5 giugno 2011

5 giugno: sosteniamo il diritto al ritorno dei profughi palestinesi

Il diritto al ritorno è un obiettivo centrale della lotta di liberazione palestinese. Sin dal 1947-1948, quando oltre 750.000 palestinesi furono espulsi con la forza dalle loro case - e più di 700.000 hanno subito la totale pulizia etnica dal loro paese - essi e i loro discendenti si sono organizzati per chiedere la correzione di questa ingiustizia storica. I profughi della Guerra dei Sei Giorni nel 1967 (a seguito della quale le forze armate israeliane hanno cacciato 300.000 Palestinesi dai territori occupati della Striscia di Gaza e della Cisgiordania), l'amministrazione israeliana dei territori occupati nel periodo 1967-1994 (durante il quale Israele ha privato 140.000 Palestinesi dei loro diritti di residenza), la colonizzazione della Palestina in atto e la deportazione dei suoi abitanti indigeni, hanno aggiunto le loro voci al crescente movimento mondiale a favore del ritorno.

Negli ultimi anni, il diritto al ritorno è emerso anche come richiesta chiave degli attivisti dei movimenti di solidarietà internazionale che sostengono le aspirazioni alla libertà dei Palestinesi. Il 9 luglio 2005, per esempio, l'Appello della Società Civile Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) - il documento fondante di un movimento mondiale guidato dai Palestinesi per la giustizia in Palestina - ha affermato che "le misure punitive non-violente devono essere mantenute fino a quando Israele non rispetterà l'obbligo di riconoscere il diritto inalienabile del popolo palestinese all'autodeterminazione e non si conformerà pienamente ai principi di diritto internazionale ... di rispettare, proteggere e promuovere i diritti dei profughi palestinesi a tornare alle loro case e proprietà".

Oggi i sette milioni di profughi palestinesi costituiscono il più grande gruppo di rifugiati al mondo, costituendo un terzo del totale dei rifugiati. Il loro diritto a ritornare nelle proprie case, e quello di ricevere un indennizzo per i danni subiti, sono sanciti dal diritto internazionale. La risoluzione 194, che è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’11 dicembre 1948 e che Israele ha acconsentito ad applicare come condizione per la sua successiva ammissione alle Nazioni Unite,

stabilisce che i rifugiati che desiderano ritornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile, e che dovrebbe essere pagato un risarcimento per le proprietà di coloro che scelgono di non ritornare e per la perdita o il danneggiamento di proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o secondo equità, dovrà essere risarcito dai Governi o dalle autorità responsabili.

Inoltre, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall'Assemblea Generale il 10 dicembre 1948, afferma che "ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese." E la risoluzione 3236, che l'Assemblea Generale ha adottato il 22 novembre 1974, “ribadisce … il diritto inalienabile dei Palestinesi a tornare alle case e alle proprietà da cui sono stati evacuati e sradicati, e chiede il loro ritorno".

Nonostante i suoi precisi obblighi secondo il diritto internazionale, Israele continua a opporsi alle richieste dei profughi palestinesi di poter ritornare nelle loro case. Più recentemente, domenica 15 maggio, la 63° commemorazione della Nakba, o "catastrofe", la pulizia etnica della Palestina nel 1947-1948, le truppe israeliane hanno risposto alle manifestazioni di rifugiati inermi in marcia verso le loro case con l’uso di forza letale.

Le forze armate israeliane hanno ucciso almeno 15 dimostranti lungo tre confini (con Gaza occupata, il Libano e tra la Siria e le Alture occupate del Golan), hanno ferito centinaia di persone con armi da fuoco, proiettili di artiglieria e gas lacrimogeni, e scatenato una ondata di arresti e repressione nella Cisgiordania occupata. Questa massiccia violenza può essere stata pianificata solamente come una dimostrazione di forza bruta, finalizzata, assieme alle ripetute affermazioni di Benjamin Netanyahu secondo cui "non accadrà", per dissuadere i profughi palestinesi dal far valere i loro diritti storici e il consenso mondiale per il diritto al ritorno.

Ma la storia che più a lungo resterà nel ricordo tra quelle del 15 maggio potrebbe essere quella di Hassan Hijazi. Profugo palestinese di 28 anni residente in Siria, ha sfidato il fuoco che ha ucciso altre quattro persone lungo il confine con la Alture occupate del Golan, poi ha fatto autostop, e infine ha preso un autobus, fino a casa della sua famiglia a Jaffa. Prima di andare a consegnarsi lui stesso alla polizia di Tel Aviv, ha detto ai giornalisti israeliani, "non ho avuto paura e non ho paura. Sull’autobus per Jaffa, mi sono seduto accanto a soldati israeliani. Mi sono reso conto che loro avevano più paura di me”.

Altri milioni di persone hanno deciso di seguire la strada di Hijazi. Domenica 5 giugno, la 44esima commemorazione della Naksa, o rovescio, l'espulsione di 300.000 palestinesi da parte di Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni, i rifugiati palestinesi torneranno in massa alle frontiere. Annunciando la mobilitazione il 18 maggio, la Third Intifada Youth Coalition ha affermato, "Gli ultimi giorni hanno dimostrato che la liberazione della Palestina è possibile e concretamente ottenibile anche con una massiccia marcia disarmata se la nazione decide che è pronta a pagare tutto in una volta per la liberazione della Palestina".

La Commissione Preparatoria per il Diritto al Ritorno, un organismo di coordinamento non di parte, ha chiesto anche ai sostenitori della lotta di liberazione palestinese di attivarsi per il 5 giugno, organizzando manifestazioni, marce e proteste in tutto il mondo per chiedere il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Luoghi adatti potrebbero includere le ambasciate, i consolati, e le missioni israeliane, gli obiettivi della campagna BDS, e i governi stranieri e le organizzazioni internazionali che permettono i crimini israeliani.

"Le marce del 15 maggio non sono state un evento isolato, ma sono state piuttosto la dichiarazione costitutiva di una nuova fase di lotta nella storia della causa palestinese, dal titolo: 'il diritto dei profughi a ritornare nelle loro case '", ha affermato un comunicato della Commissione..

Per la prima volta, i palestinesi sono passati dal commemorare la loro deportazione con dichiarazioni, festival e discorsi, a tentativi reali di tornare alle loro case.

L'immagine di profughi che marciano da tutte le direzioni verso la loro terra di Palestina ha inviato il forte messaggio al mondo intero che i rifugiati sono determinati a ritornare alle loro case per quanto lungo sia il tempo che ci vorrà; e che 63 anni non sono stati abbastanza per uccidere il loro sogno del ritorno; e che le nuove generazioni nate in esilio forzato, che non hanno mai visto la loro terra d'origine, non sono meno unite ad essa dei loro nonni e padri che hanno assistito alla Nakba.

Quello che è successo il 15 maggio era solo un piccolo esempio di una marcia più grande che avrà luogo presto, una marcia dei profughi palestinesi e di coloro che li sostengono. Essi passeranno il filo spinato e torneranno ai loro villaggi e alle città occupate.

Le folle da ogni luogo in cui vi sono profughi palestinesi si dirigeranno verso la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, e verso i confini della Palestina occupata con la Giordania, la Siria e il Libano, in marce pacifiche innalzando la bandiera palestinese e i nomi dei loro villaggi e delle loro città, le chiavi delle loro case, e i documenti di proprietà.

I “venti del cambiamento” della primavera araba soffiano attraverso i campi profughi, non meno che nelle capitali arabe, verso la Palestina. E non mostrano segni di volersi fermare.

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