Come si arrangiano i senzatetto di Gaza.
La dichiarazione finale della conferenza internazionale dei donatori di Sharm el Sheikh era ridondante di toni trionfalistici: i Palestinesi avevano ottenuto per la ricostruzione della Striscia di Gaza ben 4,481 miliardi di dollari!
E, tuttavia, da subito alcuni commentatori avevano osservato come questa generosità finanziaria fosse vanificata dalla codardia politica della comunità internazionale su due fronti politici: da una parte nell’imporre a Israele il rispetto del diritto internazionale nei rapporti con i Palestinesi e, dall’altra, nel prendere coscienza delle realtà politiche palestinesi, specialmente della legittimazione e del ruolo ricoperto da Hamas.
Sta di fatto che tutta questa montagna di denaro giace inutilizzata nelle casse mondiali, in quanto la comunità internazionale rifiuta di consegnare le somme per la ricostruzione direttamente ad Hamas, bollata a tutt’oggi come organizzazione terroristica.
E. soprattutto, il blocco pressoché totale all’importazione di merci nella Striscia di Gaza imposto da Israele – una punizione collettiva nei confronti di un milione e mezzo di Palestinesi ignobilmente consentita dai governi occidentali – impedisce che a Gaza arrivino i materiali necessari per la ricostruzione, cemento, macchinari, tondini di ferro, pezzi di ricambio e quant’altro.
Perché, nonostante nessuno ne parli, a Gaza non sono finite né la guerra né l’occupazione.
Dal cessate il fuoco unilaterale del 18 gennaio di quest’anno, Israele ha ucciso ben 22 Palestinesi.
Israele continua a vietare arbitrariamente la pesca oltre le tre miglia nautiche dalla costa e, solo nella settimana compresa tra il 20 e il 26 maggio, ha aperto il fuoco in cinque diverse occasioni contro le barche palestinesi e ha arrestato due pescatori.
Il 24 maggio l’aviazione israeliana ha lanciato dei volantini in differenti aree della Striscia di Gaza, avvertendo i residenti che è vietato loro avvicinarsi a più di 300 metri dal confine, a pena dell’incolumità personale: si tratta di una zona-cuscinetto arbitrariamente stabilita da Israele al confine con la Striscia, e che impedisce a molti agricoltori palestinesi di recarsi a coltivare i propri terreni.
Le importazioni di merci ai Gaza restano limitate ad alcuni beni umanitari essenziali: nel periodo 20-26 maggio solo 688 camion di merci sono potuti entrare nella Striscia, il 27% di quanto passava ai valichi prima della presa del potere da parte di Hamas. Sono esclusi del tutto – o ammessi in minima parte – i materiali per la ricostruzione, i pezzi di ricambio per le attrezzature sanitarie e per gli acquedotti, i materiali agricoli e industriali.
A questa penuria di materie prime i Palestinesi cercano di ovviare attraverso i tunnel del contrabbando, ma vi riescono solo in parte e ad un prezzo carissimo: solo nel 2008, 46 Palestinesi sono rimasti uccisi e 69 feriti a causa del crollo dei tunnel che attraversano il confine tra Gaza e l’Egitto.
In queste condizioni, i numerosi Palestinesi rimasti senza un tetto sotto cui vivere a seguito dell’operazione “Piombo Fuso” (si calcola che l’attacco israeliano abbia distrutto e/o danneggiato ben 21.100 case) sono costretti a vivere sotto le tende, con i disagi facilmente immaginabili, oppure si costruiscono case con mattoni fatti d’argilla.
E’ quello che ci racconta Djallal Malti in un reportage scritto il 26 maggio per l’AFP, qui proposto nella traduzione offerta da Medarabnews.
Resta solo da capire quanto ancora la comunità internazionale continuerà a consentire il disumano trattamento riservato da Israele ad un milione e mezzo di Palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, una punizione collettiva imposta ad una popolazione aggredita e massacrata che davvero non ha precedenti nella storia contemporanea.
Senzatetto a Gaza e un’impresa d’argilla.
26.5.2009
Gaza City – Tutti i sogni che Amer Aliyan ha di ricostruire la sua vita sono riposti in un foglio di carta accuratamente ripiegato nel suo portafogli, un documento che nel prossimo futuro a Gaza non sarà che un pezzo di carta senza valore.
“Aspetto la ricostruzione, ma so che ci vorrà tempo”, dice il trentaseienne palestinese.
Questo è a dir poco un eufemismo nella Striscia di Gaza assediata e impoverita, dove il blocco israeliano paralizza gli sforzi di ricostruzione dopo la devastazione causata dalla breve ma letale guerra verificatasi all’inizio dell’anno.
La casa di Aliyan è una fra le diverse migliaia che sono state distrutte durante l’attacco furibondo, durato 22 giorni, che Israele ha scatenato contro la Striscia di Gaza governata dal movimento islamico Hamas a dicembre, in risposta ai razzi ed ai colpi di mortaio provenienti dall’enclave assediata.
Dopo la fine della guerra, questo impiegato di una tintoria, ora disoccupato, ha vissuto con sua moglie e cinque bambini in una delle 93 tende che sono state erette alla periferia del campo profughi di Beit Lahiya, a nord di Gaza.
Il documento gelosamente custodito nel suo portafogli è un’attestazione ufficiale che afferma che la sua casa è stata distrutta, ed è un documento che dovrebbe dargli diritto ai fondi per la ricostruzione, una volta che quest’ultima partirà.
Ma è improbabile che ciò accada a breve termine, e fino a quando la ricostruzione non partirà, le migliaia di gazesi che, come Aliyan, hanno perso le loro case durante la guerra dovranno cavarsela da soli.
La ricostruzione è un “non-evento” non perché vi sia assenza di richiesta. Circa 4.100 abitazioni sono andate distrutte durante la guerra, oltre a 48 edifici governativi, 31 stazioni di polizia, 20 moschee, ed altre infrastrutture.
Non è neanche a causa di mancanza di denaro – nelle casse mondiali giace l’enorme cifra di 4,5 miliardi di dollari che i donatori hanno promesso ai palestinesi a marzo, la maggior parte dei quali dovrebbe andare alla ricostruzione a Gaza.
Ma essa non può partire a causa del blocco imposto a Gaza da Israele a partire dal giugno 2007, quando Hamas, un gruppo votato alla distruzione dello stato ebraico, ha preso possesso dell’enclave con la violenza.
I miliardi di dollari promessi rimangono dove sono perché la comunità internazionale rifiuta di consegnare il denaro direttamente a Hamas, marchiato come organizzazione terroristica da Israele e da gran parte dell’Occidente.
Il blocco, a causa del quale solo i generi umanitari essenziali vengono fatti entrare in questo territorio schiacciato fra Israele e l’Egitto, impone che i materiali da costruzione restino fuori da Gaza, perché Israele afferma che essi potrebbero essere utilizzati anche a scopi bellici.
Nel tentativo di aggirare queste restrizioni, i gazesi hanno scavato decine di tunnel sotto il confine con l’Egitto, che vengono utilizzati per far entrare rifornimenti a Gaza, inclusi i materiali da costruzione come cemento, vernici e legname.
Il commercio che ne deriva è fiorente, ma limitato e pericoloso. I tunnel frettolosamente scavati spesso crollano, seppellendo vivi i contrabbandieri. L’aviazione israeliana tuttora li prende di mira nel corso di occasionali bombardamenti aerei.
A causa dell’assedio, i prezzi dei materiali da costruzione sono schizzati alle stelle. Un sacco di cemento ora costa 220 shekel (56 dollari, 40 euro) rispetto ai 20 shekel del passato.
Ma il cemento è di bassa qualità, secondo Hadj Salim, che gestisce uno dei tunnel, e non può essere usato per farne calcestruzzo da costruzione.
Altri materiali d’importanza vitale, come i tondini di ferro usati per rinforzare il calcestruzzo, sono troppo lunghi per poter passare attraverso i tunnel, dice Salim.
Con la ricostruzione congelata, i nuovi senzatetto di Gaza, dove la grande maggioranza del milione e mezzo di abitanti dipende dagli aiuti stranieri, hanno dovuto arrangiarsi.
I più fortunati hanno trovato alloggi temporanei. Alcuni abitano presso parenti, in quello che è già di per sé uno dei luoghi più densamente popolati della terra. Ma le persone che non hanno altro posto dove andare vivono nelle tende.
“Quelli che possono vanno con le famiglie, gli altri restano qui. C’è una famiglia di 12 persone che vive in un deposito. E pagano per questo”, dice Khaled Abu Ali, responsabile degli affari amministrativi della tendopoli.
Altri hanno adottato misure innovative.
Jihad al-Shaer, 36 anni, viveva con sua moglie e 5 bambini nella casa dei suoi genitori a Rafah, quando gli è venuta l’idea di costruire una casa fatta di mattoni d’argilla, a dicembre, prima che la guerra uccidesse più di 1.400 palestinesi e 13 israeliani.
“L’idea mi è venuta dalle case che avevo visto in Bangladesh e in Pakistan”, dice.
Egli ha completato la sua casa di 80 metri quadrati a febbraio – dopo la guerra – e oggi mostra orgogliosamente i risultati.
“E’ fresca d’estate, e calda d’inverno, e mi è costata solo 3.000 dollari”, dice.
La struttura a un piano, che sembra emergere dai dintorni sabbiosi, è stata felicemente benedetta alcune settimane fa dalla nascita del primo figlio maschio di Shaer, dopo quattro femmine.
La sua idea si è diffusa rapidamente nella minuscola Gaza, e all’inizio di maggio i governanti di Hamas hanno annunciato che avrebbero offerto la possibilità di costruire case fatte d’argilla a coloro che lo avessero desiderato.
Dopo settimane di ricerche, Aliyan ha finalmente trovato un alloggio temporaneo per i prossimi mesi – che alcuni temono potrebbero diventare anni – fino a quando Israele toglierà l’assedio e la ricostruzione potrà finalmente avere inizio nella polverosa Gaza.
Lui, sua moglie e i suoi bambini sono riusciti ad affittare un piccolo spazio sul retro di una panetteria, vicino al forno.
Djallal Malti
Etichette: diritti umani, gaza, piombo fuso, punizione collettiva
4 Commenti:
Vichi, spero che mi perdonerai se faccio un post (relativamente) fuori tema rispetto al tuo articolo sui senzatetto a Gaza, ma ritengo l'argomento di vitale importanza per tutti noi.
*** *** ***
Quella che segue è la parte che riguarda direttamente il conflitto israelo-arabo-palestinese del discorso tenuto giovedì dal presidente Usa Barack Obama al Cairo.
[…] La seconda grande fonte di tensione che dobbiamo discutere è la situazione fra israeliani, palestinesi e mondo arabo.
I forti legami dell’America con Israele sono ben noti. Questo legame è indistruttibile. È fondato su legami storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione degli ebrei a una patria è radicata in una tragica storia che non può essere negata. In tutto il mondo, per secoli, gli ebrei sono stati perseguitati e l’antisemitismo in Europa è culminato in un olocausto senza precedenti. Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi dove gli ebrei vennero schiavizzati, torturati, e uccisi con le armi e con il gas per mano del Terzo Reich. Sei milioni di ebrei vennero uccisi: più dell’interna popolazione ebraica di Israele oggi. Negare questo fatto è cosa infondata, ignorante e odiosa. Minacciare Israele di distruzione, o ripetere gli ignobili stereotipi sugli ebrei, è profondamente sbagliato e serve solo a rievocare nella mente degli israeliani queste memorie dolorosissime, impedendo quella pace cui i popoli di questa regione hanno diritto.
(segue)
D’altra parte, è anche innegabile che il popolo palestinese, musulmani e cristiani, ha sofferto nella ricerca di una patria. Da più di sessant’anni patiscono il dolore dell’allontanamento. Molti attendono nei campi profughi in Cisgiordania, Gaza e nelle terre circostanti quella vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre. Subiscono umiliazioni quotidiane, grandi e piccole, che si accompagnano all’occupazione. Dunque, non vi siano dubbi: la situazione del popolo palestinese è intollerabile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione palestinese alla dignità, alle opportunità e a un proprio stato.
Da decenni c’è uno stallo: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa che rende inafferrabile il compromesso. È facile puntare il dito: per i palestinesi, puntare il dito sullo spodestamento portato dalla fondazione di Israele; per gli israeliani, puntare il dito sulle costanti ostilità e aggressioni lungo tutta la loro storia, dentro e da fuori i loro confini. Ma se guardiamo a questo conflitto da una parte soltanto, allora non vediamo la verità: la sola soluzione è soddisfare le aspirazioni di entrambe le parti attraverso due stati, dove israeliani e palestinesi vivano in pace e sicurezza. È nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo.
Ecco perché intendo personalmente perseguire questo risultato con tutta la pazienza che l’obiettivo richiede. Gli obblighi che le parti hanno concordato in base alla Road Map sono chiari. Affinché venga la pace, è ora che essi e tutti noi ci assumiamo le nostre responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza. La resistenza con la violenza e le uccisioni è sbagliata e non ha successo. Per secoli i neri in America hanno sofferto sotto i colpi di frusta come schiavi e l’umiliazione delle segregazione. Ma non fu con la violenza che ottennero pieni ed eguali diritti. Fu con persistenza pacifica e determinata sugli ideali che stanno al centro della fondazione dell’America. La stessa storia la possono raccontare tanti popoli dal Sudafrica all’Asia del sud, dall’Europa dell’est all’Indonesia. È una storia con una semplice verità: che la violenza è un vicolo cieco. Non è indice né di coraggio né di forza sparare razzi su bambini che dormono o far esplodere donne anziane su un autobus. Non è così che si rivendica un’autorità morale, è così che la si perde. È ora che i palestinesi si focalizzino su ciò che possono costruire. L’Autorità Palestinese deve sviluppare la sua capacità di governo, con istituzioni che servano i bisogni della sua gente. Hamas ha sì il sostegno di alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per svolgere un ruolo nella realizzazione delle aspirazioni palestinesi e unificare il popolo palestinese, Hamas deve mettere fine alla violenza, riconoscere gli accordi precedenti e riconoscere il diritto di Israele ad esistere.
Nello stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che, così come il diritto di Israele ad esistere non può essere negato, non può esserlo neanche quello della Palestina. Gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei persistenti insediamenti israeliani. Queste costruzioni violano gli accordi precedenti e minano gli sforzi per far avanzare la pace. È ora di fermare questi insediamenti. Israele deve inoltre adempiere il suo dovere di garantire che i palestinesi possano vivere, e lavorare, e sviluppare la loro società. E la perdurante crisi umanitaria a Gaza, mentre è devastante per la vita delle famiglie palestinesi, non serve alla sicurezza di Israele, né la serve la persistente mancanza di opportunità in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve far parte della via per la pace e Israele deve fare passi concreti per permettere tale progresso.
Infine, gli stati arabi devono riconoscere che l’Iniziativa di pace araba è stata un inizio importane, ma non esaurisce le loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non deve più essere usato per distrarre la gente delle nazioni arabe da altri problemi. Deve invece spingere ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che sostengano il suo stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso rispetto a una controproducente focalizzazione sul passato.
L’America schiererà la sua politica con chi persegue la pace, e dirà in pubblico ciò che diciamo in privato agli israeliani, e ai palestinesi, e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. Ma in privato molti musulmani riconoscono che Israele non è destinato a scomparire. Allo stesso modo molti israeliani riconoscono in privato la necessità di uno stato palestinese. È ora che agiamo tutti in base a ciò che tutti sanno essere vero.
Troppe lacrime sono state versate. Troppo sangue è stato sparso. Tutti noi abbiamo la responsabilità di adoperarci per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno veder crescere i loro figli senza paura, in giorno in cui la Terra Santa alle tre grandi fedi sarà il luogo di pace che Dio voleva che fosse, in cui Gerusalemme sarà una casa sicura e duratura per ebrei e cristiani e musulmani e un luogo per tutti i figli di Abramo, affinché possano mescolarsi pacificamente insieme, come nella storia di Isra [il viaggio di Maometto], quando Mosè, Gesù e Maometto, sia la pace su di loro, si unirono in preghiera. […]
Il discorso di Obama è probabilmente un discorso epocale, e comunque segna un netto punto di discontinuità con la precedente amministrazione Usa.
Cosa dice Obama sulla questione israelo-palestinese? Sostanzialmente che l'unico sbocco possibile è la soluzione a due stati, che vivano accanto in pace e sicurezza.
A tal fine, è necessario che i Palestinesi rinuncino alla violenza e che Israele si conformi alla legalità internazionale, rinunciando alle colonie e riconoscendo la necessità e la legittimità di uno stato palestinese (due cose che il governo Netanyahu tutt'ora si rifiuta persino di prendere in considerazione).
Come non essere d'accordo?
E, tuttavia, ai bei discorsi devono seguire fatti e comportamenti concreti, alcuni dei quali da assumere immediatamente.
Con riguardo a Gaza, tanto per fare un esempio, dovrebbe essere immediatamente tolto l'assedio che limita l'accesso delle merci alla Striscia ai soli beni strettamente umanitari, impedendo la ricostruzione e un livello di vita decentemente dignitoso per un milione e mezzo di persone.
Si tratta di una punizione collettiva che è un crimine in sé, indipendentemente dal contesto del conflitto israelo-palestinese, un caso unico al mondo in cui ad una popolazione già provata da un'aggressione militare devastante si vieta persino di ricevere soccorsi adeguati.
Un crimine di cui la comunità internazionale - e in primis gli Usa di Obama - si rendono complici a causa della loro inerzia e/o indifferenza.
Stiamo ancora aspettando fiduciosi questo primo passo doveroso.
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