluppo economico della Striscia di Gaza. A Gaza, come nel resto del mondo, è più probabile che siano gli uomini a possedere le grandi attività commerciali, così il risultato della decisione del COGAT è che le donne, le quali per lo più possiedono imprese più piccole, non soddisfano i criteri per poter lasciare Gaza per delle opportunità economiche. Anche le donne meritano una possibilità di accrescimento economico, non solo a proprio vantaggio, ma anche al fine di rafforzare il settore privato di Gaza. L’autoaffermazione delle donne è di cruciale importanza per lo sviluppo economico e per lo sviluppo di una società civile sana. Israele, come l’esercito e il governo affermano ripetutamente, hanno interesse a facilitare questo processo.

Vale la pena di notare che le parrucchiere non sono state le uniche a cui è stato vietato di uscire dalla Striscia di Gaza. A sette studentesse di Gaza è stato negato il permesso di recarsi all’Università Al-Quds di Abu Dis per partecipare ad una competizione internazionale di tecnologia organizzata da Microsoft. Anche a loro è stato detto che il motivo del loro viaggio non costituiva un “eccezionale caso umanitario” – un’altra opportunità persa per favorire l’accrescimento economico e professionale delle donne della Striscia di Gaza.
 
Si tratta solo di dieci donne. Dieci permessi di uscita che avrebbero migliorato le loro vite e la situazione della società civile di Gaza, anche se solo di un tantino; ma loro non erano abbastanza importanti e nemmeno abbastanza fortunate per essere “eccezionali casi umanitari” – a quanto pare, sono troppo in salute.  

(fonte: Gisha

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1 febbraio 2012

Ad Anata va in scena la distruzione delle case e dei diritti umani dei palestinesi

Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…

Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.

Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.

Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per
Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.

Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.

RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012

Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.

Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.

In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.

Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.

Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.

Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?

Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)

Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre

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25 gennaio 2012

Proprietari terrieri “assenti”? Ma se non possono nemmeno recarsi nelle loro terre!

Nell’articolo che segue, scritto alcuni giorni dopo il Natale per l’agenzia di news americana Catholic News Service (CNS), si parla essenzialmente della sottrazione illegale delle terre del popolo palestinese da parte di Israele sfruttando il meccanismo della cd. Legge sulle proprietà degli assenti, attraverso un vero e proprio atto di pirateria di cui gli israeliani sono dei veri e propri maestri.

Con la Legge sulle proprietà degli assenti (Absentees’ Property Law) – solo una delle infinite
armi legislative di confisca di massa con cui Israele ha sottratto e sottrae la terra di Palestina ai suoi legittimi proprietari – Israele si è appropriato dei beni dei palestinesi costretti ad allontanarsi dalle loro terre a seguito della guerra del 1948, dichiarandoli “assenti” e affidando la terra “abbandonata” ad un organismo di custodia, il quale successivamente ha provveduto a insediarvi i nuovi immigrati di religione ebraica: si stima che, sono nel periodo 1948 – 1953, 350 dei 370 nuovi insediamenti colonici siano stati costruiti su terra confiscata in base a tale legge (cfr. Wikipedia, “Israeli land and property laws”).

Legge che funziona benissimo tutt’ora nelle zone attraversate dal muro dell’apartheid israeliano, sulla base di un meccanismo semplice semplice, da volgari truffatori da quattro soldi: si prende un terreno palestinese, separato dalla residenza del suo proprietario dal percorso del muro o recinzione di “sicurezza”, si impedisce al legittimo proprietario di poter accedere alla propria terra e di coltivarla, lo si dichiara “assente” e gli si confisca il tutto.

Anche se il malcapitato – come nel caso in esame – è li, a poche centinaia di metri di distanza, a struggersi e a disperarsi per i propri beni che gli sono stati sottratti in base ad un meccanismo che solo in Israele hanno il coraggio di chiamare “legge”.

Ma, visto che parliamo di Betlemme, l’argomento dell’articolo – se vogliamo – racconta anche del trattamento che i “fratelli maggiori” ebrei riservano ai palestinesi di religione cristiana, purtroppo abbandonati sia dalla Santa Sede sia dai tanti campioni della cristianità di casa nostra, evidentemente capaci di indignarsi a comando solo su certe tematiche e non per il destino dei nostri fratelli in Terra Santa.

Perché la drammatica diminuzione del numero dei cristiani in Palestina, anno dopo anno, è causata non certo dalle persecuzioni degli islamici, quanto dalla sottrazione delle terre e delle risorse, dal sistema dei checkpoint, dall’occupazione israeliana, dalla mancanza di prospettive per il futuro che affligge le giovani generazioni.

“Ci sentiamo abbandonati dal mondo intero”, sembra quasi gridarlo uno degli agricoltori palestinesi intervistati. E purtroppo ha ragione.

Absentee landowners? West Bank landowners can’t get to their land
di Judith Sudilovsky – 30.12.2011

Betlemme, Cisgiordania. Jamal Salman stava da un lato della doppia barriera di separazione, su un terreno appartenente alla propria famiglia. Dall’altra parte delle barriere erette da Israele, solo a poche centinaia di metri di distanza ma oltre la sua portata, c’era altro terreno della famiglia con un uliveto.

A novembre, a Salman e a più di 180 proprietari terrieri di Betlemme è stato comunicato che Israele aveva posto i loro uliveti – più di 1.700 acri (1 acro è pari a circa 0,4 ettari, n.d.t.) di terreni situati oltre la barriera – sotto l’amministrazione del Custode per la Proprietà degli Assenti, considerando “assenti” i proprietari di queste terre. Si tratta dell’ultimo provvedimento prima della confisca formale.

“Io sto qui … e guardo la mia terra oltre la barriera come (proprietario) assente”, dice Salman, indicando gli alberi attraverso le recinzioni. L’ultima volta che gli è stato permesso di attraversare la barriera per coltivare il suo uliveto è stato nel 2009.

Questo 73enne sta guidando una campagna dei proprietari terrieri, per lo più cristiani, nel tentativo di evitare che venga loro confiscata ancora altra terra. Racconta che stanno pensando di impugnare la decisione di assenza davanti alla Corte Suprema israeliana.

L’espropriazione della terra qui non è storia nuova, dice Salman, cattolico ed ex sindaco di Betlemme.

Dopo che nel 2002 Israele ha costruito la barriera di separazione, agli agricoltori non è stato più permesso di attraversare la recinzione verso la valle per raggiungere i loro uliveti. A Salman sono rimaste solo 360 iarde quadrate di terra (poco meno di 330 metri quadri, n.d.t.), mentre le restanti 1.560 iarde quadrate della sua proprietà (circa 1.426 metri quadri, n.d.t.) sono state confiscate e si trovano adesso dall’altro lato della barriera, racconta.

“Questi terreni facevano guadagnare molto denaro a noi e alle nostre famiglie”, grazie all’olio d’oliva prodotto dalle olive, dice. “Da li ricavavamo anche le olive e l’olio d’oliva per noi stessi. Abbiamo perso tutto”.

Dopo che il caso degli agricoltori fu portato davanti alla Corte Suprema dall’avvocato per i diritti umani israeliano Danny Seidmann, la corte stabilì che dovevano essere costruiti dei cancelli nella serie di duplici recinzioni e che dovevano essere rilasciati ai contadini dei permessi speciali durante il periodo del raccolto, in modo da consentirgli di accedere alla loro proprietà.

Inoltre, secondo Seidmann, nel 2004 gli venne fornita da funzionari governativi un’intesa scritta secondo cui ai proprietari terrieri sarebbe stato dato l’accesso alla loro terra. Un anno dopo l’ufficio del procuratore generale dichiarò anche illegale l’utilizzo della Legge sulla Proprietà degli Assenti nei confronti dei residenti della West Bank la cui terra era situata sul lato israeliano della barriera.

Ma la realtà era diversa. I cancelli venivano aperti solo in determinati orari, e ai contadini sono stati rilasciati permessi per accedere ai loro terreni soltanto tre volte dal 2005, raccontano i proprietari.

I permessi vengono dati solo alla persona a cui la terra è registrata, tutta gente che adesso va dai sessanta agli ottant’anni. A nessun altro membro della famiglia è permesso di entrare per dare aiuto con il raccolto, dice Jallal Hanouna, 61 anni.

Secondo quanto afferma Salman, da quando Israele ha preso il controllo della Cisgiordania sottraendolo nel 1967 alla Giordania, ai Palestinesi è stato impedito di trasferire la proprietà dei beni persino ai propri figli, così che essi non potevano effettuare i passaggi di proprietà in favore dei membri più giovani della famiglia.

“Per noi è impossibile coltivare la terra da soli”, dice Salman. “Loro non permettono a nessun altro parente o membro della famiglia di aiutarci. Non ci hanno dato l’autorizzazione ad andare nei nostri terreni, e adesso sostengono di considerarci assenti dalla nostra terra, che possiamo vedere con i nostri stessi occhi. Io non sono assente, sono proprio qui”.

Un anno, quando ai contadini venne permesso di recarsi nei loro terreni, essi giunsero nella loro proprietà per scoprire che tutte le olive erano già state raccolte da qualcun altro, racconta Hanouna.

Seidmann afferma che non è chiaro se la decisione di rivendicare la terra in virtù della Legge sulla Proprietà degli Assenti è stata semplicemente un tentativo da parte del governo di tentare qualcosa di illegale durante un anno di elezioni negli Usa, quando l’attenzione negli Stati Uniti è rivolta altrove, o se essa è divenuta una politica del governo.

L’Amministrazione civile israeliana, competente per il rilascio dei permessi, non ha risposto alla richiesta di un commento.

Hanouna afferma che la terra non solo rappresenta il loro futuro in termini di reddito derivante dalla raccolta delle olive, ma simboleggia anche la loro capacità di offrire un futuro ai loro figli a Betlemme. Altri appezzamenti di terra minacciati sono gli ultimi terreni rimasti dove la città - e in particolare i residenti di religione cristiana - può espandersi, dal momento che Betlemme è circondata da tutti gli altri lati da insediamenti israeliani, ha detto.

“Ci sentiamo abbandonati dal mondo intero. Noi siamo tutti cristiani. Questa è al 99% terra cristiana”, dice Hanouna. “Questa terra era la speranza per i Cristiani, per i nostri figli, di espandersi. Questo è tutto ciò che possediamo”.

Se non c’è spazio perché i nostri figli costruiscano le loro case, l’esodo dei giovani dalla città continuerà ed aumenterà, dal momento che cercano di farsi la loro vita da qualche parte dove non si sentano imprigionati, ha affermato.

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28 dicembre 2011

Chi ha rubato il Natale ai cristiani di Gaza?

I resoconti delle celebrazioni del Natale nei territori occupati in qualche caso hanno dato conto del fatto che Israele ha concesso un certo numero di permessi (500) ai cristiani di Gaza per recarsi nei luoghi santi e partecipare alle celebrazioni religiose.

Nessuno, come era lecito aspettarsi, ha fatto notare che il “gesto di buona volontà” natalizio concesso dai bravi Israeliani ha consentito di viaggiare ad un numero di cristiani di Gaza inferiore al 2010, avendo le autorità governative diminuito il numero dei permessi da 600 a 500 ed avendo limitato l’età dei fortunati alle persone di età inferiore a 16 e superiore a 46 anni (l’anno scorso il limite di età partiva dai 35 anni).

Il risultato è che due terzi dei cristiani di Gaza non hanno ricevuto i permessi per celebrare il Natale nei luoghi santi della Cisgiordania, e che alcuni che questa possibilità l’avevano hanno dovuto rinunciare perché solo alcuni membri della famiglia riscontravano i criteri stabiliti dal COGAT e, di conseguenza, sono rimasti nella Striscia per celebrare il Natale insieme al resto della famiglia.

Anche questo è il segno dell’attenzione che i “fratelli maggiori” ebrei riservano ai cristiani di Terra Santa, privati in un colpo solo di diritti fondamentali quali quello alla libertà di circolazione e alla libertà di culto, nel contesto di una punizione collettiva quale è l’assedio alla Striscia di Gaza che ogni giorno diventa sempre più intollerabile.

Chi ha rubato il Natale?

La gioia del Natale è arrivata un po’ in anticipo per i Palestinesi residenti in Cisgiordania e a Gaza, con l’annuncio del Coordinatore delle attività governative nei Territori (COGAT) di gesti di buona volontà per i cristiani durante le festività natalizie. Sembrerebbe che Babbo Natale abbia deciso che 500 cristiani palestinesi di Gaza di età inferiore ai 16 anni e superiore ai 46 sono stati buoni quest’anno e quindi meritano la possibilità di visitare la famiglia in Israele e in Cisgiordania e di partecipare alle festività religiose nei luoghi santi al di fuori della Striscia.

Si tratta di un gesto ben accetto ed è certamente importante che i principi della liberta di circolazione e della libertà di culto religioso, anche come gesti di buona volontà, trovino estrinsecazione nei provvedimenti del COGAT.

Ma uno sguardo più attento al gesto di buona volontà suggerisce che il Grinch – e non solo Babbo Natale – è stato al lavoro. Nella calza di quest’anno per i cristiani di Gaza c’è una riduzione della loro capacità di accedere ai luoghi santi durante le festività, in rapporto agli anni passati: Israele ha innalzato l’età di coloro ai quali è vietato viaggiare a 46 anni, invece di 35 anni, ed ha fissato una quota di appena 500 persone a cui è consentito di muoversi, nonostante l’anno scorso lo abbiano fatto circa 600 cristiani.

Che siano stati cattivi o buoni, almeno i due terzi dei circa 1.500 cristiani di Gaza, inclusi tutti quelli di età compresa tra i 16 e i 46 anni che sono esclusi dal gesto, non potranno celebrare le festività insieme ai membri della loro famiglia che soddisfano i criteri e riescono ad entrare nella quota. Ciò significa che una famiglia di sei persone, con la mamma e il papà di età superiore a 46 anni ma con figli di età pari a 20, 16, 14 e 7 anni dovranno perdere o la possibilità di viaggiare o l’alternativa di trascorrere il Natale insieme.

Lo scorso anno a Natale, ed anche la scorsa Pasqua, i criteri stabilivano che le persone di età superiore a 35 anni potevano ricevere i permessi. Non è chiaro perché questo Natale solo gli over 46 possano viaggiare. La politica israeliana è ancor più restrittiva per i musulmani di Gaza: nessun musulmano, qualunque sia la sua età, può recarsi nei luoghi santi, una politica approvata in tribunale all’inizio di quest’anno, quindi suppongo che dobbiamo esser grati per i piccoli miracoli. In ogni caso, buon Natale e felice anno nuovo a tutti!

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26 ottobre 2011

Il maggior sindacato degli insegnanti del Regno Unito chiede la scarcerazione dei minori palestinesi


Dal giorno in cui è avvenuto lo scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, si moltiplicano gli appelli ad Israele e alla comunità internazionale affinché venga assicurata la liberazione anche dei 164 Palestinesi di età inferiore ai 18 anni attualmente detenuti nelle carceri israeliane.

In prima fila in questa battaglia per la riaffermazione dei diritti violati dei giovani palestinesi vi è senza dubbio una parte rilevante della politica e della società civile del Regno Unito.

Il 18 ottobre scorso, alcuni parlamentari della Camera dei Comuni hanno presentato una mozione di sostegno all'appello che l'Unicef ha rivolto al governo israeliano affinché liberi i minori palestinesi attualmente in regime di detenzione militare, ricordando come la Convenzione sui Diritti del Fanciullo preveda che "la detenzione dei minori dovrebbe essere utilizzata solo come misura di ultima istanza e per l’appropriato periodo di tempo più breve”. La mozione è stata sottoscritta ad oggi da ben 34 parlamentari, in gran parte militanti nelle fila del Labour.

Il 19 ottobre, la National Union of Teachers (NUT), il maggiore tra i sindacati degli insegnanti del Regno Unito con oltre 250.000 tesserati, ha rilanciato il medesimo appello per il rilascio di tutti i detenuti palestinesi di minore età attualmente rinchiusi nei centri di detenzione israeliani.

Alla data del 1° ottobre di quest'anno, nelle carceri israeliane si trovano 164 ragazzi palestinesi di età compresa tra i 12 e i 17 anni. La maggior parte di questi ragazzi sono accusati di lancio di pietre. Frequenti sono i rapporti che continuano ad essere ricevuti circa i maltrattamenti e le torture inflitti ai minori nel sistema giudiziario militare israeliano, così come riguardo alla negazione di diritti fondamentali, quali il rapido accesso all'assistenza di un avvocato, all'essere informati del diritto a rimanere in silenzio e di ottenere che un genitore sia presente durante l'interrogatorio. Christine Blower, Segretario Generale della NUT, ha accolto con favore la recente decisione delle autorità militari israeliane di elevare il limite della maggiore età nei tribunali militari da 16 a 18 anni, in linea con gli standard internazionali, ma ha osservato come nessun minore sia stato incluso nel recente rilascio di prigionieri del 18 ottobre 2011.

L'appello della NUT ai propri associati segue gli appelli similari lanciati dall'Unicef e da membri del Parlamento europeo e di quello del Regno Unito.

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1 settembre 2011

L'infamia di Israele, un paese che arresta e tortura i ragazzini

La politica di Israele nei confronti delle manifestazioni di protesta in Cisgiordania è molto semplice: repressione brutale e spietata. E questa politica si rivolge in buona parte contro quello che si ritiene il punto debole del fronte di lotta palestinese contro l’occupazione, i bambini e i ragazzi.

Così, nel cuore della notte, squadre della miglior feccia di Tsahal vengono inviate ad arrestare ragazzini anche dodicenni con l’accusa, il più delle volte campata in aria, di aver tirato delle pietre durante cortei e manifestazioni di protesta. Si tratta, in realtà, di un pretesto dal doppio scopo: spaventare e dissuadere dalla lotta contro l’occupazione i più piccoli e i più indifesi e, soprattutto, ottenere false confessioni per incriminare ed arrestare gli adulti.

E ciò avviene in piena violazione dei diritti umani di questi ragazzi, e in palese contrasto con norme e convenzioni internazionali e persino della stesse legge israeliana: ragazzini arrestati in piena notte, bendati e ammanettati, picchiati e torturati, interrogati senza la presenza di genitori o avvocati, costretti a firmare false confessioni, per di più scritte in lingua abraica.

Un record che fa orrore e desta sconcerto, persino per uno stato-canaglia come quello israeliano.

Come Israele si vendica dei ragazzi che tirano pietre.
Un video visionato da Catrina Stewart rivela i brutali interrogatori dei giovani palestinesi
26.8.2011

Il ragazzo, piccolo e fragile, lotta per restare sveglio. La testa gli ciondola da un lato, ad un certo punto gli crolla sul petto. “Alza la testa! Alzala!” grida uno di quelli che lo interrogano, schiaffeggiandolo. Ma il ragazzo ormai non se ne cura, perché è sveglio da almeno dodici ore da quando è stato separato dai suoi genitori sotto la minaccia delle armi alle due di quella mattina. “Vorrei che mi lasciaste andare”, piagnucola il ragazzo, “così posso dormire un poco.”

Nel video di quasi sei ore, il 14enne palestinese Islam Tamimi (nella foto, n.d.r.), esausto e spaventato, viene gradualmente logorato fino al punto in cui comincia ad accusare gli uomini del suo villaggio e a creare delle storie fantastiche che ritiene che i suoi aguzzini vogliano sentire.

Questo filmato quasi mai visto, visionato dall’Independent, offre uno scorcio di un interrogatorio israeliano, quasi un rito di passaggio che centinaia di ragazzini palestinesi accusati di aver lanciato pietre subiscono ogni anno.

Israele ha difeso con fermezza il suo comportamento, sostenendo che il trattamento dei minori è notevolmente migliorato con la creazione, due anni fa, di un tribunale militare minorile. Ma i ragazzi che hanno affrontato la dura giustizia dell’occupazione raccontano una storia molto diversa.

“I problemi nascono ben prima che i ragazzini vengano condotti in tribunale, cominciano con il loro arresto”, afferma Naomi Lalo, un’attivista di No Legal Frontiers, un’associazione israeliana che monitora i tribunali militari. E’ durante l’interrogatorio che il loro “destino è segnato”, sostiene.

Sameer Shilu, 12 anni, stava dormendo quando i soldati una notte hanno sfondato la porta d’ingresso della sua casa. Lui e suo fratello maggiore sono venuti fuori dalla camera da letto con gli occhi annebbiati per scoprire sei soldati mascherati nel loro salotto.

Controllando il nome del ragazzo sulla carta d’identità del padre, l’ufficiale sembrava “scioccato” quando ha visto che doveva arrestare un ragazzino, racconta il padre di Sameer, Saher. “Gli ho detto, ‘E’ troppo piccolo; perché lo ricercate?’ ‘Non lo so,’ rispose”. Bendato, e con le mani legate dolorosamente dietro la schiena con delle fascette di plastica, Sameer è stato spinto dentro ad una jeep, mentre il padre gli gridava di non spaventarsi. “Abbiamo pianto, tutti noi, “ racconta suo padre. “Conosco i miei figli, loro non tirano pietre”.

Nelle ore precedenti il suo interrogatorio, Sameer è stato tenuto bendato e ammanettato, e gli è stato impedito di dormire. Accompagnato finalmente per un interrogatorio senza la presenza di un avvocato o di un genitore, un uomo lo ha accusato di aver partecipato ad una manifestazione, e gli ha mostrato il filmato di un ragazzo che tirava pietre, sostenendo che era lui.

“Disse, ‘Questo sei tu’, e io risposi che non ero io. Poi mi chiese, ‘Chi sono questi?’ e io dissi che non lo sapevo”, racconta Sameer. “A un certo punto, l’uomo ha cominciato a gridare contro di me, e mi ha afferrato per il bavero, e ha detto ‘Ti butterò dalla finestra e ti picchierò con un bastone se non confessi’.”

Sameer, che protestava la sua innocenza, è stato fortunato; è stato rilasciato poche ore dopo. Ma la maggior parte dei ragazzi sono costretti a firmare una confessione, impauriti dalle minacce di violenza fisica o dalle minacce contro le loro famiglie, come il ritiro dei permessi di lavoro.

Quando viene firmata una confessione, gli avvocati solitamente consigliano ai ragazzi di accettare un patteggiamento e di scontare una pena detentiva stabilita anche se non colpevoli. Dichiararsi innocente significa provocare lunghi procedimenti giudiziari, durante i quali il ragazzo è quasi sempre detenuto in carcere. Le assoluzioni sono rare. “In un tribunale militare, devi sapere che non ti aspetti giustizia,” afferma Gabi Lasky, un avvocato israeliano che ha rappresentato molti ragazzi.

Vi sono molti ragazzini palestinesi nei villaggi della Cisgiordania sotto l’ombra del muro di separazione israeliano e delle colonie ebraiche sulle terre dei Palestinesi. Laddove sono nate manifestazioni di protesta in gran parte non-violente come forma di resistenza, vi sono dei ragazzini che tirano pietre, e le incursioni israeliane sono abituali. Ma gli avvocati e le associazioni per i diritti umani hanno criticato la politica israeliana degli arresti che nei villaggi che resistono all’occupazione hanno come obiettivo i ragazzini.

Nella maggior parte dei casi, bambini anche di dodici anni vengono buttati giù dai letti di notte, ammanettati e bendati, privati del sonno e del cibo, sottoposti a lunghi interrogatori, infine costretti a firmare una confessione scritta in ebraico, una lingua che pochi di loro sanno leggere.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha concluso che “i diritti dei minori vengono gravemente violati, che la legge non riesce quasi per nulla a proteggere i loro diritti, e che i pochi diritti garantiti dalla legge non sono resi effettivi”.

Israele afferma di trattare i minori palestinesi nello spirito del proprio diritto minorile ma, nella pratica, è raramente il caso. Per esempio, i ragazzini non dovrebbero essere arrestati di notte, gli avvocati e i genitori dovrebbero essere presenti durante gli interrogatori, e ai bambini dovrebbero essere letti i loro diritti. Ma queste sono considerate delle linee guida, piuttosto che un obbligo di legge, e spesso vengono ignorate. E Israele considera i propri giovani come ragazzi fino all’età di 18 anni, mentre i palestinesi sono visti come adulti dai 16.

Avvocati ed attivisti affermano che più di duecento ragazzi palestinesi si trovano nelle prigioni israeliane. “Volete arrestare questi ragazzini, volete processarli,” dice la Sig.ra Lalo. “Bene, ma fatelo secondo la legge israeliana. Dategli i loro diritti”.

Nel caso di Islam, il ragazzo del video, il suo avvocato, la Sig.ra Lasky, ritiene che il video fornisca la prima prova concreta di gravi irregolarità nel suo interrogatorio.

In particolare, la persona che interrogava Islam ha omesso di informarlo del suo diritto a restare in silenzio, proprio mentre il suo avvocato supplicava inutilmente di vederlo. Al contrario, l’interrogante ha spinto Islam a raccontare tutto a lui e ai suoi colleghi, facendo intendere che se lo avesse fatto, sarebbe stato rilasciato. Uno di quelli che lo interrogavano allusivamente colpiva il palmo della sua mano con il pugno chiuso.

Alla fine Islam, scoppiando a piangere singhiozzando, ha ceduto ai suoi inquisitori, mostrando di fornir loro tutte le informazioni che vogliono sentire. Mostratagli una pagina di fotografie, la sua mano si muove debolmente sopra di esso, identificando gli uomini del suo villaggio, che verranno tutti arrestati per aver partecipato alla protesta.

La Sig.ra Lasky spera che questo filmato cambierà il modo in cui vengono trattati i ragazzini nei territori occupati, in particolare convincendoli ad accusare altri, il che secondo gli avvocati costituisce l’obiettivo primario degli interrogatori. Il video ha aiutato ad ottenere il rilascio di Islam e gli arresti domiciliari, e potrebbe anche portare ad una piena assoluzione dall’accusa di aver lanciato pietre. Ma in questo momento, un curvo e silenzioso Islam non si sente fortunato. A qualche metro di distanza dalla sua casa a Nabi Saleh c’è l’abitazione di sua cugina, il cui marito si trova in prigione in attesa del processo insieme ad una dozzina di altri in forza della confessione di Islam.

La cugina è magnanima. “Lui è una vittima, è solo un ragazzino,” dice Nariman Tamimi, 35 anni, il cui marito Bassem, 45 anni, è in carcere. “Non dobbiamo biasimarlo per ciò che è accaduto. Era sotto una enorme pressione”.

La politica di Israele in un certo senso ha avuto successo, seminando la paura tra i ragazzi e dissuadendoli da future dimostrazioni. Ma i ragazzi sono rimasti traumatizzati, soggetti ad incubi e ad enuresi notturna. La maggior parte devono perdere un anno di scuola, o persino ritirarsi.

I critici nei confronti di Israele sostengono che la sua politica sta creando una nuova generazione di attivisti dal cuore pieno di odio verso Israele. Altri affermano che sta macchiando la reputazione del paese. “Israele non ha alcun motivo di arrestare questi ragazzi, di processarli, di opprimerli,” dice la Sig.ra Lalo, con gli occhi lucidi. “Non sono i nostri figli. Il mio paese sta facendo così tanti torti e li giustifica. Dovremmo essere un esempio, ma siamo diventati uno stato oppressivo”.

Dati sulla detenzione minorile

7.000 Il numero stimato di giovani palestinesi detenuti e processati dai tribunali militari israeliani dal 2000, secondo un rapporto di Defence for Children International Palestine.

87% La percentuale di minori sottoposti ad una qualche forma di violenza fisica durante la detenzione. Si stima anche che circa il 91% ad un certo punto della detenzione sia stato bendato.

12 anni L’età minima per la responsabilità penale, secondo quanto previsto dall’Ordine Militare n.1651.

62% La percentuale dei ragazzi arrestati tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

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8 agosto 2011

La discriminazione razziale del sistema giudiziario israeliano

Gli amici di Israele – ahimé ben presenti anche in Italia – amano propinarci la favoletta secondo cui lo stato ebraico sarebbe una nazione civile e democratica, garante delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini e, dunque, anche della minoranza araba. Naturalmente si tratta di una clamorosa menzogna.

Lo dimostra, ad esempio, un recente studio statistico commissionato dall’Amministrazione dei Tribunali israeliani e dall’Ordine degli Avvocati, che ha rivelato che, per certi crimini, gli Arabi israeliani hanno più probabilità di essere condannati rispetto agli Ebrei e, una volta condannati, hanno maggiori probabilità di finire in prigione, e per un tempo più lungo.

Lo studio, condotto su un campione di 1.500 casi penali, mostra, in particolare, che il 48,3% degli Arabi condannati per violenza, reati contro la proprietà, crimini relativi a droga o armi, viene punito con una pena detentiva, mentre ciò avviene soltanto nel 33,6% dei casi quando il condannato è un Ebreo.

Ancora più marcata è la disparità se si esaminano separatamente i crimini violenti: in questo caso, infatti, il 63,5% degli Arabi israeliani riceve una condanna ad una pena detentiva, contro una percentuale pari al 43,7% se il colpevole è un Ebreo.

Anche la durata della condanna varia secondo un criterio “etnico”, dato che la durata media della detenzione è di nove mesi e mezzo per gli Ebrei e di 14 mesi per gli Arabi.

In buona sostanza, dunque, i ricercatori sostengono che il sistema giudiziario israeliano discrimina pesantemente gli Arabi, giudicati più duramente con riguardo sia alle percentuali di condanna degli indagati sia alla percentuale di pene detentive comminate sia alla durata media delle pene detentive medesime.

Si tratta, come dovrebbe essere ben chiaro a tutti, di un fatto gravissimo, perché si assume che la discriminazione razziale arrivi addirittura a permeare l’intera organizzazione statuale e, in specie, persino il sistema giudiziario, che dovrebbe costituire il faro e la guida di una nazione per quanto attiene alla giustizia e al diritto.

E Ha’aretz, nell’editoriale che segue, non a caso parla di Israele, con buone ragioni direi, come di un regime di apartheid.

I tribunali israeliani devono cessare le discriminazioni anti-Arabe
Editoriale di Ha’aretz – 3.8.2011

I Tribunali israeliani discriminano gli Arabi israeliani. Se ci fosse stato qualche dubbio su ciò, un dettagliato studio, il primo del suo genere, commissionato dall’Amministrazione dei Tribunali israeliani e dall’Ordine degli Avvocati, lo ha appena stabilito conclusivamente.

Secondo lo studio, le cui principali risultanze sono state riportate da Tomer Zarchin sull’edizione di Ha’aretz di ieri, gli Arabi ricevono pene detentive in carcere più spesso degli Ebrei condannati per gli stessi reati, e agli Arabi vengono comminate sentenze detentive più lunghe rispetto agli Ebrei che finiscono in prigione. Gli autori dello studio concludono che la loro scoperta più rilevante è la tendenza dei Tribunali israeliani a trattare gli imputati arabi con maggiore durezza: quando gli Arabi finiscono in tribunale, hanno maggiori probabilità di essere condannati; quando vengono condannati, essi rischiano di ricevere una condanna più dura di quella che normalmente riceverebbe un Ebreo. E’ difficile immaginare una realtà più inquietante.

Non si tratta più di una questione di discriminazione sulla base della nazionalità da parte dei comitati di ammissione di piccole comunità o dei buttafuori di un locale notturno. Non si tratta solo di una questione di discriminazione negli stanziamenti di bilancio. Questo preoccupante parossismo ha già raggiunto il suo apice: lo stesso sistema giudiziario, che dovrebbe servire alla società come faro del diritto e della giustizia.

L’Amministrazione dei Tribunali e l’Ordine degli Avvocati hanno fatto bene a commissionare lo studio. Ma ora, spetta al sistema giudiziario sradicare questa piaga di sistematica discriminazione.

I giudici israeliani abitano in mezzo alla gente, ma non devono consentire che essi stessi vengano infettati dallo stato d’animo razzista che si sta diffondendo all’interno della società israeliana. Al contrario, il sistema giudiziario deve combattere contro questo atteggiamento moralmente riprovevole.

I cittadini arabi devono godere di eguali diritti sotto ogni punto di vista – ma anzitutto quando si tratta del sistema di applicazione della legge. Essi devono sapere che non dovranno mai affrontare condanne discriminatorie a causa della loro nazionalità. Questa condizione essenziale, tuttavia, attualmente non viene soddisfatta.

Ogni livello del sistema giudiziario, dalla Corte Suprema in giù, deve designare questa come una delle missioni più urgenti ed importanti – garantire parità di trattamento a tutti coloro che vi compaiono davanti. Il Presidente della Corte Suprema Dorit Beinisch deve inviare un messaggio urgente e inequivocabile ad ogni giudice in Israele: le condanne discriminatorie ai danni degli Arabi devono cessare. Razzismo? Non nei tribunali.

Perché altrimenti, chi accusa Israele di mantenere un regime di apartheid sarà giustificato per quanto riguarda i cittadini arabi israeliani.

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2 agosto 2011

Quei vili criminali dell'esercito israeliano, rapitori di bambini



Mentre gli Israeliani sono impegnati nelle loro manifestazioni di protesta piantando tende in tutto il paese, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, la vita sotto occupazione va avanti come al solito, lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica israeliana e internazionale.

Nel filmato scioccante qui sopra, girato da una telecamera di sorveglianza lo scorso 22 luglio e postato su YouTube, alcuni ragazzini palestinesi che stavano giocando a calcio per strada vengono improvvisamente afferrati e portati via da soldati israeliani mascherati scesi da un veicolo sotto copertura.

Di cosa erano sospettati? Perché sono stati portati via? Ed è così che si amministra la “giustizia” da parte di un paese civile, posto che la parola “giustizia” abbia un senso se riferita ad uno stato-canaglia che mantiene una pluridecennale occupazione militare dei territori palestinesi feroce e spietata?
Non si è lontani dal vero se si presume che quei poveri ragazzi siano sospettati di aver tirato pietre all’indirizzo degli occupanti israeliani, posto che – nel periodo compreso tra novembre 2009 e dicembre 2010 – solo a Gerusalemme est sono stati 1.267 i casi penali aperti dalla polizia israeliana nei confronti di Palestinesi minori di 18 anni per il reato di lancio di pietre.

E quando non vengono rapiti in mezzo alla strada, ai ragazzini palestinesi può capitare di essere svegliati alle 4 della mattina da una torma di soldati israeliani armati di tutto punto che fanno irruzione in camera da letto, come è successo ad Ahmed Siyam, 12enne di Silwan.

“Papà, papà, aiutami! Non lasciare che mi portino via!” ha avuto appena il tempo di gridare il povero Ahmed, prima di essere portato via dai soldati israeliani, bendato e ammanettato. Si, perché anche ragazzini di 12 o 13 anni, poco più che bambini, in violazione di ogni norma e convenzione che riguarda i minori, vengono sistematicamente ammanettati, bendati, presi a spintoni, schiaffeggiati, presi a calci, interrogati senza la presenza dei genitori o di un legale, costretti a firmare “confessioni” scritte in lingua ebraica.

Un paese che amministra in questo modo la “giustizia”, che si accanisce contro i più piccoli e gli indifesi, che compie arresti illegali e pratica abusi sistematici e maltrattamenti contro gli arrestati, anche se bambini, non è degno di essere definito civile, ed anzi dovrebbe essere messo al bando ed isolato dalla comunità internazionale.

Si spera solo che la diffusione di questo ed altri video simili serva a far aprire gli occhi sulla realtà di un’occupazione non più tollerabile, e sull’infamia di un esercito di vili criminali, rapitori di bambini.

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28 luglio 2011

Quali motivi di “sicurezza” spingono Israele a negare ai malati il diritto di curarsi?

Lo scorso 25 luglio Ra’ed ‘Azzam Saleem al-Mghari, un Palestinese di 33 anni residente nella Striscia di Gaza, è morto perché le autorità israeliane hanno rifiutato di concedergli il permesso di recarsi in un centro medico in Cisgiordania per ricevere le cure di cui aveva disperato bisogno.


Al-Mghari viveva nel campo profughi di al-Bureij, nella zona centrale della Striscia di Gaza, e soffriva da 16 anni per una malattia cardiaca. Avrebbe dovuto recarsi all’Arab Center for the Treatment and Surgery of Heart and Blood Diseases di Nablus per sottoporsi ad un intervento chirurgico ad una delle valvole cardiache, ma il rifiuto da parte dell’Idf di concedergli il permesso gli ha tolto ogni possibilità di sopravvivenza.


Il padre della vittima, ‘Azzam Saleem al-Mghari, racconta:


Mio figlio soffriva di problemi ad una valvola cardiaca da 16 anni. Solitamente riceveva le cure mediche negli ospedali Nasser e Shifa, rispettivamente a Khan Yunis e a Gaza City. Cinque anni fa ha subito un intervento chirurgico a cuore aperto all’Arab Center for the Treatment and Surgery of Heart and Blood Diseases di Nablus, dove ha trascorso un mese per le visite di controllo e i trattamenti medici. L’11 giugno del 2010 i dottori hanno controllato le sue condizioni dopo che egli si era recato al Centro per effettuare alcuni esami medici. Essi hanno deciso che non sarebbe stato in grado in quel momento di sottoporsi ad un intervento chirurgico ad una delle valvole cardiache, e di conseguenza ha fatto ritorno a Gaza. Il 10 luglio 2011 lo abbiamo trasferito al reparto di terapia intensiva dello Shifa Hospital di Gaza City, a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute, e lì ha trascorso due giorni per le cure mediche. Egli ha continuato ad andare in ospedale per ricevere le cure e a tornare a casa fino al 14 luglio, quando è caduto a terra a casa ed è stato riportato nuovamente in ospedale. Allora abbiamo iniziato ad occuparci delle procedure per trasferirlo urgentemente all’Arab Center di Nablus, ma il 19 luglio il Centro di Coordinamento Sanitario degli Affari Civili ci ha informato che il permesso per il suo accompagnatore (il suocero) era stato rifiutato. Abbiamo iniziato ad occuparci delle procedure per il trasferimento senza accompagnatore, ma il Comitato ci ha informato il 24 luglio che la controparte israeliana aveva respinto la sua domanda per motivi di sicurezza. Sono passato ad occuparmi di un permesso di trasferimento verso l’Egitto, ma la sua salute ha cominciato a peggiorare sempre più. Di conseguenza, lunedì 25 luglio, i medici hanno deciso di eseguire su di lui un intervento chirurgico d’urgenza. E’ entrato in sala operatoria ed è morto dopo cinque ore, mentre era sotto i ferri.


Con la morte di al-Mghari, salgono a tre i pazienti palestinesi della Striscia di Gaza morti quest’anno perché Israele ha negato loro il diritto di ricevere cure mediche in ospedali all’estero, ma sono centinaia i pazienti a Gaza le cui condizioni di salute vanno peggiorando e che avrebbero bisogno di cure urgenti che non possono ottenere nella Striscia.


I malati della Striscia di Gaza, infatti, spesso hanno necessità di appoggiarsi agli ospedali della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme, e a quelli israeliani, e sono costretti a estenuanti e umilianti trattative per ottenere quello che rappresenta un diritto fondamentale dell’uomo, quello alla salute e a ricevere i migliori standard di cure mediche disponibili. Sovente, peraltro, questi sventurati sono oggetto di ricatto da parte dell’esercito israeliano, che non si tira certo indietro nella pratica odiosa ed immorale di richiedere soffiate e collaborazioni in cambio degli agognati permessi.


Che razza di problemi di “sicurezza” poteva creare un Palestinese come Ra’ed al-Mghari, un malato di cuore che, peraltro, non voleva recarsi nemmeno in Israele, ma solo andare in Cisgiordania per curarsi?


Nessuno, è chiaro. Si tratta soltanto dell’ennesimo, spietato e disgustoso episodio della punizione collettiva posta in essere da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, un milione e mezzo di persone a cui Israele nega ogni diritto fondamentale, inclusi quelli alla vita e alla salute.


Alla faccia della Quarta Convenzione di Ginevra.

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9 luglio 2011

Una crisi umanitaria a Gaza? No, peggio!

Come abbiamo già avuto modo di ricordare, buona parte dell’attività propagandistica israeliana è volta a negare che nella Striscia di Gaza esista un sia pur minimo problema di carattere umanitario, economico o sanitario. I tanti amici di Israele sparsi per il mondo sostengono che a Gaza, lungi dall’esservi la fame, si trovano beni e mercanzie di ogni sorta, e costoro non esitano letteralmente a inventarsi fantomatici rapporti e dichiarazioni dell’Onu e della Croce Rossa che, a loro dire, attesterebbero questa incontrovertibile “verità” dei fatti.


A sgombrare il campo da questa ripugnante propaganda, è da pochi giorni disponibile sul sito web dell’UNOCHA (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) il rapporto che segue, una paginetta che elenca i dati statistici e gli elementi fondamentali che caratterizzano l’attuale situazione nella Striscia di Gaza, delineando il quadro di una vero e proprio disastro umanitario.


La situazione umanitaria nella Striscia di Gaza – Luglio 2011


Gaza in breve


Gaza ha 1,6 milioni di abitanti, per oltre il 50% minori di 18 anni.


Il 38% degli abitanti di Gaza vive in condizioni di povertà.


Il 31% della forza lavoro di Gaza è priva di impiego e il 47% dei giovani sono disoccupati.


Il 54% degli abitanti di Gaza vive in condizioni di insicurezza alimentare e oltre il 75% dipende dagli aiuti.


La produzione economica nel 2010 è stata inferiore del 20% rispetto al 2005.


Il 35% dei terreni agricoli di Gaza e l’85% delle sue acque pescabili sono totalmente o parzialmente inaccessibili a causa delle misure militari israeliane.


Da 50 a 80 milioni di litri di liquami parzialmente trattati vengono riversati in mare ogni giorno.


Oltre il 90% dell’acqua proveniente dalla falda acquifera di Gaza non è potabile.


L’85% delle scuole di Gaza funzionano con doppi o tripli turni.


Dall’inizio del 2010, 59 persone sono rimaste uccise in incidenti nei tunnel, inclusi 5 bambini, e 115 persone sono rimaste ferite.


Il principale valico per il movimento dei Palestinesi da e per Gaza (il valico di Rafah al confine con l’Egitto) resta limitato al passaggio di 500 persone al giorno.


1. Il blocco di Gaza costituisce la negazione di diritti umani fondamentali, in violazione del diritto internazionale e corrisponde ad una punizione collettiva. Il blocco limita gravemente le importazioni e le esportazioni, al pari del movimento delle persone da e per Gaza, e dell’accesso ai terreni agricoli e alle acque pescabili. Gli abitanti di Gaza non sono in grado di provvedere alle loro famiglie e la qualità delle infrastrutture e dei servizi essenziali è peggiorata.


2. Le misure adottate per alleggerire il blocco nel giugno del 2010 hanno avuto limitati effetti reali. Anche se le importazioni sono aumentate, esse restano ancora solo al 45% dei livelli precedenti al 2007. Le esportazioni rimangono strettamente vincolate e sono limitate ai prodotti agricoli verso l’Europa, e gli operatori economici di Gaza non possono accedere ai loro tradizionali mercati in Israele e in Cisgiordania. L’accesso alla terra e al mare rimane estremamente limitato.


3. Anche se Israele ha approvato una serie di progetti infrastrutturali volti a migliorare a Gaza i servizi essenziali dello smaltimento dei liquami, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, pochi di questi progetti sono stati realizzati. Ciò è principalmente dovuto al lento e farraginoso processo di approvazione e alle difficoltà nell’importazione dei materiali. Questo significa che gli abitanti di Gaza non hanno visto alcun effettivo miglioramento della qualità dei servizi essenziali.


4. Migliaia di persone, molti di loro bambini, rischiano la vita introducendo di nascosto ogni giorno merci attraverso i tunnel che passano al di sotto del confine con l’Egitto. La fiorente industria dei tunnel è un diretto risultato delle restrizioni in atto all’importazione di materiali edili, della mancanza di opportunità di impiego, e delle enormi necessità di ricostruzione esistenti a Gaza.


5. Gaza rimane isolata e tagliata fuori dal resto del territorio palestinese occupato. Gli spostamenti attraverso il valico israeliano di Erez sono vietati per la quasi totalità degli abitanti di Gaza, nonostante le promesse di alleggerire le restrizioni. Il valico egiziano di Rafah rimane limitato a 500 persone al giorno, con centinaia di Palestinesi a cui ogni settimana viene negato il passaggio.


A questi dati, scarni e drammatici, si potrebbe aggiungere quanto ricordato in tempi recenti da Richard Falk, il Relatore Speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, il quale – citando i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – denunciava che nella Striscia di Gaza, dei 480 farmaci contenuti nella lista delle medicine essenziali, 178 (il 37%) erano segnalati con livelli di stock pari a zero, e più di 190, pur presenti in magazzino, o erano scaduti oppure prossimi alla scadenza.


E, dunque, cos’altro significa vivere a Gaza se non condurre un’esistenza segnata dalla fame, dalle privazioni, dall’umiliazione di dover dipendere dagli aiuti umanitari per sopravvivere, dalla miseria, dalla mancanza di fogne, di scuole, di assistenza sanitaria, dall’impossibilità di porre rimedio alle immani distruzioni provocate dai raid israeliani di “Piombo Fuso”?


E come è possibile che gli Usa, l’Europa, il mondo “civile” consentano ad Israele di violare così palesemente e crudelmente il diritto internazionale e il diritto umanitario e, insieme, che i Palestinesi vivano in simili, disumane condizioni?


E allora, vi prego, diffondete più che potete questi dati e queste drammatiche e incontrovertibili verità, scrivete agli amici, ai giornali, ai parlamentari nazionali ed europei, a chiunque vogliate.


Non possiamo più tollerare che Israele condanni un intera popolazione ad una crudele e barbara morte civile (quando non fisica), non possiamo rassegnarci a questa notte del diritto, della moralità, della compassione, non possiamo lasciare soli i nostri fratelli di Gaza. Lo dobbiamo a loro e alla nostra coscienza.

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30 giugno 2011

Striscia di Gaza: una crisi umanitaria, un assedio criminale

Uno dei cardini della macchina propagandistica messa in piedi da Israele contro gli attivisti della Freedom Flotilla 2 consiste nell’apodittica affermazione secondo cui nella Striscia di Gaza non solo non vi è alcuna crisi umanitaria, ma addirittura in essa si trovano beni e mercanzie di ogni sorta, un vero e proprio paese di Bengodi.

Così, ad esempio, due giorni fa il Capo di Stato Maggiore israeliano Benny Gantz ha dichiarato che rappresentare Gaza come un luogo in cui si soffre la fame è una vera e propria finzione: “Chiunque legga i giornali vedrà … che la situazione che si rispecchia a Gaza è quella di parchi acquatici e di spiagge, e che la distanza tra questo ed un problema umanitario è così grande che non vi è alcuna relazione”.

Ora, io non so bene quali giornali legga il Capo di Stato Maggiore dell’Idf, ma gli atti ufficiali che sono disponibili al pubblico raccontano una realtà ben diversa e disperata.

A Gaza, oltre il 70% della popolazione basa la propria esistenza in vita sugli aiuti umanitari provenienti dalle ong internazionali; a Gaza, il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’incredibile tasso del 45,2% (cfr. UNRWA – Labor Market Briefing Gaza Strip, Second-Half 2010); a Gaza, Israele continua a impedire l’importazione di materiali da costruzione, eccetto che per i progetti di organizzazioni internazionali, che ammontano al 7% del fabbisogno complessivo; a Gaza, le esportazioni di prodotti e manufatti sono state totalmente vietate a partire dallo scorso mese di maggio.

Secondo Richard Falk, il Relatore Speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, il blocco israeliano alla Striscia di Gaza costituisce “una politica deliberata di punizione collettiva che è indifendibile legalmente e biasimevole moralmente. Essa mira a negare ai Palestinesi l’umanità ed una vita dignitosa,” ha affermato. “Il blocco di Gaza deve essere tolto interamente e immediatamente”.

Riferendosi ai recenti rapporti dei media sui diffusi problemi sanitari nella Striscia, Falk ha sostenuto che la situazione della sanità a Gaza è “a dir poco catastrofica”.

Dei 480 farmaci contenuti nella lista delle medicine essenziali, 178 (il 37%) sono segnalati con livelli di stock pari a zero, e più di 190 tipi di medicinali in magazzino o sono scaduti o sono prossimi alla scadenza. Citando i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), Falk ha affermato che la grave carenza di farmaci vitali sta avendo un impatto critico sulla possibilità di continuare a fornire assistenza sanitaria.

“Israele, quale potenza occupante, ha l’obbligo secondo il diritto internazionale umanitario di ristabilire e di mantenere l’ordine pubblico e la vita civile, incluso il benessere pubblico per la popolazione civile, ha detto. “Questo comprende, tra l’altro, provvedere e mantenere le infrastrutture, la salute e le condizioni materiali di vita”.

“L’embargo totale di Gaza da parte di Israele, tuttavia, non solo nega la possibilità di una vita normale all’intera popolazione civile di Gaza, ma la punisce anche collettivamente per atti di cui non ha alcuna responsabilità”.

L’attuale situazione nella Striscia di Gaza dunque – non ce ne voglia il buon Gantz – non solo costituisce una conclamata crisi umanitaria, ma rappresenta una chiara e sistematica violazione del diritto internazionale umanitario, che dovrebbe comportare la responsabilità penale degli alti gradi militari e dei governanti israeliani che a vario titolo la pongono in essere. Ed è davvero incredibile e moralmente inaccettabile che la comunità internazionale, ivi compreso il nostro Paese, abbia consentito e consenta il protrarsi di questa situazione da oltre quattro anni.

Ma, ormai lo abbiamo imparato, nei vocabolari in uso in Israele la voce “diritti umani” semplicemente non esiste.

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29 giugno 2011

La sfida della Freedom Flotilla 2: riaffermare la supremazia del diritto internazionale

Quando si ha a che fare con Israele, le comuni regole del diritto, della morale e del semplice buonsenso vengono travolte e sovvertite, lo sappiamo.

Solo per restare alle ultime settimane,
l’assassinio a sangue freddo di decine di civili inermi che ha macchiato le giornate di commemorazione della Nakba e della Naksa il 15 maggio e il 5 giugno è stato fatto passare da Israele come un atto di “autodifesa” contro l’immotivata “aggressione” da parte di chi, invece, tentava soltanto di manifestare pacificamente per il diritto al ritorno. Senza che alcuno abbia avuto niente da ridire.

Analogamente, ora, Israele dipinge i partecipanti alla Freedom Flotilla 2 come un’accolita di terroristi e di antisemiti, e minaccia di usare la forza per bloccare l’arrivo delle navi a Gaza. E, anche in questo caso, non solo i governi delle nazioni i cui cittadini saranno a bordo delle navi della flottiglia – tra cui purtroppo anche l’Italia – evitano accuratamente di ammonire Israele a garantirne l’incolumità, ma addirittura alcuni di essi preferiscono piuttosto ammonire i propri cittadini a non partecipare alla spedizione della Freedom Flotilla!

Eppure la sfida che gli eroi della Freedom Flotilla 2 si apprestano ad affrontare è di importanza fondamentale, ed attiene non già al solo obiettivo umanitario, ma anche e soprattutto alla questione più fondamentale, se debba cioè prevalere la forza del diritto o il diritto del più forte.

Di questo tratta l’articolo che segue, scritto da Richard Irvine per il sito web del Palestine Chronicle e qui proposto nella traduzione di
Medarabnews.

La sfida della Flottiglia di Gaza: un’agenda politica radicale
di Richard Irvine – 24.6.2011

Recentemente ho spesso pensato di essere entrato in un universo parallelo. Un universo in cui ciò che sarebbe illegale è legale; in cui la vittima è il criminale; in cui Golia deve difendersi da Davide.

I palestinesi hanno certamente subito quest’esperienza negli ultimi 100 anni, ma nelle ultime settimane le denunce di Israele contro la prossima flottiglia di Gaza, giunte sulla scia della condanna israeliana dei profughi morti sulle alture del Golan, hanno spinto l’incredulità al punto di rottura.

Quando Israele ha ucciso 14 profughi disarmati nella giornata della Nakba, e poi ha superato se stessa in una replica della propria performance tre settimane più tardi, mi aspettavo che la comunità internazionale avrebbe parlato; che avrebbe espresso la propria condanna, e avrebbe riaffermato la promessa della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, secondo cui ognuno ha il diritto di lasciare il proprio paese e di farvi ritorno. Ma ho atteso invano.

Al di là dei borbottii del Quartetto, e del patetico appello di Ban Ki-moon alla “moderazione”, la voce più stridente certamente è stata quella di Israele. Indignata per il fatto di dover uccidere civili disarmati, ha trasformato il “tiro al piccione” contro i profughi in una difesa della sovranità israeliana, e i profughi in aggressori – colpevoli della “provocazione” di tentare di esercitare i loro diritti umani.

Oggi, mentre la flottiglia di Gaza si avvicina, la stessa trasformazione di attivisti inermi in pericolosi ed irresponsabili estremisti è già in atto da tempo. Mentre Israele si esercita nelle sue operazioni navali, intensifica anche la sua offensiva diplomatica e mediatica. L’ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, Ron Prosor, ripete minacciosamente il linguaggio usato prima della strage dello scorso anno, definendo la flottiglia “una provocazione” e invitando la comunità internazionale a fare tutto ciò che è in suo potere per fermarla.

Ovviamente omessa in questo discorso, è la dichiarazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa che il blocco di Gaza è illegale; o quella dell’ex capo dell’UNRWA a Gaza, John Ging, che l’anno scorso ha invitato gli attivisti a rompere il blocco. In effetti, già dimenticato è anche il fatto che la precedente aggressione di Israele alla Mavi Marmara era sia illegale, sia – secondo la relazione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – omicida.

In altre parole, tutto il contesto giuridico oggettivo necessario perché l’opinione pubblica e la comunità internazionale possano giudicare le azioni degli attivisti e di Israele è assente. Invece quella che viene presentata è la storia di un’Israele sotto attacco – o addirittura di un’Israele sotto assedio. Come dice Prosor: “L’obiettivo della flottiglia non è quello di consegnare aiuti umanitari, ma di stimolare e sostenere un’agenda politica radicale”.

Tale agenda politica radicale è l’applicazione delle convenzioni internazionali e dei diritti umani.
E, naturalmente, Israele ha avuto i suoi successi. L’organizzazione umanitaria turca IHH si è tirata fuori dalla flottiglia, molto probabilmente per le pressioni del governo turco che, alla luce della rivolta siriana, sembra desideroso di sanare i rapporti con Israele. Ancor più preoccupante, però, è stato il vile appello rivolto da Ban Ki-moon ai paesi mediorientali affinché facessero tutto il possibile per fermare la flottiglia (28/05/2011).

Allo stesso modo, i protettori di Israele nei media non hanno tardato a strombazzare le dichiarazioni dei politici israeliani e a diffamare gli attivisti della flottiglia come “esponenti dell’estrema sinistra”, “antisemiti” o “terroristi”. L’ammiraglio israeliano Eliezer Marom l’ha definita “una flottiglia dell’odio i cui unici obiettivi sono di scontrarsi con i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, di creare provocazioni sui media, e di delegittimare lo Stato di Israele” ( Ha’aretz, 19/06/2011).

Purtroppo, in tutta questa tempesta mediatica, ciò che viene delegittimato non è Israele, ma il diritto internazionale. Per quanto ne so, nessun paese ha rilasciato una dichiarazione che ammonisse Israele a non attaccare i propri cittadini, ma diversi paesi hanno ammonito i propri cittadini a non prendere parte alla flottiglia e ad evitare qualsiasi viaggio in direzione di Gaza. Questo atteggiamento invia un messaggio inquietante. Nel caso di un attacco israeliano, questo approccio attribuisce la colpa di eventuali vittime tra gli attivisti agli attivisti stessi. In effetti si tratta di governi che si lavano diplomaticamente le mani di fronte a ciò che potrà accadere, dando allo stesso tempo ad Israele un alibi bell’e pronto che le consente di ricorrere alla violenza nella misura in cui le fa più comodo. Un fenomeno, che nel contesto di Gaza, è tutt’altro che insolito.

Eppure il diritto umanitario internazionale richiede che tutti gli Stati “rispettino e assicurino il rispetto” delle leggi di guerra; la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo richiede che tutti gli Stati promuovano “il rispetto e l’osservanza universali dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Perciò, quando i governi si lavano le mani di fronte a Gaza e agli attivisti che cercano di aiutare la sua gente, essi si lavano le mani anche di fronte a questi impegni.

Quindi cerchiamo di considerare la sfida della flottiglia di Gaza per quello che realmente è: essa non riguarda la possibilità che alcune navi raggiungano Gaza con successo, o che vengano consegnate alcune tonnellate di aiuti; né riguarda la delegittimazione di Israele. In effetti tale sfida riguarda la questione più fondamentale di tutte: se debba prevalere lo stato di diritto o la legge del più forte. In fin dei conti, non è solo l’assedio a Gaza che gli attivisti della flottiglia stanno sfidando, ma l’assedio al diritto internazionale. Dunque, sì, sono d’accordo con Ron Prosor: quella della flottiglia è “un’agenda politica radicale”.

Richard Irvine è un autore irlandese; è titolare di un corso alla Queen’s University di Belfast intitolato “The Battle for Palestine”, che esplora l’intera storia del conflitto; ha lavorato come volontario nei campi profughi palestinesi in Libano e in Cisgiordania

(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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15 giugno 2011

L'Israele che (non) ti aspetti, dove si arrestano e si torturano i ragazzini

In questi giorni, durante la sua visita in Italia, il premier israeliano Netanyahu ha avuto modo di partecipare – ospite del sindaco di Roma Alemanno – ad una cerimonia tenutasi al Campidoglio in onore del caporale Gilad Shalit, il soldato israeliano catturato da Hamas il 25 giugno di cinque anni fa.

Nella conferenza stampa congiunta al termine del successivo incontro con Berlusconi, Netanyahu anche per questo ha pronunciato parole di elogio per l’Italia, affermando che se molti altri Paesi seguissero l’esempio italiano, Hamas sarebbe costretta dalle pressioni internazionali a liberare il soldato.

Il meritorio sforzo dell’Italia per la liberazione di Shalit – un soldato delle truppe di occupazione israeliane catturato durante un’operazione militare – appare tuttavia sospetto ed unilaterale laddove si consideri che non altrettanto impegno viene profuso per chiedere a Israele la liberazione degli oltre 5.380 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (di cui ben 219 in regime di detenzione amministrativa).

Nè risulta che Berlusconi o il ridanciano ministro Frattini o alcun altro politico italiano abbia chiesto a Israele la liberazione dei 220 ragazzini palestinesi incarcerati in Israele, 37 dei quali di età compresa tra i 12 e i 15 anni.

Eppure, altrove, politici di ogni schieramento – indignati e preoccupati - non esitano a denunciare con forza il disumano trattamento riservato dalle autorità israeliane ai minori palestinesi arrestati nei Territori occupati.

Il 4 maggio di quest’anno, il parlamentare inglese del Labour Party Alf Dubs – a seguito di una visita in Cisgiordania nel mese di aprile - ha sollevato davanti alla Camera dei Lord il problema dei minori palestinesi detenuti: Nell’ambito della visita sono andato a vedere i tribunali militari israeliani a Ofer … Abbiamo visto un (ragazzino) di 14 anni e uno di 15, uno di essi in lacrime, entrambi assolutamente disorientati. Quello che più di tutto mi ha scioccato è stato vedere che questi giovani – dei ragazzini – avevano catene o manette alle caviglie mentre erano seduti in tribunale. Quando sono stati condotti davanti alla corte erano anche ammanettati …

Proseguendo poi: Non credo che questo processo di umiliazione rappresenti giustizia. Credo che il modo in cui questi giovani vengono trattati sia di per sé un ostacolo al raggiungimento da parte di Israele di una relazione pacifica con il popolo palestinese. Penso che gli Israeliani dovrebbero applicare standard adeguati di diritti umani al modo in cui li trattano.

La lettera che segue, invece, è stata indirizzata all’Alto rappresentante della Ue per gli affari esteri Catherine Ashton dall’eurodeputato inglese dei Verdi Keith Taylor, e rappresenta un vibrante e sdegnato atto d’accusa contro le inaudite violazioni dei diritti umani poste in essere da Israele.

Gentile Commissario Ashton, Le scrivo per esprimere la mia grave preoccupazione per la detenzione di bambini palestinesi da parte delle autorità israeliane. Mi compiaccio del fatto che attualmente non vi siano bambini in detenzione amministrativa. Tuttavia, un recente rapporto di Defence for Children International, una organizzazione non-governativa indipendente che opera per promuovere e tutelare i diritti dei bambini, ha rivelato l’inaccettabile situazione secondo cui attualmente 220 bambini palestinesi vengono mantenuti in detenzione ordinaria dal sistema giudiziario militare israeliano.

Il rapporto, basato su 40 dichiarazioni giurate ottenute da bambini palestinesi incarcerati dal sistema giudiziario militare tra il luglio e il dicembre 2010, è stato presentato alle Nazioni Unite a gennaio ed è stato aggiornato di recente. Esso conclude che i maltrattamenti, al pari delle torture, ai danni dei bambini palestinesi sono molto diffusi, sistematici e istituzionalizzati.

Le principali risultanze del rapporto includono:
- il 27% dei bambini detenuti è costretto a firmare confessioni scritte in ebraico;
- il 58% dei bambini detenuti viene trasferito in carceri situate all’interno di Israele, in violazione dell’art.76 della IV Convenzione di Ginevra;
- il 43% dei bambini detenuti non viene adeguatamente separato dai detenuti adulti;
- il 55% dei bambini detenuti lamenta l’inadeguatezza del cibo, dell’acqua e/o della struttura.

Un nuovo rapporto del Britain Palestine All Party Parliamentary Group (BPAPPG) ha anch’esso evidenziato la diffusa detenzione di bambini palestinesi da parte dello Stato israeliano.

La esorto a richiedere una azione immediata da parte di Israele per porre rimedio a questa situazione. Come misura minima di salvaguardia, ogni interrogatorio di un minore dovrebbe essere registrato in audio e video e dovrebbe essere permesso ai genitori di accompagnare i propri figli durante l’interrogatorio, trattandosi di un diritto riconosciuto nella maggior parte dei casi ai minori israeliani. Israele deve anche assicurare che a tutti i bambini, una volta in arresto, venga fornito l’accesso immediato ad un avvocato o a un membro della famiglia. La invito inoltre a sostenere la creazione di una commissione di inchiesta indipendente per indagare sul trattamento dei bambini nel sistema giudiziario militare israeliano. Come sarà d’accordo, sussistono serie preoccupazioni di carattere legale riguardanti i processi nei confronti di civili (particolarmente di bambini) all’interno dei tribunali militari, a cui Israele si è dedicato per oltre 43 anni.

La esorto anche a ricordare a Israele i suoi obblighi internazionali e, in particolare, quello al pieno rispetto della Convenzione ONU contro la Tortura e Altri Trattamenti Crudeli, Disumani o Degradanti e della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo (1989) (CRC), ratificata da Israele nel 1991, che riconosce espressamente la particolare vulnerabilità dei bambini, prevedendo che la detenzione debba costituire una misura di ultima istanza (articolo 37, lett. c) Gli Stati dovrebbero anche adottare misure in ogni momento appropriate per evitare ai bambini i procedimenti giudiziari (articolo 40, 3) Tali argomenti sono tanto più convincenti in relazione a procedimenti davanti a un tribunale militare, dove esistono minori garanzie di un giusto processo, e dove gli standard di giustizia minorile appaiono quasi inesistenti.

In conclusione, Israele deve classificare tutti i minori di 18 anni come fanciulli, e deve porre fine al duplice sistema giudiziario che discrimina apertamente i minori palestinesi. Questa situazione è semplicemente inaccettabile e insostenibile.

Attendo con ansia di ascoltarla al più presto su questa terribile situazione.

E' vero, gli standard di giustizia applicati ai minori palestinesi sono pressocché inesistenti, ed è insostenibile e immorale che 220 ragazzini siano detenuti nelle carceri di Israele in condizioni penose.

E noi, che facciamo? Ci apprestiamo a ospitare con tutti gli onori una rassegna dedicata a questo Stato-canaglia barbaro e disumano, e a firmare con esso nuovi accordi di collaborazione scientifica ed economica. Davvero, è una vergogna.

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