3 aprile 2008

I semi dell'odio.

Tratto da arabnews, quello che segue è un articolo pubblicato il 6 marzo scorso su al-Ahram Weekly, l'edizione in lingua inglese dell'omonimo quotidiano egiziano, che analizza dal punto di vista arabo i problemi dell'immigrazione, delle disuguaglianze tra il nord e il sud del mondo, della difficoltà che incontrano le minoranze musulmane ad integrarsi nel continente europeo.
Una interessante e diversa prospettiva di un drammatico problema con cui oggi stentiamo a confrontarci efficacemente.
I semi dell'odio.
Vi è una sinistra connessione fra l’ascesa di sentimenti anti-musulmani in Occidente e la tiepida reazione alla plateale campagna di sterminio che Israele ha scatenato contro i palestinesi a Gaza. Dietro la maschera della libertà di espressione, alcuni media ed alcuni responsabili politici dell’Europa Occidentale, incluso di recente il ministro degli interni tedesco Wolfgang Schaeuble, hanno cercato di diffamare l’Islam e i suoi simboli, definendolo come una cultura di crudeltà e terrorismo. In Europa l’Islam è ormai diventato facile bersaglio di vignettisti, politici ultraconservatori, e specifici gruppi di interessi. Questo atteggiamento fornisce una facile copertura ad Israele, che può impunemente continuare il suo massacro di palestinesi a Gaza.

L’Europa Occidentale si trova sotto il sortilegio di un’ondata neoconservatrice giunta attraverso l’Atlantico dagli Stati Uniti, dopo l’11 settembre. Germania, Francia, Olanda e Gran Bretagna sono guidate da governi conservatori che vedono l’Islam come un nemico. Gli episodi terroristici in Spagna e Gran Bretagna, l’immigrazione clandestina, gli effetti che una manodopera non specializzata e a basso costo ha avuto sul mercato del lavoro, e la resistenza degli immigrati all’assimilazione culturale forzata, continuano e creare tensioni sociali e problemi politici. Allo stesso modo, per i musulmani arabi e non arabi l’Europa Occidentale non è esattamente quel crogiolo di culture che accoglie gli stranieri, dà loro uguali opportunità, ed accetta un lento processo di integrazione che può richiedere più di una generazione per essere portato a termine.

Per generazioni l’Europa ha sofferto le conseguenze dell’intolleranza etnica e religiosa esacerbata dalla competizione coloniale e dalla guerra. Nel redigere la Carta delle Nazioni Unite alla fine della seconda guerra mondiale, le potenze occidentali parlarono della necessità di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, ovvero dalla guerra causata dagli europei, “che per due volte nella nostra epoca ha portato indicibile dolore all’umanità”. La Dichiarazione di Helsinki del 1975 pose fine alle secolari guerre, dispute, e rivendicazioni territoriali europee. Ma le ambizioni coloniali nei confronti dei paesi in via di sviluppo rimasero inalterate, anche se dissimulate sotto forme differenti, mirando a quei paesi ricchi di risorse naturali, e soprattutto di petrolio. Le ex potenze coloniali esportarono le loro guerre, insieme al loro “problema ebraico”, in direzione di vulnerabili paesi in via di sviluppo, dove l’instabilità forniva una scusa per intervenire. Secondo la prospettiva araba, Israele fu creato come una personificazione del colonialismo – una entità razzista e violenta appoggiata dall’Occidente, che promuove l’instabilità e la dominazione coloniale nella regione mediorientale. Nei passati 60 anni, Israele ha sparso i semi della violenza che continueranno a produrre il loro orrendo raccolto ancora per decenni.

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno portato avanti l’agenda della globalizzazione, che prevedeva l’apertura dei confini, la diffusione del libero mercato, la mobilità delle persone e della manodopera, il libero flusso degli investimenti, la deregolamentazione finanziaria, e l’eliminazione delle barriere commerciali. La tolleranza, la non discriminazione, e l’accettazione dell’ “altro” furono introdotte come i puntelli politico-ideologici del nuovo mondo post-comunista e globalizzato degli anni ’90 ed oltre. Ora, tuttavia, abbiamo esempi a profusione per mostrare che il nuovo approccio alle relazioni internazionali è stato progettato in primo luogo per servire il desiderio occidentale di espandersi verso nuovi mercati, mentre non sono stati offerti vantaggi equivalenti ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, nel mondo in rapida evoluzione del XXI secolo, la Cina è emersa come una nuova potenza, raccogliendo molti dei benefici della globalizzazione, ed entrando a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, mentre i prezzi petroliferi alle stelle hanno ridotto il vantaggio di cui l’Occidente godeva in precedenza. Solo nel commercio delle armi e nella tecnologia avanzata l’Occidente mantiene tuttora un vantaggio. In questo contesto, gli inviti alla tolleranza, alla non discriminazione, ed all’accettazione dell’ “altro” sollevano alcuni punti interrogativi, soprattutto con l’ascesa del neo-sciovinismo in Europa e del neo-conservatorismo negli Stati Uniti.

La partnership euro-mediterranea proclamata dalla Dichiarazione di Barcellona nel 1995 era apparentemente costruita su tre pilastri: una partnership politica e di sicurezza, una partnership economica e finanziaria, ed un terzo livello dedicato allo sviluppo di questioni sociali e culturali. Questa partnership avrebbe dovuto essere implementata attraverso il cosiddetto processo di Barcellona. Tale processo sembra essersi ormai ridotto alla raccolta ed alla condivisione di informazioni di intelligence riguardo a potenziali atti terroristici, ed al tentativo di bloccare l’immigrazione clandestina.

Nel momento in cui l’Europa Occidentale non ha alcuna tradizione di diversità etnica, ed i non europei vengono accettati soltanto per la necessità di risarcire il debito lasciato dall’eredità coloniale, i conflitti politici e sociali diventano inevitabili. I musulmani, la nuova “bestia nera” dell’Europa intollerante, hanno ancora molta strada da fare per raggiungere un equilibrio fra le loro origini culturali e le norme delle loro società di adozione. E’ un compromesso che dovranno raggiungere se vorranno fondersi con le società europee, che per secoli abbracciarono la cultura della guerra, del colonialismo, e della xenofobia.

L’Islam radicale è un fenomeno che emerse come meccanismo di autodifesa contro le brutali forze del neocolonialismo e del predominio. Quando combatté l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, venne celebrato come guerra santa islamica. Quando si oppose all’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq, fu condannato come terrorismo. In entrambi i casi non fu l’Islam della maggioranza, ma solo una tendenza transitoria che fu invocata per respingere l’aggressione straniera. Per Israele ed i suoi alleati razzisti, dipingere l’Islam come una minaccia globale degna di essere temuta e odiata significa inculcare quegli stessi sentimenti che scatenarono alcune delle forze più oscure della storia moderna, con dolorose conseguenze. Israele ed i suoi sostenitori si basano esclusivamente sull’uso della nuda forza militare. La superiorità militare ha creato imperi, ma li ha anche distrutti. L’eterna lezione della storia è che “chi vive colpendo di spada, ugualmente muore di spada”.

Ayman el-Amir è un giornalista egiziano; è stato corrispondente da Washington per il quotidiano “al-Ahram”; è stato anche direttore della radio e della televisione dell’ONU a New York
Titolo originale:
[1]
Seeds of hatred

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2 Commenti:

Alle 7 aprile 2008 alle ore 11:38 , Blogger Melina2811 ha detto...

Non conosco bene la situazine mio-orientale... ma spero che si risolva prima o poi....

 
Alle 8 aprile 2008 alle ore 10:48 , Blogger vichi ha detto...

Cara Melina, uno dei problemi è proprio il fatto che giornali e tv di regime si preoccupano di occultare quasi del tutto ogni notizia relativa alla questione israelo-palestinese, e soprattutto quelle che potrebbero nuocere alla "immagine" israeliana in Italia e nel mondo.
Così si divulgano con grande evidenza notizie come quel pupazzetto che nella tv di Hamas "uccide" Bush, e si tace, ad esempio, quella del rabbino israeliano che invita gli israeliani ad "appendere ad un albero" i figli del responsabile dell'attacco alla Mercaz Harav.
O la lettera dei refuseniks israeliani che denuncia l'uccisione di civili innocenti nella Striscia di Gaza.
Così chi è interessato alla tragedia e alle sofferenze del popolo palestinese l'informazione deve trovarsela da sé, quasi sempre in lingua inglese e talvolta con qualche fatica.
E non è che tutti siano interessati...
Si arriverà mai ad una convivenza pacifica tra Israeliani e Palestinesi?
Continuando così, ho paura di no!

 

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