Raggiunto accordo per la liberazione di Mahmoud Sarsak

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Un piccolo spazio di informazione e riflessione per rimediare al colpevole silenzio dei media sulla tragedia del popolo palestinese.
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Il 23 gennaio, nel cuore della notte, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito sette abitazioni nel villaggio palestinese di Anata, alla periferia di Gerusalemme, lasciando senza un tetto 52 persone, tra cui 29 bambini, la maggior parte dei quali di età inferiore agli 8 anni. Una di queste case è stata distrutta per la quinta volta…
Solo nel 2011, secondo i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per gli affari umanitari (OCHA), Israele ha provveduto a demolire 622 strutture abitative, spingendo oltre 1.100 palestinesi – più della metà dei quali bambini – nella terribile condizione di profughi. Questa politica, severamente condannata (ma solo a parole…) dalla comunità internazionale, si inquadra in un preciso piano di lenta ma inesorabile pulizia etnica, a danno soprattutto, come in questo caso, delle comunità beduine.
Non è peregrino ricordare che Israele, in quanto stato occupante, ha il dovere di proteggere la popolazione indigena sotto occupazione e di assicurarne il benessere e la dignità; chiaramente, la politica della demolizione delle abitazioni non solo è in aperto contrasto con tale dovere, ma tradisce in pieno ogni ideale umanitario. All’opposto di quanto accade, ai palestinesi andrebbe invece garantito il diritto fondamentale ad una corretta e non discriminatoria pianificazione urbanistica, che ne garantisca e ne soddisfi le necessità abitative connesse all’incremento della popolazione.
Nell’articolo che segue, scritto da Federica De Giorgi per Medarabnews, l’autrice prende lo spunto dalle tristi vicende di Anata per ricordare l’attualità e la necessità di dare applicazione alle norme scolpite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per impedire il prevalere della forza e dell’arbitrio.
Ma oggi, purtroppo, la bandiera dei diritti umani viene agitata strumentalmente per giustificare interventi armati “umanitari” che poco o nulla hanno a che fare con nobili ragioni ideali, mentre altrove – e soprattutto qui in Palestina – si consente ad uno stato canaglia ed immorale di distruggere con i bulldozer, insieme alle case, anche i diritti fondamentali che spettano a ciascun essere umano.
RILEGGERE LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ALLA LUCE DELLA RECENTE DISTRUZIONE DELLA COMUNITÀ PALESTINESE DI ANATA
di Federica De Giorgi - 30 gennaio 2012
Lo scorso 23 gennaio un gruppo di soldati israeliani ha demolito tre abitazioni nella zona est di Anata, villaggio della Cisgiordania centrale, sito nella zona nord di Gerusalemme. Nell’arco di poche ore, inoltre, ben cinquanta persone, fra cui 29 bambini, sono state sfrattate dai loro alloggi. Pochi giorni dopo, il 27 gennaio – una data che ha una qualche reminiscenza così drammatica da risultare quasi surreale – altre ruspe israeliane hanno continuato a demolire una serie di abitazioni nel medesimo villaggio.. Lo scopo del governo israeliano è molteplice: espellere i palestinesi residenti a Gerusalemme est, relegarli in piccole enclaves come già succede a Gaza e rafforzare il controllo di alcune zone di confine con l’area C, che si troveranno oltre il Muro, quali appunto il villaggio di Anata. Nonostante l’ONU abbia più volte chiesto al Governo israeliano di terminare questa politica di espropriazioni e demolizioni, tali pratiche erano e continuano ad essere molto diffuse. Solo nel 2011 ben 622 edifici palestinesi sono stati smantellati dalle autorità israeliane e 1.094 persone sono state sfrattate.
Il 28 gennaio scorso per l’ultima volta le Nazioni Unite hanno richiamato Israele a porre fine a questa politica di distruzione delle abitazioni palestinesi nella West Bank. Il sistematico incremento degli insediamenti non solo allontana sempre di più la possibilità di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ma è considerato anche illegale da tutta la comunità internazionale.
In un rapporto privato redatto il 19 gennaio scorso dalla Rappresentanza europea in Israele si legge che il Paese “sta attivamente perpetuando le sue annessioni a Gerusalemme est”. Nel suddetto documento si fa anche riferimento alla serie di problematiche a cui è sottoposta la popolazione palestinese: “la divisione in zone limitate, le continue demolizioni e gli sfratti, una politica iniqua dell’istruzione, il difficile accesso alle cure sanitarie, l’inadeguata fornitura di risorse e di investimenti e il problema delle residenze precarie”, per citarne solo alcune.
Nonostante l’impellente necessità di agire, l’Unione Europea si limita soltanto ad evidenziare un problema, che affonda le sue radici nel lontano 1948: permettere la fondazione di uno Stato su base etnica e confessionale, ed erigerlo ad emblema di democrazia, è assai grave, soprattutto se dopo sessantaquattro anni, tale Stato commette crimini di pulizia etnica ai danni di un’altra popolazione.
Sempre nel 1948, pochi mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” chiudeva un capitolo triste e doloroso della storia mondiale: poneva fine, anche simbolicamente, alle barbarie della Seconda guerra mondiale. A tutt’oggi, questo documento non è solo attuale, ma è soprattutto necessario.
Così sorge spontanea una domanda: oggi, dopo sessantaquattro anni, servirà forse una seconda “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”?
Basterebbe applicare quello che è già stato scritto, basterebbe avere la non piccola consapevolezza che il potere e le armi non equivalgono a diritti, ma che tutti noi, con senso di responsabilità, dovremmo denunciare le ingiustizie, non solo quelle che ci riguardano, ma anche quelle che avvengono dietro l’angolo, e via via, sempre più distanti da noi, fino ad avere un orizzonte più ampio, questo “considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. (cit. Primo preambolo della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.)
Federica De Giorgi è una studentessa di filologia classica all’Università di Roma Tre
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Nell’articolo che segue, scritto alcuni giorni dopo il Natale per l’agenzia di news americana Catholic News Service (CNS), si parla essenzialmente della sottrazione illegale delle terre del popolo palestinese da parte di Israele sfruttando il meccanismo della cd. Legge sulle proprietà degli assenti, attraverso un vero e proprio atto di pirateria di cui gli israeliani sono dei veri e propri maestri.
Con la Legge sulle proprietà degli assenti (Absentees’ Property Law) – solo una delle infinite armi legislative di confisca di massa con cui Israele ha sottratto e sottrae la terra di Palestina ai suoi legittimi proprietari – Israele si è appropriato dei beni dei palestinesi costretti ad allontanarsi dalle loro terre a seguito della guerra del 1948, dichiarandoli “assenti” e affidando la terra “abbandonata” ad un organismo di custodia, il quale successivamente ha provveduto a insediarvi i nuovi immigrati di religione ebraica: si stima che, sono nel periodo 1948 – 1953, 350 dei 370 nuovi insediamenti colonici siano stati costruiti su terra confiscata in base a tale legge (cfr. Wikipedia, “Israeli land and property laws”).
Legge che funziona benissimo tutt’ora nelle zone attraversate dal muro dell’apartheid israeliano, sulla base di un meccanismo semplice semplice, da volgari truffatori da quattro soldi: si prende un terreno palestinese, separato dalla residenza del suo proprietario dal percorso del muro o recinzione di “sicurezza”, si impedisce al legittimo proprietario di poter accedere alla propria terra e di coltivarla, lo si dichiara “assente” e gli si confisca il tutto.
Anche se il malcapitato – come nel caso in esame – è li, a poche centinaia di metri di distanza, a struggersi e a disperarsi per i propri beni che gli sono stati sottratti in base ad un meccanismo che solo in Israele hanno il coraggio di chiamare “legge”.
Ma, visto che parliamo di Betlemme, l’argomento dell’articolo – se vogliamo – racconta anche del trattamento che i “fratelli maggiori” ebrei riservano ai palestinesi di religione cristiana, purtroppo abbandonati sia dalla Santa Sede sia dai tanti campioni della cristianità di casa nostra, evidentemente capaci di indignarsi a comando solo su certe tematiche e non per il destino dei nostri fratelli in Terra Santa.
Perché la drammatica diminuzione del numero dei cristiani in Palestina, anno dopo anno, è causata non certo dalle persecuzioni degli islamici, quanto dalla sottrazione delle terre e delle risorse, dal sistema dei checkpoint, dall’occupazione israeliana, dalla mancanza di prospettive per il futuro che affligge le giovani generazioni.
“Ci sentiamo abbandonati dal mondo intero”, sembra quasi gridarlo uno degli agricoltori palestinesi intervistati. E purtroppo ha ragione.
Absentee landowners? West Bank landowners can’t get to their land
di Judith Sudilovsky – 30.12.2011
Betlemme, Cisgiordania. Jamal Salman stava da un lato della doppia barriera di separazione, su un terreno appartenente alla propria famiglia. Dall’altra parte delle barriere erette da Israele, solo a poche centinaia di metri di distanza ma oltre la sua portata, c’era altro terreno della famiglia con un uliveto.
A novembre, a Salman e a più di 180 proprietari terrieri di Betlemme è stato comunicato che Israele aveva posto i loro uliveti – più di 1.700 acri (1 acro è pari a circa 0,4 ettari, n.d.t.) di terreni situati oltre la barriera – sotto l’amministrazione del Custode per la Proprietà degli Assenti, considerando “assenti” i proprietari di queste terre. Si tratta dell’ultimo provvedimento prima della confisca formale.
“Io sto qui … e guardo la mia terra oltre la barriera come (proprietario) assente”, dice Salman, indicando gli alberi attraverso le recinzioni. L’ultima volta che gli è stato permesso di attraversare la barriera per coltivare il suo uliveto è stato nel 2009.
Questo 73enne sta guidando una campagna dei proprietari terrieri, per lo più cristiani, nel tentativo di evitare che venga loro confiscata ancora altra terra. Racconta che stanno pensando di impugnare la decisione di assenza davanti alla Corte Suprema israeliana.
L’espropriazione della terra qui non è storia nuova, dice Salman, cattolico ed ex sindaco di Betlemme.
Dopo che nel 2002 Israele ha costruito la barriera di separazione, agli agricoltori non è stato più permesso di attraversare la recinzione verso la valle per raggiungere i loro uliveti. A Salman sono rimaste solo 360 iarde quadrate di terra (poco meno di 330 metri quadri, n.d.t.), mentre le restanti 1.560 iarde quadrate della sua proprietà (circa 1.426 metri quadri, n.d.t.) sono state confiscate e si trovano adesso dall’altro lato della barriera, racconta.
“Questi terreni facevano guadagnare molto denaro a noi e alle nostre famiglie”, grazie all’olio d’oliva prodotto dalle olive, dice. “Da li ricavavamo anche le olive e l’olio d’oliva per noi stessi. Abbiamo perso tutto”.
Dopo che il caso degli agricoltori fu portato davanti alla Corte Suprema dall’avvocato per i diritti umani israeliano Danny Seidmann, la corte stabilì che dovevano essere costruiti dei cancelli nella serie di duplici recinzioni e che dovevano essere rilasciati ai contadini dei permessi speciali durante il periodo del raccolto, in modo da consentirgli di accedere alla loro proprietà.
Inoltre, secondo Seidmann, nel 2004 gli venne fornita da funzionari governativi un’intesa scritta secondo cui ai proprietari terrieri sarebbe stato dato l’accesso alla loro terra. Un anno dopo l’ufficio del procuratore generale dichiarò anche illegale l’utilizzo della Legge sulla Proprietà degli Assenti nei confronti dei residenti della West Bank la cui terra era situata sul lato israeliano della barriera.
Ma la realtà era diversa. I cancelli venivano aperti solo in determinati orari, e ai contadini sono stati rilasciati permessi per accedere ai loro terreni soltanto tre volte dal 2005, raccontano i proprietari.
I permessi vengono dati solo alla persona a cui la terra è registrata, tutta gente che adesso va dai sessanta agli ottant’anni. A nessun altro membro della famiglia è permesso di entrare per dare aiuto con il raccolto, dice Jallal Hanouna, 61 anni.
Secondo quanto afferma Salman, da quando Israele ha preso il controllo della Cisgiordania sottraendolo nel 1967 alla Giordania, ai Palestinesi è stato impedito di trasferire la proprietà dei beni persino ai propri figli, così che essi non potevano effettuare i passaggi di proprietà in favore dei membri più giovani della famiglia.
“Per noi è impossibile coltivare la terra da soli”, dice Salman. “Loro non permettono a nessun altro parente o membro della famiglia di aiutarci. Non ci hanno dato l’autorizzazione ad andare nei nostri terreni, e adesso sostengono di considerarci assenti dalla nostra terra, che possiamo vedere con i nostri stessi occhi. Io non sono assente, sono proprio qui”.
Un anno, quando ai contadini venne permesso di recarsi nei loro terreni, essi giunsero nella loro proprietà per scoprire che tutte le olive erano già state raccolte da qualcun altro, racconta Hanouna.
Seidmann afferma che non è chiaro se la decisione di rivendicare la terra in virtù della Legge sulla Proprietà degli Assenti è stata semplicemente un tentativo da parte del governo di tentare qualcosa di illegale durante un anno di elezioni negli Usa, quando l’attenzione negli Stati Uniti è rivolta altrove, o se essa è divenuta una politica del governo.
L’Amministrazione civile israeliana, competente per il rilascio dei permessi, non ha risposto alla richiesta di un commento.
Hanouna afferma che la terra non solo rappresenta il loro futuro in termini di reddito derivante dalla raccolta delle olive, ma simboleggia anche la loro capacità di offrire un futuro ai loro figli a Betlemme. Altri appezzamenti di terra minacciati sono gli ultimi terreni rimasti dove la città - e in particolare i residenti di religione cristiana - può espandersi, dal momento che Betlemme è circondata da tutti gli altri lati da insediamenti israeliani, ha detto.
“Ci sentiamo abbandonati dal mondo intero. Noi siamo tutti cristiani. Questa è al 99% terra cristiana”, dice Hanouna. “Questa terra era la speranza per i Cristiani, per i nostri figli, di espandersi. Questo è tutto ciò che possediamo”.
Se non c’è spazio perché i nostri figli costruiscano le loro case, l’esodo dei giovani dalla città continuerà ed aumenterà, dal momento che cercano di farsi la loro vita da qualche parte dove non si sentano imprigionati, ha affermato.
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I resoconti delle celebrazioni del Natale nei territori occupati in qualche caso hanno dato conto del fatto che Israele ha concesso un certo numero di permessi (500) ai cristiani di Gaza per recarsi nei luoghi santi e partecipare alle celebrazioni religiose.
Nessuno, come era lecito aspettarsi, ha fatto notare che il “gesto di buona volontà” natalizio concesso dai bravi Israeliani ha consentito di viaggiare ad un numero di cristiani di Gaza inferiore al 2010, avendo le autorità governative diminuito il numero dei permessi da 600 a 500 ed avendo limitato l’età dei fortunati alle persone di età inferiore a 16 e superiore a 46 anni (l’anno scorso il limite di età partiva dai 35 anni).
Il risultato è che due terzi dei cristiani di Gaza non hanno ricevuto i permessi per celebrare il Natale nei luoghi santi della Cisgiordania, e che alcuni che questa possibilità l’avevano hanno dovuto rinunciare perché solo alcuni membri della famiglia riscontravano i criteri stabiliti dal COGAT e, di conseguenza, sono rimasti nella Striscia per celebrare il Natale insieme al resto della famiglia.
Anche questo è il segno dell’attenzione che i “fratelli maggiori” ebrei riservano ai cristiani di Terra Santa, privati in un colpo solo di diritti fondamentali quali quello alla libertà di circolazione e alla libertà di culto, nel contesto di una punizione collettiva quale è l’assedio alla Striscia di Gaza che ogni giorno diventa sempre più intollerabile.
Chi ha rubato il Natale?
La gioia del Natale è arrivata un po’ in anticipo per i Palestinesi residenti in Cisgiordania e a Gaza, con l’annuncio del Coordinatore delle attività governative nei Territori (COGAT) di gesti di buona volontà per i cristiani durante le festività natalizie. Sembrerebbe che Babbo Natale abbia deciso che 500 cristiani palestinesi di Gaza di età inferiore ai 16 anni e superiore ai 46 sono stati buoni quest’anno e quindi meritano la possibilità di visitare la famiglia in Israele e in Cisgiordania e di partecipare alle festività religiose nei luoghi santi al di fuori della Striscia.
Si tratta di un gesto ben accetto ed è certamente importante che i principi della liberta di circolazione e della libertà di culto religioso, anche come gesti di buona volontà, trovino estrinsecazione nei provvedimenti del COGAT.
Ma uno sguardo più attento al gesto di buona volontà suggerisce che il Grinch – e non solo Babbo Natale – è stato al lavoro. Nella calza di quest’anno per i cristiani di Gaza c’è una riduzione della loro capacità di accedere ai luoghi santi durante le festività, in rapporto agli anni passati: Israele ha innalzato l’età di coloro ai quali è vietato viaggiare a 46 anni, invece di 35 anni, ed ha fissato una quota di appena 500 persone a cui è consentito di muoversi, nonostante l’anno scorso lo abbiano fatto circa 600 cristiani.
Che siano stati cattivi o buoni, almeno i due terzi dei circa 1.500 cristiani di Gaza, inclusi tutti quelli di età compresa tra i 16 e i 46 anni che sono esclusi dal gesto, non potranno celebrare le festività insieme ai membri della loro famiglia che soddisfano i criteri e riescono ad entrare nella quota. Ciò significa che una famiglia di sei persone, con la mamma e il papà di età superiore a 46 anni ma con figli di età pari a 20, 16, 14 e 7 anni dovranno perdere o la possibilità di viaggiare o l’alternativa di trascorrere il Natale insieme.
Lo scorso anno a Natale, ed anche la scorsa Pasqua, i criteri stabilivano che le persone di età superiore a 35 anni potevano ricevere i permessi. Non è chiaro perché questo Natale solo gli over 46 possano viaggiare. La politica israeliana è ancor più restrittiva per i musulmani di Gaza: nessun musulmano, qualunque sia la sua età, può recarsi nei luoghi santi, una politica approvata in tribunale all’inizio di quest’anno, quindi suppongo che dobbiamo esser grati per i piccoli miracoli. In ogni caso, buon Natale e felice anno nuovo a tutti!
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Lo scorso 25 luglio Ra’ed ‘Azzam Saleem al-Mghari, un Palestinese di 33 anni residente nella Striscia di Gaza, è morto perché le autorità israeliane hanno rifiutato di concedergli il permesso di recarsi in un centro medico in Cisgiordania per ricevere le cure di cui aveva disperato bisogno.
Al-Mghari viveva nel campo profughi di al-Bureij, nella zona centrale della Striscia di Gaza, e soffriva da 16 anni per una malattia cardiaca. Avrebbe dovuto recarsi all’Arab Center for the Treatment and Surgery of Heart and Blood Diseases di Nablus per sottoporsi ad un intervento chirurgico ad una delle valvole cardiache, ma il rifiuto da parte dell’Idf di concedergli il permesso gli ha tolto ogni possibilità di sopravvivenza.
Il padre della vittima, ‘Azzam Saleem al-Mghari, racconta:
Mio figlio soffriva di problemi ad una valvola cardiaca da 16 anni. Solitamente riceveva le cure mediche negli ospedali Nasser e Shifa, rispettivamente a Khan Yunis e a Gaza City. Cinque anni fa ha subito un intervento chirurgico a cuore aperto all’Arab Center for the Treatment and Surgery of Heart and Blood Diseases di Nablus, dove ha trascorso un mese per le visite di controllo e i trattamenti medici. L’11 giugno del 2010 i dottori hanno controllato le sue condizioni dopo che egli si era recato al Centro per effettuare alcuni esami medici. Essi hanno deciso che non sarebbe stato in grado in quel momento di sottoporsi ad un intervento chirurgico ad una delle valvole cardiache, e di conseguenza ha fatto ritorno a Gaza. Il 10 luglio 2011 lo abbiamo trasferito al reparto di terapia intensiva dello Shifa Hospital di Gaza City, a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute, e lì ha trascorso due giorni per le cure mediche. Egli ha continuato ad andare in ospedale per ricevere le cure e a tornare a casa fino al 14 luglio, quando è caduto a terra a casa ed è stato riportato nuovamente in ospedale. Allora abbiamo iniziato ad occuparci delle procedure per trasferirlo urgentemente all’Arab Center di Nablus, ma il 19 luglio il Centro di Coordinamento Sanitario degli Affari Civili ci ha informato che il permesso per il suo accompagnatore (il suocero) era stato rifiutato. Abbiamo iniziato ad occuparci delle procedure per il trasferimento senza accompagnatore, ma il Comitato ci ha informato il 24 luglio che la controparte israeliana aveva respinto la sua domanda per motivi di sicurezza. Sono passato ad occuparmi di un permesso di trasferimento verso l’Egitto, ma la sua salute ha cominciato a peggiorare sempre più. Di conseguenza, lunedì 25 luglio, i medici hanno deciso di eseguire su di lui un intervento chirurgico d’urgenza. E’ entrato in sala operatoria ed è morto dopo cinque ore, mentre era sotto i ferri.
Con la morte di al-Mghari, salgono a tre i pazienti palestinesi della Striscia di Gaza morti quest’anno perché Israele ha negato loro il diritto di ricevere cure mediche in ospedali all’estero, ma sono centinaia i pazienti a Gaza le cui condizioni di salute vanno peggiorando e che avrebbero bisogno di cure urgenti che non possono ottenere nella Striscia.
I malati della Striscia di Gaza, infatti, spesso hanno necessità di appoggiarsi agli ospedali della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme, e a quelli israeliani, e sono costretti a estenuanti e umilianti trattative per ottenere quello che rappresenta un diritto fondamentale dell’uomo, quello alla salute e a ricevere i migliori standard di cure mediche disponibili. Sovente, peraltro, questi sventurati sono oggetto di ricatto da parte dell’esercito israeliano, che non si tira certo indietro nella pratica odiosa ed immorale di richiedere soffiate e collaborazioni in cambio degli agognati permessi.
Che razza di problemi di “sicurezza” poteva creare un Palestinese come Ra’ed al-Mghari, un malato di cuore che, peraltro, non voleva recarsi nemmeno in Israele, ma solo andare in Cisgiordania per curarsi?
Nessuno, è chiaro. Si tratta soltanto dell’ennesimo, spietato e disgustoso episodio della punizione collettiva posta in essere da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, un milione e mezzo di persone a cui Israele nega ogni diritto fondamentale, inclusi quelli alla vita e alla salute.
Alla faccia della Quarta Convenzione di Ginevra.
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Come abbiamo già avuto modo di ricordare, buona parte dell’attività propagandistica israeliana è volta a negare che nella Striscia di Gaza esista un sia pur minimo problema di carattere umanitario, economico o sanitario. I tanti amici di Israele sparsi per il mondo sostengono che a Gaza, lungi dall’esservi la fame, si trovano beni e mercanzie di ogni sorta, e costoro non esitano letteralmente a inventarsi fantomatici rapporti e dichiarazioni dell’Onu e della Croce Rossa che, a loro dire, attesterebbero questa incontrovertibile “verità” dei fatti.
A sgombrare il campo da questa ripugnante propaganda, è da pochi giorni disponibile sul sito web dell’UNOCHA (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) il rapporto che segue, una paginetta che elenca i dati statistici e gli elementi fondamentali che caratterizzano l’attuale situazione nella Striscia di Gaza, delineando il quadro di una vero e proprio disastro umanitario.
La situazione umanitaria nella Striscia di Gaza – Luglio 2011
Gaza in breve
Gaza ha 1,6 milioni di abitanti, per oltre il 50% minori di 18 anni.
Il 38% degli abitanti di Gaza vive in condizioni di povertà.
Il 31% della forza lavoro di Gaza è priva di impiego e il 47% dei giovani sono disoccupati.
Il 54% degli abitanti di Gaza vive in condizioni di insicurezza alimentare e oltre il 75% dipende dagli aiuti.
La produzione economica nel 2010 è stata inferiore del 20% rispetto al 2005.
Il 35% dei terreni agricoli di Gaza e l’85% delle sue acque pescabili sono totalmente o parzialmente inaccessibili a causa delle misure militari israeliane.
Da 50 a 80 milioni di litri di liquami parzialmente trattati vengono riversati in mare ogni giorno.
Oltre il 90% dell’acqua proveniente dalla falda acquifera di Gaza non è potabile.
L’85% delle scuole di Gaza funzionano con doppi o tripli turni.
Dall’inizio del 2010, 59 persone sono rimaste uccise in incidenti nei tunnel, inclusi 5 bambini, e 115 persone sono rimaste ferite.
Il principale valico per il movimento dei Palestinesi da e per Gaza (il valico di Rafah al confine con l’Egitto) resta limitato al passaggio di 500 persone al giorno.
1. Il blocco di Gaza costituisce la negazione di diritti umani fondamentali, in violazione del diritto internazionale e corrisponde ad una punizione collettiva. Il blocco limita gravemente le importazioni e le esportazioni, al pari del movimento delle persone da e per Gaza, e dell’accesso ai terreni agricoli e alle acque pescabili. Gli abitanti di Gaza non sono in grado di provvedere alle loro famiglie e la qualità delle infrastrutture e dei servizi essenziali è peggiorata.
2. Le misure adottate per alleggerire il blocco nel giugno del 2010 hanno avuto limitati effetti reali. Anche se le importazioni sono aumentate, esse restano ancora solo al 45% dei livelli precedenti al 2007. Le esportazioni rimangono strettamente vincolate e sono limitate ai prodotti agricoli verso l’Europa, e gli operatori economici di Gaza non possono accedere ai loro tradizionali mercati in Israele e in Cisgiordania. L’accesso alla terra e al mare rimane estremamente limitato.
3. Anche se Israele ha approvato una serie di progetti infrastrutturali volti a migliorare a Gaza i servizi essenziali dello smaltimento dei liquami, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, pochi di questi progetti sono stati realizzati. Ciò è principalmente dovuto al lento e farraginoso processo di approvazione e alle difficoltà nell’importazione dei materiali. Questo significa che gli abitanti di Gaza non hanno visto alcun effettivo miglioramento della qualità dei servizi essenziali.
4. Migliaia di persone, molti di loro bambini, rischiano la vita introducendo di nascosto ogni giorno merci attraverso i tunnel che passano al di sotto del confine con l’Egitto. La fiorente industria dei tunnel è un diretto risultato delle restrizioni in atto all’importazione di materiali edili, della mancanza di opportunità di impiego, e delle enormi necessità di ricostruzione esistenti a Gaza.
5. Gaza rimane isolata e tagliata fuori dal resto del territorio palestinese occupato. Gli spostamenti attraverso il valico israeliano di Erez sono vietati per la quasi totalità degli abitanti di Gaza, nonostante le promesse di alleggerire le restrizioni. Il valico egiziano di Rafah rimane limitato a 500 persone al giorno, con centinaia di Palestinesi a cui ogni settimana viene negato il passaggio.
A questi dati, scarni e drammatici, si potrebbe aggiungere quanto ricordato in tempi recenti da Richard Falk, il Relatore Speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, il quale – citando i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – denunciava che nella Striscia di Gaza, dei 480 farmaci contenuti nella lista delle medicine essenziali, 178 (il 37%) erano segnalati con livelli di stock pari a zero, e più di 190, pur presenti in magazzino, o erano scaduti oppure prossimi alla scadenza.
E, dunque, cos’altro significa vivere a Gaza se non condurre un’esistenza segnata dalla fame, dalle privazioni, dall’umiliazione di dover dipendere dagli aiuti umanitari per sopravvivere, dalla miseria, dalla mancanza di fogne, di scuole, di assistenza sanitaria, dall’impossibilità di porre rimedio alle immani distruzioni provocate dai raid israeliani di “Piombo Fuso”?
E come è possibile che gli Usa, l’Europa, il mondo “civile” consentano ad Israele di violare così palesemente e crudelmente il diritto internazionale e il diritto umanitario e, insieme, che i Palestinesi vivano in simili, disumane condizioni?
E allora, vi prego, diffondete più che potete questi dati e queste drammatiche e incontrovertibili verità, scrivete agli amici, ai giornali, ai parlamentari nazionali ed europei, a chiunque vogliate.
Non possiamo più tollerare che Israele condanni un intera popolazione ad una crudele e barbara morte civile (quando non fisica), non possiamo rassegnarci a questa notte del diritto, della moralità, della compassione, non possiamo lasciare soli i nostri fratelli di Gaza. Lo dobbiamo a loro e alla nostra coscienza.
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